Silvia - Parte III
Non speravamo davvero che Pasqua ci regalasse un tempo tanto benevolo: tre giorni che siamo ad Alassio, ed in cielo non si è vista una nuvola coprire il sole più di un minuto.
Invece, da tre giorni in Spagna, hanno detto al telegiornale, diluvia, grandina, le montagne franano, i fiumi straripano e ci sono una decina di morti. Le previsioni annunciano che la prossima settimana porterà condizioni da ritorno dell’inverno anche qui, ma la prossima settimana noi saremo a casa nostra, a lavorare e a studiare; e allora può venire giù tutto il maltempo che può venire.
Alla faccia del futuro e dei cattivi astrologi menagramo, Silvia si crogiola al sole sul balcone di casa nostra.
Sono le due del pomeriggio, con l'ora legale in funzione da ieri, tanto per dormire un'ora di meno. Quando torneremo a casa, avremo tutti gli orologi da regolare. Uffa!
Silvia indossa il bikini blu che aveva portato tutta la passata estate sulla spiaggia, con lo slip tenuto chiuso sui fianchi da due fermagli metallici che raffigurano ognuno un piccolo cavalluccio marino, mentre un altro fermaglio a stella marina unisce i due triangoli del reggiseno sul petto.
Strano che lo porti perché tre settimane fa mi ha chiesto i soldi per comprarne uno nuovo: "Con quello vecchio mi vergogno. È troppo piccolo!"
Evidentemente di suo padre non si vergogna, ed ogni volta che me la guardo verifico che è vero che è molto ridotto, o piuttosto è Silvia che si è sviluppata in questo periodo.
Il sole è veramente caldo, ma ogni tanto passa una folata secca di vento e l'aria frizza subito un poco. Io ho solo un paio di jeans duri che mi danno fastidio sulle gambe.
Guardo dall’alto la colonna di automobili che procede lenta e aggressiva lungo l'Aurelia e, con lentezza, si appiattisce contro il marciapiede di piastrelle rosse e bianche al suono di una sirena.
"La Croce Rossa.", annuncio a Silvia che ha alzato un poco la testa interrogativamente verso di me perché lei, da sdraiata, non vede la strada.
Chiudo gli occhi tenendo il volto verso il sole: avevo bisogno di momenti simili, di liberarmi qualche giorno dallo smog muffoso della città, del negozio e di respirarmi l'aria e il cielo e il mare. Però sono sicuro che se dovessi vivere qui ad Alassio, tutta la vita o solo per più di una stagione, impazzirei di noia.
Dopo il bagno di sole, una doccia fredda per la signorina e, in queste case liguri costruite al risparmio, i muri tremano al solo passare dell'acqua nelle tubature. Per me un bicchierino di Marsala perché, nonostante il caldo, mi ha preso proprio la voglia di bere un goccio.
Finita la doccia, i capelli asciugati e pettinati alla meglio, avvolta in un asciugamano variopinto su cui è raffigurato un pavone, Silvia si sdraia sul divano del tinello, piegando solo leggermente le gambe perché seduto vicino ai suoi piedi ci sono io, alle prese con un nuovo apparecchio giapponese semiautomatico che voglio provare per mio divertimento e per dovere, visto che per venderlo devo spiegare come funziona.
Punto l'obiettivo su Silvia che sorride per abitudine, ma senza entusiasmo. Scatto alcune foto, giocando coi tempi e con l'apertura del diaframma. L'obiettivo sembra essere molto buono e l'immagine, ai miei occhi, appare sempre nitida.
Mia figlia sbadiglia e mi da un calcetto col piede nudo, poi un secondo. L’asciugamano si scioglie dal suo corpo.
"Chissà cosa trovi di attraente in questo pavone...", commento ironico e, senza malizia, prendo un lembo dell'asciugamano e lo tiro verso di me. Silvia fa per trattenerlo ma in realtà non lo trattiene e mi guarda sorpresa.
Resto sorpreso anch'io perché pensavo avesse tenuto addosso il bikini: invece, niente. Involontariamente penso che tra tante donne giovani che ho visto nude è tra le migliori. Forse la seconda dell'hit parade - ma questo lo aggiungo adesso a mente fredda, non l'ho proprio pensato al momento.
La più bella era una studentessa di architettura di Milano che avevo conosciuto tramite comuni amici e che faceva da modella a tempo perso. Aveva bisogno di alcune foto da spedire a un concorso e "i comuni amici" avevano pensato a me. E avevamo anche fatto l'amore, perché lei era solo agli inizi e associava piacevolmente l'idea di spogliarsi con quella di fare l'amore. Pochi giorni fa ho visto la sua foto nella pubblicità di una miscela di te. È meno giovane, ma sempre bella ed è diventata una professionista.
E ora Silvia. Senza neanche pensare, alzo la macchina fotografica e scatto una foto: un attimo e mia figlia si riporta l'asciugamano sul corpo. Scatto lo stesso e poi riprendo l'asciugamano e lo ritiro via senza incontrare resistenza.
Con un'espressione completamente scombussolata, Silvia mi segue con gli occhi. Io fotografo, mi alzo, faccio il giro del divano. Silvia segue i miei movimenti come ipnotizzata e inquadrare il suo corpo è facile.
Smetto dopo l'ultima foto del rullino: 36 scatti. Fossero stati mille, li avrei fatti tutti e mille. Mi sento la fronte sudata.
Silvia non dice niente, raccoglie di nuovo il pavone i cui occhi paiono anch'essi sorpresi e sgranati e va nella stanza da letto. Quando torna indossa una camicetta verde di seta e dei pantaloni tagliati mezzo palmo sopra il ginocchio che si sfrangiano male.
Mi fissa negli occhi, decisa e serissima: "Vorrei non le sviluppasi quelle foto."
"Perché?", chiedo senza essere sorpreso.
La sua voce è implorante: "Buttale via."
Esito e prendo dalla mia borsa di fotografo il primo rullino che mi trovo sotto mano. Lo porgo a Silvia che lo rifiuta come contaminato e ripete: "Buttalo via."
Apro la custodia ed espongo la pellicola alla luce facendola scorrere tra le dita. Solo adesso ricordo cosa sono: i provini che ho fatto con una pellicola sensibilissima sul lungomare la sera in cui siamo arrivati. Pazienza: vuol dire che li rifarò.
"Scusami.", mormora piano Silvia, sospira e si va a sedere al tavolo dove sono i suoi libri di studio che non si sono troppo consumati in questi giorni. La guardo a lungo, incerto se dirle che il vero rullino non l'ho affatto rovinato o se non dirle niente.
Non dico niente.
Ci facciamo, distratti e senza fretta, tutta la passeggiata fino al porto.
Silvia chiacchiera con tranquillità, mi racconta che tra i cinquantamila turisti che sono ad Alassio in questi giorni deve anche esserci una sua compagna di scuola di due anni fa. Io spero di cuore che non la incontri e, intanto, continuo a pensare alle fotografie e al corpo di Silvia su di esse.
Non ho mai avuto paura come questa volta che le foto di un rotolo risultino rovinate.
Per la tranquillità della mia coscienza penso che Silvia, se veramente non voleva, non si sarebbe lasciata fotografare 36 volte. E poi una foto è solo un pezzo di carta che basta stracciare per cancellare.
Ci compriamo un gelato che non è dei migliori. Anche Silvia ne è delusa: "Il limone è l'unico gusto che sa di qualcosa!"
Non è vero: il mio ananas sa di rapa. Gelati per turisti pasquali.
La sera a mia figlia salta in mente che deve studiare e, seduta sul tavolo fa una splendida imitazione di una persona che studia, però per me dormicchia e segue il suo pensiero dentro gli universi tristi che paiono spalancarsi quando si vorrebbe capire e non ci si riesce.
Per conto mio ho trovato in una cassapanca una vecchia settimana enigmistica e passo il tempo a fare rebus, cruciverba e sbadigliare. Anche le definizioni sono vecchie.
"La capitale del Congo ... Ma esiste ancora il Congo?"
Al mare, il numero dei miei sbadigli è dieci volte maggiore rispetto alla mia media cittadina: deve essere un effetto dovuto al cambiamento d'aria o alla differenza di pressione perché tutto sommato non posso dire di annoiarmi particolarmente. Meglio qui che in negozio!
La voglia di studio di Silvia resiste ancora fino alle undici meno un quarto del lunedì di Pasquetta, poi si dissolve nel vento come la leggera foschia che galleggiava sulle onde. Allora decido di andare fino a Loano, e mia figlia accetta senza troppo entusiasmo.
In effetti, non è una gran trovata: c'è tantissima gente anche a Loano, sia sulla Passeggiata sia nel Budello, tanta che non si può quasi camminare e curiosare nei negozietti vuol dire fare a gomitate. Dopo un po' Silvia comincia a brontolare e non troviamo di meglio che sedersi sul molo che dà sul porto e guardare ora il mare, ora quelli come noi che camminano avanti e indietro senza scopo e che aspettano solo che sulle panchine qualcuno si alzi per sedersi a loro volta.
Ci prendiamo anche qui un gelato e questo, Dio sia lodato, è un gelato di quelli che fa piacere mangiare. Sul molo tantissimi vecchi che paiono conoscersi tutti fra di loro. Sugli scogli c'è chi pesca ed ogni tanto, per la gioia di una piccola e ironica platea, prende qualcosa o aggiusta l'esca.
Tre gatti aspettano anche loro accanto ai pescatori con fiducia sospettosa. Il loro pelo è molto bello per dei randagi, però hanno la coda tagliata.
Guardiamo il sole che si riflette nel mare e che ha un po' perso calore. Silvia comincia a sbadigliare di noia e di sonno come me ad Alassio.
Nei cinema non danno un film che m’interessi in tutta la Riviera; anzi darebbero proprio ad Alassio "Cucù", ma sempre non posso vederlo con mia figlia. Anche se avesse diciotto anni, non la porterei con me a vedere certi film.
Non posso neanche distrarmi fotografando tutto quello che mi attira e facendo quelli che Lucia chiamava "i miei inconcludenti esperimenti si sperimentazione": ho lasciato volutamente la mia apparecchiatura fotografica a casa per non pensare alle foto di Silvia e non doverne parlare con lei.
Invece, non avendo altro, riesco a pensare solo a quelle foto e a guardare il mare, dove poche barche agonizzano senza rotta.
Tornati a casa, il tempo di darci una rinfrescata ed andiamo a cena fuori, anche se non era programmato e anzi avevamo già preso dei pomodori ed il latte.
Mia figlia ritrova un po' di loquacità e mi racconta la storia stupida di una sua amica e del suo ragazzo e, quando alla fine chiede la mia opinione, le dico che, quando una viene piantata, può solo mettersi il cuore in pace e cercarsi un altro. Silvia ride: "E l'amore?"
"Se lui si è stufato evidentemente c'era più!"
Mia figlia inclina di trenta gradi la testa in un suo modo che può voler dire sia sì che no: "E Claudia?"
Claudia si sposa fra tre settimane e Silvia lo sa benissimo perché è invitata come me; ed entrambi andremo sia in chiesa sia al rinfresco, anche se con stati d’animo diversi.
Ho già persino comprato il regalo: una scacchiera con pezzi in argento e bronzo dorato; non è stato un volo di fantasia, ma una richiesta abbastanza precisa della stessa Claudia che è un’ottima giocatrice per essere una donna. Mi è costata abbastanza, ma almeno Silvia mi ha approvato con convinzione. Penso che mia figlia consideri quella scacchiera come una specie di liquidazione per Claudia, di regalo d'addio. O uno scacco matto che ha dato lei a un'avversaria pericolosa.
Guardo Silvia i cui occhi brillano, ma senza gioia e senza cattiveria, quasi di febbre, e ribatto: "E tu?"
Le palpebre si abbassano e coprono per qualche attimo gli occhi: "Io cosa?"
So cosa vorrei sapere e Silvia lo ha capito. Non insisto: "Claudia cosa?"
Silvia si confonde, su Claudia non riesce mai a scherzare: "Dicevo così... niente!"
"Niente anch'io!"
Non se la prende ed anzi si fa aggressiva: "Io ti voglio più bene di quella Claudia!"
Sospiro perché non ho tanta voglia di sentimentalismi. O forse ne ho voglia e vorrei Silvia di fianco a me o seduta sulle mia ginocchia.
"Lo so. Ne sono sicuro. E anch'io ti voglio bene più che a Claudia e a chiunque altro!"
Forse dovevo dire "chiunque altra".
"Più che a Lucia?"
Gli occhi di Silvia brillano sempre, ma ora dolcissimi. Chissà se brillano così anche nelle mie foto: "Sì. Più che a Lucia."
Non mi dispiace averlo detto e capisco che è vero. Sto per aggiungere per tranquillizzarmi da solo: "Ma in maniera diversa.", però non lo faccio ed è meglio così.
Orribile! Tragico! Siamo all'ultimo giorno di vacanza!
Il cielo è anche lui di umore variabile e il mare arrabbiato butta alghe e detriti sulla spiaggia.
Silvia si diverte a raccogliere conchiglie e le porta a me quando c'è la bestia dentro, guardandomi poi con aria schifata mentre le pulisco. A dire il vero è un lavoro che mi risparmierei molto volentieri, ma ormai mi sono abituato e attrezzato con un sottile ferretto a uncino e almeno faccio in fretta, specie con quelle più grosse, che non sono comunque più lunghe di tre o quattro centimetri.
Per chi non ha voglia di cercarsele come noi, ci sono alcuni ragazzini sulle panchine della passeggiata che le vendono insieme a vecchi Topolini e altri giornaletti per ragazzi e a prezzi non particolarmente onesti.
Silvia cammina scalza e ho paura che si ferisca con qualche scheggia di legno o di vetro che il mare non ha ancora levigato. Accatastati gli uni sugli altri osservo i grossi setacci che ripuliranno tutto la sabbia del litorale prima che sia estate, o quasi tutta, visto che la spiaggia libera viene spesso abbandonata al suo destino.
"Peccato! Peccato che si debba già tornare!"
In effetti, anche se non ci siamo granché divertiti, questi giorni ci hanno disteso i nervi e hanno ridonato ossigeno ai nostri polmoni cittadini. E siamo stati vicini come non eravamo da molto tempo.
Siamo in automobile; l'Aurelia, poi il casello dell'autostrada e il nostro dolente: "Addio mare!".
Dopo Ceva, la pioggia.
Non mi piace per niente viaggiare con la pioggia, l'asfalto bagnato mi spaventa: non ho la capacità di sentire la tenuta dei pneumatici, ogni curva ho paura che l'auto mi vada via dritta per la tangente o si metta a girare.
Silvia infila una cassetta di De Andrè nello stereo: piace ad entrambi e questo mi fa felice perché De Andrè è uno della mia generazione.
Supero un grosso TIR che pare non voler finire mai: "Il tuo amico francese guida un bestione come quello?"
Guardo mia figlia senza capire: "Quale mio amico?"
"Quello con cui hai mangiato qualche tempo fa!"
Non ricordo. Amico francese: chissà chi può essere?
Silvia alza un po' il volume perché c'è la canzone di Marinella.
Con l'accompagnamento dell'acqua che batte sui vetri e sulla lamiera la musica non perde nulla della sua dolcezza. Riconforta anche le mie paure d'autista.
Di colpo ricordo anche chi è il mio amico francese e ripenso alla foto della sua Corinne nuda nello sfondo di una povera stanza. Potrò dargli in cambio le foto di Silvia.
"Domani mattina sono a scuola!", sbuffa Silvia. Io il negozio lo apro solo dopo mezzogiorno, ma lo stesso penso a domani con fastidio.
Silvia si gratta la spalla, se la scopre e osserva quasi con rancore un brufoletto rosso e appuntito. Lo schiaccia e n’esce subito una gocciolina rossissima di sangue.
"Ti stai svenando?"
Asciuga il sangue con un fazzoletto di carta: "Potevo usarlo per scrivere una lettera!"
"Posso prestarti la mia biro se ne hai bisogno!"
Silvia ride: "Però deve essere bello ricevere una lettera scritta col sangue!"
Ha uno stranissimo concetto di cosa è "bello" certe volte: "A me non farebbe un gran piacere, se devo essere sincero! Anzi…"
Mi viene in mente di colpo e senza ragione, come a Silvia era venuto in mente il mio amico francese, la predizione della zingarella: era parecchio che non ci pensavo. Almeno, secondo lei, non corro il rischio di ammazzarmi su questo asfalto viscido: la mia ora non sarà lontana, ma non è neanche così vicina.
"Ma perché devo pensare a queste cretinate?", borbotto.
"Quali cretinate?", s'informa subito Silvia.
"Pensieri stupidi.", borbotto dopo una pausa nella quale non mi ero ben reso conto né di aver parlato né di essere stato sentito. E neanche – non subito – che Silvia mi avesse risposto.
"E non posso saperli?"
"No! Sei troppo piccola!"
Silvia sorride divertita, ma non insiste: "Che tipo che sei!"
Un furgoncino che marcia a cavallo tra due corsie mi costringe a sorpassarlo da sinistra.
Silvia ripete: "Che tipo sei!"; allora l'ammonisco scherzando anch'io: "Rispetto! Ricordati che sono tuo padre!"
"Io vorrei essere..."
È un gioco che Silvia fa sempre quando si annoia, coinvolgendo o meno chi è con lei, ed è incredibile che ogni volta riesca a tirare fuori idee nuove.
"Io vorrei essere un autostrada!"
Non mi pare un grosso desiderio: "Ti starebbero facendo la terza corsia! Avresti un ingorgo di chilometri ai caselli!"
"Voglio essere un autostrada asfaltata di fresco. Mi piace l'asfalto quando è ancora nero. Mi piace l'odore che ha!"
"L'asfalto? L’odore dell’asfalto?"
"L'asfalto!"
Sbuffo un poco, annoiato anch'io, muovendo nella scarpa il piede che ho sollevato dalla frizione. L'odore dell'asfalto e delle strade in genere non mi attira per niente. Catrame! Pneumatici consumati.
"Oppure una cattedrale gotica. Vorrei essere una cattedrale gotica. Come il Duomo di Pisa."
"Che non è gotico!"
"No? Comunque io voglio essere una cattedrale gotica!"
"Non romanica?"
"Gotica. Con quattro torri!"
"Un castello."
"No! Quattro campanili. Come Notre Dame."
"Quella è gotica!", confermo, ma poi mi viene il dubbio che potrebbe anche non esserlo completamente. Il vero gotico dovrebbe essere quello tedesco, ma forse Notre Dame è gotica davvero. Come il Duomo di Milano. Però dove sono i quattro campanili?
Così torniamo di nuovo a Torino.
L'aria più pesante – asfalto? - e la mia vera casa che mi aspettano.
Con Silvia abbozziamo una cena: un paio di panini e un arancio. Quasi non mangerei neanche quello. Ogni volta che torno a casa, anche dopo solo due o tre giorni di assenza, mi prende uno strano miscuglio di fastidio e di soddisfazione.
Una volta ho letto su un giornale queste parole: "Torino è una donna brutta, poco pulita e non più giovane di cui tutti quelli che ci sono nati sono innamorati. Ma non lo dicono!".
Io sono uno di questi innamorati: vorrei innamorarmi di Roma, di Venezia, di Firenze, di Milano che sono più belle, più di classe, ma al cuore non si comanda: e, allora, amo Torino.
Alla televisione: danno un filmetto abbastanza divertente e fuori di testa su una emittente locale, condito da due graziose e giovani attrici che si spogliano di tanto in tanto in allegria anche se la trama non lo richiederebbe. Silvia viene a sedersi anche lei accanto a me quando il film è già cominciato da mezz'ora.
Non le spiego la trama perché le scene e le storie si intrecciano liberamente, a episodi slegati.
C'è una scena più spinta dove una delle due ragazze non solo si spoglia, ma si fa anche baciucchiare tutta da due uomini entrambi cotti di lei per decidere quale sia il migliore.
Osservo quasi senza volerlo Silvia e la sorprendo a passarsi la lingua sulle labbra. Niente di male, d'accordo, però la sua eccitazione mi turba sempre un poco: si fa sempre più donna anche lei, giorno dopo giorno o - come diceva mio padre - notte dopo notte.
Tornare nel mio letto abituale mi concede una buona dormita, non lunga, ma veramente riposante. Mi alzo mentre Silvia esce di casa: "Buona scuola! Sta attenta!"
Mi guarda male, senza voglia prima ancora di cominciare. La capisco benissimo. Mi faccio una doccia e, verso le nove, vado a fare colazione ad un bar sotto casa.
"Oh, salve! E da un po' che non la si vedeva!"
Pare un rimprovero: e non posso neanche andare in vacanza?
Mi prendo una pasta e un cappuccino: il cappuccino è perfetto, la pasta non è freschissima. Prendo anche due pacchetti di mentine: Silvia me le mangerà tutte e mi accuserà di volerla far ingrassare, ma non m’importa. Ed un po' di ciccia sui fianchi non le farebbe niente male.
E ancora: meglio se mastica mentine che le mie penne!
Faccio la spesa.
Il verduriere, il fruttivendolo, la panettiera e il lattaio mi domandano come ho passato la Pasqua ed io ho quasi voglia di rispondere: "Pregando!", tanto per dire qualcosa di diverso.
Mi sono dimenticato di farmi la barba: non è grave, me la farò quando rientro. E mentre mi faccio la barba mi sento proprio stufo di vedere solo e sempre i miei clienti, la gente per strada, il lattaio ed il verduriere. E Silvia.
Non ho amici; persi tutti quando ho sposato Lucia e persi di più quando Lucia è morta. Solo Claudia a prendersi l'ingrato compito di consolare il vedovo inconsolabile con figlia-bambina e tentare il colpo di sposarselo. Davvero incredibile che il cerchio non si sia chiuso. Doppio cerchio sui nostri anulari.
Adesso neanche più Claudia.
Mi metto a fumare. Quasi farei meglio ad andare in negozio e dare una ripulita tanto per trovare qualcosa da fare. O la ripulita potrei anche darla alla casa.
Una verità molto semplice e che oltre Silvia, casa e negozio non ho una vita.
Seduto in salotto giocherello con il cavaliere metallico di un gioco di scacchi: ho perso Claudia ed adesso che non ho niente per distrarmi potrei anche mettermi a piangere. O prendere il telefono e chiederle perché accidenti non sposa me.
Con Claudia non mi sarei certo sentito solo. Viaggi, feste, vestiti eleganti, colpi di testa. Mai idee troppo complicate e calcoli contorti, mai troppo sentimento o troppa aggressività...
"Accidenti! Ma perché cavolo si sposa?"
Mi trovo in piedi, vicino alla finestra, senza sapere perché mi sono alzato. Certo non per saltare di sotto!
Dovrei trovarmi una qualche compagnia per non pesare sempre su Silvia, per lasciarle anche più spazio con le sue amiche e, se ne ha e ancora di più se non ne ha, con i suoi amici. Dovrei trovarmi una seconda Claudia, magari anche pagandola con qualche regalo costoso. Mia suocera una volta aveva detto a Lucia: "Tuo marito diventa di cattivo umore quando non ha preoccupazioni. È tipico di tutti gli uomini.".
Forse aveva ragione. Come sempre.
Un'amichetta qualche grattacapo e qualche soddisfazione me la darebbe.
Ma dove vado a prenderla? Penso a Corinne, ma mi viene subito da ridere: non voglio finire così in basso! Ma allora? Ho ancora il cavaliere tra le dita e lo vado a posare sulla scacchiera: "Scacco!", dico, anche se non è vero. Non è vero perché sulla scacchiera mancano entrambi i re.
Per vincere la malinconia porto Silvia a pranzo fuori.
"Perché?"
"Perché non avevo voglia di cucinare."
La porto anche in un bel posto, con un orchestrina che suona motivi che non so proprio se definire fuori moda o sempre di moda. Guardo Silvia e le scopro un leggero tocco d’azzurro sulle palpebre. E annuso un profumo gradevole d’acqua di colonia.
"Ma è una festa?", mi chiede.
"No. A proposito: tutto bene a scuola?"
"Tutto al solito. Sabato, matematica."
"Compito in classe?"
"Sì. E mi..."
Proprio mentre arriva il cameriere che sorride indulgente, mentre Silvia non si accorge di nulla. Nonna Lea si sarebbe disciolta all'aria, come una mummia egiziana, per la costernazione.
"Vogliono antipasti?"
"Sì. Antipasti vari. Porti lei."
Silvia mi squadra perplessa: "Ma allora dobbiamo davvero festeggiare qualcosa oggi!"
"Bisogna festeggiare qualcosa per prendere gli antipasti?"
Ho voglia di vivere. E di bere.
Finalmente: "Caffè. E poi il conto!"
Andiamo entrambi direttamente ad aprire il negozio di ottimo umore e con un po' di vino in testa. Silvia ride e mi piroetta davanti come una bambina.
Mentre attraversiamo col rosso, se l'autista di un’alfetta non fosse attento, ci faremmo investire. Invece ci facciamo solo urlare un po’ di improperi dietro.
In negozio. Di nuovo. Mi guardo intorno sconsolato e mi siedo al mio posto. Devo togliere un sottile strato di polvere poi prendo tra le mani una Settimana Enigmistica e un cruciverba che ho lasciato a metà prima di Pasqua.
"Tre verticale: Il casato della Eleonora amata da Torquato Tasso."
Silvia ovviamente non sa neanche lei la risposta e si siede sul bancone accavallando le cosce finalmente un tantino abbronzate. Vista così, un po' dal basso è un bello spettacolo, ma mi guarda negli occhi e devo guardarla negli occhi anch'io.
"Tu pensi spesso a me?"
Mi viene da pensare che il vino a pranzo le andato troppo alla testa e le fa malinconia, ma rispondo lo stesso: "Sì. Praticamente sempre."
"E come pensi a me?"
Esito cercando di immaginare cosa vuole sentirsi dire: "Come alla più bella ragazza del mondo!"
Scoppia a ridere e credo mi bacerebbe se la nostra posizione non mancasse di livello. Io potrei prenderle i fianchi tra le mani e baciarle le ginocchia.
In un cassetto ci sono ancora cinque rullini miei che dovrei sviluppare: due di prove che ho fatto in laboratorio e quelli che ho fatto ad Alassio; ovviamente, anche quello che mia figlia crede distrutto. Quando passa il solito giro a ritirare le foto da portare allo sviluppo però ho un ripensamento e non li consegno.
Dopo mi sento molto vigliacco e giocherello nervosamente coi tasti della cassa.
Silvia mi ha lasciato per rientrare in casa a preparare cena e, mi pare giusto, studiare un poco.
Di Lucia ho migliaia di foto e qualcuna anche con lei nuda; anche foto dove le si vede il pancione grosso dove nostra figlia cresceva. Alcune sue foto le avevo esposte quando avevo partecipato a Sanremo ad un manifestazione, concorso da cui avevo - avevamo! - avuto anche la soddisfazione di due menzioni onorevoli e altre a Firenze e nella mia stessa Torino con minore fortuna. A Torino mi avevano assegnato una medaglia di argento discretamente grossa e tantissime strette di mano.
Molti mi avevano consigliato di continuare ma, invece, avevo smesso perché - io per primo - in quello che facevo non credevo molto. Vedevo le ombre delle superfici degli oggetti e dei corpi nel momento in cui li componevo e li modellavo nella mia fantasia e ne ero affascinato e posseduto, poi nella foto questa bellezza spesso la perdevo e soprattutto la perdeva chi non poteva vedere con i miei occhi e cercare le mie illusioni nelle foto.
Vedere le ombre su un uovo; ma la gente guardava e rideva: "Guarda questo che fotografa le uova!"
Uno che esponeva come me a Firenze, mi aveva detto perplesso: "Se vuoi fissare le illusioni della tua fantasia devi dipingere, non fotografare!"
Vero, ma io so fotografare e non dipingere!
Ho foto nude – Artistiche? Sicuramente innamorate! - di Lucia con Silvia piccolina in braccio, mentre le succhia il latte dal seno, e di Silvia più grandicella che si guarda intorno con grandi occhi curiosi.
Ma altre foto erano tradite, e mentre cercavo sul corpo di Lucia le mie ombre vaghe, quello che finivo per fermare era il suo sesso e le sue forme di femmina. Lucia sentiva che certe immagini che io mettevo innocentemente sotto gli occhi di altri la mortificavano e me lo aveva detto ma con un discorso strano, quasi a farmi capire che quella mortificazione la offendeva e le piaceva insieme. Poteva essere un gioco o un modo di amarci, ma certo nulla a che vedere con quello che cercavo io, che si sarebbe potuto cercare di ottenere altrettanto bene col corpo di mia moglie come con una pietra o un tronco spezzato.
E allora più niente. Una porta chiusa.
Adesso vorrei riprendere a fotografare davvero, e non solo per studiare le caratteristiche delle pellicole e per qualche ghiribizzo estemporaneo. Potrei riprendere a svilupparmi le mie foto, a ricercare tra carte e ingrandimenti diversi la realizzazione giusta per cogliere e fissare le mie sensazioni di un attimo, quando un giusto succedersi di piani diversamente illuminati mi ha fatto cogliere un’armonia unica e nuova.
E così il dado è tratto, anche se con l'impressione strana che sia un trucco per autoingannarmi. Intanto, mentre torno a casa lascio a un fotografo che non conosco e che, comunque, non appartiene alla mia catena, i cinque rullini. Gli nascondo anche dietro ad un nome che non è il mio: "Bianchetti. Bianchetti Silvio."
Mi sento stramaledettamente ridicolo.
"Ripassi domani sera dopo le sei e trenta."
Ripasserò!
Mi sorprendo a spostare la zuccheriera sul tavolo, perché la sua ombra si spezza male sul bordo del mio piatto. Sposto ancora più a sinistra e d'improvviso scopro gli occhi di mia figlia che mi fissano burloni.
"Voglio riprendere a fare fotografia. Forse anche riprendere le esposizioni."
Silvia mi sembra abbastanza sorpresa. Ci pensa su e poi mi dice: "Fai bene!"
Non credo che abbia collegato gli spostamenti della zuccheriera con le foto, piuttosto ha pensato ad Alassio. Ha pensato a se stessa.
Suona il telefono. Silvia si alza per rispondere, ma nessuno risponde e lei riattacca: "Uno scherzo stupido."
Il telefono risuona subito e mia figlia risponde di nuovo, poi mi fa un cenno: "È Claudia, per te."
Silvia mi passa la cornetta e finge un'indifferenza falsissima. Strano che Claudia mi chiami a casa, invece che in negozio. Altrettanto falsa e strana la voce di Claudia all'altro capo del filo: "Allora, passata bene la Pasqua con la figlioletta?".
"Ad Alassio. Siamo stati nella nostra casetta al mare."
Una pausa di silenzio e aggiungo: "E tu? Tutto procede verso…"
Non mi viene verso cosa: le nozze? Il felice imeneo? Silvia troppo origliante mi confonde.
Claudia mi evita di dover finire la frase: "Mi sposo il venti aprile. All'abbazia di Limosa."
"Il venti?", sfoglio il calendario alla parete e Silvia, ovviamente, avvicina anche lei la testa. Resisto alla tentazione di uno scappellotto solo per paura che mi caschi la cornetta.
La voce di Claudia riprende un po’ affrettata: "È un giovedì. Naturalmente tu sei invitato. E porta tua figlia. Dille di farsi bella!"
Frecciatina per Silvia che Claudia giudica vestirsi un sciattamente e truccarsi senza gusto. È vero, ma è anche vero che negli ultimi tempi mia figlia si cura molto di più nei vestiti ed anche nella persona. E questa Silvia più elegante, Claudia non la conosce.
Prendo tempo un attimo: "Davvero vuoi che veniamo? A tuo marito non credo farà molto piacere. E forse neanche a te."
"Non ci sarà quasi nessuno da parte mia; una zia e un’amica che probabilmente conosci anche tu: Mariella Birzio. E tu sei l'unico amico che ho. Sei ancora mio amico, no?"
Il tono è scherzoso, ma affezionato e davvero un preoccupato: "Sono sempre tuo amico. E Silvia?"
"Vieni con lei. - taglia corto - Vuoi mica lasciarla sola a casa? E poi potrebbe anche trovare qualche ragazzo che le piace: mio marito ha un fratello maggiore che ha due ragazzi di venti e ventiquattro anni che potrebbero andarle bene..."
Adesso che ha trovato un marito Claudia pare voler accoppiare tutto il suo prossimo. Magari ha dei progetti anche per me.
La reazione di Silvia alla novella mi ha sorpreso per la sua praticità ghiacciale: "Devi comprarti una giacca. E una camicia bianca nuova. I pantaloni grigi nuovi ti vanno bene, ma una giacca devi comprarla."
Guarda il calendario con apprensione: "Abbiamo poco più di tre settimane."
Sorrido: "C'è così tanto da fare? Guarda che gli sposi non siamo noi! E poi dovresti pensare a te stessa..."
Ci pensa: "Certo che voglio essere bella. Più della sposa!"
"Lo sei più bella. Più giovane e più bella."
Non era quello che voleva dire e me lo fa capire subito: "Non voglio essere soltanto più bella: voglio essere più guardata della sposa!"
Sicuramente, se avessi sposato Claudia, la vita in casa mia sarebbe stata una guerra continua e crudele. Quello che mi sorprende maggiormente e come Silvia affronti la lotta - ma che lotta? È finita, Claudia si sposa!- in modo così donnesco e spavaldo. Mi diverte anche. O m’intristisce.
Claudia festeggia la sua vittoria di donna che ha trovato un marito e Silvia festeggia la sua vittoria su una matrigna che non voleva. Io non ho nulla da festeggiare e vedrò di tenermi su il morale con qualche bicchiere.
Come Silvia ha stabilito, nei giorni successivi mi compro una nuova giacca, anche se abbastanza sportiva e meno elegante di quanto mia figlia avrebbe voluto, una camicia bianca impeccabile, buona per un duello di spada, e due paia di calzini bianchi anch'essi.
Non ho tempo di occuparmi della vestizione di mia figlia, impresa che richiede tanto tempo e tantissima pazienza, ma le lascio tre biglietti da centomila e l'ordine di spenderli tutti: "E, se non ti bastano, ti rimborso la differenza. OK?"
"Yes, my father!"
Fin qua il mio inglese arriva ancora, e fingo di non notare l’accento tedesco.
Spero che si vesta davvero con eleganza: il materiale che deve abbinare ai vestiti è buono e mi dispiacerebbe vederlo rovinare.
"Guarda che io non voglio litigare con Claudia per causa tua o dei tuoi vestiti.", la avverto.
"Se litigherai con Claudia sarà per colpa tua o sua! Io non c'entro.", ribatte a muso duro.
Purtroppo c'è il brutto intermezzo del compito di matematica. Sabato torna a casa all'una e mezza pesta peggio che dopo un incontro di pugilato: "Lo sapevo che non ce la facevo, ma è andato anche peggio di quanto mi aspettavo. Ho fatto solo un esercizio che mi ha passato Lella, ma deve essere sbagliato anche quello."
"Quanti esercizi erano?", m’informo cautamente.
"Cinque. Uno peggio dell'altro."
Non dico niente altro e neanche Silvia che solo si gratta le gambe e poi non si gratta neanche più e resta seduta sulla poltroncina, con un piede tra le mani e la coscia abbronzata e scoperta. Una bella coscia che mi ricorda che non è più una bambina e non posso neanche sculacciarla.
Dopo tre giorni conosco il risultato. Silvia mi porge il foglio senza dirmi cos’è, va verso la finestra e si mette a piangere, proprio a singhiozzoni e con grosse lacrime. Non penso di rimproverarla, ma non ho voglia di consolarla. Il voto è tre, scritto grosso con un pennarello rosso che pare renderlo ancora più bruciante. Mi pare che non sia un voto che lasci molte speranze.
Sono arrabbiato con il mondo, ma non penso serva dire qualcosa. Sospiro e mi sento del catarro in gola.
Guardo Silvia che porta una minigonna non eccessiva, ma certamente non da educanda, e mi arrabbio di nuovo, ma una rabbia che mi rimane dentro. Prendo una biro e firmo sotto il voto per essere libero di non guardarlo più. Lascio il foglio sul tavolo. Una gran voglia di prendere a calci figlia, foglio, tavolo, scuola e - perché no? - me stesso.
Tutto quello che riesco a dire alla fine, con una voce che mi suona ruvida e faticosa, è: "Su, non piangere! Ormai è inutile."
E, ovviamente, il pianto della non brillante studentessa che stava quasi calmandosi, risgorga copioso.
A cena Silvia ha gli occhi rossi e irritati. A pranzo non è riuscita a mangiare ed è stata zitta e ad occhi bassi. Il pomeriggio, non è uscita dalla sua camera.
Adesso cerco di parlarle io: "Matematica è andata. Fine. Non lasciare altre materie ora."
Annuisce stancamente, senza convinzione.
"E adesso mangia.", la esorto.
Annuisce di nuovo e mangia qualcosa, a fatica. Mastica molto, inghiotte pochi bottoni. Io mastico ugualmente ma, forse la rabbia, spolvero bene i miei piatti.
La sera la passiamo insieme, davanti al televisore, a guardare un film di mafia che ci lascia insoddisfatti.
"E il tuo abito per il matrimonio di Claudia?", tento.
Alza le spalle: "Devo ancora trovarlo. Fino adesso ho solo guardato un po' in giro. Con Lella e Simona."
Devo penare ancora cinque o sei giorni prima che arrivi questo famoso abito, e un altro prima di poterlo vedere.
Intanto continuo ovviamente a lavorare in negozio.
Il commendatore Vincenzi, che uno dei miei maggiori fornitori passa a trovarmi come per caso e mi chiede come vanno gli affari e mia figlia: "È una ragazza che si vede che ha la testa a posto. Certo non le dà problemi con la scuola..."
Infatti: anche per matematica non c'è più nessun problema.
Il commendatore non è uno che viene a vedermi solo per fare quattro chiacchiere ed, infatti, viene quasi subito al sodo: "Cerchiamo gente che conosca questo lavoro per aprire due filiali in Sud America. Brasile ed Argentina."
Quasi rido: "E pensate a me?"
"Lei ha solo una figlia e il trasferimento non sarebbe un grosso problema. Economicamente per lei sarebbe vantaggioso. Un lavoro di un paio d'anni e poi la possibilità di tornare o di stabilirsi là. Magari le capita qualche muchacha che la fissi con quegli occhioni neri che hanno le donne laggiù e, allora, di tornare le passa proprio la voglia..."
Non casco in questo genere di lusinghe, vivo benissimo dove sono: le donne hanno gli occhi belli anche qui!
Il commendatore insiste senza altre smancerie ma senza successo.
Alla fine mi saluta: "Ma ci pensi ancora! È la vacanza meglio pagata che le possono offrire!"
La sera lo dico a Silvia e lei rimane delusa che io abbia rifiutato. Francamente sono sorpreso: "Io non ho voglia di studiare lo spagnolo! E non penso di stare laggiù meglio che qua!"
"Perché no?"
"Perché non conosco nessuno, ad esempio!"
Silvia alza le spalle, so che vorrebbe insistere ma non lo fa.
Probabilmente capisce che non può convincermi.
Chissà cosa capirebbe da un’insegnante che le insegni matematica in spagnolo?
Ceniamo facendoci reciprocamente il muso finché, poco alla volta il malumore svanisce.
"E il vestito?", domando alludendo chiaramente a quello per il matrimonio di Carla.
Silvia sorride con evidente soddisfazione: "L'ho trovato. A me piace molto."
"E a Lella?", la stuzzico.
"Meno. Mi ha un po' preso in giro."
"Perché?"
Un'alzata di spalle.
"Me lo fai vedere?"
Un'altra alzata di spalle, ma più sbarazzina: "Veramente…"
"Guarda che è la sposa che non deve far vedere il vestito...", dico scherzando, ma anche per ricordarle che la sposa è Claudia.
Esita, ma cede: "Va bene: ma guai a te se ne dici male!"
Va in camera sua e io finisco di sparecchiare e caricare la lavastoviglie. Preso dalle faccende domestiche mi dimentico del vestito di Silvia e quando me la trovo davanti rimango di sale.
È un vestitino tutto sommato semplice, colorato di tinte chiare bianche e azzurre, con qualche trina svolazzante. Ha l'innocenza delle forme che potrebbe avere un abito da cresima, ma insieme evidenzia le forme del seno con una scollatura velata ma ampia e profonda e quelle dei fianchi stretti con forza. Splendida!
"Pensami anche con i capelli a posto: così sono un mostro!"
Già: i capelli.
"E con un po' di rossetto…".
Sorride, sa di essere bella. Arrossisce e le trasparenze del suo vestito sono abbastanza ardite da giustificare il rossore. Lucia non se la sarebbe mai sentita di presentarsi ad una festa così spogliata, come non si sarebbe neanche sentita di portare certe minigonne alle quali, invece, mia figlia mi ha abituato.
Quello a cui non mi ha abituato è la raffinatezza con cui ha imbandito questa volta il suo corpo, una raffinatezza matura e da donna, maliziosa, seduttrice.
"Allora ti piace?"
"Certo, fatti vedere bene!"
Silvia scoppia a ridere e piroetta su se stessa arrossandosi di più nelle guance. Io la guardo, non posso che guardarla.
Ho ritirato le mie diapositive di Alassio già da qualche giorno, ma le avevo quasi seppellite in un cassetto sia per nasconderle a Silvia, sia per potermele gustare con la calma necessaria a capire cosa significano veramente.
Ieri l'abito di Silvia mi ha liberato di qualche imbarazzo che mi sentivo addosso - Silvia ha un corpo da donna ma sa gestirselo e, sono sicuro, sa difenderlo se vuole difenderlo - e oggi ho un po' di tempo per esaminare il materiale in santa pace. Così, senza fretta, faccio scorrere le diapositive su un proiettore da lavoro.
Ne metto da parte cinque veramente ottime ma, nell'analisi, non ritrovo l'eccitazione che avevo scattandole quanto il gusto estetico per un corpo giovane e nudo che conoscevo già, non così bene, ma che scopro ora completamente.
Guardo ancora le cinque foto che ho scelto: sono degne di un concorso, veramente perfette. Osservo le linee e i chiaroscuri che disegnano il corpo, le seguo e le analizzo con attenzione.
Le cinque foto diventano tre e subito due per un improvviso scrupolo che mi fa eliminare l'immagine più netta e violenta.
Quando Silvia arriva in negozio non le dico niente, ma so che quando avrò messo su carta le due immagini che ho scelto non gliele nasconderò. E intanto la guardo e mi dico che è veramente bella, con lineamenti facili da seguire che parlano da soli un linguaggio di grazia e di femminilità.
Sì, è desiderabile: femmina. Miscela di volgare e di delicato.
Segui i miei pensieri, ma Silvia ha altri problemi per la testa: "Ho provato a farmi interrogare di matematica, ma ho preso solo cinque più."
La notizia non mi rattrista perché ormai di matematica io non avevo proprio più speranze e sono solo sorpreso che mia figlia abbia voluto ancora provato a fare un tentativo. Non aveva nulla da perdere ed ha fatto bene. Forse dovrei cercare anch'io di darmi da fare per lei.
"Vuoi che vada a parlare ai tuoi professori?"
Alzatina di spalle: "Non credo serva. Certo non per matematica."
"Almeno mi faccio vedere: domani è sabato e c'è la professoressa di italiano che riceve, vero?"
Silvia mi guarda incerta: "Sì. Italiano e quella di disegno."
"Allora vado.", decido.
"Come vuoi."
Scarso entusiasmo, mi sembra.
Professoressa Elisabetta Meringotti. Tozza e naso lungo, uno strano gorgheggio quando incappa in una "a" a mezzo di una frase.
Una di quelle persone che, saranno anche bravissimi insegnanti, ma sono nate con la propria caricatura incorporata per stuzzicare l'ilarità degli alunni.
All'inizio fatico a non ridere: "Sua figlia, sììì: sua figlia: una ragaaazza matura, capaaace. Da me non ha problemi anche se la grammaaatica, la grammaaatica la usa un po' troppo liberamente. Sua figlia è convinta che le parole siano fatte solo per aiutaaarla ad esprimerle i pensieri, mentre sono faaatte per far capire agli altri cosa si vuol dire! Servono le parole più chiaaare, non le più vivaaaci!"
Posso lasciare trasparire un sorriso concordante, ma interrompo per dire che mia figlia comunque legge molto a casa: non c'entra col discorso, ma è un punto a suo favore e ci tengo a dirlo, e me lo ha suggerito proprio Silvia prima di uscire.
"Al giorno d'oggi i ragaaazzi hanno la televisione, il cinema: non si legge più. Si telefona: non si ha neaaanche il tempo di scrivere una lettera! Quaaalche volta una cartolina, e paaare di fare già chissà che faaatica!"
"Vero!", faccio serissimo e guardo la vera spessa che porta sul medio e che molto spesso tocca distrattamente facendola girare.
Ci salutiamo con una stretta leggera di mano. La Meringotti mi ha teso la sua per prima, con un gesto stranamente languido che pareva quasi un invito ad un baciamano.
Nell'attimo della stretta mi è sembrata di colpo annoiata.
Di tutt'altro genere l'incontro con l'insegnante di disegno, una donna molto giovane che almeno all'inizio parla con un certo tremito nella voce a metà tra lo spaventato e l'eccitato.
I suoi occhi quando incontrano i miei scappano via e, l'unica volta in cui provano a resistere, il volto le s’imporpora.
Mi piace che chiama mia figlia per nome, "Silvia", e non dice "sua figlia" o "la ragaaazza" come faceva la Meringotti. Per cercare di non imbarazzarla troppo, anche se in fondo mi diverto, guardo le mani anche a lei: tanti anellini. ma nessuna fede.
Compio un piccolo esame su tutta la persona: gonna che non copre le ginocchia tenute strettissime e composte, una specie di doppia camicia sul petto scarso ma niente affatto piatto, una collanina sottile d'oro intorno al collo, con alcuni piccoli pendagli: una croce, un ferro di cavallo, forse la piastrina col gruppo sanguigno.
Un suo movimento brusco ma non scortese mi richiama alle sue parole: "Silvia dovrebbe solo ragionare di più sul disegno geometrico: ha un bel tratto, molto pulito. Nelle copie dal vero è molto brava: penso che dovrebbe cercare di andare avanti anche fuori dalla scuola. Silvia ha un ottimo tratto davvero. Riesce a non essere banale…"
"Ma guarda, ho un Picasso femmina a casa e non lo sapevo!" penso e sorrido e la giovane arrossisce subito.
Non sa più bene che dire e mi ripete quanto ha già detto, io invece mi trovo a mio agio con lei e non mi decido ad andarmene finché non suona la campanella, allora le tendo io la mano e stringo la sua sottile, ma non debole.
"Sono felice che mia figlia abbia un'insegnante come lei che le abbia fatto piacere la materia…"
"Oh! Merito di Silvia: è bravissima!", m’interrompe, pentendosi subito di aver esagerato.
Le tendo di nuovo la mano e la tengo facendo col pollice un quarto di giro intorno al suo polso finché lei la ritira.
Ci accompagniamo a vicenda fino all'ingresso della sala professori e ci salutiamo una terza volta. Osservo i suoi passi composti mentre percorre il corridoio. Prima di entrare in classe guarda un attimo verso di me, abbassa a terra gli occhi ed entra. È proprio carina, mi piace!
Cerco una sigaretta nelle tasche, ma fumo così poco in questo periodo che non me le porto neanche dietro. Lascio la scuola ed entro da un tabaccaio: "Un pacchetto di Nazionali e uno di cerini."
Fumo due sigarette: hanno un buon sapore, dolcissimo.
"Che ti ha detto la Meringotti?", mi assale appena torna da scuola mia figlia. Faccio un riassunto di quel poco che ha interesse.
"E la tua insegnante di disegno come si chiama?"
"Tarami. Talami. Hai parlato pure con quella?"
"E di nome?"
"Marisa."
Silvia mi squadra attenta e mio malgrado mi giustifico: "È una bella donna. Giovane."
Mia figlia scoppia a ridere: "Oh! Ti piacciono gli occhi timidi?"
Alzo le sopracciglia: sì, mi piacciono.
Ma mia figlia non perdona: "In classe la chiamiamo Semaforo perché cambia colore ogni minuto!"
Rido, senza gioia.
Io per le ragazze timide ho una particolare predilezione istintiva e, in più, una personale teoria che afferma che le femmine timide siano più facilmente conquistabili.
Mi baso sul fatto che una ragazza timida ha meno proposte e tentazioni di una disinvolta, ma la stessa carne e la stessa voglia: quindi, tutto sommato, deve essere molto più cauta a rifiutarsi. Inoltre una ragazza che è timida lo è anche quando vorrebbe dire no e, quando un maschio punta deciso, la femmina, per difendersi e scoraggiarlo, deve tirare fuori nerbo anche lei.
"Semaforo!", ripeto pensando quanto sanno essere crudeli gli alunni e ancor più le alunne.
Talami Marisa. Provo a pensare "Marisa" e, fatalmente, mi viene come in eco "Semaforo!".
Domenica mattina Silvia ha dormito fino quasi alle dieci e dopo ha studiato lasciandomi l'onore e l'onere del pasto. Il pomeriggio siamo usciti insieme a piedi.
Sole nel cielo e una minigonna decisamente corta sulle gambe di Silvia.
Andiamo verso uno dei parchi della collina ed ad una raffica di vento, mentre mia figlia cammina qualche passo davanti a me con l'impeto entusiasta con cui è solita affrontare le scalinate, le vedo i glutei fino allo scuro delle mutandine sotto i collant.
Il primo impulso è quello di rimproverarla ma, invece, subito mi prende una certa golosità contemplativa e mi gusto meglio le gambe di Silvia, cercando i punti più critici e seguendola per le scalette metalliche che vanno da una terrazza ad un'altra.
Silvia probabilmente capisce e in ogni caso sta al gioco e creandolo lei stessa in molte occasioni. La osservo e, d'improvviso, sento come mie le foto di Alassio, quelle che mi aveva chiesto di non sviluppare.
La seguo goloso e tranquillo: solo dopo un po' mi rendo conto di guardarla come se nei miei occhi ad ogni istante scattasse il diaframma di una piccola macchina fotografica.
"Voglio fotografare di nuovo. Fotografare sul serio."
Mia figlia mi guarda e forse le sembro buffo, patetico.
"Potrei usarti come modella.", azzardo.
Ho tante immagini negli occhi, quasi allucinazioni. Figure geometriche, panorami e il corpo di Silvia che si confondono attorcigliano. Cattedrali gotiche.
Silvia mi guarda, cerca di capire e forse vuole farmi capire anche lei un messaggio. Sento un disagio pesante nella sua voce: "Va bene. A cosa pensi?"
Penso a tante immagini, così tante che forse non penso a nulla. Vedo luci, ombre: quelle degli alberi, quelle della panchina su cui mi sono seduto e quelle del corpo di Silvia.
Le ombre del corpo di Silvia sulla sua stessa pelle.
Eppure, anche adesso se modellassi e fotografassi l'immagine che ho davanti agli occhi, la gente coglierebbe solo la nudità di un corpo, non queste ombre. Se esistono: anch'io probabilmente certo di ingannare me stesso. Allucinazioni?
Con tristezza e delusione guardo le gambe di mia figlia e penso che dovrebbero essere esposte con cartello: "Guardatele come arte, non come carne".
Dove comincia il desiderio finisce l'arte. O l’arte è solo un modo diverso di esprimere desiderio?
Gli occhi di Silvia ridono bevendosi i miei.
"Faccio il filosofo tra me e me.", mi giustifico provando un po' di tardiva vergogna per gli sguardi con cui l’ho frugata per tutta la passeggiata.
"Mi piace la filosofia!"
"A me no!", faccio per puro spirito di contraddizione e per sviare i miei pensieri. Ma è Silvia stessa a riportarmici bizzosa.
"Allora non me lo vuoi dire?"
"Cosa?"
"Cosa pensavi!"
"Pensavo alle mie foto. E ti guardavo le gambe."
Se le guarda anche lei: la sinistra appena un po’ più avanti della destra scoperta, oltre che dalla gonna corta da un sottile spacco sul davanti. Silvia ci pensa un po’ poi porta avanti la destra e sulla sinistra lo spacchetto si chiude.
"Meglio prima!", commento.
"Perché? Sono uguali!"
Passano vicino due ragazzi, quasi non ci vedono, e quando sono abbastanza lontani io riprendo: "Lo spacchetto è a sinistra!"
Mia figlia fa una smorfietta: "Per come è corta la gonna non cambia nulla!"
Però riporta la gamba sinistra in avanti. Resta un po’ ferma, poi si allontana.
Aspetto un attimo e io mi alzo dalla panchina per andarle ancora dietro. Torniamo verso casa e le scale in discesa ci aiutano meno nel nostro gioco a anche il vento si è stancato, mentre il cielo non solo perde luminosità ma proprio si rannuvola.
Passo dopo passo, rientriamo a casa.
Silvia si ferma a metà corridoio per sfilarsi le scarpe e intanto continua a parlarmi: "Le foto che avevi esposto a Firenze sono quelle che tieni nelle due cartelle rosse in camera tua?"
"Sì. Ho alcune copie anche in negozio."
"Non mi piacciono.", commenta secca.
Deluso e piccato la seguo in camera sua: "Non ti piacciono come foto o non ti dicono niente come messaggio?"
Alzata di spalle ed intanto si sbottona la camicetta verde ed azzurra di lino grezzo che ha addosso: "Non mi dicono niente. Quella di mamma tra i manichini è l'unica che mi piace. Col manichino a destra che ha un'aureola luminosa. Quelle dove invece metti tanti coni in un tubo arrotolato a ciambella le trovo stupide."
Si distrae perché le si è staccato un bottone.
"Si chiama toro, il tuo tubo arrotolato. Ed era di argento macchiato di rosso, cioè di sangue. Una specie di corona moderna intorno alle forme della matematica."
"Allora non mi piace perché io odio la matematica!"
La camicetta si apre quasi distrattamente e sotto Silvia non porta niente.
Mi volta la schiena e con disinvoltura prende il reggiseno e lo infila con un gesto semplice e abituale; non ho praticamente visto nulla, ma mi prende lo stesso una vampa tiepida in testa.
"Poi c'è quella del cono e di un cubo scheggiato su una tavola: anche lì non ci vedo proprio niente."
Rifiuto ogni associazione tra chi vede e chi non vede e spiego con tristezza: "Ci sono le ombre da vedere: come si spezzano, come s’inseguono senza mai raggiungersi. Ho usato tre fari quasi orizzontali, due bianchi - non neutri: bianchi proprio - ed uno azzurro."
Da vedere c'è anche Silvia che continua a cambiarsi, e tolta la minigonna, si sfila i collant da sotto la minigonna. Lo fa con poca classe, anzi quasi perde l'equilibrio.
Adesso sono io che posso sorridere di lei, di quel suo muoversi a piedi nudi con addosso solo mutandine – nere come le avevo viste - e reggiseno.
Una scena un po' falsa e forzata che dura anche qualche attimo di troppo, finché Silvia va a prendere la maglietta bianca con il disegno stampato della faccia da Topolino che porta sempre in casa e la infila dalla testa.
"Tranne le mutandine, ti sei tolta tutto", la stuzzico e non so neppure io se lo faccio perché il vederla mostrarsi e cambiarsi mi ha eccitato o perché mi ha offeso il suo giudizio sulle mie foto.
Silvia mi guarda ed esita solo un attimo: poi si sfila davvero lo slip.
Questa volta la vampata che mi prende in testa è proprio calda. Inghiotto mentre Silvia, improvvisamente arrossita, fa un passo verso di me.
Senza neanche un centimetro di scarpe è proprio piccola.
Alla fine raccolgo lo slip che è caduto per terra, lo poso su una sedia e poi sollevo le braccia e applaudo lentamente alcune volte. Silvia improvvisamente si mette dietro la sedia. Spettacolo finito.
Mi giro e vado in cucina dove scopro che il mio cuore ha perso alcuni colpi ed io ho trascurato parecchie inspirazioni.
Mi bevo un bicchiere d'acqua, mi siedo e mi sento più idiota di quanto mai mi sono sentito.
Silvia di là, chissà cosa sta facendo.
"Ma cosa sta succedendo?", mi chiedo sbigottito.
Vorrei ridere, ma sento male dentro il petto.
Siccome siamo per uscire, la cena la facciamo in pizzeria ed io, prima della pizza, mi faccio portare anche una razione di farinata che mi piace e che pure è da tanto che non mangio.
La mia pizza era al gorgonzola e mi sento proprio l'alito pesante, ma lo stomaco soddisfatto.
Chissà perché ogni tanto a Silvia viene da ridere guardandomi. Sono troppo gastricamente soddisfatto per prendermela.
Quando usciamo io vorrei prolungare la serata e andrei volentieri a vedermi un film, ma Silvia vuole tornare a casa per rivedere storia. Potrei andare da solo e sarebbe magari la volta giusta per vedere Cucù, però in fondo, piano piano, accetto l'idea di tornarmene a casa. Forse è la birra che mi fa venire sonno o forse ho davvero mangiato troppo.
A casa prendo le carte e faccio cinque volte un solitario che non mi vuole proprio riuscire. Sono quasi le undici quando accendo il televisore per vedere lo sport. Silvia, già in camicia da notte, viene a vedere anche lei qualche minuto, poi mi da un bacio e se ne va letto.
Mi guarda strana mentre si allontana e non capisco i suoi occhi o forse li capisco più tardi, all'improvviso, e sospetto in essi un invito a seguirla. Allora mi alzo e vado fino alla sua camera: la porta è aperta e alla luce del comodino puntata verso il pavimento vedo il suo corpo disteso sul letto immobile e completamente nudo. Esito a lungo, poi, silenziosamente come sono arrivato, me vado via nella mia stanza. Non credo di essermi fatto sentire.
Fatico moltissimo a addormentarmi, ma poi la notte fugge via veloce e, quando mi sveglio l'indomani, Silvia e già a scuola.
Vado in negozio anche se è giorno di chiusura e stampo su carta i negativi ricavati dalle diapositive di mia figlia, provando a lungo varie carte e filtri diversi. Alla fine scelgo i materiali che mi sembra più adatto e preparo dei fogli da poster 50x70.
Sono circa trenta minuti che lavoro e già alcuni fogli stanno asciugando quando sento suonare la campanella della porta posteriore. Vado ad aprire bestemmiando tra i denti contro chi viene a rompermi, ma mi rabbonisco vedendo Giorgio.
Lo lascio entrare, mentre lui si giustifica dicendo che ha visto le luci accese attraverso le maglie della saracinesca e temeva ci fossero i ladri o che io le avessi dimenticate. Trova strano trovarmi al lavoro di lunedì mattina e, infatti, è un’eccezione.
Lui è stato in montagna a sciare, è bruciato in volto e sulle braccia al punto che la pelle qua e là si squama.
"Niente crema sul naso?", scherzo. Parliamo un po’, senza fretta finché ci manca l’argomento e restiamo un po’ zitti.
"Bene – dice Giorgio, alla fine e con un po’ d’impaccio - per fortuna eri proprio tu!"
Forse se ne andrebbe anche subito, ma le foto con Silvia sopra sono in bell’evidenza e il Giorgio, appena ne inquadra una, cambia espressione: "Ma quella è…"
"Sì. È!"
Sono un po’ imbarazzo, ma mi diverto a vedere gli occhi di Giorgio.
Inghiotte ed evita di guardarmi: "Però!"
"Però?", lo stuzzico.
"Però! Però e basta!", ripete e guarda ancora. Chiaro che non mi molla più.
Io ritorno a sviluppare e lui mi viene dietro anche nella camera oscura; mi aiuta e soprattutto guarda.
Prima di mezzogiorno abbiamo finito e il nostro lavoro è steso - una ventina di fogli - ad asciugare.
"Si è fatta una splendida ragazza!"
Già: le ragazze sbocciano d'improvviso, come i fiori.
"Sei sfortunato."
"Perché?"
"Perché? Perché è tua figlia!"
Già: una figlia bruttina corre meno rischi in questo mondaccio. Poi mi chiedo se Giorgio non voleva intendere un'altra cosa e lo guardo male. Ad ogni modo una delle fotografie devo regalagliela e non lo faccio troppo mal volentieri: "Ma ricordati che è di mia figlia: ti considero responsabile dell'uso che ne fai!"
Scherzo, ma non troppo e Giorgio lo capisce: "Questo poster non sarebbe più sicuro neanche nella stanza di un pontefice!"
"Allora viva il clero!"
Corsa fino a casa per preparare un'apparenza di pasto, ma il risultato è una specie di pasticcio che mangiamo abbastanza perplessi. Silvia non fa commenti sulla mia infelice prestazione casalinga e il pomeriggio viene in negozio.
Ritiro le fotografie e mi manca la voglia più che il coraggio di mostraglierle.
In compenso, mia figlia mi parla di vestiti per cinque ore.
Il momento lo trovo la mattina del giorno del matrimonio di Claudia, appendendone due in negozio - non ostentate, ma visibili – mentre una più sexy e di formato più grande la arrotolo per metterla in camera mia: una foto in cui l'aria da pulcino spaventato di mia figlia contrasta col suo corpo nudo e generoso.
In cuor mio penso che si arrabbierà quando le vedrà, ma forse non lo vorrà ammettere.
Poi torno a casa e con Silvia ci prepariamo per la cerimonia e io mi sento elegantissimo nella mia nuova giacca, con una cravatta di seta fermata da una spilla d'oro. Sono fin troppo bello, ma devo cercare di non sfigurare al braccio di Silvia che ieri è anche andata dalla pettinatrice e deve averla fatta impazzire tutto il pomeriggio; la guardo e mi sembra inappuntabile.
Anche un tocco vivace e seducente nel suo profumo.
Arriviamo con quel minimo giusto di anticipo - non sono stato tanto preciso neanche quando lo sposo ero io - e riceviamo subito il saluto di Claudia che ci bacia entrambi sulla guancia: "Sono felice di vedervi, proprio felice!"
"Credo che tu sia felice di tutto oggi!"
Lo è, guarda Silvia di nuovo e le sorride: "Sei splendida! Sembra che tu ti sia preparata per un ballo di esordio in società!"
Mia figlia che si aspettava qualche cattiveria a cui ribattere ci resta un attimo male, ma forse Claudia l'ha detta giusta due volte: per il vestito e perché forse davvero per mia figlia questo è un piccolo esordio da signorina in società.
La cerimonia religiosa in chiesa è lunghissima e devo proprio faticare, come tutti i presenti, per non spalancare troppo le fauci negli sbadigli. Un mio vicino, non troppo dignitoso, cerca con falsi colpi di tosse di camuffare il suono inequivocabile che gli è sfuggito dalla gola a causa dell'appetito.
Come unico svago esamino gli altri presenti ed in particolare cerco qualche donna carina, ma almeno per l'ultimo punto scopro presto di non avere a tiro bersagli validi.
Allo scambio degli anelli molte lacrime femminili ed un po' di groppo prende anche me: ma guarda un po' come va il mondo!
Silvia mi cammina davanti ancheggiando moderatamente: colpa, se è una colpa, dei tacchetti alti a cui non è abituata. La guardo distrattamente. Un fotografo che non mi pare troppo in gamba continua a inquadrare gli sposi accecandoli col flash, e solo raramente si ricorda anche degli altri invitati.
Per quanto mi riguarda meglio così: io adesso vorrei quasi tornarmene a casa di nascosto e, se non fosse che mia figlia pare quasi divertirsi e trova anche con chi scambiare qualche chiacchiera e qualche risata, lo farei anche. Un tipo piccolo e pelato mi interpella a bruciapelo per chiedermi se sono un cugino della sposa. Grugnisco che sono solo un vecchio, vecchio, vecchio amico.
"E quella è sua figlia? Splendida ragazza, veramente!"
Già: probabilmente spera che gliela presenti, cosa che io invece evito con cura. L'uomo sospira senza troppo nascondere la delusione, ma si riprende: "Io sono un cugino dello sposo, figlio del fratello maggiore di suo padre. Sono il tipico parente che si vede solo a matrimoni e funerali!"
Scambiamo qualche frase e finiamo per legare meglio.
Tutto sommato, ho trovato un compagno abbastanza gradevole e anche al rinfresco sediamo vicini, mentre Silvia mi è di fronte, un po' di lato e mi sorride spesso, anche se i suoi vicini mi paiono parecchio noiosi. Adesso le ho presentato il mio vicino che di nome è Cristiano e lui, per sdebitarsi, mi ha presentato sua moglie che di nome è Walterina. Io dapprima capisco Caterina poi, quando lei mi corregge, resto interdetto: "Walterina?"
"Strano vero? Mi sono sempre chiesta dove i miei genitori siano andati a prenderlo questo nome. È il femminile di Walter, ma poi? Quando ero giovane mi facevo chiamare Cristina e di chiamarmi Walterina mi vergognavo tantissimo. Adesso quasi mi piace!"
Vorrei chiederle se ha dei figli, ma non lo faccio perché mi sembra di capire che non ne ha. La donna mi chiede di mia moglie e quando le dico che è morta mi chiede scusa più volte, quasi l'avesse uccisa lei.
"Assomigliava molto a mia figlia.", dico per cambiare discorso.
E, infatti, parliamo di Silvia.
Claudia passa a salutarci tutti: vorrei sentire cosa dice a Silvia ma non ci riesco, però sembrano divertirsi entrambe e forse, quasi complici, disprezzarsi sempre ma con più simpatia.
Quando Claudia viene vicino a me ci abbracciamo, ma io non la bacio.
I suoi occhi ridono e, sicuramente per perfidia e vendetta, mi costringe a stringere la mano e a scambiare quattro chiacchiere con l'uomo con cui adesso dividerà il letto.
Pochi capelli anche lui, ma curati e tirati con cura sul cranio lucido, in modo da dare un'apparenza di fertilità ad una landa invece deserta. Riesco a non dirgli niente di particolarmente offensivo ed a corrispondere alla sua stretta calorosa ed un po' sudata.
Claudia sembra soddisfatta del nostro incontro. Anche Silvia. Scopro di odiare improvvisamente tutta l'umanità ed in particolare le donne. Le femmine intriganti e tutte schermaglie.
Rinfresco povero, ma si beve abbastanza e una buona dose di fumi alcolici nel cervello forse è proprio quello di cui ho bisogno.
Nello stanzone, in cui siamo radunati in circa settanta, fa sempre più caldo. Un piccolo colpo di scena è quando il mio vicino mi indica una piacevole vecchietta seduta al tavolo degli sposi: "Quella è la nonna di Claudia!".
"La mamma?", correggo, pensando di aver capito male.
"La nonna! Novantanove anni!"
Claudia non me ne aveva mai parlato: non che ce ne fosse motivo, però provo un po' di delusione per gli angoli – Tanti? Pochi? - della sua vita che non sono andato ad esplorare. Forse, se lei mi avesse parlato di sua nonna o, forse, se in qualche modo glielo avessi chiesto io, tra noi sarebbe stato diverso.
Gli sposi fuggono via verso le dieci di sera e noi invitati rimaniamo, ora restii ad andarcene, a bere le ultime bottiglie. Il vino e lo spumante mi hanno fatte venire un leggero mal di testa, ritrovo Silvia e anche lei ha un colorito molto acceso.
"Hai bevuto!", la rimprovero.
"Anche tu!", ribatte.
Mi guardo ancora intorno, prima di ricordarmi che era lei che cercavo e che non devo cercarla più: "Ce ne andiamo?"
Non risponde, ma è d'accordo. Salutiamo chi capita e andiamo fuori all'aria. Mi sento lo stomaco pienotto di beveraggi e anche Silvia si lascia scappare un paio di singhiozzi.
"Sono felice!", dice.
Io no, neanche un poco. Ma neanche infelice.
Faccio due giri a piedi per curiosare e saliamo in macchina. Non mi piace guidare l'automobile la notte e meno ancora quando ho bevuto, ad ogni modo arriviamo.
Posteggio ad un metro dal marciapiede e rinuncio ad entrare in garage. Domani…
Silvia sul sedile ha sonnecchiato per la mezz'ora di viaggio del tragitto, adesso si mette a cantare una canzoncina simpatica che piace anche a me e la canta bene, pianino pianino.
In ascensore quasi mi cade addosso, inciampando nel vestito o scivolando dai tacchi, e poi si mette a ridere. Rido anch'io anche se non ne ho voglia e la testa mi fa ancora più male.
"Bevuto ma non ubriaco!", come diceva mio padre…
Davanti alla porta di casa fatico a trovare la chiave, ma ci riesco ed apro incredibilmente al primo colpo. Lascio entrare Silvia, mi tolgo giacca cravatta e camicia e vado in bagno: quando esco mi sento una gran voglia di andare a letto a dormire e soprattutto non me ne frega più niente di niente e soprattutto niente di Claudia.
Mi metto in pigiama e faccio da sdraiato qualche esercizio di respirazione, finché scopro sulla parete la foto nuda di Silvia che mi guarda invitante. Non ho tempo che di contemplarla un attimo perché mia figlia in persona entra nella mia stanza e si lascia scivolare sulla sponda del letto. Non si è ancora tolta il vestito - solo le scarpe e le calze - perché non riesce a sbottonarlo sulla schiena ed è venuta a ricorrere al mio aiuto: "Se provo ancora finisce che lo strappo!"
Apro sette od otto piccoli lacci e il tessuto le scivola addosso liberando la schiena e scivolando in avanti. Silvia si tiene il vestito premuto sul seno, come potrebbe coprirsi con un cuscino. Non ha più bisogno di me, ma non pensa ad andarsene e non lo voglio neanche io.
Per un attimo penso sia una situazione sbagliata, ma mia figlia non è che leggermente brilla come me.
"Ti dispiace tanto per Claudia?"
"No. Ora è finita e non ci penso più."
Guarda intorno distratta e scopre fatalmente la foto. Non reagisce che con un indifferente: "Sono io quella?"
"No, sono io! Sono le foto di Alassio."
La guarda a lungo, con attenzione ma senza avvicinarsi.
"Non le hai buttate?"
"No. Le ho tenute."
Il corpo di Silvia ha un odore fortissimo di profumo, tanto violento che non posso non pensare che si sia profumata di nuovo adesso, prima di venire da me.
Lentamente si lascia andare sul mio corpo e mi accarezza. La lascio fare con una leggera apprensione e le sue mani arrivano fatalmente ad un punto delicato sotto lo stoffa dei calzoni di tela del mio pigiama. Non so cosa Silvia sappia degli uomini, ma che la sua presenza e le sue carezze mi abbiano fatto effetto è evidente.
Penso che ho fatto male a non chiudere a chiave tutte le mie letture e la mia stessa camera, poi non lo penso più.
"Voglio fare l'amore.", fa con una voce roca e le sue mani continuano, pur tremando. Non la fermo, sorpreso e curioso più che eccitato, anche se il mio corpo è pronto.
Potrei dare la colpa all'alcool, ma i miei pensieri non sono per nulla confusi quanto piuttosto assurdamente limpidi. Quello che le mani di Silvia mi stanno facendo non è ancora nulla che non si possa rinnegare o fingere di dimenticare, e mi affido al piacere che mi danno; poco per volta partecipo e cerco di guidarla con qualche parola e qualche consiglio, mettendo le mie mani sulle sue.
Quando Silvia cerca la mia bocca e mi bacia e io la bacio, non sono sorpreso di scoprire che il suo vestito è ormai scivolato via, in basso. E scivoliamo giù anche noi, il corpo nudo di Silvia sotto il mio.
Qualche imbarazzo di amanti che ancora non si conoscono ma si desiderano, facciamo l’amore con decisione, come a recuperare il troppo tempo perduto, come spaventati di non avere un domani.
Quando entro nella sua carne Silvia grida e il suo grido spezza qualcosa nel mio cuore. Come Adamo mi scopro nudo, ma non fuggo e non mi nascondo. Mangio la mela, non solo un morso. La divoro.
Abbiamo fatto l’amore a lungo, quasi crudelmente per i nostri corpi esausti.
Adesso sono immobile nel letto, Silvia altrettanto immobile sopra il mio braccio e contro di me: desidero solo il sonno e che una fitta che dal collo mi attraversa traditrice la schiena si attenui.
Siamo quasi abbracciati.
Non so che dire, ma lo sa Silvia: "Io lo volevo. Lo volevo da sempre. Ed è stato bellissimo. Io lo sognavo."
I suoi occhi sono fari febbrili e bellissimi.
Non vorrei dicesse niente: i pensieri ora si confondono di nuovo nella mia mente.
"Dormiamo, ora.", mormoro e Silvia si addormenta davvero subito, mentre io mi chiedo dove sarà caduto, stropicciato, per terra, il suo bel vestito e vorrei che avesse usato un profumo meno intenso. Mal di testa, mal di testa…
Mi sveglio verso le cinque di mattina, dopo tre ore di sonno, con la mente subito fastidiosamente cosciente, anche se stanca. Accanto a me Silvia si rigira mormorando qualcosa. Mi tiro un po' su, perché la posizione nel letto mi è ora insopportabile. Ancora il braccio.
Non provo sentimenti di nessun tipo, penso solo un meschino e baldanzosamente soddisfatto: "Però, sono fortunato: alla mia età con una ragazzina così giovane, così carina!"
Penso anche: "Potrei svegliarla e fare subito di nuovo l'amore."
Lo penso senza essere sicuro che potrei davvero.
Altri pensieri: "Povera piccola! Ma non potevi sceglierti qualche tuo coetaneo ingenuo come te?"
E dopo qualche attimo penso a quando la ragazza si sveglierà, ed io e Silvia ci troveremo davanti e qualcosa pure dovremo fare e dirci, e non sarà facile far finta che non è successo niente.
Ma perché fingere?
Lo spumante e gli altri vini di ieri sera non c'entrano niente.
Se non succedeva dopo il matrimonio sarebbe successo in qualche occasione.
Non è stata la prima volta per Silvia, anche se si è dimostrata acerba e un po’ confusa, ma tenera e generosa –troppo! – facendo l’amore.
"Continueremo come prima.", decido mentre già il sonno mio riprende.
Mi risveglio con un balzo al suono della sveglia e la faccio subito tacere. Prima di andare a letto avevo abbassato solo a metà le tapparelle ed ora la luce entra troppo violenta.
Silvia geme e si aggrappa al mio braccio e tiene gli occhi chiusi con forza mormorando con una vocina falsa: "Oggi non vado a scuola, non ce la faccio!"
Recita e mi irrito improvvisamente: "Niente affatto! Vai a scuola!"
Ma mentre parlo mi sento poco convinto e Silvia alza le spalle e piagnucola: "Ho sonno! Ho dormito pochissimo: e se mi interrogano ieri non ho neanche studiato!"
Cedo, ma non senza condizioni: "Va bene. Ma oggi studi e domani vai preparata."
Per risposta Silvia mi bacia il gomito e quasi me lo lecca. La guardo e lei, con un improvviso imbarazzo, tira il lenzuolo sul seno.
"Ho dormito male!"
Ride ed aggiunge: "Non sono abituata a dormire in compagnia!"
Non trovo la cosa divertente, anzi adesso sono preoccupato e riesco ad essere deciso: "Questa sera torni a dormire nel tuo letto."
Silvia si irrigidisce un attimo, ma non ribatte nulla.
Guarda qualcosa nella stanza: la sua foto.
Mi sento perduto. È facile spiegare come mi sento: ho paura.
Mi alzo senza guardarla.
Arrivo in negozio verso le dieci e trovo un cliente che mi accoglie quasi con dispetto: "Alla buon ora! Ieri chiuso ed oggi temevo chiuso di nuovo!"
Borbotto qualcosa di automatico come "Problemi familiari" ma non riesco ad essere gentile ed ho un tale frizzantino addosso che lo potrei anche prendere a pugni. Anche se farei meglio a dare una scazzottata a me stesso.
Le foto di Silvia sono anche qui a tentarmi. Potrei strapparle o al contrario esporle in vetrina. Alla fine le salvo in una grossa cartella insieme ad altri lavori che non hanno avuto molta fortuna.
Uno di quelli, un montaggio di solidi geometrici in un panorama di montagne, va ad occupare un posto che avevo liberato sulla parete. Lo guardo a lungo senza particolare emozione: giochi di luci che non dicono molto neanche a me, in questo momento.
Non riesco a pentirmi di quello che è successo con Silvia.
Anche con lei potrebbe non essere un problema. Ma se ora succede di nuovo?
Io voglio che succeda?
Mi accendo una sigaretta e scopro che mi trema la mano.
Il momento di tornare a casa per pranzo arriva dopo tantissimo tempo, ma sono tanto confuso e vengo preso di sorpresa. Apro la porta di casa mia con la stessa diffidenza con cui l'aprirebbe un ladro.
Silvia mi viene incontro con entusiasmo ma si frena imbarazzata a due passi da me tenendosi le mani dietro la schiena, senza osare baciarmi né sulle labbra né tanto meno sulla bocca: "Tutto bene in negozio?"
Rispondo distrattamente qualcosa di banale.
La ragazza indossa un vestitino leggero che portava l'estate scorsa e che le era corto e un po' largo: adesso è largo il giusto, e s'apre molto allegramente sul petto, mentre ovviamente è diventato ancora più corto. Un vestito da Lolita che ha messo apposta, e non posso che dare un’occhiata golosa a tutto l'insieme che, per quanto rapida, fa scoppiare Silvia in una risata e, adesso sì, me la trovo tra le braccia con la bocca sulla mia e con tanta voglia di lei.
Cerco di rifiutare il mio desiderio e ci separiamo subito. Silvia tiene le mie mani nelle sue - o sono io che gliele tengo? - e ride di nuovo con una felicità che non riesce a nascondere e soffocare: "Ho fatto un risotto! Deve essere buono sai?"
La sua felicità mi stuzzica e vorrei prenderla e trascinarla verso il letto invece che la tavola.
Ma ho paura, troppa paura.
Non so che dire e sbotto: "Facevi meglio a studiare invece che darti da fare in cucina!"
Non se prende e, riguardandole le gambe mentre mi cammina davanti, annuso nell'aria: solo leggermente più lieve, lo stesso profumo di ieri sera.
Cambio camicia sotto lo sguardo attento e indiscreto di mia figlia e andiamo a tavola.
Il risotto è buono, ma ho meno appetito di quanto Silvia sperava. Lei ne prende poco scusandosi che ha già praticamente mangiato cucinando e così mi guarda sorridendo e raccontando alcune cose banali. Parla senza riuscire a stare zitta.
Sono alle ultime forchettate quando mi confessa: "Sono contenta, sai?"
Faccio un'alzata di spalle perché proprio non voglio fare questi discorsi, ma lei insiste: "Sono felice che abbiamo fatto l'amore questa notte!"
"Forse domani te ne sarai già pentita.", rispondo, dando voce a quelle che sono davvero le mie paure.
"Tu non sei felice? Io sono felice per tutti e due!"
Alzo di nuovo le spalle: credo di essere felice. Ma dovrei alzarmi e prenderla a schiaffi: farebbe bene ad entrambi.
"Ti ricordi ogni tanto che sei mia figlia e che io sono tuo padre?"
Adesso è lei ad alzare una spalla, una sola.
Qualche attimo di silenzio in cui finisco il mio riso e lei mi prende il piatto e ricomincia: "Ma, come donna, ti piaccio?"
Non posso dirle di no, sarebbe troppo falso.
"Più di Carla?"
Certo. Come Lucia.
"E allora?"
Allora? Sono punto e a capo come sempre.
"Non può durare. Dovrebbero mettermi in galera per quello che ti ho fatto!"
Silvia mi parla con pazienza e per qualche attimo non la riconosco: "Io trovo tutto così semplice. Stiamo bene insieme, siamo sempre stati bene insieme!"
"Siamo stati bene come padre e figlia.", osservo malinconicamente.
"Siamo stati bene anche questa notte! Siamo stati bene anche in momenti in cui non pensavi a me come tua figlia!"
È vero. Di nuovo tutto è confuso e Silvia, col suo corpo e un po’ nudo, e col suo profumo è una preda così disponibile...
Cerco quasi con disperazione di essere onesto: "E se anche non fossi tuo padre, sarei un troppo vecchio per te!"
Mi si avvicina e il suo seno preme la stoffa leggera come se crescesse di minuto in minuto: "Non sei vecchio: io ti voglio così!"
Allungo le mani sotto il tavolo fino a trovarle le gambe.
Quasi viene da ridere a me, ora: "Se si sapesse in giro che cosa ti ho fatto finirei in galera per il resto della mia vita!"