Mi sposto al centro, verso chi non conosco, verso ogni paura. Verso un pulsare di cuore.
Verso l'unico tratto di speranza chiara, fuori dal compromesso che mi uccide.
Eppure, mi credevo avanti. Perlomeno sopra la media. O in media. Oggi conosco la misura
dell'orgoglio, della vanità, dell'egoismo leggiadro, di quel passare in ogni cosa e non essere.
Le colpe le ho distribuite al mondo, in parti eguali. Con preciso, impegnato lavoro ho
dispensato. Ogni gesto ha fatto ritorno, puntuale, inesorabile.
Vivo questo cristallo, questa sfera di mago, e non ho scampo. Cadono altri stucchi d'alibi, altre
maschere che non sapevo.
Ho questo monte davanti. Ho tentato ogni fuga. Se ne sta li, odiosamente tranquillo. Senza
fretta, gioca col tempo. Il mio tempo, che sento così unico, imprendibile, volatile.
Stremato, in questi giorni di maggio, so che non può durare. Che non posso resistermi. Vorrei
farla finita. Cerco una dimensione d'amore. E questo è niente. Vorrei anche trovare.
E' che sono duro. Il mio ombelico è davvero più grande del mondo, e infinitamente più
contorto. Me lo racconto, sperando che serva, credendoci almeno.
Come un piccolo mare, ho bisogno d'infrangermi. Ho bisogno della roccia più salda, per aprire
quest'onda, per schiumare nel vento, per gridare il mio nome.
Nel frastuono della bufera, lì esisto, perlomeno ho vissuto. E' lì che tremo, che vivo la
dimensione di foglia, di frammento del mondo. E' lì, quando abbraccio quel vento che urta, quella forza
che invade e descrive il pulsare di qualcosa che non conosco, ancora.
Ma nella calma di un lieve mattino, nell'abbraccio d'altro uomo, d'altra donna, in quel calore
denso di persona, di qualcosa al di là di me stesso, di un condividere pieno, v'è altrettanto pieno
intento. Piena vita.
Nel perdersi nell'amore più dolce. Nel colmarsi di così tanto bene, nel riversarlo con gioia in
ogni più piccolo gesto.
E' la stessa matrice, che temprato alle piccole guerre non vedo, non sempre, e dimentico.
Ogni tanto, riposo.
Stefano