E DIO VENNE NELLA STANZA di Riccardo Ciulla
Era una stanza. Erano tutti in cerchio, seduti. Al primo sorgere del sole, già ridevano. Erano sette amici: quattro maschi e tre no. Oppure tre femmine e quattro no. Nella stanza cominciava a sciacquare le pareti una luce biancastra, leggera come neve. Fuori che silenzio! E che baccano dentro! Ridevano più o meno da mezz’ora, ognuno in maniera diversa. C’era Fjodor, il finlandese, che abbaiava con voce stridula, come certi cani di taglia molto piccola. Il suo viso era contratto e mosso. C’era Big Jack, il texano, che grugniva un po’ come una foca e un po’ come un orso. Le sue guance erano viola. C’era Selena, la turca, che fischiava come un allarme per auto. I capelli le ricadevano sulle spalle in preda a convulsioni. C’era Hubu, l’etiope, che tamburellava come un grosso camion in perenne frenata. Gli occhi spalancati all’estremo erano due palle bianchissime. C’era Susana, la portoghese, che imitava il fischio di una nave a vapore. Le sue labbra tirate ostentavano gengive rosso fuoco. C’era Larissa, l’ucraina, che singhiozzava imitando il raglio ripetuto di un asino giovane. I suoi occhi non la smettevano di centrifugarsi nel loro alloggio precario. C’era Nelson, l’australiano, che si produceva in un elaborato richiamo per qualche bestia rara. La sua fronte frullando faceva schizzare gocce di sudore tutt’intorno. Erano seduti per terra. Alcuni avevano le gambe piegate e incrociate, in una posizione stile yoga. Altri avevano le gambe distese ed erano quasi sdraiati. Ridevano a crepapelle. "Ah ah ah ah", "Uh uh uh uh", "Ih ih ih ih", "Eh eh eh eh", "Ah ah ah ah." Nella stanza c’era anche un tappeto, ma era arrotolato da una parte. C’era un basso tavolino rotondo, sul quale una teiera e alcune tazze sembravano osservare incantate e stupite la scena. Non c’erano sedie né letti né divani né poltrone. C’erano pareti quadrate lisce con un paio di poster. La luce già le lavava di un bianco intenso. Un poster raffigurava delle mucche su un prato, ferme come in posa, vicine a delle tastiere elettroniche: la copertina di un disco dei Banco de Gaia. E ridevano fischiando, frenando, ragliando, abbaiando, grugnendo, singhiozzando, richiamando. Mancava un ululato. Accanto al tappeto arrotolato un piccolo libro o un opuscolo dalla copertina mezza piegata non riusciva a stare chiuso. Di tanto in tanto le pagine semi aperte a fisarmonica sembravano oscillare come ammortizzatori di carta. Per lo spostamento d’aria. Non poteva essere che ridessero anche loro. L’altro poster era di una cascata schiumosa, bianca con tanto verde intorno. Il sole cominciava a penetrare. Ma forse non è il termine giusto. No, era sorpreso, timido, non poteva penetrare. Il sole accennava a fare capolino. Si sporgeva da sopra le nuvole e sembrava non capire cosa stesse succedendo nella stanza. Tuttavia fece sentire la sua presenza con un chiarore ormai deciso. La finestra era chiusa e il vetro ben pulito dipingeva le colline come in un quadro dai colori nitidi. In lontananza gli alberi verdi sembravano immobili. Guardando un attimo fuori il sole vide una calma placida come solo in certe giornate non troppo calde d’estate succede. Avrebbe potuto godersi un altrettanto placido silenzio. Se non fosse stato per i sette che ridevano. A mezzogiorno nella stanza erano ancora in sette. E in settembre. Perché era settembre. E tutti e sette quei tipi più o meno strani, ridevano, ognuno in maniera diversa. Il viso bianco biondissimo di Fjodor scattava in avanti e indietro con furia ossessiva, lanciando guaiti sempre più acuti. Le grosse mani grossolane di Big Jack picchiavano con colpi sordi le gonfie cosce da texano, rivestite di uno spesso strato di jeans americano. Il collo di Selena era attraversato da canaletti e tubature che ne segnavano la superficie intersecandosi e sovrapponendosi. I denti abbaglianti di Hubu l’etiope cozzavano con un clangore violento e non ci sarebbe stato da stupirsi se delle scintille fossero partite dall’energica frizione che producevano. I ricci di Susana sembravano prendersi sottobraccio per ballare una specie di tarantella indiavolata. L’acquamarina degli occhi di Larissa schizzando nelle orbite dava l’impressione di essere un delfino in corsa sul pelo dell’acqua. Il naso a patata di Nelson si gonfiava e si restringeva emettendo sbuffi burrascosi d’aria dalle narici dilatate. Immaginatevi una gabbia di scimmie. Scimmie urlatrici in preda all’eccitazione. I suoni taglienti delle risate volavano intrecciati come fuochi d’artificio andando a sbattere contro le pareti e rimbalzando e tornando al centro e ripartendo e non smettendo mai. Immaginatevela quella gabbia di scimmie urlatrici impazzite e non abbandonate la scena fino alla fine. Qualunque cosa voglia dire. Il libro per terra era sgualcito e sciupato. Era bianco, con un disegno in copertina di un capellone col rossetto. Aveva un titolo molto strano. Il capellone col rossetto rideva sotto la scritta: E Dio venne nella stanza. Un libro per terra, molto sciupato, intitolato E Dio venne nella stanza, con le pagine semi aperte che andavano su e giù, rideva insieme alle scimmie urlatrici. E vennero le cinque del pomeriggio. Nelson lanciò un’occhiata alle tazze da tè sul tavolino, ma senza smettere di ridere. Che calma che c’era fuori! Avreste potuto sentirla e toccarla quella calma. E il cielo che languiva nella luce pomeridiana di quegli ultimi giorni d’estate! Ovunque era quiete e immobilità. Non un filo di vento, per esempio, e non un volo d’uccello. Susana guardò Hubu, che guardò Larissa, che guardò Nelson, che guardò Fjodor, che guardò Selena, che guardò Big Jack. Seppero di essere in sette. Seppero di stare ridendo. E questo li fece ridere ancora di più. All’improvviso non successe niente. Il poster dei Banco de Gaia era immobile. La cascata cascava ferma. Il tappeto non si era svoltolato. La teiera era fissa in contemplazione e le tazze sempre più mute. Le colline nel quadro sembravano trovarsi a loro agio. Il sole seguiva la sua curva ellittica in silenzio. Il capellone sul libro sghignazzava col rossetto sempre ben rosso e acceso. Non produceva alcun rumore. Alle otto le scimmie urlavano ormai da dodici ore e non volevano saperne di smettere. Perché? Perché? Perché così tanto? Perché? E un etiope che cosa aveva da ridere? E un finlandese? E un texano? E una turca? E un australiano? E una portoghese? E un’ucraina? Perché tante scimmie urlatrici in una stanza quadrata chiusa con le pareti bianche con due poster e un tappeto arrotolato e un tavolino con delle tazze e una teiera e un libro per terra con un capellone col rossetto che sghignazza intitolato E Dio venne nella stanza? Perché tanto silenzio, o meglio, tanta quiete fuori con le colline verdi immobili e il sole intento a seguire la sua linea curva con stupore lento nel cielo languido senza voli d’uccelli? Perché d’estate? Perché settembre? Perché sette? Perché ridevano? Non lo so. Non lo sappiamo. Non lo sapevano. Non lo sa nessuno. Né Fjodor il finlandese, né Big Jack il texano, né Selena la turca, né Hubu l’etiope, né Susana la portoghese, né Larissa l’ucraina, né Nelson l’australiano. Forse l’unico a saperlo era il capellone col rossetto sul libro. E forse quel capellone ero io, che vi parlo. E allora mento quando dico che non lo so. Ma cos’era successo il giorno prima ai sette? Chi era morto, chi era nato, chi aveva cominciato a ridere per primo? E se vi dicessi che Dio venne nella stanza, che benedisse i sette, che li baciò e che li trafisse con generosi dardi indolore? Dio venne nella stanza ed entrò nel libro. Ed è per questo che i sette ridevano: perché Dio sarebbe venuto a trovarli per portarli via. Era l’ilare presagio della sua venuta. Era il festoso annuncio di un segretario capellone col rossetto.
(dedicato a Robert Smith)
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