Tratto dalla rubrica "Arte-Voci Negate" della E-zine "Vuoto Negativo", Associazione Culturale Telematica Arsnova, bimestre gennaio/febbraio 1998.
Paolo, vorrei iniziare l'intervista con una domanda che rivolgo a tutti i poeti che incontro: che cos'è per te la poesia?
In realtà credo che nessuno abbia il potere di fornirti una risposta oggettiva o vera che non provenga dalla poesia stessa.
Per quel che mi concerne, l'unica risposta consistente e appropriata che mi viene in mente è una citazione di Fuketsu Ensho. Al koan di un monaco, che all'incirca suonava: "Quando il silenzio e la parola sono entrambi inammissibili, come si può procedere senza errore?", il maestro replicò: Io ricordo sempre Kiangsu nel mese di marzo. Il grido della pernice, la massa dei fiori fragranti.
Ecco. Questa - sebbene ellittica - è per me la migliore "definizione" di poesia che conosco, quella che dimostra non spiegando, ma illuminando; la poesia è una realtà. Ma arazionale.
Le realtà arazionali esistono e non sono meno dignitose di altre che riusciamo ad inserire nei nostri schemi di ragion sufficiente. La poesia - semplicemente - rientra nel novero di quelle cose che bisogna accettare in quanto esistono per necessitàe non per caso o che, per parafrasare Parmenide, sono e non possono non essere indipendentemente dal nostro grado di appercezione del fenomeno: la poesia è riconoscibile, attraverso la prassi di ciò che chiamo la "contemplazione intrinseca", sfociante in una quasi-apollinea "delizia illuminante", qualcosa che necessariamente va al di là dello stesso valore costitutivo di un linguaggio specifico. Penso agli haikai e ai tanka giapponesi - per rimanere nell'atmosfera. Ma si può ragionare anche di certi poemi in lingue morte come l'Epopea di Ghilgamesh, che, anche se fuori dagli schemi referenziali della nostra civiltà e conosciuti per traduzione, comunque, non perdono il potere di generare "per se" poesia.
Mi accontento, quindi, di verificare come la poesia appaia proprio nella contraddizione dell'esserci e del non poter essere compresa nella sua intima essenza.
Questa caratteristica fa della poesia la voce del sacro per antonomasia, inteso nel senso originario di sacer/àghios: cioè che l'uomo può magari usare e "annusare", ma che gli è vietato penetrare. E non penso sia un caso che molti fra i più importanti testi religiosi siano del pari testi poetici o costituiti in forma poetica o contengano testi poetici.
Tuttavia, se della poesia è inutile cercare la definizione, l'Estetica, in quanto disciplina razionale, non può studiare sia la fenomenologia, che la "funzione" della poesia nel contesto del sapere umano.
Puoi precisare che cosa intendi con quest'ultima affermazione?
Certo, ma occorre che fissi preliminarmente un necessario enunciato di base, un presupposto logico e storico senza il quale ciò che penso e dico (e che mi rendo conto essere già in sé molto discutibile) avrebbe ancor più scarso senso. Il che richiede una digressione piuttosto lunga. Debbo proseguire su questa strada?
Certo, vai pure avanti...
Desidero richiamare l'attenzione sul fatto che in questo secolo qualcosa di enorme è successo e che quel qualcosa è in sé capace di mutare profondamente una tendenza della cultura occidentale a imporre e a far condividere da tutti, chi più, chi meno, una Weltanschauung materialistica e antitradizionale, tipicamente incarnata e codificata dal positivismo.
Tra i frutti perversi di quest'ultimo vi è la contrapposizione tutta artificiosa tra pensiero debole e pensiero forte, tra scienza "oggettiva" descritta dal procedimento sperimentale, e "conoscenze pragmatiche" informate alla ragione discorsiva, ciò che crea una gerarchia spietata ma arbitraria delle fonti del sapere, tale da escludere anche ogni valore e fondamento alla sapienza, individuata dalla Tradizione come "scientia cum co-scientia" e che è una delle radici, forse la principale, del "poiein".
Con questo desidero far notare quanto mi pare non sia stato fatto notare abbastanza e, cioè, che proprio la punta di lancia del pensiero forte, la fisica teorica, in una sorta di radicale autocritica, è arrivata a negare i capisaldi stessi del cosiddetto pensiero positivista e ad aprire le prospettive di una nuova avventura che vede coinvolta la poesia.
La "nuova fisica" ha, per la prima volta, dimostrato i limiti non solo di se stessa, ma della ragione astratta, della stessa capacità intellettuale di rappresentare un oggetto definibile.
La relatività, la teoria del campo, la meccanica quantistica, il "principio di indeterminazione", la fisica delle particelle e quant'altro, volta a volta ci restituiscono la visione di un universo ben diversa, ben più ambigua e ben più sfumata ed inquietante di quella che ha fin qui consentito la capacità di raffigurazione della ragione discorsiva, impostata su categorie magari faticose, ma rassicuranti quali il "concetto" e la "sostanza" che da Aristotele ai giorni nostri sono stati, sempre o quasi, pensati o presupposti come realtà organiche e necessarie, invece che come funzioni connaturate alla nostra mente ed esprimentine i limiti più evidenti.
Lo spazio e il tempo, quali si intendono comunemente, sono grandezze separate solo nel pensare e nelle sue proiezioni. La verità assoluta, univoca della "materia" stessa è negata quando, è il caso di dire "a ragion veduta", si afferma la duplice natura, ondulatoria o corpuscolare della materia; oppure quando si nega ciò che fino a ieri pareva ovvio e cioè l'esistenza di particelle che ne siano i "mattoni". Einstein dice, viceversa, che "l'unica realtà è il campo", un insieme di relazioni mutevoli, dinamiche e non di oggetti che si protendono verso altre relazioni, e si articolano in mutevoli e indefiniti eventi di pura probabilità.
Nell'universo nulla è più visualizzabile come "res", ma il cosmo stesso appare confermato come una sterminata rete di relazioni dinamiche tra "grandezze" alla cui interpretazione non presiedono più né il concetto né l'idea stessa di sostanza, ma quella di un'indomabile complessità. Non sono né scienziato, né epistemologo, né matematico.
Non credo, tuttavia, di essere molto lontano dal vero se, per valutare tutto questo, mi accodo all'autorità di Fritjof Capra e affermo con lui che la scienza è oggi portata a una "concezione dell'universo sostanzialmente mistica e, in qualche modo la fanno ritornare alle sue origini, a duemilacinquecento anni fa" e che la fisica, in un certo senso, riscontra sul piano logico-matematico, ma anche nel vissuto pratico di chi si è devoluto integralmente alla ricerca, l'evidenza - viva in passato - che a fondamento della realtà vi è uno stato noumenico che continuamente trascende il ragionamento e (perciò) il linguaggio ordinario per offrirsi all'intuizione, ai motivi di una Ragion Pratica più di quanto si offra a quelli di una Ragione Teoretica.
E' la scienza stessa a disegnare oggi i confini della ragione umana in modo molto simile a quello di tradizioni che, ancor vive nell'oriente asiatico nel Tao e nello Zen, furono anche il fondamento dell'occidente in età remote saldandosi a quest'ultime attraverso figure enigmatiche come quella di Eraclito, l' "Oscuro".
Ed è sempre la scienza che riflette su se stessa e sui suoi limiti attraverso gli epistemologi a sottolineare fondamentalmente quattro fatti:
- la scienza non è portatrice di valori in sé assoluti ed oggettivi anche all'interno del proprio contesto. In particolare si avverte la necessità di adottare "criteri intuitivi ed estetici" come "fattori decisivi nell'accettazione o nel rifiuto di un particolare modello", cioè di ricercare la validità di ogni teoria fisico-matematica anche nella sua legittimazione estetica che non può che essere garantita dall'esterno;
- alla considerazione dei limiti formali della ragione analitica deve corrispondere la rivalutazione del sapere sintetico-intuitivo e conseguire la revoca della sostanziale negazione di cittadinanza intellettuale decisa contro tutte le attività di conoscenza che non fossero apparse "positive": non è più possibile per la scienza sostenere un giudizio di valore autoreferenziale che fondi una gerarchia dei saperi dove essa assuma per definizione una posizione dominante;
- all'arte, alla poesia, alla religione, quindi, spettano non più ruoli ancillari, subordinati o estranei alla scienza, ma funzioni parallele, indipendenti, di pari dignità e capaci d'interagire con la scienza stessa nel produrre sapere e modelli dinamici del sapere verificabili non più esclusivamente sul piano dell'esperienza materiale. La filosofia rinasce e assume (o torna ad assumere) un ruolo di garanzia nella ricerca di una fondamentale ricomposizione ad unità del sapere umano in virtù di una metafisica influente, tutta da creare, ma capace di articolare le grandi metafore e le grandi analogie che costruiscano visioni generali del mondo.
- centrale in tutto questo è il problema del linguaggio, della necessità conclamata di trovare un'equivalenza, una più precisa corrispondenza tra modelli matematici e modelli verbali, cioè dipanare le simbologie coerenti e rigorose, ma astratte, del numero per correlarle a quelle verbali ambigue ed imprecise, ma proprie della nostra ineliminabile esperienza sensibile.
Se quanto sopra è vero tocca alla poesia fare un bagno d'umiltà speculare a quello già fatto dalla scienza e capire che non può più esistere ripiegata in se stessa, in una prassi fine a se stessa. La poesia è anch'essa coinvolta ed ha la prospettiva e il dovere di porsi l'obiettivo di una nuova epica (della conoscenza) che non si presti solo a vestire, cioè a vestire del suo bello - e solo di questo- una versione parziale e discutibile del reale, ma che concorra a realizzare quella metafisica influente indicata più sopra. La poesia deve rendersi ben conto che non solo può soccorrere la scienza, ma che non può non esserne soccorsa in una sorta di permanente simbiosi armonica, fino ad ascendere ai vertici del pensiero strategico del millennio venturo.
Ho sempre ritenuto la poesia fonte di una conoscenza sottile, ma reale. Una penetrazione carnale della verità ineffabile. Non mi sono quindi estranei lo stupore e la commozione, il tremore e lo smarrimento che traspaiono dagli scritti degli scienziati fondatori della nuova fisica di fronte alla visione rinnovata dell'universo che sono stati chiamati a contemplare: quei sentimenti e quelle sensazioni e quegli stessi ragionamenti non sono niente di più, né di meno che poesia in attesa della propria apocalisse. E si compongono in una visione che, se pur sempre sotto molti aspetti più sofisticata, sofferta e profonda, non appare così dissimile da quella di qualunque poeta.
La poesia ha dentro di sé proprio quelle enormi risorse di metafora, di analogia, di poteri di suggestione profonda e di evocazione, che i fisici quasi implorano dal purgatorio gelido delle loro equazioni, per poter fiammeggiare nella pienezza della coscienza. La poesia può porsi come lo strumento potente, capace di fondere i criteri del bello matematico e del bello classico per farne una rinnovata fonte di legittimazione del ragionamento e di se stessa. Può contribuire in modo determinante sia al crescere della cultura dell'intuizione, sia alla ricerca dell'unità del sapere, partecipando in prima fila alla ricostruzione di modelli divisibilità del reale profondo, così come nel passato ha contribuito alla ricerca del Graal. Tutto questo è o può essere il nuovo Graal.
In questo contesto è più chiaro perché vado da tempo sostenendo una tesi apparentemente anodina: che l'Omero o il Dante del terzo millennio sarà un grande fisico o un grande cosmologo e, più in generale, che anche i poeti debbono chiudere il loro ciclo e tornare a duemilacinquecento anni fa per ritrovare l'integrale motivazione mistica nel ministero della loro tekhnè, nonché le loro proprie attitudini e funzioni ad essere quei maestri di verità, di riproporsi come costruttori di una società di verità e mistagoghi dello Spirito che Marcel Detienne e altri hanno riscoperto essere state proprie degli aedi preomerici.Può essere, quindi, che la poesia del terzo millennio, per via di sue forme inusitate, renderà in qualche modo attuale e sviluppata la verità (poetica) contenuta nei versi famosi di Whitman:
I will make the poems of materials, for I think they are
to be the most spiritual poems.
Puoi fornirmi un'esemplificazione di quello che ritieni possano essere gli sviluppi di un contesto quale quello che mi hai descritto? Ne hai un'idea pratica, precisa?
Francamente no e non penso proprio che l'onere e l'onore di una tale precisazione possa toccare a me. Forse, prima ancora di agire sui contenutisi dovrebbe preliminarmente convenire su una scrittura nuova, ipertestuale o multimediale. O su una ideogrammatica, capace di produrre lemmi e sonorità attualmente impensabili, fino a convogliare un simbolismo allusivo che integri quello matematico con quello testuale in una sorta di rinnovata poesia visuale. In questo senso ho trovato qualcosa di affascinante tra le pubblicazioni di Laura Rangoni: una poesia di Alessandra Cenni, tratta dalla silloge "Le Tuffatrici" che si muove proprio nel senso anzidetto:
Urania
"Ti dico che lo spazio è un continuo
ove ogni punto ha un'ombra
Il corpo in movimento
il moto relativo
al corpo di riferimento
Vedi due specchi
su un corpo a due facce:
il raggio le attraversa
torna
x,y,z
t come tempo
il mondo è un continuo
dato un fatto
altri ve ne sono
più o meno vicini
verificati o immaginabili
Il tempo non è assoluto
ma aperto
a una visione quadrimensionale:
Là puoi andare.
la luce nel vuoto
ha una velocità
proporzionale
di propagazione
pura energia di massa
comportamento geometrico
come la marcia degli orologi
e la sostanza dei corpi
dai campi prodotti dipende.
Ci inviano un rosso messaggio
le stelle e più risplende quanto più
noi ci spegniamo.
Siamo prede di una fuga attrattiva.
Col tempo la terra si dissolve nel mare
e tutto torna uno.
E tu devi giungere dove l'orizzonte
scompare all'estremo
se vuoi attraversare
le nere porte di diamante".
Questo testo mi è diventato subito caro, anche al di là del suo valore intrinseco, perché di per sé conferma ed esemplifica il mio convincimento circa il fatto che la "classicità" non pregiudica la ricerca dell'innovazione poetica e che, anzi, ne è in qualche modo un presupposto talmente necessario da escludere che le strade sovvertitrici della scomposizione di contesto e parola, quali quelle tentate dall'avanguardia e dalla neo-avanguardia, possano mai condurre a soluzioni di spessore, a porsi come qualcosa di più di semplici curiositàgià archeologizzanti.
Qualunque sarà la direzione che la poesia andrà ad assumere nel futuro, questa non potrà mai prescindere dai criteri della sintesi, dello "stile" concepito in senso evoliano, dell'eleganza.
Vorresti parlarci della poesia intesa come atto creativo, del suo concepimento e della sua realizzazione secondo la tua esperienza personale?
Non credo di aver mai seguito un vero e proprio metodo nello scrivere poesia e il fatto stesso che non scriva molto ne è la prova. Inoltre ho mutato più volte il tipo di approccio alla scrittura poetica nel corso del tempo ed ho cominciato molto presto.
Non ho mai scritto nulla di getto.
Posso partire indifferentemente da un'idea poetica in sé già completa e complessa, che attende solo di essere gettata sulla carta, come la figura che lo scultore realizza levandole il marmo che le sta intorno, oppure procedere per aggregazione di immagini successive su un embrione costituito da un'idea sfocata ed un suono, una parola, un singolo verso.In ogni caso opero nel presupposto che: "la tecnica è la prova della sincerità di un uomo" come affermato da Pound. E credo che la tecnica inevitabilmente richieda lavoro e fatica. E di applicare alla poesia rigore intellettuale non dissimile da quello che devono porre nella propria opera un avvocato, un musicista o un ingegnere.
Nel mio personale contesto il problema della forma è centrale. La trappola della troppa o troppo poca retorica è sempre lì.
Trovo necessario lo studio costante, non la semplice lettura, degli altri, non importa se noti o no. Le soluzioni ai problemi possono venire da chiunque.
L'architettura complessiva di un componimento poetico è la mia preoccupazione permanente.
Lavoro sull'armonia delle parti per tentare di rifletterla in un'armonia del "tutto" tagliando o ricucendo più e più volte, e più e più volte verifico le simmetrie, le proporzioni.
Lavoro sul ritmo, inteso questo non solo e non tanto come evento di sonorità, ma come cadenza e capacità di raccordo tra immagine ed immagine.
Lavoro su quest'ultima, che può - e talvolta deve - anche essere enigmatica o complessa referenzialmente, ma chiara, precisa.
Lavoro sul singolo verso, sulla sua capacità di racchiudere o di distribuire, e sulla parola in sé, per esempio esercitando un controllo a tappeto sull'opera già strutturata in modo apparentemente soddisfacente, col passare ogni singolo lemma al vaglio congiunto di tre dizionari: quello generale della lingua, quello dei sinonimi e dei contrari (Gabrielli) e quello etimologico. Posso assicurare che - dopo- nulla (sottolineo: dico nulla, non poco) appare passabile.
E quando sono a secco d'idee originali (il che mi accade spesso, come a tutti) lavoro comunque per tradurre o effettuare esercitazioni stilistiche sulle tecniche di versificazione tradizionali: adoro il verso libero, ma credo che un riferimento alla metrica non lo deprima, ma lo aiuti a trovare soluzioni. Basta una mezz'ora al giorno.
In ogni caso, nello scrivere poesia seguo tre regole fondamentali.
La prima: la poesia, per quanto allusiva, ellittica, sintetica o "oscura" deve almeno potenzialmente possedere le caratteristiche per essere traducibile da un interprete in un "racconto", in una storia. Non occorre che accada, ma che ciò possa teoricamente accadere.
La seconda, corollario della prima: la poesia deve poter essere letta ora come tra mille anni e, quindi, fare riferimento a realtà che potranno essere sempre interpretate in ogni epoca e, nello stesso tempo, trasmettere quelle visioni che sono proprie alla nostra. In altre parole: se storicizzo troppo riferendomi a oggetti o luoghi che sono o saranno presumibilmente solo della nostra epoca. Se per esempio mi riferisco specificatamente al tram 47 o a vico tal dei tali, piuttosto che al "tram" o al "vicolo" in generale, il lettore futuro non capirà, non avrà più le informazioni di contesto e la poesia ridurrà fatalmente il proprio raggio d'azione.
La terza: la mia poesia può partire da una pura indagine o motivazione sentimentale o della psicologia quotidiana ma sono soddisfatto solo se riesce ad uscirne. Intendiamoci: non è sempre così. Credo di avere anch'io i miei abbandoni lirici e non li rinnego. Tuttavia non credo che qualcuno possa essere veramente interessato a un'esegesi sentimentale di Paolo Dalla Dea, ma semmai a quella di se stesso. Ripeto: la poesia non "veste" il reale: contribuisce a spiegarlo e, quindi, deve conservare in sé, non necessariamente esplicitandolo, il codice genetico dell'epica in quanto canto del gesto. E il gesto può essere anche solo l'intellettuale rapportare sé ad altro, l'esistenza alla sapienza, nell'intuizione di una totalità, di uno scolmo del reale.
Che cosa racchiude per te il "segno"?
La potenza straordinaria di una magia piccola, quella del poeta che tuttavia ne riflette una grande, ricca di afflati, di essenze profumate in beatitudini. Parlo della "magia del dio". Io sono più che convinto che tutto, ma proprio tutto qui sia "segno" di qualcosa lassù (o laggiù, se penso all'erebo) e che il nostro agire non si esaurisce in se stesso.Credo che il reale si articoli su tre livelli rivolti sia verso l'alto che verso il basso: il mondo fisico, quello meta-fisico, o delle potenze moventi, e quello spirituale o delle potenze immobili. E non credo che vi sia una distanza abissale tra il fisico e il metafisico, né un confine netto. L'uno spesso sfuma nell'altro e viceversa. E una volta quando questa vicinanza era culturalmente vissuta, tutti potevano parlare con gli dèi.
Poi, da un certo punto in avanti, da quando Cadmo "of golden prow" giunse a Tebe, ci sono riusciti solo i sacerdoti coi loro riti. Infine, spariti i sacerdoti e comparsi i preti, solo i poeti. Ma ci riescono poco, male e con difficoltà.
In ciò che scrivi vi sono molti riferimenti alla cultura classica e alla mitologia antica, in particolare a quella greca. Ci parleresti ad esempio della figura di Ulisse e di ciò che incarna per te?
"Il mito è la migliore approssimazione alla verità assoluta esprimibile con parole" dice Ananda Coomaraswamy.
La cultura classica nasce con il mito della guerra di Troia e del nòstos di Odisseo. Alla base della grande cultura indiana c'è quell' affresco grandioso, coinvolgente del Mahabarata e, inserita in essa, la saga di Arjuna raccolta nella Bhagavad-Gita. A tacere dell'epica del Koji-ki giapponese (che vede centrali le figure di Amaterasu-o-Mikami e di Susa-no-o) o di quel testo incendiario e segreto che sono i Veda: tutti questi testi hanno una chiave di lettura comune in una Tradizione unitaria al di là delle forme, rappresentano interpretazioni diverse, l'approfondimento di questo o di quell'altro aspetto di un'antica cultura unificante. Una cultura che talvolta possiede basi storiche comuni accertate, talvolta no, ma che misteriosamente e infallibilmente conduce a identiche conclusioni. Di molti di questi testi ormai non siamo quasi più in grado di cogliere il senso reale, il senso originario. Ci si limita all'antropologia. Ma, come ho detto, i poeti debbono sapersi assumere la funzione operativa di diventare maestri di verità nel passaggio alla cultura del terzo millennio. Come? Attraverso la tradizione, nel senso di trasferimento del mito da generazione a generazione, e con la creazione di nuovi miti. Il mito naturalmente e necessariamente si identifica fin dalla notte dei tempi con la poesia, è la poesia delle nostre radici più profonde, costituisce una specie di base obbligata per costruire quel passaggio da epoca a epoca. Nella concordia di culture ricche perché separate. Nel senso di rivivere questo mito e di farlo rivivere, attraverso la parola, alla nostra epoca e farlo uscire dalla teca sterile, mortuaria dell'antropologia pura e semplice. Bisogna trovare il coraggio di catechizzare le nuove civiltà col bello, col sublime che solo i miti generano dentro se stessi, se si vuole tracciare un percorso di salvezza.
E, per venire allo specifico della tua domanda, Ulisse è uno di quei percorsi. Per noi occidentali è IL percorso della nostra salvezza individuale e collettiva. L'Odissea incatena con la favola, soprattutto col bello. Per esempio con uno degli attacchi più stupefacenti, densi, congrui di ogni letteratura: la prima parola dell'Odissea è Andra, l'accusativo - il caso grammaticale oggettivo - di aner-andròs, cioè "vir", uomo. Roba forte. Ma questo poema, soprattutto, presiede alla nostra iniziazione.
Odissso ci guida così alla nekuia, ad entrare ed uscire dagli inferi.
Odisseo non vince la morte. La morte è invincibile. Né, tutto sommato, è davvero esorcizzabile. Ma la si può superare, sublimare attraverso la sua contemplazione poetica. Basta volerlo. Basta volerlo al di là delle sirene, delle malìe di qualunque Circe o Calipso si abbia ad incontrare. Il nòstos, il viaggio, non è solo acqua marina e la scoperta del meraviglioso in terre sconosciute. Sono anche le acque e il ritrovamento dei luoghi dello spirito. Questo per me rappresenta l' Odisseo di Omero. E tutti gli altri Ulissi.
La tua poesia è anche pregna di spiritualità, sono ricorrenti i temi del divino, del sacro... e anche già solo il titolo della tua raccolta, "Isira'h", è carico di questo significato. Che cosa potresti dire, a tale riguardo, ai nostri lettori?
Come spiego in una nota "Isira'h" è una parola sanscrito-vedica che significa "forza vitale" ed è la radice etimologica della parola greca hieros che ha il significato proprio del latino sanctus, cioè "ricolmo della presenza del dio" e si giustappone ad àghios (sacer) "ciò che è vietato agli uomini".
In "Isira'h" si trovano riferimenti alla mistica orientale. Appare spesso il tema del perenne divenire come forza e principio del tutto, della morte intesa come rinascita...
Come si sarà abbondantemente capito, io mi sento vicino alla corrente mitomodernista.
La mia tradizione è, quindi, principalmente quella occidentale, quella stampata nei miei genî. I riferimenti che talora faccio alle tradizioni orientali, oltre che a concretare un richiamo letterario di indubbio fascino, vogliono richiamare l'attenzione su due fatti. Primo: la tradizione occidentale ha in passato vissuto passaggi simili a quelli che ancor oggi ci riportano vividamente le culture orientali. Anzi, in varia misura le ha influenzate e informate. Le tradizioni indiane induiste affondano in modo diretto in quelle primigenie indoarie e vediche. Anche il buddismo, inteso come riforma del brahamanesimo, in ultima analisi partecipa della nostra cultura più antica e l'ha fatta filtrare in qualche modo nel taoismo e nello zen.
Secondo: al di là delle filiazioni storico-filosofiche che uno può cercare e trovare, quelle citazioni vogliono sottolineare, come ho già accennato, alla sostanziale unità della Tradizione presso tutti i popoli, cosa che contemplo sempre con spirito meravigliato.
Nella tua opera si trova una citazione tratta dal poemetto anglosassone "Il Sogno della Croce", che alcuni studiosi hanno (forse erroneamente) attribuito a Cynewulf. Ci spiegheresti il legame che questa opera presenta con Isira'h?
Ebbene sì. Confesso di aver peccato di snobismo letterario. Ma non ho saputo resistere.
I am guilty. However, Your Honour, there are mitigating circumstances, potrei dire davanti ad una corte di Common Law. A costo di ripetermi, io credo nella tradizione occidentale. Credo nel mito che è la più alta espressione di quella cultura. Ma anche la tradizione giudaico-cristiana è nostra tradizione ancorché ufficialmente contrapposta a quella del mito, quella pagana, più antica. Ma in realtà se si comparano questi due nuclei sapienziali saltano fuori sotterranee analogie, più che sotterranei scambi di dottrine ancestrali. La dottrina sacrificale ad esempio (la Messa cattolica è rito sacrificale, non cerimonia evocativa. L'eucarestia ripete quasi integralmente il banchetto pagano ove chi aveva sacrificato spartisce con i presenti le carni della vittima dedicate al dio per stabilire con questo un contatto mistico etc.). Il "Sogno della Croce", testo dell' VIII secolo, non riesce ancora a nascondere dietro l'ortodossia queste continuità che affondano in miti preesistenti. Ed io l'ho citata in epigrafe ad una sezione di "Isira'h" che, non a caso, s'intitola Catholicoi Muthoi, cioè "Miti Cattolici", dove enfatizzo l'esistenza di visioni mitiche non così aliene da quelle pagane anche nel cristianesimo.
In Isira'h non mancano l'aspetto carnale ed erotico. Vorresti parlarcene?
Non credo esista poesia senza Eros e la carnalità è l'inizio necessario della Via mistica.
Il momento erotico è quello più alto, incomprensibile, misteriosco dei rapporti tra i sessi. Misterioso che riflette, che si fa "segno" di una certa realtà metafisica realizzata qui . Alto perché è quello dove l'uomo e la donna si "conoscono" di più, sono nudi non solo nel corpo.
Contraddittorio perché la donna affonda nella propria natura, sublima nell'Eros il proprio splendore ctonio, ma si attende disperatamente di essere trascinata in una dimensione solare dal maschio. E per quest'ultimo è l'esatto opposto; si sente portato dalla donna fuori dal suo mondo che dovrebbe essere chiaro, razionale, misurato, ad un delirio che gli è comunque sempre parzialmente estraneo. Contraddittorio perché le due metà del cielo quando si congiungono sapientemente, si danno completamente lungo tutto l'amplesso, ma si richiudono, non sono mai così alieni l'un l'altro come nell'orgasmo, nell'attimo di immersione nel piacere. E tutta quest'ambiguità è poesia. Poesia realizzata.
Cronachetta I
La mia patria non ama
bronzi, né statue di re:
tradizionalmente
fu repubblica.
E i patrizi ostentavano
la nostra gloria
in palazzi severi
e nei molti schiavi
musulmani.
Vorresti parlarci della tua città natale e della tua terra, i cui paesaggi rievochi spesso nei tuoi versi?
Confesso: voglio veder rinascere la Repubblica Serenissima e Superba. Mi batto poeticamente per questo.
Trovo Genova una città fantastica nel suo centro medioevale ancora intatto, anche se degradato. Lo rimetteremo in sesto. Amo la sua struttura cittadina e culturale tipica di anfizonia di quartieri che è rimasta, la sua rissosità vitale, seconda (questo sì, lo ammetto) solo a quella dei senesi.
Ed amo quasi tutto il resto: disperatamente la sua lingua e la sua storia di gloria e di sangue, limitando il mio odio alla stasi attuale, all'incapacità di noi genovesi, di noi liguri, di recuperare i valori prischi dell'ardimento marinaro e commerciale, di valorizzare i tesori di lavoro, di cultura, d'arte e di poesia che già abbiamo seminato ma che abbiamo ancora da seminare nel mondo...
E amo la Liguria tutta, perché è la Patria, e ringrazio i miei Dèi di esser nato in un luogo dello spirito come quello. Pieno d'una luce unica, nella profezia dei suoi venti, nel simbolo continuo del monte che precipita in mare, come a ricordarci il confine tra le cose che si vedono con quelle che non si vedono ma che sono lì, che ci sono e proseguono appena sotto la superficie.
E il mondo appare
nel muschio d'una leggiadra, celtica
croce.
Il nome si scolpisce in canto
non in pietra vera,
dice e nello sguardo suona:
"Una O'Siddahail".
Paolo, che cosa ci dici della poesia intitolata "Nei pressi di Donegal, Donegal County", da cui sono tratti questi versi che sono i conclusivi, e con la quale si chiude anche la tua raccolta "Isira'h"?
Mah! In verità avevo una voglia terribile di scrivere una favola. E quale luogo migliore per vivere e far vivere una favola se non un posto che io ritengo tuttora pieno di magia, di grande magia, come il nord dell'lrlanda.
Io adoro quel Paese e tutti i suoi abitanti, che trovo di una civiltà eccezionale. E da buon celto-ligure ho provato con loro una certa affinità.
Sicché mi sono ricordato di una sbronza presa appunto a Donegal City, che andai a smaltire all'imbocco del fiordo che s'inserisce profondamente fin nel cuore di quella cittadina, sedendo appena alle spalle di uno di quei piccoli cimiteri che solo in Irlanda riescono a non far paura, ma tenerezza. Il resto è fantasia guidata. E memoria della musica.
Grazie, Paolo, per essere stato con noi. E' stato un piacere conoscerti! |