Silvia - Parte I


Silvia si appoggia al mio braccio, il volto affondato nel candore caldo e morbido del pellicciotto di volpe che le ho regalato per il suo compleanno.
Non faccio spesso regali così costosi a mia figlia, ma quindici anni sono un'età fantastica, vista con gli occhi di chi si avvicina ai quaranta, e meritavano qualcosa di speciale. Non so se ho fatto bene, ma non sono pentito.
Un brivido ed i capelli biondi chiarissimi le scivolano giù sulla fronte coprendo anche gli occhi. I cipressi, gocciolanti alla brina che si scioglie lentamente al freddo sole di questo mattino, hanno gli stessi tremiti alle raffiche del vento e fanno da cornice a regolari sequenze di lastre di marmo nero e di pietra. Omaggi appassiti di fiori e di vecchie corone più morte e decomposte dei morti ricordano che le Celebrazioni dei Defunti sono passate da due settimane.
Davanti a noi, la fotografia ingiallita troppo velocemente nella cornice ovale, Lucia ci sorride per sempre. Sulle labbra un sorriso felice e negli occhi un velo di stanchezza.
Nel pesante vaso di marmo, i fiori di seta e plastica si piegano come quelli veri alle raffiche fredde e violente del vento ma non appassiscono. Non farò mai morire fiori veri sopra il corpo morto di mia moglie.
Ogni volta, da quando il dolore è diventato solo più rimpianto, gli stessi pensieri.
Silvia assomiglia a sua madre: stessi capelli, stessa taglia leggera, stesso naso breve.
E subito dopo le differenze: Silvia è più appariscente, ma ha occhi meno dolci e un carattere più selvatico.
E ancora: "Lucia aveva l'età che hai tu adesso quando l'ho conosciuta.", forse qualche mese in più.
La voce incerta di Silvia e la calda pressione del suo corpo sul mio fianco sanno essermi compagne senza disturbarmi: "Era molto bella. Più di me."

Il custode del cimitero finge di pulire il vicoletto dalle foglie cadute e intanto ci guarda, guarda le gambe nude di Silvia, poi i suoi capelli biondi. Certo non guarda me!
Non mi dà fastidio, ma mi distraggo e soffro a rubare a Lucia i pochi attimi che passo con lei.
Probabilmente anche a Silvia non dispiace essere guardata, certo non quando è con me e si sente al sicuro. Il piacere di una donna che si sente desiderata.
Visto senza indugiare sui lineamenti giovani del volto, il suo corpo dimostra diciotto o anche venti anni, e non certo la sua età di poco più che quindici. Come le svedesi che, subito altissime, sembrano passare da bambine a donne senza essere mai adolescenti.
L'orologio della chiesetta del paese, non la cappella del cimitero, batte undici colpi; è il vento che rende i rintocchi vicini e funebri.


LUCIA BORGASSO NATA SARINI
* 23 - 3 - 1959 + 12 - 7 - 1987
I TUOI CARI

Sul marmo grigio sei rettangoli neri: uno col nome di Lucia, uno con quello di suo padre che io non ho mai conosciuto, uno sarà per sua madre e uno, quello centrale più a sinistra, per me. Gli ultimi due per Silvia e per suo marito. Tutto secondo la volontà di mia suocera che, ad ogni buon conto, pensa di seppellirci tutti prima di lei.
E così non sia.
Sospiro con fastidio e lo sguardo di Lucia pare rispondermi con indulgenza e un pizzico d'ironia. Come se mi leggesse dentro: certamente ha capito che non sto più pensando a Lucia. E allora diventa inutile stare ancora qui.
Stringo il braccio di mia figlia sentendone appena la consistenza sotto i tanti strati dei vestiti: "Andiamo. Fa troppo freddo qui!"
Silvia si segna in fretta, s’inginocchia sul marmo per baciare la foto di Lucia ed anche il crocifisso di metallo di fianco alla targhetta. Chissà se crede in quello che sta facendo.

Alle tre forchette: facciamo pranzo di solito qui, tornando dal cimitero. È un posto pulito e si mangia bene; ha l'apparenza di una tavernaccia da camionisti, ma i prezzi non bassissimi selezionano la clientela.
Silvia ed io sediamo di fronte: il tavolo è quadrato e troppo piccolo, tanto che spesso le nostre ginocchia finiscono per toccarsi.
"Oops! Scusa!"
"Scusa tu, Papà!"
La ragazza chiacchiera e cicaleggia a ruota libera, senza curarsi di quanto la seguo o di ripetere per la quarta volta in tre giorni, e con qualche piccola contraddizione, il racconto di un episodio scolastico senza importanza. Io mi cullo tranquillo alla sua voce, ricordo Lucia, penso al mio negozio, medito sul campionato di calcio con le partite che cominciano alle due e mezza. E penso a mia figlia che, giorno dopo giorno, s’imbellisce, mette su tette e fianchi e si fa donna.
Il padrone del locale ci fa servire da suo figlio - ne ha tre: questo è il più giovane, il secondo è ora militare mentre il primo, che lavora in fabbrica, lo si vede raramente e il padre ne parla malvolentieri e quasi con rancore. Perché vive insieme ad una donna che ha cinque anni più di lui e non sono sposati.
Il camerierino ha un anno più di Silvia, è sveglio, premuroso, gentile - specie con mia figlia, ma abbastanza anche con me - bellino, spiritoso il giusto, non stupido e non volgare come invece, qualche volta, è suo padre.
Si chiama Carlo e ha i capelli corvini come i suoi occhi; fa nuoto in una società di paese e ha buone spalle.
Lo accenno a Silvia: "Fareste una bella coppia: tu bionda, lui nero ... l'età va bene!"
La ragazza si fa una risatina e mi strizza l'occhio: "È pure simpatico!"
"Ma?", la istigo a continuare e lei s’impaccia un poco.
"Fa il galletto con tutte, ci scommetto!"
Probabilmente ha ragione: ad ogni modo Silvia, forse solo per vanità femminile, con lui recita con il contegno della signorina di buona famiglia mentre si fa servire.
Le sue guance, passando dal freddo glaciale del cimitero al calore di stufa a legna del locale, hanno preso un vivace colorito.
"E la partita? - mi chiede - Con chi gioca oggi la Juve?"
"Col Milan."
"Vinciamo! Due a zero!"
Di calcio Silvia capisce poco: le basta che vinca la Juventus perché è la mia squadra e che perda la Roma perché è seconda.
"Giochiamo a Milano", preciso con un sospiro, ma lei insiste spavalda: "Due a zero. Ne sono sicura!"
Intanto arriva Carlo con due piatti di fettuccine, serve prima me e poi Silvia e andandosene fa anche lui: "Forza Juve!"
Sarà, ma sono convinto che è torinista come il padre.
Chissà perché ho l'impressione che Silvia prenda il "Forza Juve!" come un complimento diretto a lei; ad ogni modo adesso ha fame e mangiando parte della sua signorilità si perde.
Dopo quattro o cinque colme forchettate si ferma sorpresa con la bocca piena a metà: "Tu non mangi?"
Scopro che in effetti, quantunque un certo appetito mi stuzzichi e le fettuccine abbiano un attraente aspetto, non sto mangiando e l'unica giustificazione che trovo è dire la verità: "Ti guardo..."
Si fa seria: "Pensavi a mamma?"
"No, penso proprio a te!"
Però adesso Silvia mi ha ricordato il cibo e mi metto a mangiare, mentre la ragazza mi fa un'espressione delle sue, di quelle che le vengono fuori quando le fanno un complimento che la imbarazza e sotto cui teme ci sia una presa in giro.
Poi cancella tutto con un’alzata di spalle e si versa mezzo bicchiere di vino che sorseggia con affettata attenzione guardandolo e facendolo girare nel bicchiere: "Non è quello dell'ultima volta!"
"No? Cos'ha di diverso?", chiedo per lusingarla.
"È più dolce. Più pastoso."
Ha il palato sensibile per il vino, mentre per me, come era per Lucia, tutti i vini sono uguali e posso solo commentare generici: "Mi piace!" o "Mi piace meno…"
"Protesterò col sommelier!"
Silvia ride e nega con una scossa del capo: "Non ho detto che sia cattivo, solo che non è lo stesso dell'ultima volta! È più forte, un pochino più..."
Il proprietario delle "Tre forchette" prende una sedia e viene a sedersi al nostro tavolino quando siamo al caffè, imponendoci di fare quattro chiacchiere.
È vedovo anche lui, da dieci anni: "Bisognava aver avuto il coraggio di risposarsi subito, senza stare a ripetersi troppe volte che con un'altra non sarebbe più come con la prima, perché quella era unica. Chi si è abituato ad avere una femmina accanto non riesce più a farne a meno. Diventa debole! Diventa patetico!"
L'uomo non se ne accorge ma, mentre lui abbassa gli occhi sulla tovaglia e non ci guarda, mia figlia mi molla invece un'occhiata diretta che mi mette a disagio.
Non ho mai cercato di nasconderle che vado con altre donne, mi basta lasciare capire che per me non valgono quanto Lucia e che le cerco solo per un bisogno fisico, maschile.
"Una donna in casa ci vuole: io ho tre figli, ma sono una cosa… una compagnia completamente diversa. Alla solitudine che ho dentro loro non servono. Non avessi questo lavoro che mi riempie le giornate sarei impazzito!"
A dire il vero non è lo stesso molto a posto con la testa, però non più di tanta gente che conosco e forse di me stesso.
I nostri figli: Carlo gira a servire agli altri tavoli, una dozzina in tutto, mentre Silvia si è alzata e va a dondolarsi nella dehors per gustarsi il borghesissimo piacere della digestione.
"Bisogna, bisogna risposarsi: donne se ne trovano tante anche di brave, senza troppi grilli per la testa. Non possiamo pretenderle giovanissime e bellissime, ma anche noi abbiamo più di vent’anni!"
"Li abbiamo due volte!", scherzo: ed è abbondantemente vero per lui ma non ancora per me.
"Non giovanissimi, ma siamo persone a posto e con il nostro gruzzoletto e il nostro lavoro da parte. Con una femmina accanto la vita è diversa. Vivere in due vuol dire che se uno è stanco tira la carretta l'altro, che se uno sta sbagliando l'altro lo corregge. E' tutto più facile. E poi, anche non essere soli nel letto la notte è importante!"
Sbuffa ed il suo fiato ha odore di tabacco e di cipolle: un odore contadino che in fondo mi è gradevole. Invece mi danno fastidio le sue mani grosse e mal fatte: mi danno fastidio soprattutto perché penso che sono loro a scegliere il cibo che ho mangiato.
Ora non parla più e stiamo in silenzio ad ascoltare i nostri pensieri e il rombo irregolare degli altri gruppi che mangiano e scherzano. Mi verso ancora un mezzo bicchiere di vino.
Carlo ci passa vicino veloce ed agile con una grossa bistecca e le patate fritte di contorno su un vassoio d'alluminio.
"Ma lei ha una figlia femmina e certo le fa più compagnia dei miei tre maschi!"
E la guardiamo entrambi dondolarsi con una gioiosa e distratta soddisfazione finché ci restituisce lo sguardo con una pigra derisione.

Dietro la palazzotta delle "Tre forchette" un sentiero tranquillo conduce ad una pineta miserella che fiancheggia un torrente dalle rive irregolari e sabbiose.
La scorsa primavera, in una giornata di sole ma non di particolare calura dei primi di maggio, ho dovuto far ricorso a tutta la mia autorità di padre - cosa che faccio rarissimamente e, di solito, senza particolare convinzione - per vietare a Silvia di fare il bagno in una delle anse.
Di motivi ne avevo a sufficienza per essere irremovibile: avevamo appena mangiato, l'acqua era gelata e mia figlia è abituata al mare e alla piscina ma non conosce le trappole di un torrente.
Silvia ha ceduto ma, offesissima, è rimasta per due ore ferma a fingere di abbronzarsi ai raggi appena tiepidi, addosso solo lo slip e i piedi - per ultima sfida - nell'acqua gelata.
Senza poi dirmi una parola fino a casa e con gli occhi cattivi.
Oggi, passo dopo passo, riprendendo un'abitudine interrotta le ultime volte, siamo tornati proprio sul luogo dell’antico delitto.
Silvia è ancora ferma ai discorsi del pranzo: "Perché non ti sei risposato?"
"Tu avresti voluto?"
Come me elude la domanda con un'altra, ma forse solo perché considera scontato che non le sarebbe piaciuto: "Non ti sei risposato perché pensavi che io non volessi?"
Tra le siepi qualcosa si muove: non distinguo bene, ma forse e solo un topo.
Perché non mi sono risposato?
"Ci ho pensato. Ci ho anche provato, ma non ho trovato la donna che potesse sostituire Lucia. Forse avrei potuto sposare Claudia, ma spesso fatichiamo a capirci. Ci saremmo adattati ma non è che siamo fatti granché l'uno per l'altra..."
Esito, poi aggiungo una frase che solo per metà è una battuta: "E poi non ho mica rinunziato: io sono ancora sulla barricata!"
Silvia cammina qualche passo davanti a me e parla forte perché il il rumore dell'acqua confonde i suoni: "Una moglie deve essere stupida per farsi amare. Quindi una donna sarà una brava moglie se non capisce!"
Cerco di capire che cosa vuole farmi dire, poi rinuncio: "Può darsi! Se lo dici tu!"
Lucia era stupida certe volte, di una ottusità testarda che non voleva cedere un centimetro. Ma altre volte invece era pronta, brillante, sicura: conosceva le mie parole prima che io le dicessi.
Cancello i pensieri ed indugio ad osservare i movimenti agili e nudi delle gambe di Silvia: la ragazza quando si accorge che mi sono fermato torna indietro facendo strani e inutili equilibrismi sui sassi.
E, arrivata vicina a me, guarda a lungo l'acqua che scorre: "Eppure deve essere bello fare il bagno qui, col sole!"

Trenta minuti d’automobile e siamo sulla collina torinese, da qualche parte – mi sono un po’ perso - verso il Faro della Maddalena.
C'è il sole sopra la foschia sporca della città e il tepore che si respira è un primo assaggio di primavera. Di fronte a noi le Alpi, ancora bianche di neve, sembrano molto vicine.
Io, sdraiato sul sedile, con le portiere entrambe aperte, mi ascolto la partita, Silvia passeggia attraverso il piazzale deserto - ci sono solo, oltre a noi, due ragazzi che amoreggiano quietamente e castamente, senza eccedere a particolari esibizionismi, su una 127 rossa.
Silvia torna sui suoi passi e si siede in automobile accanto a me. Ascolta un paio di collegamenti dai campi di calcio, legge i risultati che io annoto su una schedina non giocata, si rialza e va ad appoggiarsi alla balconata in pietra che domina tutta Torino. Da qui la mia città pare prolungarsi fino ai piedi delle montagne, tagliata a fettine dalle sue vie dritte e dal Po.
Silvia ha qualcosa della puttana in attesa di adescare un cliente, adesso: qualcosa nei movimenti, nella gonna corta e nella pelliccia; qualcosa negli occhi accesi e nei capelli biondi.
Torna ancora verso di me: "E allora?"
Esito prima di capiree rispondere: "Sempre uno a uno!"
Alza le spalle e non insiste nel suo pronostico: "La Roma?"
"Pari anche lei!"
"Il Torino?"
"Ha appena sbagliato un rigore. Sempre peggio!"
I risultati paiono deluderla mentre a me, tutto considerato, vanno bene. Le rifilo una pacchetta sul sedere, non forte, ma più precisa e sonora di quanto cercavo.
"Papà!", protesta.
"È per la Juve: porta fortuna!"

La sera mi piace starmene a letto a leggere anche fino a dopo mezzanotte.
Oggi Silvia ha spento la luce in camera sua verso le dieci e mezza e, dopo essersi un po' agitata per un quarto d'ora, adesso è tranquilla silenziosa e, sicuramente, dorme.
La mia biblioteca non è nulla di eccezionale ma mi soddisfa: c'è molta roba di bassa lega - gialli, fantascienza, romanzetti, fumetti e racconti un po' spinti - ma non mancano Eco, Sciascia, Bevilacqua, Chiara e altri moderni. Però i miei compagni preferiti della notte sono di solito i "classici": Shakespeare, Pirandello, Mauriac, Hemingway - meno, a dire il vero - e Camus. Mauriac lo leggo in francese e anche Camus, ma più a fatica.
Chi preferisco è Shakespeare: molti passi li ripeto a memoria. Dal Romeo e Giulietta, dal Giulio Cesare: "Non di meno Bruto dice che egli era un ambizioso; e Bruto è un uomo d'onore."
Bellissimo! Eterno!

Alle sette mi ha svegliato il rumore dell’acqua: Silvia in bagno che si fa una doccia. Me la sono immaginata nuda e calda di letto sotto il getto dell'acqua e mi sono subito eccitato. Telefonerò a Claudia molto presto: periodico e urgente bisogno di femmina!
Senza muovermi e con gli occhi ancora chiusi ascolto lo sciabattare di Silvia lungo il corridoio, in cucina, poi nella sua stanza. Lo sciabattare diventa un suono di tacchetti. In bagno di nuovo, probabilmente a pettinarsi.
Mi assopisco e mi risveglio dopo pochi minuti sentendo Silvia chiudere la porta d'ingresso. Allora sospiro e mi alzo.
Dalle imposte socchiuse osservo mia figlia uscire in strada ed avviarsi verso la scuola. Ha una bella figura: snella, elastica, armoniosa nei movimenti.
Saluta il lattaio e si ferma a scambiare due parole. Poi gira l'angolo e scompare.
Improvvisamente mi sento molto solo.

In cucina Silvia ha lasciato la bottiglia del latte fuori dal frigo. Me ne verso un bicchiere e spalmo burro e marmellata su due fette di pane che non perdo tempo a fare tostare. Accendo la radio e ascolto il notiziario delle otto. Le solite cattive notizie, le soliti cattive notizie che si ripetono da giorni.
Sulla lavagnetta di plastica Silvia ha annotato con un gessetto giallo alcune delle cibarie che devo comprare: ricopio le note su un foglio di carta aggiungendone altre. Per molte cose - frutta, verdura - deciderò al negozio cosa prendere.
Stanno facendo lavori in corso Francia ed hanno devastato la sede stradale per alcune decine di metri. Bisogna passare su traballanti assi di legno e si sente un forte odore di gas e di fogna.
"Vogliono andare al centro della terra!", borbotta un vecchio calvo e con la pelata segnata da tante piccole chiazze bluastre, guardandomi con uno sguardo complice e sfuggente.
Mi informo se cercano una perdita dei tubi, perché il pensiero di poter saltare in aria non mi diverte per nulla.
"Macché! E' solo per mangiar soldi alla gente!"
Ottimo motivo. Io ho finito la mia spesa, non ho fretta, e resto a guardare la ruspa che frantuma l'asfalto e prepara il lavoro a sette operai senza voglia.
"Si mangiano i soldi della gente! E poi richiudono tutto e se andava male prima va male anche dopo. Ma loro i soldi se li sono mangiati. Loro e i loro amici!" e il vecchietto mi indica il cielo abbastanza pulito di questa fine di maggio.
In una giornata come oggi non bisognerebbe stare in città, anche se l’aria è fresca.
L’uomo dalle chiazze bluastre che cerco non di osservare troppo sfacciatamente continua a parlare ed io gli do ragione perché ho voglia di chiacchierare anch’io: "Come i chirurghi: aprono le pance, strappano qualche fetta di carne, mettono dentro qualche tubo e qualche pompetta di gomma e, anche se dopo il malato muore, l'intervento è perfettamente riuscito."
"Perfettamente riuscito! Sempre! - ripete e mi ammicca - Per i soldi! Non c'è nessuno in questo paese fottuto che si muova se non per i soldi!"
Annuisco nuovamente convinto a mia volta ed il mio compagno riparte con soddisfazione: "Sa come si fanno i soldo oggi?"
"Si rubano!", tento.
"Più facile: si apre un negozio. Si è ricchi in due o tre anni! Si compra a dieci e si vende a venti. Si compra a cinque e si vende a cento!"
Ci resto male perché è da diciotto anni che io ho il mio negozio e, anche se non mi lamento, mi sembra che i ricchi siano fatti in maniera diversa. L’entusiasmo mi crolla ma il mio amico è lanciato e mi perseguita: "E sa cosa bisogna vendere? Apparecchiature elettroniche! Televisori! Radio! Registratori! Calcolatori! Frigoriferi!"
"Macchine fotografiche. Binocoli. Occhiali da sole.", aggiungo con desolazione ed il vecchio mi fissa ora insospettito ma senza scomporsi: "Certo! Ma gli elettrodomestici! Giocattoli che i giapponesi fanno per quattro soldi. I negozianti pensano solo ad ingrassarsi ed a mettere pellicce alle loro mogli ed alle loro amanti! Nessuno li controlla! Rubano a piene mani e lo Stato sta zitto! Pagano i politici! E giù pellicce alle amanti!"
E le figlie. Silvia col suo pellicciotto bianco…
Mi fissa negli occhi: "Lo si vede d'estate chi è che va in vacanza: loro!"
Sospiro e un sospiro sta sempre bene in ogni discorso. Ascolto ancora un poco, poi quando il discorso devia sui mezzi pubblici abbandono il campo e ammaino i miei stendardi che, per altro, sono già parecchio ammosciati: "Non per niente io vado a piedi!"
Dopo qualche passo scopro la mia immagine grigia e borghese fuggire riflessa dalle vetrine: "Ladra! Affamatrice del popolo!" le ringhio contro.

Ho preparato un risotto al pomodoro che Silvia trova molto buono.
"Novità a scuola?"
Risponde a bocca piena: "Giovedì compito di italiano."
"Ti fa paura?"
"Italiano? No!"
"E quando hai il prossimo compito di matematica?"
Si incupisce: ha un quattro e un quattro al cinque di scritto e un cinque di orale. Mi risponde con un tono minimo: "Ci vado a settembre di matematica."
"Silvia! Mai arrendersi!", la esorto.
Allunga il musino: "Non capisco i logaritmi! Non riesco ad usare le tavole! Sono impossibili!"
È proprio negata ai numeri: zoppicava alle medie e l'anno passato si è salvata solo dopo essersi rotta le unghie sugli specchi e grazie ad un compagno che le ha passato l'ultimo compito.
Io ho provato a farle vedere come anche in fotografia, per le luminosità, si usano curve simili ai logaritmi: mi ha guardato con diffidenza, con gli stessi occhi di quelle ragazze che, ai tempi in cui ero studente, provavo ad invitare a casa mia quando non c'erano i miei genitori. D'altronde anch'io, oltre a leggere i valori su quelle tabelle, cosa sia un logaritmo non lo capisco.
Spero solo che a settembre, con una materia sola e con una manifestazione di buona volontà, non me la boccino. Però ripeto, anche a me stesso: "Mai arrendersi!"
Silvia alza le spalle e abbassa la testa. Decido di non rovinarle il pasto: in fondo studia e, se non capisce, la sua testolina con quello che gli sta dentro gliela abbiamo fatta io e Lucia...
"Va bene. Parliamo d'altro..."
Uguale alzata di spalle che mi fa arrabbiare: "Se alzi le spalle un'altra volta ti sculaccio!"
Silvia si fa una risatina strana, dopo essere stata proprio sul punto di ripetere il movimento: "Me lo meriterei! Ma per matematica!"
Le passo una mano tra i capelli, poi riempio il suo bicchiere di vino e riempio il mio: "Cancella i pensieri! A chi ci vuole bene e a chi ci vuole male!"
Silvia alza il bicchiere, mi guarda nella rossa trasparenza del liquido e poi tracanna con un solo movimento.
Rido: "Piano! Vuoi ubriacarti?"
Gira il bicchiere tra le mani pensierosa: "Potrebbe essere un'idea!"
Non credo abbia veri dispiaceri: è solo un po' annoiata e delusa.
Mi viene voglia di chiederle se ha qualche dispiacere di cuore, ma lascio stare.
Si alza per servire il secondo e col secondo mi regala un bacio domestico sulla guancia. E mentre si china le vedo il seno da capretta pendere candido e pulito nella scollatura. La tentazione di stringerle il petto è forte e strana.
Le abbraccio la vita e lei si lascia tenere con una tenerezza disponibile e sincera. Davvero voglio molto bene a questa mia figlia che per me, morta Lucia, è tutta la vita.
La lascio libera e osservo il mio piatto senza particolare simpatia.
Prima di risedersi al suo posto Silvia accende la radio, giusto in tempo per il segnale orario delle tredici e trenta e, quindi, per il giornale radio.

Nel pomeriggio, alle tre e mezza apro il negozio: pochi i clienti, come sempre il lunedì, e per giunta di cattivo umore per una pioggerella sporca che cade monotona.
"Per ritirare le foto passi mercoledì mattina. Dopo le dieci. Certo, due copie: l'ho segnato!"
Nel laboratorio controllo la taratura dei tempi di due apparecchiature fotografiche che mi sono appena arrivate: ho sentito che alcune sovraesponevano, ma queste sono abbastanza precise e ben regolate.
Tre zingare mi entrano in negozio e devo liberarmene quasi con la forza. L’esperienza mi ha insegnato che anche sganciare loro qualche mille lire non serve a liberartene, ma anzi le fa diventare più aggressive e le fa ritornare. E devi stare attento perché in un attimo, appena ti giri da una parte, ti fregano qualcosa dall'altra.
È ormai sera quando una signora sui quarant’anni e troppo truccata mi porta suo figlio per fargli quattro foto tessera a colori. Il gagno ha una faccia da pesce bollito senza espressione. Se sorride fa una smorfia da zucca scavata ed ha anche i denti storti e sporchi.
"Lo faccia bello!"
"Certo signora!"
Lo metto in posa e faccio il mio meglio; chi cerca miracoli si rivolga altrove: un pittore almeno può falsare la realtà, ma un fotografo…

A casa mi riceve uno splendido profumo di cucina che riconosco subito: crostata di mele, e deve essere venuta bene perché Silvia mi abbraccia proprio soddisfatta e la sua guancia sa di crema, zucchero e farina.
"La crostata è per questa sera?"
"Sì! Se non la lascio bruciare!"
"C'è qualche festa?", domando temendo improvvisamente di essermi dimenticato qualche compleanno od onomastico.
"Perché deve esserci qualche festa?"
Ha perfettamente ragione, tanto più che vivendo in due abbiamo solo due compleanni e due onomastici per festeggiare. E Natale e Pasqua.
Intanto sulla lavagnetta della cucina è scritto:
- FINITA FARINA
- COMPRARE FRUTTA (DUE BANANE)
e in basso con un ansioso punto di domanda:
- GRISSINI?

La sera ci adagiamo davanti al televisore a guardare un film stupido. L'inizio, per essere sinceri, almeno un po' di pelle nuda e di tensione la promette: una giovane giornalista mentre sta facendo la doccia – la cinepresa riprende la scena dal basso ed insiste soprattutto sulle natiche che non sono un brutto spettacolo - viene ammazzata a colpi di scure. Scena già vista in altri film ma non brutta. Poi si capisce subito chi è l'assassino - chi se non il viscido avvocato Aldo con la complicità del vicino di casa dai capelli rossi? - e il tutto diventa monotono e scontato. Qualche altra attrice che si spoglia e si fa ammazzare, ma nessuna bella.
Suspense zero.
Silvia annoiata e assonnata si lascia scivolare contro la mia spalla ed io alzo il braccio prendendola sotto l'ala.
La sento muoversi languida per cercare la posizione più comoda e infine acquietarsi. Assaggio con una palpata leggera la gamba nervosa che la gonna scomposta lascia scoperta: Silvia lascia fare e la sua testa mi preme più forte il petto.

Il martedì mattina sveglia presto per entrambi; dolorosamente.
Indosso senza volontà e coscienza un paio di mutande, i pantaloni e una camicia a quadri bianca e azzurra.
Incontro in cucina mia figlia con ancora indosso la camiciola da notte di nylon rosa sotto la quale, in opaca trasparenza, il suo corpo ha colori grigio violacei.
Brontola qualcosa non so se per salutarmi o contro la scuola.
"Buongiorno, piccola mia.", rispondo e ricevo un bacino di saluto che Silvia mi rifila maldestramente salendomi su un piede.
"Ahuff! Scusa!"
Gioca a far scempio di una pagnotta scavandola col cucchiaino e aggiunge: "Merda! Non ho voglia di andare a scuola!"
Segnando con qualche briciola il percorso come Pollicino, torna in camera sua a vestirsi e a prepararsi la cartella.
Anch'io non ho voglia di aprire il negozio, di uscire casa, di lasciare Silvia.

Ieri, malgrado fossi deciso, alla fine non ho telefonato a Claudia. Provo adesso e il suo telefono suona a vuoto. Non so perché, ma in fondo ne sono felice.
Dovrei risistemare la vetrina - ho della merce nuova - ma preferisco aspettare un giorno che ci sia anche Silvia. Intanto pulisco con acqua e alcool il bancone. Un tipo che entra solo per farsi cambiare le pile alla macchina fotografica mi approva: "Con tutte le mani che toccano e ritoccano: chi sta bene, chi sta male..."
Apro con l'unghia il serbatoio delle pile. Chissà perché, di solito i miei clienti mi sono antipatici: quando poi si sforzano di darmi ragione e di fare conversazione li ucciderei. Questo tipo, ad esempio, potrei cospargerlo con l'alcool - visto che la bottiglia è a portata di mano - e dargli fuoco: wamp! Cotto!
Pensate che articolo sui giornali: "Fotografo mette a fuoco un cliente"!
Poi direbbero che sono pazzo e mi farebbero uscire subito. Mi aumenterebbe anche la clientela: donne giovani e meno giovane golose di brivido, maschi che vogliono vedere come è fatto un assassino!
"Dodicimila.", ringhio secco.
Mentre prendo i soldi mi viene in mente il vecchietto che ieri mi ha definito un ladro senza rendersene conto. Forse non aveva tutti torti.
"Diecimila", correggo. Il cliente mi guarda perplesso.
"Diecimila?"
"Diecimila. Mi ero sbagliato."
Provo ancora il numero di Claudia.
Verso mezzogiorno passa Giorgio Felicetti, il rappresentante di una ditta di Verona molto famosa, anche se meno valida di qualche tempo fa. È un tipo in gamba, deciso e molto simpatico.
Simpatico anche a Silvia.
Parliamo a lungo; solo quando si congeda penso che piacere al prossimo fa parte del suo mestiere.

Tutti i martedì mia figlia mangia al refettorio della scuola: le lezioni finiscono all'una ma deve ritornare alle quattro del pomeriggio per ginnastica.
Potrebbe farcela a venire a pranzo a casa, se lo volesse veramente, ma preferisce stare con i compagni di scuola e - dice - cominciare a preparare i compiti per il giorno dopo.
Può essere.
Non torno a casa neanch'io: c'è una tavola calda in via Verdi dove si mangia discretamente e dove conosco ormai molti degli altri clienti abituali che scherzano vedendomi: "Di nuovo martedì!"
La donna alla cassa - sempre la stessa - è spesso argomento di facili discorsi, quando non si ha di meglio per condire le pietanze e si ha voglia di scherzare.
Per i miei gusti è troppo grassa e grossa, anche se ha un bel viso allegro e ridente e sul petto le troneggiano due mammelle veramente felliniane, sempre mal contenute dai vestiti o, per essere giusti, orgogliosamente debordanti. Dicono ci stia con tutti, una vera ninfomane; è sposata ma senza poter avere figli, pare proprio per colpa sua. Quello che so di certo è che è sbalorditivamente efficiente nel suo lavoro: uno sguardo su ogni vassoio e dice il prezzo.
Ho fatto qualche volta - le prime che venivo qui - la verifica ed era giusto al centesimo.
Chissà se anche coi logaritmi se la cava così bene.
Un camionista viene a sedersi col suo vassoio di fronte a me con la decisione pesante di chi è in imbarazzo. Tavoli liberi non ce ne sono.
"Prego!"
È francese: io il francese lo mastico poco, ma quanto basta ad entusiasmare subito il mio occasionale compagno.
Un po’ di francese ed un po’ di italiano e ci capiamo.
Mi racconta del suo camion, del carico di formaggi che porta in toscana e, quando siamo più in confidenza, di sua moglie.
la descrive bellissima: la femmina più bella che ha incontrato nella sua vita. Dice che neanche in Italia ha incontrato una ragazza più bella e più desiderabile. "Non è un femme o ma femme: è la Femme de ma vie! Capisci?"
Annuisco sempre, divertito e poco convinto, pensando che magari gli piacciono le donne abbondanti come la nostra cassiera, ma devo ricredermi quando mi mostra all'improvviso, quasi strappandola, una foto un po' sfuocata - diaframma troppo aperto - e sciupata, tirandola fuori da un portafogli colmo di carte e di biglietti unti.
"Voila Corinne!"
Guardo ed inghiotto: pare una svedese, ma con una maggiore dolcezza di curve e lineamenti, il corpo completamente nudo, in una posizione un po' forzata ed insincera, con una mano sull’inguine che accarezza senza coprire.
Il camionista mi dice che a letto è una che ci dà dentro di gusto e che per saziarla ci vogliono gli straordinari e lo dicono anche gli occhi affamati e pieni di sfida, le labbra umide e i capezzoli gonfi e duri, ma quasi senza aureola dalla fotografia.
Solo riguardando noto anche lo sfondo di un muro vecchio e scrostato e la miseria degli abiti lasciati in disordine sul letto.
Cerco di scherzare e di dimenticare quella povertà restituendo la foto: "E una ragazza così la lasci sola a casa?"
"Mia sorella vive con noi. Se Corinne mi tradisce le ammazzo entrambe. Mica solo voi italiani…"
Lancia un occhiata di sfida intorno e ritorna a parlarmi dei formaggi, di quanto l'hanno fatto aspettare alla dogana e di quanti chilometri di asfalto lo separano da casa.
Quando gli racconto a mia volta che ho un negozio di fotografia si fa attentissimo. Mi chiede se potrei sviluppargli qualche rullino speciale.
"Avec Corinne."
"Certo: magari anche formato poster!"
Ridiamo insieme e lui mi dice che sono veramente un amico.
Usciamo e mi segue fino in negozio: so di fargli piacere regalandogli un calendario con bellezze poco vestite.
Mi ringrazia e poi mi saluta con una pacca che incasso con disinvoltura, ma che mi lascia la spalla formicolante e con una sonora risata.
"Ci rivedremo! Adieu!"
"Vive la France!", gli grido dietro e penso a quando Platini giocava nella Juventus e faceva la differenza con le altre squadre.

Provo ancora con Claudia e lascio squillare il telefono venti volte. Al diavolo! Ci mancava anche questa Corinne a stuzzicarmi la carne! Ancora, dopo una mezz'ora provo il numero di Claudia, poi una terza volta, ma riattacco sfiduciato al secondo squillo.
Umberto che viene a ritirare i rullini da sviluppare mi trova tirato: "Che hai fatto questa notte, sporcaccione?"
"Non ho fatto niente. Ho dormito!"
Umberto mi chiede distrattamente notizie di Silvia e di mia suocera e intanto si gratta una piccola crosta sull'avambraccio.
"Tutto bene.", rispondo.
In realtà non vedo mia suocera da un mese e, anche se in generale non posso dirne male, non mi manca. Ma fosse anche impazzita, avesse dato fuoco alla città, non credo lo stesso che all'Umberto importerebbe.

Torno a casa tardi e trovo Silvia abbattuta e piuttosto sulla difensiva. Aspetto la cattiva notizia che deve darmi: "Ho preso sei più di inglese."
Non è molto, considerando che d'inglese ha un insegnante bravo e fin troppo buono.
Mi arrabbio: "Cosa ti ha chiesto?"
"I verbi difettivi. Un po' tutto... Ho fatto tanti errori stupidi..."
"Gli errori sono sempre stupidi! Poi i verbi o li sai o non li sai: e per saperli basta studiarli. Non è come matematica che almeno puoi sempre tirare fuori che non la capisci!"
Silvia guarda per terra: è inutile che me la prenda con lei, tanto più che se avesse tutti sei e sei più sulla pagella io sarei già contento. E credo sempre che, almeno un po', abbia studiato.
La buona volontà ce la mette.
Anche lei ha i suoi problemi e non solo con la scuola. Provo a chiederle se c’è qualcos’altro che non va, ma scuote il capo.
"Solo la scuola?"
La costringo a guardarmi: "Un ragazzo?"
Adesso sorride: ha gli occhi un po' rossi e capisco che per questo sei più deve averci già pianto: "Nessun ragazzo!"
"E allora?"
"Allora niente! Solo la scuola."
C'è un momento di silenzio, poi decidendolo quasi sul momento le dico: "Stasera esco."
Capisce e so che le dispiace: "Farai tardi?"
"Sì, non aspettarmi."
Esita imbarazzata: "Vai da quella Claudia?"
Claudia non è mai stata Claudia per lei, ma sempre quella Claudia. Uno dei motivi per i quali non avrei potuto sposarla.
"No. Non Claudia."
Potrei aggiungere: "Non so con chi.", ma non lo faccio.
Mia figlia non insiste. Sul fornello ha messo a scaldare una minestra molto liquida e il vapore ha un buon odore.
Prendo l'automobile e vado verso Porta Nuova, un po' lontano da dove abito, dove è più difficile che qualcuno mi conosca.
Ci sono molte puttane mezze nude ad aspettare i clienti lungo corso Vittorio e via Nizza, ma mi sembrano tutte vecchie, sporche, consumate.
Giro qualche bar: sempre in via Nizza trovo una ragazza abbastanza giovane, ma è una drogata ed ha occhi lucidi e malati e le cosce scoperte quasi violastre. Mi chiede troppe volte se i soldi li ho davvero, e - senza motivo – impreca e mi ripete tre volte che, quelli che vogliono fare e poi non pagano, lei gli cava gli occhi.
Non mi va e cambio zona: più verso la Crocetta becco una che mi piace subito, seduta sul cofano di un'automobile rossa - ma una 128, non una grossa macchina.
Butta la sigaretta e mi viene vicino, dopo aver dato un'occhiata interrogativa verso le altre automobili posteggiate che occupano a metà il marciapiede.
Mi piace subito anche la sua voce dolce ma inrochita dal fumo. Ci mettiamo d'accordo. Cinquantamila per lei ed altre ventimila per una specie di pensione dove andiamo, due isolati più avanti.
Il suo corpo si preme subito al mio ed ha un forte odore di cattiva colonia e di pelle.
Le chiedo come si chiama e mi risponde troppo in fretta e assurdamente: "Corinne!", ma non ha proprio nulla della foto che mi ha mostrato il camionista.
Le chiedo se è francese e glielo chiedo in francese. Non capisce e allora le chiedo come si chiama veramente. Lei ha uno sguardo preoccupato, forse pensando che io sia un poliziotto, poi si arrabbia quasi: "Mi chiamo Corinne, mi sono sempre chiamata Corinne e mi chiamerò sempre Corinne."
Io lascio stare perché ha ragione e sono io che non faccio i fatti miei ma, dopo un attimo, lei aggiunge sottovoce e quasi a scusarsi: "Mi chiamerò Corinne finché farò questa vita."

L'albergo è persino peggio di quanto m'immaginavo: sporco e marcio, putrido come una grotta. Una vecchia puttana ormai troppo vecchia per il mestiere ci lancia dietro una volgarità in un qualche dialetto meridionale mentre fa sparire i miei soldi in un cassetto e porge una chiave che Corinne prende. Dobbiamo fare due piani a piedi e le scale sono viscide di umidità.
La stanza è uno schifo: nel letto le lenzuola sono macchiate di giallo ma almeno lavate abbastanza di recente, le parete sono scrostate e in parte coperte di poster: ragazze nude e che scopano, foto di cantanti e complessi, a anche una foto della mia squadra di calcio che qualche tifoso avverso ha sfregiato.
Di fronte al letto c'è uno specchio che deforma le immagini ma aumenta la poca luce e fa sembrare meno piccola la stanza. In un angolo un lavandino lurido e corroso e nell'angolo opposto una seggiola solitaria.
L'aria è appena tiepida eppure nauseante. Molti dei poster sono coperte di scritte e schizzetti volgari.
Corinne mi viene vicina, gli occhi che entrano nei miei con troppo mestiere. Mi tolgo solo la giacca e la spoglio. Mi piace scoprire il suo corpo, un po' freddo e appiccicoso ma liscio e morbido, partecipe anch'esso, a suo modo, del velo umido che trasuda dalle pareti.
Quando le stringo i seni geme e ansima forte recitando distrattamente. Il suo corpo è magro ma solido; nell'unica luce rossa che brilla sul comodino mi pare bianchissimo e invece deve essere grigio cenere. O giallo, come quello un'ammalata.
Mi viene in mente che nei suoi lineamenti potrebbe anche esserci qualcosa di orientale.
Metto subito i soldi sul comodino e mi spoglio a mia volta. Corinne completamente nuda, non fosse che per una lunga e pesante collana metallica che suona come un campanaccio al più piccolo movimento, aspetta che sia io a cercarla sul letto.

Quando torno a casa tutte le luci sono spente e Silvia è a letto, ma si muove e capisco che non dorme ancora. Mezzanotte è passata da una ventina di minuti.
Apro l'acqua della doccia: è quasi fredda, ma non importa. Sorrido senza indispettirmi: quella di non farmi trovare acqua calda potrebbe essere una piccola cattiveria di mia figlia. La perdono.
Corinne mi è piaciuta. Sa stare zitta mentre fai l'amore ed è già molto. Mi lavo solo per precauzione perché l'odore che mi ha lasciato addosso non é di alta classe ma é neanche cattivo.
Le ho detto che probabilmente ci saremmo rivisti e ha avuto una piccola smorfia tra il beffardo e il soddisfatto che mi ha fatto sentire un po' stupido, come tutti i maschi in calore, con quel ridicolo pezzo di carne tra le gambe che prima si indurisce per l'accoppiamento e dopo ripende fiacco e appiccicoso come un inutile barbaro pendaglio. Come la lunga collana che Corinne porta sul petto.
Una volta tra le mie lenzuola ho sentito ancora Silvia rigirarsi più volte: io mi sono addormentato subito, senza rimorsi.

Mercoledì Silvia va a scuola solo alle nove, così ci alziamo entrambi poco prima delle otto.
Sono di ottimo umore, mi sento forte, "maschio", sazio; non mi rovina l’umore neanche Silvia che, invece, è ingrugnata e scontrosa. Povera ragazza anche lei!
La prendo un po' in giro, poi lascio stare perché è davvero avvilita e non prova neanche a difendersi. La prendo per le braccia è la scrollo piano: "Ce l'hai con me?"
Non dice niente e guarda per terra.
Stringo più forte: "Dimmi quello che devi e dopo starai meglio."
Magari starò peggio io.
Silvia scuote la testa e due grossi lacrimoni le si materializzano d’improvviso e scivolano lungo le guance finché - plop! - cascano giù, uno sul vestito l'altro sulle mie mani: "Sono una stupida!"
Appoggio la mia testa alla sua: "Non sei una stupida. Ti capisco, sai? Anch'io non dimentico Lucia. Neanche quando vado con una altra che magari mi piace."
Silvia nega col capo e fatica a parlare: "Non è questo. Mamma è morta."
Cerco di leggerle negli occhi di capire le sue lacrime. Adesso sono io che penso a mia volta di essere uno stupido e continuo a non capire: "Allora?"
Alza le spalle e il suo sguardo mi evita. Un po' turbato ricordo come mi hanno guardatogli occhi da puttana di Corinne. Silvia si libera piano delle mie mani e se ne torna nella sua stanza.

Mi seguono in negozio e mi tengono compagnia tutta la mattina i due gusti e i due pensieri del corpo di Corinne e delle lacrime di Silvia. Il primo, più forte, è la soddisfazione del maschio che ha saziato e dimostrato la propria virilità, il secondo un groviglio confuso di pensieri che mi sfuggono e angosciano, ma che forse sono senza importanza: la malinconia di Silvia passerà presto, naturalmente; mia figlia non mi ha detto niente perché non c'è niente da dire.
Le lacrime delle donne sono come le piogge d'aprile: quando arrivano bisogna lasciarle sfogare. Una ragazza di quindici anni ha i suoi problemi e la sua luna qualche giorno sorge ad est e qualche giorno sorge ad ovest, e sapere poi dove tramonta ... Questa è una scommessa da fare impazzire uomini molto più assennati di me!
Metto a posto i rullini sviluppati che sono appena arrivati curiosando per abitudine – ma c’è poco da vedere - poi, per telefono, ordino un cappuccino ed una pastafrolla al bar vicino.
Dopo una decina di minuti arriva a portarmeli un ragazzino magro e lungo: lo conosco e siamo quasi in amicizia, ma adesso ha fretta e non si ferma.
"Saluti! Ripasso tra trenta minuti a riprendere il vassoio!"
Quando ritorna, dopo quasi due ore, indugia qualche minuto e chiacchieriamo. Accenna senza toccare una telecamera della Fisal: "Deve costare tantissimo un giocattolo del genere!"
Gli dico quanto e certo è anche più di quanto pensava. Mi squadra impressionato: penso con tristezza che sarebbe un gesto bellissimo prenderla e dirgli: "È tua!", ma, tolto il fatto che un gesto simile mi costerebbe cinque milioni e che non sono un santo - infatti i miracoli non mi riescono mai - dopo, quel povero ragazzo non saprebbe neanche che cosa mettersi a filmare.
"Un giocattolo per ricchi!", commento a malincuore.
Passa parecchia gente prima di pranzo, tra gli altri quella bella coppia - madre e figlio senza espressione - delle foto tessere: "Ci sono? Aveva detto che c’erano!".
Ci sono e, tutto sommato, sono venute bene. Anche la genitrice pare pensarlo mentre il gagno non riesce a far trasparire un qualsiasi sentimento, fosse anche di disapprovazione, sul muso idiota. Mi è odioso e non posso farci niente. La genitrice mi chiede se posso fare altre quattro foto dallo stesso negativo: a ritmo di quattro foto per volta non credo diventerò ricco.
Ad ogni modo non posso, ma devo fare nuove foto. Riposiziono il gagno e scatto: "Domani, dopo le cinque, potete passare a ritirare anche queste."
Altri due clienti - cambio di pile, rotolo da sviluppare - e finalmente ho qualche minuto per leggere il giornale. Intanto, nel portone di fronte al mio negozio, due ragazzi che devono avere marinato la scuola, si baciucchiano. Lui la tiene tra le braccia con timore, senza stringere e cercando solo le labbra con un gesto ripetuto e monotono, lei - bruttina - pare avere e chiedere un po' di decisione in più, e ogni tanto rovescia la testa offrendogli il collo e i capelli.

Silvia si siede a tavola che sono quasi le due. Non è troppo allegra, ma la sua voracità fa presagire bel tempo dopo il breve temporale di questa mattina. Sta un po' zitta all'inizio ma si sgela in fretta, quasi canticchia ad una musichetta che mette la radio e così mi arrischio a domandare: "Tema in classe, domani?"
"Sì!"
"Su cosa te lo aspetti?"
"Io farò quello sui Promessi Sposi."
E, a bocca mezza piena, mi improvvisa una piccola conferenza in cui cita più volte Walter Scott. Io non ho mai letto niente di Scott – per quanto conosco potrebbe anche essere un personaggio dei fumetti - ed evito ogni intervento: tanto Silvia parla per riordinare le idee ed io faccio solo da cavia. Mi chiedo solo perché parlando dei Promessi Sposi debba saltare fuori questo sconosciuto.
Parlo solo per un mio dubbio improvviso: "I Lanzichenecchi - a proposito, conoscevo uno che si chiamava Lanzichenecchio Michele che era mio compagno di classe alle medie: chissà che fine ha fatto? - andavano a saccheggiare Roma o si fermavano prima?"
Mia figlia mi guarda con commiserazione e, con il tono paziente che si usa con chi non solo è ignorante ma proprio non capisce e mi concede una rapida digressione storica. Quindi riprende a cavalcare per la sua strada, lungo le pagine manzoniane.

Siccome sono un uditore fedele ed attento Silvia mi segue in negozio con un piccolo bagaglio di libri e quaderni nella borsa. Per più di due ore mi stordisce ad ondate irregolari di letture e pensieri vari; solo verso le sei mi guarda con occhi dolci e arrossati e si decide a chiedermi: "Come fai a sopportarmi?"
"Abitudine! Il tempo. Quando eri piccola e strillavi di notte, se non era per tua madre, ti avrei affogata nel lavandino. Adesso mi servirebbe almeno la vasca da bagno e non sarebbe più così facile. Anche far sparire il cadavere: ci vuole un sacco grosso!"
Un cliente chiede uno zoom. Contratta mezz'ora e poi ripiega su un teleobiettivo da 135 mm. Silvia prepara lei la fattura: ha una scrittura bellissima, pulita. Dopo mi sorride e mi parla della Divina Provvidenza e dell'inutile affannarsi degli umani.
La Provvidenza! La Provvidenza!
Finché i Promessi Sposi piombano sul bancone con un gran tonfo: "Basta non ne posso più!"
"Neanch'io!" confesso. Forse non ho digerito bene.
Silvia si stira braccia e schiena e poi si copre gli occhi con le mani e resta immobile, solo il movimento minimo del petto nella respirazione.
Oramai potrei fare un tema su quei due pasticcioni sciagurati anch'io. Renzo e Lucia; Lucia e Renzo: io e Lucia.
Silvia ha ripetuto quei nomi centinaia di volte, forse senza mai pensare coscientemente che sono anche i nomi dei suoi genitori.
Accendo una sigaretta e aspiro lunghe boccate, Silvia mi si avvicina e annusa il fumo. Fuma anche lei, ma molto raramente e un po’ di nascosto. Le dico spesso di non fumare e lei dice di non fumare. Però una sigaretta ogni tanto me la ruba.
"Cosa facciamo a Pasqua?", chiedo.
Silvia mi guarda interessata, ma non fa proposte.
"Un giorno ad Alassio dobbiamo andare, per vedere l'alloggio."
La ragazza annuisce e si morde il labbro inferiore. "E poi? Stiamo lì?"
"E poi?"
Non ho voglia di andare avanti e indietro lungo il mare a piedi o lungo la costa in automobile ad aspettare la mattina che venga pomeriggio, il pomeriggio sera, la sera notte, e la notte mattino, costretti a prendere un gelato o chissà quale bibita in uno dei tanti bar e gustarselo lentamente per rubare qualche minuto alla giornata.
"E allora?"
Accontento stancamente l'ultimo cliente della giornata. Parla con me, ma fissa insistentemente Silvia che ha ripreso a leggere l'eterno Manzoni ed ha accavallato le gambe mostrando le ginocchia nude e niente di più.
Decisamente il mio cliente si eccita con poco. O gli piacciono le adolescenti. Quando Silvia lo guarda, balbetta. La ragazza si alza e va a prendere una matita dalla cassa per scrivere chissà quale nota al margine del libro, dopo di che la mastica. Tutte le matite di casa sono masticate; Silvia ama scaricare nel legno i suoi canini da gatta. Stessa sorte le biro, mentre si salva la mia Auretta metallica: sono sicuro che potrebbe segnare anche quella volendo ma, probabilmente, non ne ama il sapore.

La cena è preparata in fretta: una telefonata e ci facciamo portare due pizze al prosciutto calde da una pizzeria sotto casa e, con quelle un pomodoro ed una mela a testa, siamo sfamati.
Passiamo la sera giocando a carte e chiacchierando, con la radio accesa su una stazione che trasmette musica leggera. Giochiamo a briscola, contiamo i punti distrattamente. Silvia vince le prime due mani di misura e perde rovinosamente la terza.
"Non esci questa sera?", mi domanda d'improvviso con lo sguardo basso sulle carte.
È chiaro che non esco e questa uscita di mia figlia è strana e cattiva: ancora gli stessi strani umori di questa mattina. Senza un motivo - solo perché mi viene in mente - e continuando a vincere a briscola, le racconto di Corinne ed anche del camionista francese pelato.
"Magari si è inventato tutto!", mormora Silvia per contrariarmi.
"Io gli ho creduto: era un tipo schietto, sincero."
Intanto sono piacevolmente infestato di briscole e Silvia deve lasciarmi un paio di carichi. Riprendo a parlare di Corinne e mi ripeto: "Quella ragazza mi è piaciuta, neanche troppo volgare."
Silvia lascia il gioco e va a prendere una CocaCola dal frigorifero: "Ne vuoi anche tu?"
Fossi sincero, preferirei due dita di marsala, ma mi accontento.
Passiamo da briscola a Scala Quaranta. Vinco anche qui.
"Sembra che quella Corinne ti porti fortuna, porca miseria!"
Mi metto a ridere, ma non è solo fortuna: è mia figlia che gioca senza seguire le carte. Mi chiedo proprio dove si vanno a perdere i suoi pensieri: "Ce l'hai con me per Corinne?"
"Non ho niente contro quella maledetta Corinne! È solo una puttana."
Ha ragione, ma la frase mi dispiace; d'altronde è inutile giocare con le parole, ribattere che Corinne è solo una povera ragazza, come tante altre. Forse migliore.
"Allora ce l'hai con me!", concludo.
Silvia posa le carte che stava mischiando sul tavolo e io, macchinalmente, taglio il mazzo.
C'è una pausa di silenzio, nostro e della radio.
È mia figlia a trovare per prima le parole, forzando un sorriso dolcemente, quasi a chiedere scusa: "Ho diritto ad essere un pochino gelosa, no?"

"Ho diritto di essere gelosa."
Ripenso a questa frase quando mi sono messo a letto e anche Silvia si è già rintanata nella sua cuccia adolescente.
Stupidamente stavo per dimenticare le parole e addormentarmi, lasciandole passare come una battuta senza altro significato che quello di farsi perdonare il proprio malumore.
"Ho il diritto di essere gelosa, no?"
È il rapporto tra me è Silvia che zoppica, che è anomalo, sbilanciato: io l'uomo di casa, lei la donna di casa - ma siamo padre e figlia, non marito e moglie. Uomo di casa, ma non l’uomo della donna di questa casa. E Silvia è mia, ma non la mia donna.
Mi rimprovero perché ho dato a Silvia troppe responsabilità, non le ho nascosto nessun problema ed è maturata troppo in fretta. E deve ancora finire di crescere e di conoscersi.
Quando esco per cercarmi una donna o andare da Carla dovrei mentire: "Vado a giocare a carte con amici!", e non inserire quella presenza estranea tra di noi.
Oppure, forse sarebbe peggio: lei capirebbe lo stesso e si sentirebbe ingannata.
Per il resto non posso fare diversamente: il vuoto che ha lasciato Lucia l'ha dovuto riempire quasi tutto Silvia in questa casa. Ed ha solo quindici anni.
Avrei potuto risposarmi. Dovuto.
Pensieri inutili, oramai.
Ho preso un libro senza neanche guardare il titolo, ora scopro che sono le Novelle di Verga e proprio non ho voglia di leggerle: faccio per posarlo sul comodino, ma il volume mi scivola e cade con un bel tonfo sordo e beffardo sul pavimento.
"Al diavolo, resta lì! Che ti mangino gli scarafaggi."
Cerco di dormire, ma mi ronza la testa.
Gelosia! Strana e sbagliata parola tra padre e figlia. Strana? Soffrirò anch'io quando Silvia si innamorerà, quando magari tornerà tardi la sera o non tornerà affatto, quando si sposerà e andrà via. Sarò geloso! Silvia tra le mani di un uomo: mi nasconderà tutto o mi confiderà facendomi soffrire di più con la mia stessa ipocrita sincerità: "Ho fatto l'amore con Mario (o Giorgio, o Antonio, o Marco, o Giovanni)."?
Come io con Corinne.
Non so neppure io come vorrei che Silvia si comportasse!

Nella sua camera la luce è ancora accesa, allora mi alzo e vado da lei: la trovo a letto, anche lei un libro tra le mani di cui scorre annoiata le pagine senza leggerlo.
Mi sorride: "Ho perso sempre questa sera!"
Cerco di baciarle la fronte, ma si sposta - forse per baciarmi a sua volta - e ci scontriamo, la sua fronte contro il mio mento: "Ups! Piano!"
Silvia ride, una risata libera che la farebbe perdonare di qualunque colpa. Dopo si preoccupa ma gli occhi le ridono ancora: "Scusami! Ti ho fatto male?".
"No!".
Mi siedo sull'orlo del suo letto e faccio girare a vuoto la mandibola. Confesso che mi ero spaventato, ma i denti e le ossa sono ancora al loro posto.
Silvia ride di nuovo e mi bacia lei, con enfatizzata attenzione, appena sotto il lobo dell'orecchio. Mi scosto un poco, lei si ridistende e le stringo una caviglia attraverso la coperta, mentre i suoi capelli si allargano sul verde leggero della federa: "Sembri su un prato!"
Si deve essere strizzata un brufolo ed ha una macchia rossa sulla guancia. Si assesta nel letto e chiude gli occhi.
La guardo a lungo e poi, anche se mi piacerebbe restare così, chiedo: "Ti spengo la luce?"
"Sì!".
Mi alzo, spengo la luce: "Buonanotte!"
"Notte Papà!"
Torno alla mia stanza raccolgo Verga e, questa volta, mi addormento subito.

Ci sono giorni in cui tutto va storto. Mi sono alzato già male per conto mio, una gengiva gonfiata che mi infastidisce, ed ho adesso la bella sorpresa di trovarmi la saracinesca imbrattata dal disegno, stilizzato ma non troppo, di un enorme membro virile.
Gli stessi simpaticoni, al furgoncino del formaggiaio che ha il negozio accanto al mio, hanno rotto tutti i vetri, perfino quelli dei fanalini laterali, e fatto altri bei disegnini commentati da un giusto lessico sulle portiere e minacce ancora più stimolanti sia a lui che a sua moglie.
Le due serrande del negozio sfregiate con lo stesso motivetto della mia.
La moglie del formaggiaio è così sconvolta che piange come una fontana e, tra parole e lacrime, mi lascia capire che li stanno ricattando e che ricevono minacce anche con telefonate a casa. Preoccupato penso che può toccare anche a me e, anzi, è strano che non succeda. Però lo sfregio alla mia serranda potrebbe essere un primo avvertimento.
Il formaggiaio ringhia al cielo che lui denuncia tutti, poi ringhia che non denuncia nessuno perché tanto è inutile e i poliziotti - veramente li chiama con un altro termine - danno solo grane e trattano i signori come delinquenti e i delinquenti come signori. Evidentemente lui si mette nella categoria dei "signori".
Non ho nulla da dirgli e non posso essergli di aiuto, poi non gli sono amico ed anzi non mi è neanche granché simpatico e così, esaurito il minimo di solidarietà che lo spirito di corpo e la solidarietà umana mi impongono di concedergli, torno al mio negozio, lasciandolo a imprecare tutto l'imprecabile.
E sembra che questa mattina anche i clienti le provino tutte per mandarmi in bestia.
La giornata non si decide a migliorare: mentre col cacciavite tolgo le graffe metalliche di un grosso imballaggio di cartone la punta mi scivola e mi si pianta nel palmo sinistro. Bestemmiando l'Onnipotente nelle sue tre persone e tutti i santi - compresi quelli dimenticati precedentemente dal formaggiaio e tre divinità indiane note solo agli specialisti - tampono la ferita prima col fazzoletto e, quando riesco, con qualche approssimativo giro di garza.
Il sangue mi ha macchiato la camicia e la giacca e mi dispiace moltissimo per la giacca, o meglio mi dispiace quando mi riprendo perché per qualche minuto ho un bel capogiro e devo stare seduto. Mi sento la colazione che mi ritorna in bocca e le superfici prospettiche dei muri non vogliono sapere di dividersi onestamente in gruppi paralleli e perpendicolari mentre il pavimento scivola via da tutti i lati come in un quadro futurista.
Un cliente che entra a portarmi due rotoli da sviluppare di formato 6x6 mi guarda sbalordito: "Si è fatto male?"
Mannaggia: mi sono fatto bene!
"Mi è scappato il cacciavite mentre aprivo un imballaggio."
È un brav’uomo, desideroso di aiutarmi quanto io di sbarazzarmi di lui. Tra tante parole che potrebbe risparmiarmi, mi consiglia di disinfettare bene la ferita.
"L'ho già fatto, grazie!"
Mi racconta, per sollevarmi lo spirito, che suo fratello col trapano si è tranciato una falange: "Adesso ha l'indice più corto."
"Non gli hanno riattaccato il pezzo?"
"Non c'era niente da riattaccare: era tutto maciullato."
Guarda la mia bendatura artigianale: "Dovrebbe farsi fasciare la mano in farmacia!"
Qui forse ha ragione, ma farmacie vicine non ce ne sono.
Ad ogni modo il peggio è passato; perché peggio di così non può proprio andare.
Chiudo il negozio venti minuti prima dell'orario con un "Al diavolo tutti!", e il prode Anselmo torna a casa, l'elmo non bucato ma la mano sì!

Accendo l'acqua per la pasta, la salo e preparo anche due uova sode: se Silvia ha voglia le mangerà subito, se non ha voglia le mangerò io questa sera; o le butteremo via.
Faccio anche rosolare al burro due bistecche: anche quelle, o si mangiano adesso, o stasera, o domani, o si buttano via.
L'acqua bolle e butto giù la pasta, ma solo la razione per Silvia: io non ho proprio appetito, il mio stomaco è ancora tutto scombussolato come se ci avessero tirato dentro un calcio. Però la bistecca penso di mangiarla.
Mi sdraio sul letto ed osservo sconsolato la mia giacca: ci vuole un miracolo perché in tintoria me la smacchino e sia di nuovo indossabile.
Appena arrivata, Silvia, subito preoccupata e spaventata più del necessario, mi ha ripulito la ferita e mi ha fatto una buona fasciatura. Mi chiede se mi fa male e devo ammettere che non è una cosa simpatica, però adesso riesco a usare la mano con un certo disagio, ma senza troppo dolore, tenendo indice e medio come fossero incollati.
La garza odora di penicillina ed è un odore che mi è sgradevole: mi parla di putrefazione invece che di disinfezione.
Il compito di italiano di Silvia è andato bene, crede. Purché non abbia rovinato tutto con troppi strafalcioni di grammatica. Scherzosamente mia figlia certe volte usa strafalcionare come un verbo tutto suo: "Nell'altro compito avevo strafalcionato due volte!"
Povera Silvia: quando sto per uscire per tornare in negozio la trovo appisolata sul divano, il televisore acceso su un gioco a quiz stupido di una TV privata a cui partecipa - anzi: deve sempre partecipare in una puntata futura - una sua ex compagna delle scuole medie.
Me la guardo in silenzio: il viso nascosto nel cuscino e protetto da un braccio, l'altro braccio prigioniero sotto il corpo, le gambe scoperte, tese e divaricate. La voglia di toccarla, di una palpatina al sedere c'è, ma invece vado a prendere una coperta leggera e la distendo piano sopra il suo corpo.
Lei non si sveglia o finge di non svegliarsi.

Quei bastardi che mi hanno pitturato la saracinesca almeno non hanno usato vernici troppo di qualità e, pennellando solvente, piano piano il gran simbolo virile si scolora.
Non è più quasi intelligibile quando, verso le quattro e mezza, ricevo la visita di un poliziotto, anzi di due, uno il commissario Bovante o Novanti, l'altro il brigadiere Pasquale Quaresima, che mi dice nome e cognome e poi mi fissa duro, quasi sfidandomi a ridere.
Di ridere oggi non ho proprio voglia e il Quaresima mi segna un punto a favore.
Dopo un denuncio - non denuncio il formaggiaio ha chiamato la polizia e la polizia, sentito lui, vuole interrogare anche me.
Io ho poco da dire e poca voglia di dirlo: "Mi sono trovato la saracinesca imbrattata e cerco di pulirla."
"Mai ricevuto minacce? Richieste di denaro?"
"Tempo fa. Di recente nulla."
"Quanto tempo fa?"
"Due anni: e le avevo denunciate."
"Adesso niente? Nessuno che le abbia mandato un avvertimento?"
"No."
Non mi credono.
"E la mano?"
Racconto del cacciavite. Non mi credono.
"E chi l’ha medicata? È andato al Pronto Soccorso?"
"No. Mi ha medicato mia figlia."
Mi guardano sospettosi, ma non posso farci niente.
Penso che forse, per coronare la giornata, mi sbatteranno anche in gattabuia; invece subisco solo qualche frecciata ironica e qualche distratta domanda. Mi fanno ripetere e, stranamente, non cado in contraddizioni.
Alla fine quasi ci prendiamo reciprocamente in simpatia e penso che, senza divisa, una serata al ristorante con loro la passerei volentieri.
"Si curi la mano!", mi fa il Quaresima salutandomi e mi strizza l'occhio con un ammiccamento che mi lascia molto perplesso.

La polizia mi ha lasciato da poco quando in negozio mi raggiunge Silvia. Lancia un'occhiata ironica e per nulla scandalizzata ai tratti di vernice ancora comprensibili sulla serranda, mi chiede come va la mano e come vanno gli affari: "Tutto bene! Benissimo! Un paradiso maomettano!"
Come per lei matematica.
Silvia serve lei i clienti al banco e così io posso finire il depitturaggio; devo interrompere solo per vedere uno che ha un problema con l'otturatore che certe volte non scatta e un cliente che vuole uno schermo per il suo proiettore.
"Ma non uno schermo normale: uno schermo... uno schermo - non grande! - di quelli ... che sono molto belli!"
Dio solo – oppure il diavolo - sa cosa vuole!

Verso le cinque Silvia apre il quaderno di matematica e si mette a risolvere esercizi, o meglio li comincia e a metà strappa la pagina. Dopo un poco mi guarda sconsolata grattandosi la cervice e potrebbe anche piangere.
Fa pena, povera testolina: "Tanto duro?"
"Non capisco! Non ci arrivo, porca miseria!"
Non posso esserle di grande aiuto, guardo solo per dovere le poche pagine rimaste del quaderno: fa impressione quanto è diventato sottile. Sulle ultime pagine equazioni esponenziali.
Almeno i testi degli esercizi sono rimasti. Sbuffo non sapendo che dire poi, contagiato, mi gratto la testa anch'io: "Quando sarà il prossimo compito?"
"Non lo so. Dopo Pasqua."
"Pasqua di Passione!", mormoro. Silvia mi osserva e dopo qualche istante scoppia a ridere e non riesce più a smettere e tira a ridere anche me.
Umberto entrato carico di pellicole deve pensare che siamo pazzi e, ad ogni modo, sono certo darebbe un anno di vita per sapere perché diavolo ridiamo e infatti me lo chiede col risultato di far esplodere di nuovo Silvia che, quasi soffrendo, corre a prendere fiato e a nascondersi nel retro.
"Stupidaggini, stupidaggini!" faccio io, ma devo tirare fuori il fazzoletto per asciugarmi gli occhi.


Indice di Silvia
Salvario

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