Silvia - Parte II



In casa, per cena, sono pronte solo le due uova sode avanzate a mezzogiorno mentre di ripetere le due pizze di ieri non abbiamo voglia. Allora Silvia corre a comprare al supermercato sottocasa un barattolo di frutta sciroppata, alla frutta sciroppata aggiunge una mela e un paio di arance, succo di mezzo limone, zucchero, miele, marmellata e frammenti di biscotti e vieni fuori una mega macedonia.
Veramente buona: il che dimostra che il posto più adatto per una donna è, molto spesso, la cucina e che se la scuola insegnasse a Silvia l'arte di essere una brava donna di casa, al posto delle equazioni esponenziali, farebbe qualcosa di molto più conforme ai naturali indirizzamenti della Natura.
La matematica, la filosofia, la geografia e le altre maledizioni assortite, dovrebbero essere riservate alle ragazze troppo brutte per trovare marito e che quindi devono rendersi interessanti in qualche altro modo.
Se corro i cento metri in meno di dieci secondi faccio il velocista, altrimenti cerco altro!
Però, al giorno d'oggi, un uomo che non è femminista rischia di scatenarsi il mondo addosso e allora ... come non detto! (Ma quando i posti di uomini e donne erano stabiliti distinti secondo le inclinazioni dei due sessi, che sono diverse nei sentimenti e nelle capacità intellettuali come nel fisico, si stava meglio.)

E poi la macedonia. Sì, buona! Buona! Buona... ma non la digerisco e comincia l'agonia.
Mi sento improvvisi flussi liquidi cominciare a turbinarsi nello stomaco mentre guardo un telefilm poliziesco: solo quando non digerisco mi rendo conto di che matassa attorcigliata sono le budella umane. Abbiamo in pancia centinaia di metri di intestino: chilometri o forse meno; e quando non digerisci sembra che il cibo o quello che è diventato ti scorra ribollendo in tutto il corpo, anche nelle braccia e nel cranio.
Questa giornata non poteva che finire così.
Silvia ha detto che oggi alla televisione non c'è nulla che le interessi e che preferisce ripassare storia e dare un’ultima lettura alle pagine dei Promessi Sposi. Per questo tengo il volume basso, tanto da sentire quasi meglio la musica di Vivaldi che mia figlia ama appassionatamente e fa girare infinite volte sullo stereo.
La mia pancia! Pare che la musica mi faccia danzare la macedonia dentro in un ballo lento che mi dà il mal di mare.
Mi vado a prendere un po' di bicarbonato, anche se il bicarbonato non ha mai fatto miracoli con me. Rutto aria a più riprese senza stabilizzarmi granché.
Mi dico che forse farei meglio ad uscire e fare quattro passi per la strada. O invece il fresco di questa serata umida mi disastrerebbe ancora di più.
Sospiro: ecco! Adesso mi viene anche il solito male di testa!
Rutto ancora: tutto sommato credo mi passi un poco. Non troppo sicuro vado a dare la buona notte a Silvia anche se sono solo le dieci e dieci. Silvia ha comunque anche lei già indossato la camicia da notte ed è adagiata sul letto con un tomo fastidiosamente spesso tra le mani e altri tre in pila sul comodino. Ha un'espressione particolarmente frustrata e le gambe generosamente nude.
Mi bacia sulla guancia ma facendomi sentire il contatto contro il mio corpo il suo seno piccolo ma appuntito. Le chiedo un bis e lei me lo concede prolungando ancora dolcemente il contatto fisico tra i nostri corpi. Mi guarda e ride: "È piaciuto anche a me, sai?"
Arrossisce subito, vivacemente e abbassa gli occhi; li abbasso anch'io - per guardarle le gambe - ed è un peccato e insieme una bella cosa che sia mia figlia.

La lascio con un poco convinto: "Buonanotte."
E torno nella mia stanza, dove il pensiero di Silvia si mischia con la pena della digestione.

Sogni stupidi e sgradevoli, anche se non veri e propri incubi. Sogni che seguono il flusso ondoso della macedonia nel mio corpo; sento lo sciroppo fino nel cervello, me lo sento premere internamente nei timpani. Sogni strani che confondo dolorosamente con la realtà.
Allucinazioni. Ho scoperto la banda che mi ha dipinto la serranda e di essa fanno parte: il formaggiaio (il capo), la mia Silvia, la portinaia e una teppaglia indistinta tra cui mi pare di riconoscere certi volti che però subito svaniscono: Carla, il ragazzo del bar, alcuni miei clienti, dimenticati compagni di scuola e di caserma e un capitano che odio come nessun altro al mondo.
Furibondo vendicatore della mia saracinesca mi scaglio sul formaggiaio e, sono alcuni metri più alto di lui, lo atterro e già sto per ucciderlo - strappandogli la lingua dalla bocca - quando i suoi maledetti scagnozzi cominciano a colpirmi furiosamente alla testa e al ventre e devo mollare la presa: "Che diavolo!"
Li scaravento lontano da me e sto per lanciarmi di nuovo sul mio avversario quando scorgo Silvia rannicchiata in un angolo che piange disperatamente come una bambina: ed è davvero solo una bambina di otto o nove anni. Forse meno. È stata lei a dipingere quel massiccio simbolo di maschile potenza, lei che è l'amante del formaggiaio - e questo me lo grida la stessa moglie isterica del formaggiaio, mentre le sue mani colano bianco d'uovo e cervello umano.
Di seguito, non so più per quale associazione burro-formaggio, mia figlia (O è Corinne? Quale Corinne? No! È Silvia! È Silvia!) è tra le mani di Marlon Brando in una delle scene più forti di Ultimo tango e urla chiedendo il mio aiuto. E allora cerco di nuovo di stringere le dita intorno al collo di quel grosso porco Brando-formaggiaio, ma una folla oceanica mi preme da tutte le parti, non mi lascia passare e mi schiaccia lo stomaco. Mi manca il respiro, ma continuo a menare colpi all'impazzata e mi sveglio e devo correre in bagno: dopo sto meglio e vado un attimo in cucina. Sento Silvia che si alza a sua volta, va anche lei in bagno – conati di vomito - e, dopo qualche minuto, mi raggiunge in cucina. È molto pallida e mi guarda sconsola.
"Macedonia?", chiedo.Silvia annuisce triste e, dopo un singhiozzo strozzato, quasi con disperazione mormora: "Eppure non ci ho messo niente che potesse far male dentro! Forse ne abbiamo mangiata troppa."
"È la roba in scatola che fa questi scherzi.", filosofeggio.Non proseguiamo il dibattito e torniamo ai nostri letti a cercare di far venire l'alba e di riposarci un poco.

Brutto giorno e brutta notte.
Praticamente al mattino io vado a dormicchiare in negozio e Silvia se va a dormire a scuola: "Per fortuna le prime due ore ho solo disegno..."
A me lo stomaco dà ancora disagio, ma senza sofferenza e – traditore! - pare persino reclamare nutrimento. Non mi fido e resto a digiuno, proprio solo un po' di pane e mezzo bicchiere di latte tiepido.
Verso le dieci mi vengono irregolari singulti e io li lascio sfogare mettendomi con pazienza ad attendere ogni volta il successivo.
Una giovane donna ben modellata che è venuta a ritirare le foto fatte dal marito a lei e al bambino che si porta appresso in carrozzella - ce ne è una in cui allatta che è molto tenera - mi guarda con occhi curiosi e poi non riesce a trattenersi e si mette a ridere.
Le racconto della macedonia e le faccio qualche complimento; lei ride sia al primo che ai secondi, qua e là finge di non capire, e sorride con allegria e con un po' di civetteria. La creatura dalla testa pelata si diverte a dare innocui calcetti al mio bancone e ride anche lei. "Farà il calciatore!", profetizzo.
"È una femminuccia!", mi corregge un po’ piccata la mammina, ed io rimango interdetto perché la creatura porta un vestitino tutto azzurro. Ci impiego un istante a capire che anche lei sperava di avere un maschietto, infatti – mi racconta questo è il terzo marmocchietto che ha ed è la terza bambina.
"Come si chiama la piccola?", chiedo. Ed è una domanda che avrei dovuto fare molto prima o non farla affatto perché ora le parole del mio tranquillo corteggiamento si perdono e mi tocca fare inutili complimenti e smorfiette a quei pochi etti di essere umano e riscoprire l'involontario angoscia che mi prendeva sempre quando prendevo Silvia piccola fra le braccia: "Signore Iddio fa che non si metta ad urlare e non mi caschi!"

Verso mezzogiorno ho venduto una nuova cinepresa a sensibilità globale per sei milioni e così, anche se non dovessi più avere clienti, mi sono pagato la settimana. Guardo l'assegno con soddisfazione e penso che se l’acquirente avesse voluto contrattare sarei sceso sul prezzo anche fino a cinque milioni ma, ad ogni modo, si è portato a casa un vero gioiello.
Oggi che non sto bene e vorrei starmene tranquillo arrivano rullini da sviluppare ed una fotocamera da revisionare: "Deve avere le pile ossidate: non vorrei mi facesse scherzi adesso che le giornate si allungano e si avvicina la primavera."
Il cliente fa una pausa e aggiunge strizzandomi l'occhio: "La stagione dell'amore!"
In risposta mi sfugge un inarrestabile singhiozzo di cui cerco di cancellare subito la cattiva impressione: "Può ripassare a riprendere l'apparecchio dopodomani. Anche al mattino."
La primavera! Anch'io ho bisogno della primavera, le idee e i pensieri che porta il sole giovane di luce e vita, senza ancora il calore taglia-gambe dell'estate.
Le gite domenicali, il sangue che scorre più fluido, i dispiaceri che si dimenticano in fretta.
Guardo la mia mano fasciata che comincia a prudere ferocemente e penso a lei come a un ramo reciso che rinasce. Eppure questa potrebbe essere la primavera che farà prendere a Silvia la prima seria sbandata e le farà soffrire i primi atroci dolori che accompagnano l’amore.
Conosco me stesso e so che sarò geloso del suo ragazzo come lei è gelosa di Claudia, di Corinne e di chiunque altra; forse anche del fantasma di Lucia.
Anch'io ho il diritto di essere un po' geloso. Anzi: sarò più geloso di lei!

Ho già la saracinesca mezza abbassata quando telefona mia suocera che, come sempre, fa pochi convenevoli: vuole che andiamo a trovarla domenica ed io, preso di sprovvista, non ho il tempo di preparare una scusa e accetto solo col beneficio di accertare che Silvia non abbia troppo da fare per il lunedì successivo. Riaggancio grattandomi il naso colto da un improvviso prurito: in fondo è giusto che ogni tanto si vada a far visita a quel bau-bau di mia suocera.
Però che rottura!

Quando glielo dico, Silvia annuisce anche lei con scarso entusiasmo e, buffamente, la vedo ripetere la mia stessa grattata di naso.
Si pulisce le unghie mentre aspettiamo con impazienza che la pasta finisca di cuocere. Circa cinque minuti e coliamo: a casa mia la pasta è cotta quando si piega.
Silvia sbadiglia due volte.
"Sei stanca?"
"Non so. Ho dormito male. Mi metto un po' a letto dopo mangiato, però alle quattro arriva Lella. Studiamo insieme."
"Matematica?"
"Storia! Di matematica Lella ne capisce meno di me: andremo a settembre insieme. Anzi: forse lei a settembre manco la mandano…"
Sorrido male: "Mai rassegnarsi!"
Ma sono ancora più pessimista di mia figlia su come finisce con matematica.

Lella c'è ancora quando, poco dopo le sette, rientro a casa mia.
Sento le due ragazze chiuse nella stanza di Silvia ridacchiare frequentemente, e questa Lella ha una risata sgradevole e lunga che è identica ad un nitrito cavallino.
Senza rendermene conto comincio ad apparecchiare la tavola, metto due scatolette di carne fuori dal frigorifero e vado in camera mia a cambiarmi.
Le due ragazze non mi hanno proprio sentito rientrare ed anzi sento Silvia protestare ad alta voce tra l'arrabbiato e il divertito: "E dai, smettiamola! Tra poco mio padre rientra!"
Inarco le sopracciglia e mi chiedo contrariato che cosa ha di così pericoloso il mio rientro: forse Silvia ha paura che mi arrabbi se fa un po' troppo fracasso ma, sinceramente, mi pare di non essere per niente severo in queste cose. Mi viene da sbattere le porte o accendere la radio per fare sentire che sono arrivato ma, per rispetto dell’ospite, non lo faccio.
L'unica cosa che vorrei è mangiare, ma mangiare da solo proprio non mi va e allora aspetto con un po' di impazienza e di malumore che la Lella – che non è neanche brava in matematica - tolga il disturbo.
Per non mangiare vado a rifugiarmi in camera mia e sfoglio la Stampa Sera che mi sono comprato per trovare un film da poter vedere con Silvia questa sera, sempre se ne ha tempo e voglia. Più che una scelta faccio una selezione per arrivare a proporre a Silvia tre o quattro titoli da scegliere che comunque a me vadano bene.
Scarto per parecchi motivi, il più ovvio che Silvia non ha diciott’anni, i film a luce rossa - mi segno però da parte "Cucù!" che è vietatissimo e di cui alcuni parlano come un vero capolavoro di erotismo ed altri come una porcheria senza capo né coda, e mi riprometto di andare a vedermelo per conto mio martedì prossimo, visto che Silvia dovrebbe cenare con i suoi compagni di scuola.
Scarto i film che non ho proprio voglia di vedere, quelli troppo sentimentali, quelli troppo idiotamente americani, quelli che danno troppo lontano da casa - e tra questi, con rimpianto, "Schema del massimo progetto per cambiare il regolare andamento dell'ordine delle cose, redatto e firmato dagli ingegneri Cavadori e figlio con l'alto patronato della Casa Cantonale di Portogruaro e del Ministero della Cultura e dello Spettacolo.": il titolo mi ispira, ma lo danno quasi all'imbocco dell'autostrada per Milano.

Con un ultimo prolungatissimo, trionfante nitrito la Lella toglie il disturbo e subito Silvia balza in camera mia arrestandosi subito appena mi vede: "Oh! Ciao!"
"Ciao.", rispondo ed intanto cerco di vedere che cosa mia figlia prova a nascondere dietro le spalle: alcune coppie di Men prese della mia libreria.
Incasso male il colpo. Mi alzo, gliele tolgo di mano mentre la ragazza guarda il pavimento di legno e senza una giustificazione, e le rimetto al loro posto.
Sbuffo perché non trovo parole neanch'io.
Silvia, cercando di non dare alla sua ritirata la parvenza di una vera fuga, ripara in cucina.
Bestemmio tra i denti, contro di lei, contro di me e contro la Lella.
Io a Silvia non ho mai vietato di leggere Men, PlayGirl e compagnia, ma non le ho mai permesso di farlo. Sono giornali che compro ogni tanto e li tengo un po' fuori mano nella mia libreria, ma certo non li metto sotto chiave. Che Silvia li sfogli non mi dà fastidio, non dico che siano una buona lettura per una ragazza, ma io credo che Silvia sia abbastanza matura da giudicare quello che legge, anche se molti se la caverebbero con un: "Lascia stare quelle porcherie."
Però, che ne rida con Lella, indirettamente mi umilia. Stupido io e stupida lei. E stupida la Lella!
Sospiro di nuovo: vorrei parlare con Silvia, ma mi rendo conto di non avere su queste cose né l'autorità di un padre né la comprensione di un amico.
Vado anch'io in cucina scoprendo che tanto non ho più appetito. Non so neanche perché dovrei rimproverare Silvia; dico solo un amaro e scocciato: "Pensavo studiaste...", al quale ovviamente non segue risposta.

A tavola non parliamo più dei sciagurati giornaletti, anzi non parliamo affatto: solo la radio accesa a basso volume per sentire meno il silenzio. Però, finito di mangiare e sparecchiato, Silvia no torna nella sua stanza ma si rimette seduta e non so se aspetta un mio sermoncino o è lei che vuol dire qualcosa.
Temporeggio qualche minuto poi, visto che lei aspetta a sua volta, rompo l'impasse e le chiedo se le va di andare al cinema: mi risponde molto in fretta e forse stupita di sì, che va benissimo, e alza verso di me due occhi ancora mortificatissimi.
Le mostro i miei quattro titoli: "Il cielo di Maggio", una vivace storia d'amore ambientata nella Germania di inizio secolo; "Piccolezza", anche se vietato ai minori di anni quattordici e parla della vita di una ragazza senza educazione che lotta per affermarsi contro tutti i pregiudizi di una società falsamente moderna e che finisce per sfigurare il proprio corpo con una bottiglia d'acido accusando la propria bellezza della colpa di non poter affermare le proprie capacità; "La rivolta di Faxitur", un'opera di fantascienza di cui non so molto, se non che deve presentare grandi effetti speciali e "Good Bye", un film musicale dei Floyd.
Silvia è indecisa, timorosa di contrariarmi di nuovo, ma alla fine si sbilancia e sceglie l'ultimo.
Io, a essere sincero, avrei preferito "Piccolezza", anche perché sulla locandina la protagonista si presenta in un costume da bagno aderente e bagnato e ha un corpicino niente male, proprio niente male.

Silvia indossa una minigonna nera un po’ troppo corta per uscire con me, calze nere spesse, scarpette con tacco appena un po’ alto, una maglia di cotone con strane scritte in inglese e, a coprire il tutto, un impermeabile grigio chiaro che era di sua madre e che, oltre ad essere fuori moda, per lei è troppo largo.
Anche a Lucia stava largo, ma non in modo così evidente: Silvia recupera qualche volta i vestiti di sua madre ed io non dico niente, o quasi niente, anche quando lo fa senza troppo gusto. Contenta lei, e poi i gusti dei giovani sono sempre particolari!
Al cinema andiamo a piedi anche se non è proprio vicinissimo.
Non piove, ma la strada è bagnata e nell'aria si respira un'umidità strana che odora insieme di ruggine e di muschio; e di pneumatici consumati sull'asfalto.
Tengo Silvia alla mia destra e lei cammina con la testa confusa di pensieri - o magari completamente vuota - lasciandosi guidare come una cieca da qualche leggera pressione sul braccio. Il ritmico ticchettio dei suoi tacchi e dei passetti che lei fa più corti dei miei e che non riusciamo mai ad armonizzare.
Quando si decide, si stringe più vicina e mi mormora a mezza voce: "Dovresti sculacciarmi!"
"Lo farei volentieri!", riconosco.
Una voce che non riconosco parla nel mio cervello e mi dice che Silvia non è più una bambina e subito un'altra confessa che per questo la sculaccerei ancora più volentieri.
"È anche colpa di Lella, ma più colpa mia che non so stare zitta!"
È arrabbiata davvero con se stessa, io invece adesso sono più tranquillo e vorrei che l'accaduto fosse dimenticato. Se Silvia ha delle colpe io ho anche le mie e allora voglio assolvere tutti.
Ma mia figlia insiste ed allora devo fare il burbero.
"Cos'è che non dovevi dire?", faccio più burbero che posso.
Alza le spalle, nervosa: "Lella parlava di ragazzi e di fare l'amore. Mi trattava come una che non sa niente!"
"E tu cosa sai?", domando sinceramente preoccupato.
Silvia mi guarda un attimo, un po' ride e arrossisce: "Una donna non deve mica passare da tanti letti per sapere..."
"Può anche leggerlo! Bisogna che metta i miei giornali sotto chiave: chissà cosa hai capito!" Scherzo e faccio la voce grossa, ma mi chiedo se Silvia si sta confessando o scherza anche lei.
Ma non lo scopro. Ha un fremito di malizia e sussurra: "Ma ormai è tardi!", ed io non so se si riferisce ai giornali o a se stessa.

È un bel cinema il "Genova": poltroncine verdi, comode e abbastanza spazio tra le file, così anche chi ama distendere le gambe può farlo senza rischiare di diventare un grande invalido se lo spettatore della fila davanti si muove di colpo.
La musica dei Floyd mi piace come sempre, la parte animata che l'accompagna invece mi delude: troppo presuntuosa e violenta in certi momenti, scontata e ripetitiva in altri, talvolta abbandonata a volgarità non giustificate dal testo delle canzoni la cui traduzione scorre troppo velocemente a fondo schermo. Molto spesso rinuncio a leggerla.
Cerco di distendermi mentre il ritmo fa vibrare l'aria e il corpo di Silvia, tutta in tensione, tutta posseduta dalla musica come da un folletto estroso e beffardo.
Mi guardo attorno: c'è abbastanza pubblico, moltissimi giovani, probabilmente studenti. Molti più ragazzi che ragazze che però, con le loro voci acute e stridenti anche quando parlano piano, sono le più fastidiose. Come Silvia quando è stata interrogata ed ha preso un bel voto e vuol raccontarmi tutto e subito, turbinosamente e senza prendere fiato.
Le sfioro i capelli e mia figlia, muovendosi piano da seduta, mi offre il collo. Mi pare di toccare un grosso gatto: me lo ricordano i movimenti sotto pelle della muscolatura, le pulsazioni del sangue nella musica.
Il profilo di Silvia nelle luci cangianti del film ha una precisione raffaellesca. Da madonna. Da principessina. Sembra pallidissima, ma è un effetto delle luci colorate e sempre cangianti che, dallo schermo, si riflettono sui volti e sui vestiti.
Gli occhi di Silvia si spalancano ad un attacco brusco e ad una nuova esplosione di luce. Senza fretta, come a rubare le sue sensazioni, dal collo le mie dita scorrono leggermente verso la spalla e, trovata la spallina del reggiseno, la respingono un poco. Allora Silvia si gira verso me e mi bacia cercando le labbra.

Nessun dubbio che Silvia avrebbe baciato chiunque si fosse trovato accanto a lei avesse con lei un po’ di affiatamento, però quel bacio giovane ed entusiasta mi lascia addosso una frizzante ebbrezza. Un sorso alla fontana della giovinezza.
Adesso torniamo a casa lentamente e Silvia quasi balla camminando e solo di tanto in tanto si ricorda di me e mi confida le sue impressioni senza ascoltare i miei commenti un po’ ironici. Uscendo dal cinema sta addirittura andando verso corso Marche - verso il negozio - invece che verso casa: "Silvia! Per di qua!"
Corre verso di me scodinzolando come un barboncino fedele e distratto, sempre felice di ascoltare la voce del padrone.
Poi scopre improvvisamente di essere stanca e si appoggia al mio braccio e alla mia spalla: "È stato bello!"
Sono d'accordo, è stata una bella serata.
Intanto, finalmente, posso appagare la voglia di una sigaretta che mi aveva colto improvvisa appena avevo notato sopra la biglietteria il cartello Si ricorda che in sala è vietato fumare.
Silvia prova a cantare in un inglese approssimativo anche per la mia conoscenza uno dei tanti ossessivi motivi del film ma, forse perché fatica a ritrovare le parole, va fuori ritmo e fuori melodia. Io mugolo in sottofondo la correzione, poi mi perdo anch'io, mi stufo e passo a mugolare il "Va pensiero".
Mia figlia mi guarda dal basso verso l'alto storcendo la testa con severa disapprovazione ma, dopo una breve lotta di mugolii, mi accompagna nel "Va pensiero" anche lei.
La tengo stretta con il braccio destro e con il sinistro guido il nostro muto coro notturno tra case buie ed addormentate. Riprendiamo tre volte il motivo in un esagerato crescendo finché, con un taglio orizzontale della mano tesa che forse ricorda più un karateca dilettante che un direttore d'orchestra, concludo il coro.
Peggio che due ubriachi, ma la musica è spesso una droga.
L'indomani mi sveglio con il cervello impappettato che pulsa degli ultimi rimbombi dei Floyd. Faccio un lungo sbadiglio che mi fa schioccare le mandibole e mi stiro nel letto afferrando la sveglia sul comodino e resistendo a fatica all'idea di sfracellarla contro il muro: sette e venticinque.
Silvia si è già alzata e sento scorrere l'acqua della doccia. Sorridendo penso a quanto consuma in acqua una figlia femmina.
Mi alzo, stiracchio, e quando mi affaccio in corridoio me la trovo davanti tutta nuda, solo le ciabatte ai piedi: "Urca! Niente male!"
Silvia non ha nulla con cui coprirsi se non le braccia: fa uno strilletto, una finta che quasi la fa cadere e corre nella sua stanza ridendo e schivandomi di giustezza. Niente male davanti e niente male di dietro: decisamente io e Lucia possiamo esserne fieri!
Entro in bagno a mia volta e sulla lavatrice, a mollo in una tinozza, c'è la camiciola da notte di Silvia: senza pensare la annuso ed ha un odore dolce.

Si è rivestita e viene a fare colazione.
"Mi sono fatta una doccia.", mi dice come a scusarsi, ma anche con un sorrisetto divertito e le guance arrossate.
"L'avevo capito. E se vuoi un'opinione maschile imparziale, hai una splendida carrozzeria."
Alza le sopracciglia, con una curiosa espressione di infantile e soddisfatta malizia: "Tipo lusso?"
Ci penso un attimo: "Tipo turbo-sport."
Scoppia a ridere: "Turbo-sport: mi piace! Grazie!"
Ride ancora e alla fine ritorna seria: "Non era un’opinione imparziale!"

Penso a Silvia, nuda come l'ho vista per un attimo.
Più magrolina di quanto credevo vedendola vestita: i seni ancora un po' acerbi che guardano verso l'alto, i capelli biondi sciolti e il sedere rotondo. La peluria castana del suo sesso, liscia e lucida come un moscone nel sole.
Penso al modo di vivere di Silvia accanto a me, senza annoiarmi e senza troppo annoiarsi.
Il suo stare con me: grazie a lei non mi sono mai sentito completamente solo, anche quando Lucia mi ha lasciato. Silvia è la mia casa e la mia famiglia, anche quando riusciamo a vederci appena la sera.
I segni della presenza di Silvia anche qua in negozio: l'adesivo di Paperino sulla porta della camera oscura; gli ingrandimenti sulla parete tutti rigorosamente scelti da lei - anche quello della foto di me e sua madre il giorno del nostro matrimonio e l'altro di lei a tre settimane avidamente attaccata al seno di Lucia; l'orologio che ho al polso e che ritarda cinque minuti al mese è un suo regalo; suo un gruppo rigoglioso e spinosissimo di piante grasse in un vaso di coccio innaturalmente spesso e pesante che mia figlia copre di cure, venendone ricompensata con minimi fiori viola e numerose punture. Ancora: tracce di lei sulle penne e sulle matite masticate profondamente. E i biglietti da mille su cui lei scrive piccolo piccolo sulla filigrana la data e un curioso geroglifico che dovrebbe rappresentare le sue iniziali - S e B - tortuosamente intrecciate.
Le rarissime volte che uno di quei biglietti torna indietro, Silvia va fuori di testa e vuole sapere tutto dallo sventurato possessore: su come lo ha avuto da chi e come e perché ...
Un cliente una volta ha creduto che Silvia lo stesse accusando di spacciare biglietti falsi e ho dovuto cercare di spiegargli la storia. Non mi ha creduto e ha per un attimo ha stretto i pugni, quasi li considerasse l'unico modo per convincermi delle sue ragioni. Poi, fortunatamente, ha preferito andarsene ma è finita che io ho perso un cliente.

Sabato tengo aperto il negozio solo mezza giornata e così ho il pomeriggio libero.
Silvia studia e non ha bisogno di me e allora mi rilasso e guardo alla televisione la replica di un incontro di pugilato che si è svolto la notte.
Finita la boxe mi ritempro delle fatiche della settimana con un bagno pigro, lungo e caldissimo.
Mi asciugo i capelli ed esco a fare una passeggiata lungo il Po, fino a dove era lo Zoo prima che lo chiudessero - quasi si sente ancora l'odore del fieno e degli animali - e al ritorno mi siedo sui gradini della Gran Madre e guardo piazza Vittorio: vecchia, sporca, vuota, tanto diversa da quella piazza pulsante di gente e di vita che conoscevo da ragazzo.
Pare di essere periferia o uno di quei piazzoni deserti dei paesi di campagna che si vanno spopolando: invece basta seguire il taglio dritto di via Po e si è al cuore di Torino - il cuore vero, quello storico, dove vanno i turisti. La foschia nasconde le montagne, ma io conosco la posizione di tutte e potrei muovere il dito sull'orizzonte e pronunciare i nomi di trenta vette senza sbagliare, come mi aveva insegnato mio padre.
Sul selciato due ragazze zingare chiedono soldi ai passanti ed una, la più minuta, guarda versa di me e, risalendo i gradini, mi raggiunge.
Capelli corvini e labbra sottili: chiede duecento lire per leggermi il mio destino sulla mano e io le porgo un biglietto da mille. Lo prende, ci sputa dentro, quasi le strappa, dice non so che maledizione, benedizione o formula magica e prende la mia mano con decisione, ne tasta le ossa come a cercare una frattura, la piega e la gira e intanto mi studia per non inventarsi niente di troppo evidentemente falso. Involontariamente sorrido e strizzo un po' l'occhio a questa ragazzina che forse è ancora più giovane di mia figlia.
La zingarella risponde al mio sorriso con un’ondulazione di tutto il corpo che pare promettere molto, ma io delle zingare non mi fido per principio e questa temo che abbia propositi più sul mio portafoglio che su di me.
"Allora?", la incito tra il curioso e l’annoiato.
I due occhi nerissimi scivolano come le sue dita leggere sulle righe della mia mano: "Tra dieci anni avrai una grosso disgrazia."
"Bell’inizio! Morirò?"
Io scherzo, e invece lei annuisce e, solo dopo aver premuto il mio palmo come se volesse rimodellarne i segni, aggiunge: "Ma sarai felice fino allora."
Grazie tante! Ho trentotto anni adesso, e trentotto e dieci fanno quarantotto, e quarantotto mi sembrano pochi.
"Sarai felice.", ripete la zingarella forse un po' pentita di avermi predetto la morte e, io anche se contro voglia, cerco di perdonarla e m'informo: "Felice come ora?"
"Di più. E avrai un amore grandissimo. Una donna che ti farà felice e ti amerà."
"E quando?"
"È nell'aria. Il suo amore ti sta intorno."
Con un brivido mi viene da pensare a Lucia, morta: "nell'aria".
Ma la zingara insiste: "Ti è già vicina. Sarai amato più di quanto meriti e di quanto tu sei capace di amare."
I suoi occhi adesso cominciano a sfuggirmi e anche la sua mano tiene la mia senza più interesse. Forse le mille lire per la lettura sono finite, ma insisto: "E morirà anche lei, con me?"
Studia ancora la mia mano, la risale verso il polso e il cinghietto dell'orologio, e intanto io penso che questo sulla mia mano non dovrebbe essere scritto, invece la zingarella mi risponde lo stesso: "Solo tu!"
Di nuovo grazie! Non ho proprio voglia di sentire altro, ma pure devo ancora sentire le ultime notizie: "Sarà lei a sceglierti e ti stupirà perché lei è più forte di te!"
Questa ragazza crea il mio destino con una facilità che mi mette a disagio.
"Cambierai città e ti cancellerai alle spalle il passato."
"E perché?"
"Dovrai farlo!", mi grida contro e davvero in quest'attimo mi pare di avere davanti una profetessa ispirata più che una zingarella che accattona e rubacchia per strada. Ma è solo un momento ed ecco che, invece, mi sembra che la ragazza stia per graffiarmi gli occhi per la rabbia della mia incredulità.
"E sarò ricco?", chiedo senza riuscire a frenare un mezzo sorriso.
"Non sarai ricco e non sarai povero. Sarai felice. È questo che dice la tua mano."

Di tutto quello che mi ha predetto la zingara mi resta nel cranio soprattutto l'eco sgradevole della mia morte annunciata.
Rientro: nella sua stanza Silvia studia e risponde distrattamente al mio saluto. Vado a sdraiarmi sul mio letto e fisso il soffitto. Respiro con forza.
Ho un bel non crederci, ma l'idea di non arrivare ai cinquant’anni mi dispiace. Il mio obiettivo minimo è almeno sessantacinque e una volta arrivato credo di poter guardar oltre di almeno altri venti anni.
Invece non vedrò il duemila; e ho pagato mille lire per rovinarmi la giornata.
Se ne davo solo cinquecento morivo entro l'anno?

Trito tutti i rimasugli della settimana - carne, verdura, anche le due famose uova sode che nessuno ha poi mangiato - ed impasto con molto olio e sale quella che a casa mia è sempre stata chiamata "l'insalata degli avanzi". È praticamente pronta quando Silvia viene a dare un'occhiata in cucina e a prendere un buon assaggio direttamente con le dita.
"Manca qualcosa?", chiedo in leggera apprensione.
"No. Va benissimo.", e la conferma è che ne pinza ancora.
"Guarda che è per questa sera.", la avverto prima che le sue dita affondino una terza volta.
Mia figlia annuisce e si lecca le dita con disinvoltura, poi ci ripensa e le passa anche velocemente sotto l'acqua.
Mi pare che abbia parte della testa ancora nella sua stanza sui libri e mi informo cautamente: "Come va lo studio?"
"Merda!"
Traduco: "Matematica?"
"Sì, matematica!"
Pare debba bollire e traboccare invece si acquieta: "Inglese invece lo capisco. Anche le canzoni ieri sera le capivo. Quasi tutto!"
Sospiro: io invece mi sono fiaccato gli occhi sulla traduzione a fondo schermo e adesso me li sento secchi ed affaticati. Ma possibile che nessuno canti più in italiano in questo mondo porco e anglofonico?

Domenica della suocera, ovvero di nonna Lea.
Per l'occasione ho messo la mia giacca più bella ed una cravatta sobria che mi aveva regalato Lucia per qualcuno dei miei compleanni e con la consulenza di mia suocera stessa; Silvia porta un tailleur blu classico con la gonna stretta che le scopre le ginocchia solo quando si siede.
Basta chiuda ancora un bottone alla camicetta e sarà costumatissima anche per i criteri della severa matrona, indurita più che dall'età - in fondo non deve essere molto oltre la sessantina: io non sforzo il mio cervello a contare i suoi anni - da un rigoroso lutto ventennale per la sua vedovanza.
Parlandole insieme pare proprio che la morte del "povero Luca" sia recentissima, molto più di quella di Lucia, anzi di Lucia mi parla come se fosse ancora viva, usando sempre i tempi presenti: "Lucia è una brava ragazza ma ha la testa un po' strana…"
A volte . in cucina Lucia sempre meglio non farla entrare!> e io sorrido e quasi mi lascio prendere da un'atmosfera fuori dal tempo, dove realtà e ricordi si confondono e quasi credo davvero che Lucia ci sia ancora, viva, accanto a me o si sia allontanata, ma solo un attimo, e stia per ritornare e a posarmi un bacio sulla fronte.

Eccoci dunque. Bacio la guancia austera e impolverata di cipria di mia suocera: potrei dirle che da quando la conosco non è affatto invecchiata, ma non è il tipo che apprezza le galanterie e mi risponderebbe che io invece perdo i capelli e li imbianco o che mi vengono le rughe.
L'unico segno sulla sua pelle del passaggio del tempo è un progressivo incartapecorirsi e inaridirsi che la cipria non nasconde più.
Allunga appena la mano per toccare la fronte di Silvia dopo che la ragazza l'ha baciata a sua volta e pare la benedica. Mia suocera ha la solennità di una sacerdotessa in certi momenti e mi intimidisce; mia figlia è più a suo agio e si accoccola con disinvoltura su una poltroncina di velluto violaceo che starebbe bene nelle poesie di Gozzano.
Mi informo con cautela della salute: "Sto bene. Grazie."
Beata lei: se la zingara ha ragione certamente mia suocera mi seppellirà.
Ora se ne sta impassibile, rigida e dura, prigioniera di un busto medioevale: ma la conosco abbastanza per capire, per leggerle negli occhi, che è felice di vederci.
In fondo ora non dispiace neanche a me essere con lei che, a suo modo è una donna meravigliosa e di una nobiltà di cuore antica: le chiedessi il sangue per me o per Silvia non esiterebbe un attimo, ma se le offrissi due miliardi per vederla sorridere non sorriderebbe.
Nonna Lea ha preparato un pranzo coi fiocchi a cui mia figlia ed io facciamo ottima accoglienza. Indimenticabile il tacchino farcito che ci porta di secondo. Chiacchieriamo e scherziamo nel limite del possibile e passa abbastanza bene anche un "Porcaccia Eva!" sfuggito a alla bocca piena di Silvia che poi quasi si strozza nel colpo di tosse in cui cerca di confonderlo.
O mia suocera si fa più tollerante o diventa sorda. Probabile la seconda ipotesi.
Le ricordo quando le ho chiesto la mano di Lucia: "Cercavo di stare calmo, di non dire una sola parola che non fosse sbagliata. E poi mi sono accorto - mentre raccontavo che ero un bravo ragazzo e che facevo un lavoro onesto - di una macchietta sui miei pantaloni. Una righetta nera e sottile di un centimetro e mezzo a metà coscia che forse mi ero fatto in automobile, toccando la portiera o chissà come. Ho sentito quel graffietto come uno sfregio e mi pareva che anche lei guardasse fisso quella righetta come fosse un marchio di infamia. Non sapevo come coprirla: accavallare le gambe mi pareva troppo sfacciato. Cercavo di nasconderla con le mani, ma mi sentivo impacciato."
"Lo eri. - conferma mia suocera senza neanche durezza - Però io non ho notato quella macchia e, tutto sommato mi aspettavo che Lucia mi presentasse uno molto peggio di te. Quella è stata l'unica volta in tutta la mia vita che ti ho visto sbarbato come Dio comanda. Perfino il giorno in cui ti sei sposato avevi un paio di peletti avanzati sul pomo d'Adamo!"
Involontariamente mi passo la mano sul mento e qua e là sento pungere; guardo Silvia e, anche se resta zitta, mi pare che si diverta molto alle mie spalle.
Non mi importa e rivivo i miei ricordi: il discorso per presentarmi a mia suocera l'avevo preparato e ripetuto a Lucia il giorno prima per almeno venti volte: come Silvia allora avevo bisogno di recitare ad alta voce per imparare. La settimana dopo avevo un tragico torcicollo, perché, quando sono teso, mi suda il collo e allora il primo colpo d'aria - zac! - mi frega.

Guardo il giardino da dietro le tendine bianche che odorano nello stesso tempo, curiosamente, sia di polvere che di pulito: molto regolarissimo verde con pochi fiori.
Ora è Silvia che parla con la nonna: sono quei momenti in cui io sarei di troppo; il mio posto è qui, in disparte a mezza distanza, a guardare dalla finestra. Penso alle frasi banali che posso dire per ricordare loro che esisto: "Pare che in giardino la primavera sia già arrivata!" ed invece, giustamente, non dico niente.
La vecchia pendola batte le tre - in vita mia non ho mai visto una pendola più sobria, senza alcun fregio se non una doppia "X" sui vetri della sua cassa.
Le partite di calcio sono iniziate da mezz'ora: una scusa e potrei raggiungere l'automobile e sentire almeno i risultati.
Guardo nonna Lia e mia figlia, le due teste vicine, quasi immobile quella bianca, irrequieta quella più piccola e bionda. Pare si confidino segreti o complottino insieme; un'intimità fra donne che, morta sua madre, credo assuma per Silvia una grande importanza. Un'intimità che con Claudia non avrebbe mai potuto realizzare: i capelli rossi di Claudia e quelli biondi di Silvia si sarebbero respinti come cariche elettriche dello stesso segno. Sorrido amaro: e poi mia suocera non mi avrebbe mai perdonato un nuovo matrimonio.
Mi avrebbe fulminato!
Rinuncio al campionato e vado sul balcone a fumare. Intravedo tra nuvole di vapore, chilometri di colline e di campi in leggera ondulazione. La splendida desolazione delle culture rigogliose.
Mi osservo sul palmo della mano la ferita ormai rimarginata ma ancora fastidiosa, e devo resistere al desiderio doloroso di darle una violenta grattata. Mia suocera l'ha notata subito appena ci ha salutati: nulla sfugge!
Per strada un tipo che passa - curioso come tutti quelli che vivono in un paese - mi osserva insistente più volte, fin quando faccio un cenno di saluto.
"Bella giornata!", dice accennando verso i prati.
"Bella giornata.", rispondo.

Passa una mezz'ora e Silvia e nonna Lia mi raggiungono sul terrazzino dove mi sono un perso dietro a ricordi e pensieri.
Silvia sta bene qui e lo dice, io starei volentieri altrove, ma non lo posso dire. Rispetto ed ammiro mia suocera ma non l'ho mai amata, forse perché era il feroce Baù-Baù che tormentava e limitava i miei primi amori con Lucia – "Devo tornare a casa per le sette: se no mamma non mi lascia più uscire per tutto l'anno!" - e, dopo sposati, perché era "suocera": Dio mio! quanto era maledettamente "suocera"!

Silvia e nonna Lia adesso parlano di lavori a maglia e ricami ed è un discorso che sono nuovamente libero di sentire e non seguire.
Mi annoio e come spesso mi succede quando mi annoio mi vengono pensieri strani e mi viene voglia di una donna. I grandi appetiti sessuali caratterizzano chi non ha altri pensieri da farsi girare per la testa.
Passa il tempo e comincio ad avercela sia con mia suocera che con mia figlia. Ma è un malumore senza basi che si scioglie e mi fa ritornare il sorriso appena capisco che si avvicina il momento dei saluti.
Sono le 18 e 30: ultimi sbaciucchiamenti prima di salire in automobile; speravo proprio di partire prima. Silvia si ferma ancora un attimo con sua nonna e devo dare un colpetto di clacson per deciderla. Decisamente oggi Silvia ha voglia di chiacchierare ed anche a bordo ciaccola a tutto gas mentre io cerco di sentire alla radio i risultati delle partite. Fiorentina e Sampdoria hanno pareggiato, il Como a sorpresa ha vinto a Milano. Finalmente so anche il risultato della Juventus: 3 a 1, tutto nel secondo tempo.
"Sono contenta!", dice Silvia e lo sono anche io.
Un motociclista mi va a zig zag davanti cercando di trovare varchi nel traffico, mentre rientriamo in città. Quasi lo ci tocchiamo.
"<Un bel ragazzo!", osserva Silvia.
Guardo dubbioso il giaccone colore carota sporco di fango che si gonfia nel vento: "Ed elegante!", aggiungo.

Appena rientriamo in casa Silvia, più per me che per se stessa, accende il televisore. Così, sorseggiando qualche bicchiere di latte e dividendoci a metà una mela ci vediamo tutti i gol della domenica. Fame non ne abbiamo: abbiamo mangiato a mezzogiorno abbastanza per sopravvivere l'intera settimana.
Nella pausa tra la serie "A" e la serie "B" mi distraggo un attimo per cancellare i bianchi baffetti lasciati dal latte sulle labbra di mia figlia. Lei lascia fare, poi si torce indietro e allunga come una gatta e mi bacia. Potrebbe graffiarmi a sangue con la stessa facilità. Unghie perfette, come i denti, come gli occhi. Unghie piccole, curate ma senza tinta. E i suoi piedi nudi, piccoli e bianchi. Ogni tanto cambia posizione: i movimenti istintivi degli animali che, scelto il posto dove dormire, si rigirano per appiattire l'erba del loro giaciglio.
Mi guarda finché la guardo a mia volta: "Dovrei studiare."
"Cosa?"
"Italiano."
Io non consiglio niente, lascio a lei decidere.
"Non ho voglia. E poi è ancora domenica!"

Nove e dieci del mattino: da mesi non dormivo così. Mi sollevo a fatica e tendo la schiena segnata dalle pieghe del lenzuolo. Non ho neanche sentito mia figlia prepararsi ed uscire per andare a scuola.
Abbozzo due inutili esercizi ginnici stiracchiandomi: quasi quasi mi rimetterei giù a dormire. Un malinteso senso del dovere mi spinge invece sotto la doccia.
"Sveglia! Sveglia!", mi ripeto e poi canticchio un vecchio motivo che oggi, chissà perché, mi gira in testa.
Dopo la doccia mi sento più scontento e meno sveglio di prima. Riempio la bocca d'acqua e la risputo nel lavandino raschiando in gola. Due volte. Grumi di catarro. Un sole ironico traccia precise geometrie sulle mattonelle del pavimento. Mi rado e faccio una colazione leggera.
Apro le finestre: nonostante il sole, l'aria mi fa rabbrividire.
A mollo in un catino le calze e un paio di mutandine azzurre di mia figlia; in un altro due mie camicie. Odio le mie camicie!

Il lattaio oggi prova a chiacchierare: "Le ho tenuto il latte da parte: due litri vero?"
Anche sua moglie dalla compatta criniera corvina che, nonostante i cinquant’anni, non è oltraggiata da nessun capello bianco, esce dal retro bottega per chiedermi di Silvia: loro non hanno figli e si interessano di quelli degli altri. Volevano adottarne uno, ma gli hanno messo contro tante di quelle difficoltà che alla fine hanno lasciato perdere: "Non siamo più tanto giovani e non potevamo aspettare cinque o dieci anni ancora ..."
Il lattaio mi ricorda che da giovane lavorava in Libia e, malgrado Gheddafi gli abbia portato via la casa, ha lo stesso riportato in Italia abbastanza da aprirsi il negozio: "Ha letto i giornali? Gli abbiamo fatto strade, ospedali, scuole dove c'era solo sabbia ed adesso ci trattano come ladri! Ma lo sa come lavoravamo io e mio padre in Africa? Altro che quei beduini!"
Annuisco e penso che comunque adesso si riposa abbastanza. E beve. Non solo latte.
Gli prende la malinconia: "Ma mi chiedo: per cosa lavoro io? Per chi lavoro? Per qualche parente che è già più ricco di me e per lo stato! Ci pensa? Per lo Stato!"
Mi fissa negli occhi e per un attimo temo di avere di fronte un folle. Poi gli occhi si spengono: "Ma se non lavoro che faccio?"
Io ho Silvia. Ho perso Lucia, ma ho Silvia.
L'isolato dopo, dal panettiere, oltre al pane prendo tre etti di paste dolci: non è nessuna festa, ma ogni tanto si può festeggiare lo stesso. Prendo anche una bottiglia di spumante e una di Martini.

Dopo il mio negozio di apparecchiature fotografiche e quello del mio vicino formaggiaio, proseguendo per via Verdi, ci sono un portone civile ed una cartoleria.
Il gestore della cartoleria è un fiorentino magro e secco, di cinquantatré anni, scapolo, di cui non posso dire nulla di male perché lo conosco troppo poco.
Sabato sera l'hanno rapinato.
"Quattrocentomila! - mi informa il formaggiaio storcendo la bocca con disgusto - Neanche quattrocentomila: chissà cosa speravano di trovare da quel poveraccio!"
In effetti è un negozietto quasi sempre vuoto: poco il bottino, ma pochi anche i rischi. Se andavano dal mio vicino, o anche da me, facevano più soldi, ma c’era il rischio che arrivasse gente o che noi reagissimo.
Dunque: sono entrati in due lasciando un complice fuori - il portinaio dello stabile vicino - l'ha visto e giura che potrebbe riconoscerlo. Hanno puntato due pistoloni sulla faccia del cartolaio, gli hanno fatto aprire la cassa, gliel'hanno svuotata e hanno provato a stordirlo con un colpaccio alla testa. Lui non è svenuto e, terrorizzato, si è messo a strillare come un'aquila. O come un corvetto. Hanno provato a farlo tacere a botte e gli hanno rifilato ancora due colpi in faccia, poi sono scappati.
"Gli è andata bene: potevano ammazzarlo! Comunque è in ospedale con uno zigomo rotto e il cranio bendato come una mummia..."
Quattrocentomila lire in tre: poco più di cento a testa. Mi sembra poco per rischiare la pellaccia e la galera. E per mandare all’ospedale un poveraccio.
Il macellaio ripete la stessa frase che ha detto quando ci hanno pitturato la serranda: "Bisognerebbe impiccarli quei bastardi!"
A me basterebbe finissero in galera e che in galera li facessero lavorare. Come muratori. Come contadini. Asfaltare strade! Invece sono io che lavoro per pagargli il televisore ed il campo di calcio.
Il macellaio impreca ancora: "Ti entrano nel negozio e ti fregano un mese di lavoro!"
Quattro anni fa hanno rapinato anche me: pochi soldi e due macchine fotografiche. Pochi soldi perché i soldi li tengo nascosti in un cassetto del retro bottega, però mi avevano anche rotto una vetrina, sparando alla cieca un colpo a mezza altezza mentre fuggivano. Due balordi che avevano più paura di me che pure non riuscivo ad evitare che i denti della mascella inferiore sbattessero contro quella superiore.
Non avevo denunciato il furto, non ne avevo neanche parlato a Silvia.
Ma, quando ti derubano, la rabbia che uno si sente dentro, l'odio e l'impotenza di avere giustizia, sono la cosa peggiore.

Il ragazzino deve avere tredici o quattordici anni e suo padre se lo cova ad occhi socchiusi. Gli mostro tre proiettori parlandogli come a un cliente adulto, per la gioia sua e del padre. Però, quando sceglie, è al genitore che dico il prezzo: "Quattrocentottantamila."
L'uomo annuisce e, senza più sorridere, cerca il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.
Il ragazzino mi diverte: sottile, riccioli rossicci e cortissimi, naso schiacciato, sopracciglia più scure dei capelli, labbra spesse ma anemiche, denti superiori irregolari - non storti, ma tutti di dimensioni diverse.
Bruttino, ma simpatico.
Con Lucia volevamo due figli, un maschio e una femmina. Silvia era arrivata subito, prima ancora di quando avevamo preventivato, mentre il maschietto era rimasto in cantiere: "Il nostro erede!", scherzavamo parlandone come di un re mentre, nei nostri discorsi sognanti, Silvia era "La principessina".
Io volevo un figlio a cui insegnare tutto quello che mio padre e la vita avevano insegnato a me. E invece una malattia mi rubato Lucia e tutti i sogni che avevamo fatto insieme.

"Allora, ometto, tutto bene?".
Fa segno di sì, ma capisco che non gli piace essere chiamato ometto ed infatti ha un nome: Matteo. A me, però, il nome Matteo non piace.
Con faticosa lentezza suo padre mi prepara un assegno. Immaginavo mi pagasse in contanti, ma i soldi sono sempre soldi, in qualunque forma si presentino.
"Quatt-ro-cen-tot-tanta-mi-la-a."
Intanto rimetto il proiettore nel suo imballaggio spiegando a Matteo che mi sorveglia curioso: "Questo è il libretto delle istruzioni: inglese, francese, tedesco, spagnolo ed italiano - Qui! Hai visto?- e questa è la garanzia. Io la timbro e, appena a casa, voi la spedite. Probabilmente non servirà: questa è una buona marca e non ha mai dato problemi ... finora! Foste i primi, c'è la garanzia."
Guardo l'assegno: è scritto con la calligrafia lenta di un bambino delle elementari, di un uomo che con la penna ha ben poca dimestichezza. E, adesso, mi guarda preoccupato e quasi temendo un rimprovero.

"Sette all'otto di disegno!"
Poso un bacio sui capelli biondi: "Brava! E cosa hai disegnato?"
Silvia ride come se avessi fatto una battuta: "Era un tema libero: ho fatto dei fiori con gli steli lunghissimi che si avvinghiavano l'uno sull'altro. Era un po' surreale ma bello!"
Fa un mezzo giro con l'intenzione di lasciarmi e andare nella sua stanza a cambiarsi e invece torna indietro improvvisamente accigliata: "Giovedì sono interrogata di filosofia: con la Bigiotti."
Senza vero motivo commento: "La filosofia non è per le donne. Non dovrebbero spiegarvela!"
Adesso che scherzo Silvia mi prende sul serio e si impunta dardeggiandomi un'occhiata sospettosa e aggressiva: "E perché no? Perché?"
"Struttura del cervello, infatti tra i filosofi non c'è nessuna donna. Come tra i matematici."
Silvia alza una spalla e invece di tornare nella sua stanza comincia a mettere i piatti in tavola: "A me filosofia piace abbastanza."
"Perché sei una pervertita!"
Si ferma a guardarmi con le sopracciglia più sollevate del solito e, probabilmente, pensa qualcosa che non dice. Poi si china a prendere il poggia-pentole: "Può darsi!", borbotta a mezza voce.
Io metto i bicchieri e la bottiglia del vino, poi mi siedo e sfoglio il giornale fino alla pagina sportiva e qui leggo tutto della Juventus e, per opposti motivi, della Roma. Leggo i risultati della serie B, quelli della pallacanestro e infine passo agli spettacoli: "È domani che vai a mangiare la pizza con i tuoi amici, vero?"
"Con i miei compagni di scuola. Anzi: con le mie compagne perché come al solito saremo quasi tutte ragazze!"
Assaggia con cautela un filo di pasta per vedere se è cotta: lo è ed allora la scola: "Ci troviamo alle sei, prima però vado da Maria con Lella e Giorgio."
Questo Giorgio l'ho visto una volta: magro, pallido, capelli lunghi di un biondastro opaco, profilo affilato. Pareva uno di quelli che se ne fregano di tutto e che, quasi fatalmente, vanno forte con le ragazze.
Però, dopo qualche tempo, ho scoperto che quando parla balbetta, e si impappina sibilando ridicolamente con le esse e, anche se è tra i migliori studenti della sua classe, il fatale e pericoloso seduttore hippy ha perso molto interesse anche ai miei occhi.
Aggiungo mezzo pomodoro alla mia pasta e cerco idee per la serata di domani, senza figlia tra i piedi.

Partita a carte serale, visto che nulla ci interessa alla TV. Briscola: per me e mia figlia esiste quasi solo la briscola come gioco di carte, rari i casi in cui giochiamo a scopa o scopone, rarissimi quelli in cui giochiamo a scala quaranta, poker o ad altri giochi.
Qualche partita a scacchi quando capita, ma raramente perché sono troppo superiore e non c’è partita, modestia a parte. Un paio di volte ho giocato regalando a mia figlia un vantaggio di un pezzo (un cavallo, ma anche una torre) eppure ho vinto lo stesso. Non devo fare molta fatica: mi metto in agguato e Silvia una mossa distratta la fa sempre.
Alla radio ascoltiamo un pezzo d'opera che mi pare familiare, ma che non riesco a riconoscere. Prima mi sembra "Il Barbiere di Siviglia" - poi mi convinco che non lo è.
"Comunque è Puccini."
Silvia non sa neanche lei riconoscere che opera sia, ma non mi crede. Battibecchiamo e, intanto, giochiamo carichi e briscole. Mia figlia ci mette un po' più di attenzione di me ed è anche più fortunata.
"Ma Il Barbiere non è di Rossini?", mi fa all'improvviso.
Devo riconoscere che vacillo un attimo, ma mi riprendo con classe e indifferenza: "Certo. Ma questo è Puccini!"
Rossini? Già, proprio Rossini! Fingo di concentrarmi sul gioco per lasciar cadere il discorso ma, a dire il vero, penso proprio che oramai Silvia sia irraggiungibile.
Ricorro al vecchio artificio scaramantico di far fare un giro su se stessa alla mia sedia. Silvia sghignazza e mi consiglia di gettare anche un pizzico di sale dietro le spalle: "Se vuoi ti metto dietro la pentola per la pasta di domani, così il sale non va neanche sciupato..."
Non reagisco: ogni tanto mia figlia mi accusa più o meno velatamente di tirchieria - o almeno di eccessiva parsimonia - ma, lo dico con la mano sul cuore, mi sembra un accusa che non regge né in cielo né in terra.
Sedia o non sedia le carte non mi arrivano o continuano ad arrivare al momento sbagliato.
L'unica soddisfazione me la dà la radio: era la Turandot. Di Puccini, ovviamente.
"Non ci avrei scommesso un soldo!", ammetto tra i denti.
Silvia vince una nuova mano e smettiamo. Non mi chiede neanche se voglio la rivincita - infatti non la voglio: non insisto mai quando perdo - e allora ritira le carte. Lo fa automaticamente, con la testa altrove. La vittoria non l'ha affatto soddisfatta.
"Sei giù di corda?"
Mi guarda e cerca un sorriso senza convinzione: "No! Non particolarmente!"
Viene a sedermi sulle ginocchia come fa ogni tanto ma si rialza subito, lasciandomi deluso: "Vuoi una camomilla, Papà?"
"Se tu la prendi..."
Mette a scaldare l'acqua. Chissà perché invece che una camomilla prepara un the-tisana alla menta e alla cannella: preferivo una camomilla, ma mi bevo lo stesso senza protestare la tazza piena a metà dell'intruglio che Silvia mi mette davanti.
È rovente, adorabilmente rovente e il sapore è leggermente amaro. Appoggio la mia gamba a quella di mia figlia che si difende con un paio di calcetti: le sue ciabattine hanno la punta molle ed è lei ad esclamare un piccolo "Ahi!" ed a mettersi a ridere.
Poi ritorna seria: "Cosa fai domani sera senza di me?"
Non è una domanda innocente e sento che sotto c'è una piccola possibile crisi come quando sono andato con Corinne. Mi sento quasi sotto accusa, ma non posso che rispondere la verità: "Non lo so. Forse andrò al cinema."

Mai fare progetti.
L'imprevisto è piacevole e arriva in negozio a metà mattino, l'indomani: abbronzatura da sole di montagna su una pelle già abbondantemente tostata alla lampada oltre che scura di natura; vita sottile evidenziata da una spessa fascia argentea che riecheggia il nastrino sottile che avvolge il collo in due spire, capelli tiziano con qualche ricciolo curatamente disordinato.
Carla, come al solito, non si può accusare di banalità.
È in perfetta forma, molto meglio di quando l'ho vista - saranno tre settimane - l'ultima volta, alle prese con qualche dolore alla schiena.
Fa un po' la misteriosa, la donna che ha un segreto, ma non la prendo molto sul serio. Penso semplicemente e stupidamente che ha voglia di andare a letto con un uomo ed ha pensato a me; e io trovo che le sensazioni che ho provato vedendola sono molto simili. Carla è sempre desiderabile e io la desidero subito, anche se con la tranquilla pazienza con cui si può desiderare quanto si conosce ormai molto bene.
Mentre mi bacia noto che ha cambiato il suo profumo solito con uno più simile alla pura e semplice acqua di colonia.
"Ho provato a telefonarti la settimana scorsa.", dico dopo qualche complimento e un bacio a cui lei mi ha concesso un po' ostentatamente solo la guancia, una mossa che le è solita per difendere il rossetto e non per freddezza.
"Non c'ero."
"Infatti non hai risposto!"
Non è una battuta e meno che mai un rimprovero: non ho nessun diritto su di lei.
Claudia guarda alcune foto che ho sul banco, poi le ripone senza interesse. Non si cura di rispondermi e non mi aspetto che lo faccia.
"Sei bellissima.", le ripeto. È il solito approccio banale, ma Carla l’accetta con uno strano imbarazzo che mi stupisce: in fondo è un’adulazione che le ho ripetuto decine di volte in decine di altre occasioni e che ha sempre gradito.
Decido di seguire la classica strategia del maschio che tenta la femmina: "Hai impegni per questa sera?"
"È un invito?"
Nella sua voce ritrovo un tocco d'ironia familiare e mi riconforto: "Certamente! Ti va di cenare insieme?"
"Se è solo una cena tra amici non posso rifiutare!"
Non capisco cosa voglia dire, ma accetto credendo che scherzi: "Va bene anche una cena tra amici. Tra noi due!"
Riprende le foto e le fa scorrere senza guardarle, quasi fossero carte da gioco: "C'è una cosa che devo dirti."
Cerco di immaginare cosa possa essere e intanto aspetto che continui. Non lo fa e mi indispettisco un attimo: "Allora?"
"Te la racconto questa sera."
Ha tutta l'aria di essere un problema sentimentale però, immagino, se Carla si diverte a tenermi sulle spine non deve essere un problema che pensa mi contrari troppo.
"E Silvia?"
Cosa c'entra Silvia, adesso?
"Sta bene, scuola a parte: i soliti problemi in matematica. Anzi: problemi peggio dei soliti in matematica..."
"Porta anche lei questa sera!"
Questa uscita non me l'aspettavo: ho sempre tenuto separati i due universi femminili di Claudia e Silvia, escluso il breve periodo in cui ho pensato, senza esserne convinto, di poterla sposare. Claudia lo sa e sa che a Silvia non sarà mai simpatica e le rogne di solito non se le va a cercare. L'idea che Claudia stia ripartendo all'assalto di una fede nuziale mi pare francamente improbabile. E allora non capisco.
"Oggi Silvia va a una cena con i suoi compagni di scuola. La solita pizza di classe."
Claudia annuisce: "E poi non mi vedrebbe volentieri..."
Infatti, proprio non volenteri.
"Ce l'ha già qualche maschietto con cui fila?"
Corrugo la fronte e Claudia si mette a ridere come per cancellare subito lo domanda con altri discorsi: "Non è a te che devo chiederlo! I genitori sono sempre gli ultimi a sapere!"
Forse è vero. Con una strana soddisfazione penso all'antipatia reciproca di Silvia e Claudia.
E alle loro cattiverie di donne.
Cerco di tagliare il discorso anche perché è entrato un cliente e Claudia è sempre di fretta e sempre di passaggio: "Passo a prenderti verso le sette. Mi hai fatto preoccupare!"
Sorride, ma di nuovo senza spontaneità: "Non è niente di terribile, forse te lo aspetti! Ma adesso ti lascio lavorare."
"Mi resterà la cena nello stomaco?", m'informo.
I suoi occhi dardeggiano, quasi con un velo umido: "Può darsi!"
La guardo: capire i pensieri della Monna Lisa leonardesca sarebbe più facile. Forse Claudia ha solo voglia di divertirsi, di prendermi in giro. Però oggi è strana e mi sembra di non conoscerla, ammesso che si possa in qualche modo conoscere quali pensieri turbinano in una testa femminile.

La tavola calda è piena di gente, anche alcune studentesse che non reagiscono se non con risatine mal soffocate e tanta allegria a qualche maldestro, ma non eccessivo complimento degli operai che fanno i lavori in via Rossetti.
Io ho i miei pensieri e poco appetito.
Mi sento solo, triste di mangiare da solo e di lavorare da solo.
Prendo un caffè dalla macchinetta a gettoni e faccio girare a lungo nel bicchiere il cucchiaino di plastica, amalgamando zucchero e polverine.
Alla fine il caffè è freddo e non lo bevo neppure.
Silvia lo aveva avvertito che mi prendeva la malinconia, eppure non ho fastidi di nessun genere e, oggi che mi manca la figlia, ho subito Claudia che viene a rimpiazzarla.
Una volta ho dovuto lasciare Silvia da sola per una settimana, nel periodo quando è morto mio padre. Quando sono tornato mia figlia ha detto senza voglia di scherzare: "Da sola mi sento un frigorifero." - Un oggetto qualsiasi: perdessi Silvia, io non sarei proprio più niente.
Meno di una mattonella sul pavimento del balcone.

Vado a sedermi venti minuti nel giardinetto dove l'ho portata alcune volte a giocare da piccola e dove passo sempre senza fermarmi. Il prato ha meno erba di allora, però ci hanno aggiunto una fontana e, purtroppo, ci sono troppi cani e molte tracce del loro passaggio.
Ragazzini di terza o quarta elementare pedalano furiosamente salendo e scendendo da una collinetta artificiale e mi aspetto ad ogni istante di vederne uno cadere e rompersi la testa. Il magico, provvidente spirito che veglia sui bambini, li salva infinite volte da atroci capitomboli. Poi uno cade, ma lo spirito è attento e lo dirotta sull'erba: una capriola ed il marmocchio rimbalza in sella urlando fortissimo il suo entusiasmo. Io l'avevo visto spacciato e sono schizzato in piedi: invece niente, incolume e intatto. Mi risiedo, tremando un poco.
Con Lucia da fidanzati qualche gita in bicicletta l'abbiamo fatta: Silvia invece non ha voluto imparare, l'unica volta in vita sua che io ricordi in cui la paura l'ha fatta impuntare in un rifiuto ostinato e invincibile; forse perché soffre di vertigini, povera ragazza.
Sperimentato drammaticamente il problema quando l'ho portata sul Duomo di Milano: pallida come un cencio, cinque minuti e l'ho riportata a terra. Con l'addetto agli ascensori che fingeva comprensione, ma ghignava come un sadico.

Dalla porta del negozio guardo la gente per strada; quando passa una ragazza le guardo le gambe e i fianchi mentre camminano. Una diciottenne bionda, anzi castana ma bionda nei riflessi del sole sui capelli, mi ricambia lo sguardo, mi sorride e poi, mentre si allontana, si gira due volte e sorride di nuovo, ma senza tornare indietro o rispondere ad un mio mezzo gesto di saluto e di invito.
Peccato.
Entra una coppia di mezza età che vuole un binocolo da mare.
"Da marina", dice lei.
"Da mare, non da marina!" precisa lui, cioè – mi spiega - da usare sulla spiaggia o sul molo, non da una barca.
I prezzi fanno protestare la signora: "Allo Standa ne ho visti da trentamila!"
Ho un sobbalzo e mi arrabbio davvero: "Con le lenti di plastica che le fanno vedere a colori anche quello che è in bianco e nero! Questi sono calibrati con lenti triple compensate e calibrate. Provi quelli dello Standa ed i miei e vedrà perché il prezzo e diverso!"
L'uomo mi dà ragione e lo prendo in simpatia. Però non comprano e mi lasciano dicendo che vogliono ancora pensarci. Immagino che non li vedrò più e che si accontenteranno delle lenti di plastica; e fanno bene: per andare sulla spiaggia con i bambini, un binocolo da trentamila lire è anche troppo.

"E allora, il grande mistero?"
Carla mangia a piccoli bocconi masticati con cura e mi guarda con un'espressione che non saprei se definire ironica o timida. Ha un vestito vivace dalla scollatura stretta ma galeotta sul petto.
Infilo lo sguardo e spero che, procedendo la cena e procedendo la serata, quella piccola insenatura si apra in un mare pescoso.
"E allora?", insisto e incrocio le posate sul piatto visto che ho finito l'antipasto prima di lei e che mi è piaciuto.
Si pulisce le labbra con un tocco del tovagliolo: "Ho paura che tu la prenda male."
"L'ho già presa male!", scherzo.
Fa girare la forchetta tra le dita: "Lo sai che ho lavorato in biblioteca di via Verdi fino a due mesi fa?"
Lo so benissimo e lei sa benissimo, anzi credevo ci lavorasse ancora. Non dico nulla perché non potrei che ripetere: "E allora?". E aspetto.
"Uno che lavorava con me mi ha chiesto di sposarlo."
Stranamente la notizia mi lascia indifferente, quasi mi fa piacere. Potrei mettermi a ridere: ""Uno" mi ha chiesto di sposarlo!" - Ed improvvisamente mi rendo conto di quanto la mia storia con Claudia sia finita.
"Io ho accettato.", aggiunge con cautela, ma che avesse accettato non lo mettevo in dubbio. Cerco i miei ricordi e ne scopro abbastanza da capire che vorrei fosse felice, però mi mancano le parole e Claudia deve sforzarsi di aggiungere una frase inutile e impacciata: "Si chiama Alessandro Rivello. Tu non lo conosci."
"È bello?", riesco a chiedere e il sorriso di Claudia brilla di nuovo sollevato e chiaramente ironico: "È buono. Ed anche abbastanza ricco.>
Naturalmente: che può volere Claudia di più da un marito?
"Comunque non è brutto. Ha un po' di pancia, non troppa. "
Forse un po' innamorata lo è davvero. Almeno parlare di lui la intenerisce.
Riempio il suo ed il mio bicchiere: anche se non è spumante un brindisi si può fare: "Congratulazioni! A te e a tuo marito!"
Mentre bevo, penso che la più felice sarà certamente Silvia.
E quando riposo il bicchiere invece sono meno tranquillo e mi sembra che il mio cuore si sia appesantito. "E se mi mettessi a piangere?"
Claudia non mi crede ed io neanche.
Però potrei scoppiare a piangere come un bambino davvero.

Facciamo anche un ballo d'addio e, adesso, parliamo tantissimo disordinatamente, di troppi ricordi, di mille pensieri.
"<Fai bene a sposarti: non siamo più giovani, il tempo ci scappa!"
Davvero sono solo più un amico e credo che Claudia sia il tipo di donna che può essere fedele senza fatica: spiccata propensione alla monogamia!
Tante uomini, ma sempre una sola storia per volta.
Tanti uomini? Magari solo i tre o quattro che ha confessato anche a me, più il sottoscritto, più il Rivello.
Ride: "Sai quante volte abbiamo fatto l'amore io e te?"
Resto sorpreso, imbarazzato, anche incredulo: "Quante?"
"Quarantasette!"
"Un numero dispari!", osservo per fare dello spirito, però quel numero mi dà fastidio. Mi dà fastidio perché è un numero, un valore contabile.
Non staremmo certo meglio se oggi facessimo quarantotto.
L’orchestra fa una pausa. Torniamo al tavolo e facciamo un ultimo brindisi stanchissimo al nostro passato. Mi sento come dopo un’influenza.


Indice di Silvia
Salvario

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