Desidero essere sepolto povero e nudo. Povero, poiché quanto mi si trova indosso o intorno appartiene alla Chiesa: quindi non si deve spendere né per funerali né per lapidi né per ricordi o omaggi di fiori; nudo, ossia con la mia amata veste talare senza insegne, senza berretti, senza paramenti; e voglio trovar posto accanto a tutti i preti che hanno faticato prima di me e più di me, e il cui nome è dimenticato. Se verrà annunziata la fine della mia vita terrena, si scriva solo il mio nome con l'aggiunta parroco di San Giusto. Mi sento tanto povero davanti a Dio e in questa povertà voglio morire.
Marcello Labor
Marcello Labor scrisse questo testamento spirituale due anni prima della morte. Con le riflessioni davanti al Tabernacolo pubblicate postumamente con il titolo Le "Adorazioni Eucaristiche" del servo di Dio Marcello Labor si delinea così ai nostri occhi il profilo d'un sacerdote giunto alla piena maturità della vita interiore.
Le note biografiche di Alzatosi lo seguì e l'estratto della vita scritta da Vittorio Cian ci fanno conoscere le vicende esterne, i cinque quaderni postumi che si sono voluti intitolareI diari del Servo di Dio Marcello Labor rivelano qualche squarcio del suo mondo interiore: nei primi anni di vita cristiana (Zibaldone, anni 1932-1934), negli anni della vedovanza e della vocazione al sacerdozio (Quaderno IV, 1935-1938, e Quaderno V, 1938-1946). Il Libro secondo, del 1907 (il 'Libro primo' che lo precedeva è andato perduto) contiene le riflessioni di uno studente di liceo già conscio della sua vocazione di scrittore ed aperto al mondo mitteleuropeo. Il Giornale dei viaggi, 1934-1938 sono note di viaggio, ma anche il ritratto spietato d'una società spesso ipocrita e corrotta nell'Italia del secondo anteguerra. I Diari sono disponibili presso le librerie e via internet su www.dvd.it, www.ibs.it, www.libreriauniversitaria.it, www.unilibro.it (collegamento 'Libri Usati').
ALZATOSI LO SEGUÌ (Mc 2:14)
[Alzatosi lo seguì è un profilo di Marcello Labor tracciato da Antonio Santin, Vescovo di Trieste e Capodistria. Vi è preposta la dedica: AI MIEI SACERDOTI]
Mons. Marcello Labor fu un sacerdote dal quale abbiamo tutti qualche cosa da imparare. Lo abbiamo conosciuto, siamo vissuti con lui, lo abbiamo ammirato. E poi lo abbiamo pianto.
Sono convinto che ci farà bene averlo di nuovo per qualche momento davanti agli occhi. Accenderà nei nostri cuori il desiderio di essere veri sacerdoti. Come fu lui.
Per questa ragione ho tracciato alla svelta un breve profilo. Senza pretese. Ho fissato alcuni ricordi, così come affioravano dall'anima mia. Alcuni appena. Ma bastano, penso, a illuminare il nostro cammino, non facile, non piacevole, ma bellissimo. E a renderci felici nelle tribolazioni. Come fu lui.
Trieste, 29 settembre 1958
+ ANTONIO, Vescovo
Giovinezza
Come l'ho conosciuto?
Ero giunto a Pola nel 1918, verso la fine della guerra, trasferito d'urgenza, perché vi infieriva la spagnola ed il clero era ridotto di numero per la morte di alcuni sacerdoti. Non avevo ancora ventitré anni ed ero inesperto di cura d'anime. Mi trovai improvvisamente in una città colpita da una terribile epidemia, che mieteva paurosamente vittime. Questo mi costrinse a vivere fra letti e malati tutto il giorno e tutti i giorni. Al letto dei malati cominciai a conoscere i medici.
Poi l'epidemia svanì. Ma non cessò il mio compito fra gli ammalati. E fu lì che incontrai il dott. Labor.
Ne avevo sentito parlare. Aveva una moglie molto intelligente e due bimbetti. Era un bravo medico con vasta clientela di pazienti, pur non avendo titoli particolari di specializzazione. Però studiava sempre ed era aggiornatissimo su tutte le cure e gli strumenti nuovi della medicina, di cui aveva arricchito il suo ambulatorio. Tutti lo stimavano. E con tutti era sempre cortese. Cortese e cordiale anche con me sacerdote, lui socialista.
Si diceva che era il medico dei poveri. Ai poveri non chiedeva, ma portava. Passava frettoloso, elegante. Adoperava l'automobile per far presto. In alcune giornate riceveva nel suo ambulatorio la povera gente, gratuitamente. E le visite dei poveri erano eseguite con la medesima cura con la quale visitava i ricchi, quelli che pagavano. Il popolo umile gli voleva bene. Dicevano: è ricco, ma ama i poveri.
Quanto fosse popolare ci si accorse, ricordo, quando si sparse la voce: "Il dott. Labor ha la polmonite.E' grave." (Allora la polmonite era una malattia molto seria. La morte era in agguato; non vi erano gli attuali farmachi). Sembrava che fosse malato uno di famiglia. "Sta meglio? Sta peggio?" Se ne interessavano tutti. E quando fu fuori pericolo la città respirò.
Aveva un cuore aperto, sensibile per chi soffriva. Nel socialismo vedeva il lato umanitario. In fondo nel suo cuore ardeva la carità cristiana anche quando ben poco sapeva di cristianesimo.
Era nato a Trieste nel 1890, da genitori israeliti. Perdette la mamma quando aveva sette anni. Ebbe una educazione perfetta. Il babbo era un uomo retto e si sostituì alla mamma, che non c'era più, nella educazione dei suoi due bambini (il fratello morirà poi lontano, in America). Il padre dirigeva allora un importante istituto di credito.
Marcello veniva su limpido, diritto, generoso, ricco di sentimento. Vi era in lui una intima inconsapevole aspirazione a superare il peso delle cose e il limite delle circostanze per navigare verso mete più alte, più lontane. Aveva già allora l'anima di un mistico. La religione nella quale era nato non accontentava il suo spirito. Sentiva potente il bisogno di evadere, di procedere oltre. Il cristianesimo, pur non compreso, destava echi e richiami nel suo cuore.
Visse la sua splendida giovinezza nella Trieste borghese del principio del secolo, ma aveva un animo antiborghese, ribelle. Gli fu amico dolcissimo unico, fino alla morte, Scipio Slataper. Qualche riflesso di questo saldissimo sentimento fatto di affetto, di ideali, di speranze, può essere colto anche nell'Epistolario di Scipio Slataper uscito a cura di Giani Stuparich (Mondadori) dove un terzo delle lettere pubblicate sono indirizzate a lui. Frequentò il "Dante." Di intelligenza chiara e dotato di un vivo senso del dovere, fu costantemente il primo della classe, senza pose e senza superbie.
Ebbe un finissimo sentimento del bello e anima di poeta: la natura lo innamorava. Sul Carso, con papà Carlo e Scipio, si chinava a terra nelle doline a odorare i fiori, senza toccarli, per non profanarli, adorando Dio nella natura bella e profonda. Ripugnava da ciò che non era moralmente pulito, chiaro, onesto. La purezza già allora era un acnto che sgorgava dalla sua vita.
Studiò medicina a Vienna. Con impegno, perché concepiva questa professione come un servizio reso all'uomo. Era allora un umanitario come lo Slataper e inclinava verso idee socialiste. Nazionalmente era un italiano fervido e schietto. E pagò di persona a Vienna quando in una dimostrazione per l'Università italiana di Trieste sostenne con pochi l'urto degli assalitori e fu ferito. Vi è una lettera stupenda di Scipio, da Firenze, all'amico ferito (novembre 1908).
Di lui scriveva allora una donna allo Slataper una parola che mi sembra colga nel segno: "Ho visto Marcello e penso che forse ha ragione in tutto. Marcello è un essere molto bello, ha una finezza di sentimento che lo conduce oltre la giovinezza e oltre tante cose che la sua anima ignora, lo conduce a comprensione veramente rara e tutto il suo essere mi sembra la grande visione etica fatta uomo."
Medico
Si sposò, giovanissimo, con Elsa Reiss, appartenente ad una famiglia molto ricca di commercianti. Come lui, intelligente e sensibile. Fu un matrimonio d'amore, felice. Nel 1914 fu richiamato. Prestò servizio quale ufficiale medico a Lubiana (qui morì la loro prima creatura) e poi a Cilli, dove nacque Giuliana. Infine al fronte, in Galizia. E a Leopoli nacque il terzo figlio, Livio.
Finita la guerra, venne a Pola come libero professionista.
Esercitava la medicina come una missione. La sua attività era intensa perché non perdeva tempo. Il suo nome era il suo programma: lavoro. Era sempre occupato con i suoi ammalati, nei quali vedeva degli uomini da avvicinare con rispettosa premura. Non era solo la malattia che attirava la sua attenzione, ma l'uomo che soffriva, l'uomo spirito e carne, operaio, professionista, padre di famiglia, che egli considerava compiutamente e al quale non dava solo una medicina, ma se stesso, il sup interessamento affettuoso, che dal male si allargava a tutta la vita: lavoro, situazioni familiari, tragedie intime, storie di miserie e di errori.
"Per curare un polmone devo ridare fiducia. Ma non bastano le parole, devo mettermi a camminare al suo fianco."
Aveva il dono di saper camminare a fianco degli uomini. Quante volte, ricorda suo figlio, rientrando in casa trovavo un falegname che stava lucidando mobili o riparando tapparelle. Si trattava di un operaio socialista e quello era un modo decoroso di aiutarlo. Quando era atteso a Pola qualche grosso gerarca di allora, per precauzione quel povero padre di famiglia finiva qualche settimana in prigione. E quando usciva naturamente non trovava lavoro.
Una notte fui chiamato d'urgenza. Stava morendo il Preposito del Capitolo, Mons. Benussi. Egli mi aveva battezzato ed io gli diedi l'Estrema Unzione. Corsi dal dott. Labor che lo aveva in cura. Venne sfiduciato.
"Ho tentato tutto. Gli farò un'iniezione per sostenere il cuore. Ma ci sono poche speranze."
Quella notte mons. Benussi morì.
Dopo alcuni giorni ritornai dal medico. Dovevo fare il mio dovere. Eravamo ancora due estranei che si erano qualche volta incontrati e che avevano stima l'uno dell'altro.
"Vi sono dei casi dove l'uomo non può nulla. Solo la mano di Dio vi può arrivare. Sono dolente di non aver potuto fare di più."
"Dottore, lo so. Ma quando il medico ha fatto quanto poteva, merita tutta la nostra riconoscenza, a prescindere dal successo del suo intervento."
Qualche giorno dopo ci trovammo presso un'ammalata. Una squallida e buia cantina di città vecchia. Disordine e sporcizia e miseria. Non si sapeva dove posare qualche cosa. Capitammo quasi assieme. Io col Santissimo e l'Olio Santo. Preparai alla meglio sopra di uno sgabello, dopo di averlo sgomberato e pulito. L'ammalata era grave e la malattia ripugnante. La confessai, le amministrai la Comunione e l'Estrema Unzione, le dissi quanto il cuore e la situazione mi suggerivano.
Il medico in un angolo attendeva.
"Dottore, grazie della pazienza. Ora a Lei."
"Ha finito? Se vuole attendo ancora."
"Per ora ho finito."
Egli si getta sul letto, che era un mucchio di cenci sporchi, senza alcun riguardo. Sembrava ci stesse a suo agio. La esaminò accuratamente, premurosamente, come se avesse visitato una principessa.
Entra Gesù
I figli si facevano grandi. Seguivano le prime classi elementari a casa. Vi provvedeva una eccellente maestra.
E giunse l'età dei Sacramenti. Bisognava scegliere la strada. Pur lontano da ogni pratica religiosa, sentì che qualche cosa di essenziale sarebbe mancato ai figli se non avessero ricevuto la Comunione e la Cresima. Fui pregato di occuparmene. La maestra provvedeva all'istruzione religiosa coscienziosamente. Io la completai.
Ascoltai la prima Confessione dei due fanciulli e poi li ammisi alla prima Comunione. Ricordo ancora la cerimonia svoltasi in una cappellina di Suore. La mamma, commossa, fece anche lei la Comunione. Il babbo fu presente, ma non si accostò ai sacramenti. A ricevere la Cresima li accompagnò in automobile a Parenzo nella solennità di S. Pietro.
Fu festa lieta in famiglia. Vi era entrato il Signore. E vi sarebbe rimasto.
Intanto la moglie, da tempo sofferente di cuore, andava peggiorando. Era una creatura eccezionale, dalla mente limpida, dalla volntò ferma. Quanto più il male si aggravava, sembrava aumentare di energia e di forza morale.
I due piccoli continuavano ad accostarsi ai sacramenti, seguiti da me. Il mio ministero mi portava qualche volta dalla loro mamma, che non poteva lasciare la casa. Doveva anzi rimanere a lungo distesa. Ma pur malata (aveva il telefono a portata di mano), seguiva fatti, avvenimenti, iniziative e interveniva con suggerimenti, disposizioni, partecipandovi sebbene lontana. Più d'uno diceva: "Dal suo letto la signora Labor muove tutta la città."
Il campanello di casa era il suo tormento. Fra i medici più chiamati di notte era suo marito. Egli lavorava intensamente tutto il giorno. Avesse potuto dormire almeno la notte. Ma quasi ogni notte squillava il campanello di casa o il telefono.
La moglie correva ai ripari. A sera alzava l'orecchiante del telefono e chiudeva con un dispositivo il campanello. Ci riuscì qualche rara volta. Il marito, accortosi, prima di andare a letto ogni sera ispezionava telefono e campanello.
"I malati hanno diritto di chiamare il medico. E il medico ha il dovere di accorrere qualunque momento. Chi non la pensa così non faccia il medico." Era la sua risposta.
Ma con me la signora si lamentava. "Non ha un momento di pace e non mi vuole ascoltare."
Lui, che le voleva tanto bene, la accontentava in tutto, purché non si fosse trattato di nuocere al suo dovere.
"Don Antonio, avrebbe qualche libro per me? Sto leggendo il Vangelo."
Gli passai qualche libro. Gustò molto le più recenti opere di Papini e Ortodossia di Chesterton.
Ma, più dei libri, attraverso il dolore parlava il Signore nella sua anima, che non era sorda, perché aperta dalla carità.
Lo stato di salute della moglie si era aggravato ancora. A visitare l'ammalata erano venuti uno specialista da Roma a da Trieste il primario dott. D'Este e il prof. Manni. Era stata decisa l'amputazione di una gamba. La decisione fu accettata dalla signora con molta serenità. Ricevette i sacramenti. Poi nell'ambulatorio del marito trasformato in sala chirurgica (nella bella casa dall'ampia terrazza davanti a quelli che il popolo chiamava "I Giardini" e che formavano il nuovo centro di Pola) fu compiuta l'operazione. Il marito aveva voluto essere presente.
Egli portava ora con grande dignità l'acuto dolore. La sua vita si svolgeva fra i letti dei malati e quello di sua moglie.
E allora o si fa tacere ogni voce e ci si rinserra in un mondo fremente di ribellione e intristito dall'egoismo, oppure si accoglie la luce che piove lenta a illuminare terre e orizzonti sconosciuti, dai quali giungono parole ieri ancora vuote di senso, ma che oggi ci svelano il mistero della vita e della morte.
In quest'uomo retto, assetato di verità, che nell'intenso lavoro soffocava l'angoscia quotidiana, maturava un nuovo atteggiamento spirituale. Nel volto di Dio Padre, nel cuore e nella croce di Gesù si placava e si risolveva il suo dramma interiore. Il dolore lancinante non era una beffa crudele, ma il sacrificio che ogni uomo è chiamato ad offrire e ad unire al Sacrificio divino di Cristo, dal quale attinge bellezza, significato e preziosità. L'ansia di una maggiore giustizia e l'amore per tutti i fratelli, specie per i più poveri, diventavano la risposta al comando e alla sollecitazione dell'esempio di Gesù ed era questo che a quelle intime esigenze dava una dignitࣄ, una forza e una fecondità insuperabile.
Gli aveva scritto da Firenze Scipio Slataper, il 16 novembre 1910, delle parole profetiche: "La vita è fatta di rinunzie, cioè di ritrovamenti sempre più fondi del proprio essere. Naturalmente, essa è perciò fatta di dolore: ma il dolore è appunto il segno individuale che l'umanità è progredita di un passo. è terribile? Ma no! Basta che l'individuo senta ciò, senta di essere progredito, e allora il suo dolore si converte i gioia religiosa. Per questo il dolore è in fondo identico con la gioia."
L'approdo
Come S. Paolo egli incontrò Gesù e se ne innamorò. Fu un amore che ogni ora vide crescere sì da rendere facile ogni rinunzia, possibile ogni impresa, ricca di gioia ogni giornata.
Una mattina celebravo come di solito la Messa prima all'altare del Sacramento nel Duomo. Nella chiesa oscura poca gente. Alla Comunione vidi alla balaustra il dott. Labor. Il cuore mi batté forte e ne ringraziai Iddio. Era l'approdo. "Quando l'anima si volge a Dio in disperata preghiera, Dio l'ha già fatta Sua. Il figliol prodigo è sulla via del ritorno. Se i fratelli lo dovessero respingere, certo non lo respingerà il pastore della pecorella smarrita. Quando si cerca in alto e non più in basso lo spiraglio di luce che illumini nelle tenebre, significa che la Grazia, sempre immeritata, ha voluto toccare il cuore dello smarrito che invoca." La citazione è tratta dall'itinerario spirituale, che poco dopo la morte della moglie lo pregai di tracciarmi brevemente per un giornale. Egli mi accontentò, parlando in terza persona e cambiando qualche particolare poiché preferiva che non apparisse di chi si trattava. Chi legge queste pagine troverà l'intero articolo riportato in appendice: "Verso la luce." ["verso la luce" sarà prossimamente pubblicato su questo sito al link Marcello Labor and Mitteleuropa, n.d.r.].
Incominciava ora il nuovo cammino.
Non era uomo da fare le cose a metà. Messosi alla sequela di Gesù, lo seguì fino in fondo.
Si offrì per lavorare nelle Conferenze di S. Vincenzo e nell'Azione Cattolica, per organizzare conversazioni di cultura e di Religione in mezzo al popolo. Con stile nuovo, con metodi nuovi. Egli che veniva dall'altra sponda sapeva che cosa urtava, che cosa non faceva presa ed era inutile, che cosa poteva invece interessare. Indicò subito nuove vie e ci si mise sotto.
La sacra liturgia delle grandi funzioni, specie della Settimana Santa, lo attirava e lo commoveva.
Avido di conoscere, leggeva molto: opere che lo introducessero nell'anima del cristianesimo e lo aiutassero a camminare sicuro sulla via della perfezione.
A tanto fervore, la moglie diceva: "Quello alla mia morte si fa prete."
"Sono fantasie, signora. Come vuole che si faccia sacerdote? E Lei vuole morire per fargli strada? E poi ci sono i figli. E' medico e farà il medico. Abbiamo bisogno di buoni medici."
"Vedrà, don Antonio. Ricorderà queste mie parole dopo la mia morte." E a lui: "Mi par di sentire già come ti chiameranno: Don Marcello, don Marcello!" Egli sorrideva.
Le vacanze pasquali e quelle estive riunivano la famiglia per viaggi, escursioni, crociere, che gli davano un po' di riposo.
Nel Natale del 1933 tutta la famiglia venne a Fiume, dove quell'anno ero stato nominato vescovo. Fu una festa piena di letizia per tutti.
Pochi giorni dopo la loro partenza una telefonata da Pola: è morta la signora Labor. Accorsi nella casa colpita. Il cuore aveva ceduto: si era addormentata e non si era svegliata più. Fu per tutti un grande dolore, ma specialmente per lui che amava e stimava molto sua moglie.
Vi erano i due figli da guidare verso la vita. L'esempio del padre e la sua parola discreta avevano grande influenza sopra di loro. Erano due buoni figlioli, pieni di vita, di vivido ingegno, che cercavano la strada.
Il dottore dopo la morte della moglie si diede ancora di più alla vita interiore, ricca di orazione e di riflessione, e ad opere do apostolato. Il suo lavoro fra gli ammalati continuava senza dargli respiro.
Andò a Lourdes con i figli e ne ritornò con l'anima illuminata.
In quel tempo riuscii qualche volta a farlo venire a Fiume per parlare ai seminaristi e ai sacerdoti.
Mandò allora ad un giornale alcuni scritti, che mi piace riprodurre in appendice [Deo volente, saranno anche questi in Marcello Labor and Mitteleuropa, n.d.r.]. Essi ci fanno entrare nella sua anima mentre una mattina ascolta la Messa nel Duomo ("Ore mattutine") e un altro giorno assiste alla Benedizione eucaristica ("Idillio estivo") nel Santuario della Madonna di Siana, sempre a Pola, e un'altra volta ancora quando tiene a battesimo una bimba ("Com'è rinata la mia figlioccia").
E, per il suo modo di trattare questi argomenti, potranno anche interessare altri brani riportati alla fine di queste pagine: "Come parlerei ad uno sposo" - "...ad una sposa" - "...ad una mamma." [anche per questi si prevede la pubblicazione nel link succitato, n.d.r.].
Ripeto, era da poco morta la moglie, aveva i figli accanto e faceva ancora il medico.
&3160 Ma in pari tempo chiedeva al Signore di manifestargli la sua volontà.
Dopo la maturità classica, una mattina presto la figlia spiccò il volo. "Filii tui sicut novellae olivarum in circuitu mensae tuae" - "I tuoi figli come rami novelli d'ulivo intorno alla tua mensa." (Ps. 27:3). Nella sua nuova casa, in città lontana da Pola dove il marito insegna, la benedizione di una bella larga nidiata moltiplica il suo amore, la sua fatica, la sua gioia.
Il figlio aveva incominciato gli studi di medicina. Ma poi, per esigenza interiore, studiò filosofia e si laureò alla Università Cattolica di Milano. Da allora visse tra Milano e Roma.
Eccomi, Signore!
La casa era vuota, la strada aperta.
Il Signore aveva dolcemente parlato e gli aveva detto come a Levi: "Seguimi." "Egli, alzatosi, lo seguì" (Mc. 2:14).
Regolò ogni cosa materiale, provvide generosamente al personale, destinò una cospicua somma all'Azione Cattolica, divise tra i figli quello che vi era. Non tenne per sé nulla. Proprio nulla. La sete di povertà di S. Francesco lo aveva investito, ne ardeva tutto. Attendeva ansioso il momento nel quale avrebbe potuto dire: non ho più nulla, neanche me stesso, perché mi dono a Dio.
Di buon mattino, senza avvertire nessuno, partì. Era l'autunno del 1938. Andò a Torino. In un primo tempo aveva pensato che l'ambiente più adatto alla sua nuova vita fosse l'Opera Salesiana. La grande figura di Don Bosco lo aveva affascinato. Ma a Torino ritennero diversamente. Fu una mortificazione, che egli accettò con umiltà. Ripartì subito e venne a Trieste. E si presentò la sera a casa mia.
"Sono venuto ed eccomi nelle Sue mani." Lo guardai sorpreso e incerto.
"Ci ha pensato bene?"
"E me lo chiede?" Mi raccontò come aveva lasciato Pola, il suo viaggio a Torino.
"Ora sono qui. Come vede, ho tagliato completamente i ponti e indietro non ritorno. Chiedo umilmente di divenire sacerdote."
Ero pieno di ammirazione affettuosa. Ma non volevo che l'amicizia mi facesse velo. Parlammo a lungo. Mi convinsi della serietà e della rettitudine della decisione.
"Però bisogna fare il seminario."
"Lo farò."
Era medico da venticinque anni. Aveva fatto la guerra, aveva avuto una famiglia.
Il seminario certamente era necessario non solo per lo studio, ma anche perché incominciasse a respirare in un'atmosfera ecclesiastica. Ci voleva un taglio col passato e un'introduzione pratica alla nuova vita. Ma non è facile a quasi cinquant'anni vivere con giovani di vent'anni una vita ordinata, disciplinata. Sveglia, preghiere, scuola, studio, refezioni: tutto regolato da un orario, da ordini di superiori, che non conoscono differenza fra alunno e alunno. Eppure occorreva provare il gusto aspro e ristoratore dell'obbedienza, dell'umiltà, della carità, lo spirito di comunità, e quello era il luogo. In tutti i casi la prova era utile: il sacerdozio non è un'alea da correre se non vi è all'origine la volontà di Dio che chiamiamo vocazione.
Una cosa però dev'essere ben chiara e di questo posso io rendere piena testimonianza. Non era indotto da motivi razziali. Non cercava un rifugio; si offriva per essere messo allo sbaraglio. Non l'amore della vita quieta lo guidava, ma l'amore del suo Signore, che lo consumava, e la volontà di servirlo ad ogni costo fino all'ultima ora.
Telefonai a Venezia. Volevo un seminario estraneo. Ebbi l'immediato assenso.
Dopo qualche giorno partì.
E fu per un anno un umile e obbediente alunno, un intelligente e diligente scolaro. Professori e alunni che lo ebbero discepolo e compagno non lo hanno dimenticato.
Quante volte ebbi occasione di parlare con lui con il vescovo ausiliario Mons. Ieremich, con professori, con sacerdoti che ora occupano vari anche altissimi uffici, appresi sempre di quale profonda stima egli fosse stato circondato. I suoi compagni ricordano con gioia l'anno passato assieme nel solenne edificio della Salute.
A Natale venne a casa in veste talare. E sembrava che l'avesse sempre portata. Poche volte la veste ecclesiastica fu così amata e desiderata come lo fu da lui, per tutta la vita.
Ritornò per Pasqua e poi per le vacanze estive.
Gli avevo già detto che avrei abbreviato il tempo della preparazione, ma non lo studio. Avrebbe cioè dovuto dare tutti gli esami prescritti. Cercasse quindi fin dal primo anno di avvantaggiarsi con lo studio. Ed egli compì questo miracolo: dall'ottobre 1938 al settembre 1940 diede tutti gli esami, che ordinariamente occupano quattro anni scolastici. Una parte ne diede nel Seminario di Venezia, gli altri davanti a una commissione da me scelta, presieduta da Mons. Mecchia, uomo coscienzioso quanto preparato. Gli esami furono superati lodevolmente.
Dal luglio 1939 al settembre 1940 non solo si applicò allo studio con edificante impegno, ma funse da miosegretario, regolando in modo perfetto la segreteria sia a casa, sia durante la visita pastorale che in quell'anno mi tenne per molto tempo fuori sede. Come abbia fatto, io che lo ebbi continuamente sotto i miei occhi, ancor oggi me lo domando con un senso di stupore.
Egli, che già da medico non perdeva un minuto, da quando scelse la nuova strada considerò il tempo come un dono di Dio, che deve essere speso interamente per Lui.
Ricordo che persino coi figli era spicciativo in occasione delle loro rapide visite a Trieste, soprattutto nei primi tempi; comunque ache a loro fissava sempre un preciso e limitato appuntamento tra un'incombenza e l'altra.
Era eccezionalmente intelligente ed aveva un'esperienza molto ricca, ma certamente non avrebbe potuto fare né da chierico, né da sacerdote quello che ha fatto se non avesse avuto l'arte d'impiegare sapientemente tutto il suo tempo.
Rapido sbrigava la posta, riceveva molta gente e sapeva a ognuno dire quello che conveniva. Semplice, pieno di indulgente comprensione, non c'era chi potesse resistergli. Le situazioni più difficili trovavano nella sua mente una via verso la soluzione. Qualche volta mi confidavo con lui in cose non legate dal segreto. Le risposte erano piene di discrezione e di saggezza.
< La sua giornata incominciava alle 4:30. Aveva la camera vicino alla cappella. Appena pronto, vi entrava e incominciava il suo colloquio col Signore. Aveva il gusto della preghiera. Il tabernacolo attirava i suoi pensieri e il suo cuore. Alle 6 mi serviva Messa. Poi la macchina da scrivere incominciava a farsi sentire. Studiava. Riferiva sopra pratiche, impegni, questioni a lui affidate. Alle 10 saliva la processione di coloro che avevano qualche cosa da dirci, qualche cosa da chiederci. Una processione incessante ed estenuante.
Dopo le 13 pranzo. A mensa era gentile e qualche volta aveva una parola amabile per apprezzare quello che gli era stato presentato. Ma ordinariamente non si accorgeva neppure di quello che mangiava. Alla fine, a domandarglielo, non se ne ricordava neppure. Gli piaceva tutto. Quando qualche volta capitava qualche cosa di sgradevole mi rivolgevo a lui:
"Buono, eh, don Marcello?"
"Sì, sì, buono." Oppure mi guardava sorridendo. Non si lamentava mai.
Era parco al massimo. Mangiava proprio per vivere. Lo spirito di mortificazione in lui era continuo. Ma esso non era qualcosa di duro, di scostante, che richiamasse la sofferenza. Gli dava volt lieto e ridente. Non era un commensale triste, pesante. La conversazione era viva e varia sui fatti del giorno, sui fatti nostri, su problemi pastorali, culturali. Aveva una conversazione piacevole. Le sue osservazioni, i suoi giudizi erano nutriti di esperienza e di dottrina. I suoi ricordi, i nostri ricordi ritornavano dal passato a illuminare il presente. Ma appena terminato il pranzo si ritirava. Dicevamo assieme vespro e compieta e poi riprendeva a lavorare. Usciva di casa solo per dovere.
Amava la Chiesa: fu il più grande amore della sua vita. Ne parlava con fervore ed entusiasmo. Egli trovava Gesù nella Chiesa. Fiorivano sulle sue labbra le espressioni di ammirata confidenza, di filiale gratitudine, di sicura fiducia verso questa Madre comune e mentre parlava gli brillavano gli occhi. Spesso ne era commosso.
Meno i mesi più freddi e più caldi si rimaneva fuori sede per sette, dieci, dodici giorni consecutivi, ritornando poi per quattro o cinque giorni a casa. Era la visita pastorale che si teneva di decanato in decanato, ritornando a Trieste a decanato ultimato. Giornate intense a casa e fuori. Giornate faticosissime: ogni giorno una nuova parrocchia. Ed egli provvedeva all'occorrente, dirigeva le cerimonie, disponeva orari, udienze, visite, dava ordini draconiani in cucina per frenare lo zelo delle varie cuoche; e studiava. A sera tardi gli dettavo appunti, osservazioni, ordini e decreti. Ed egli scriveva a macchina. Stanchi si andava a letto dopo di aver provveduto a ogni cosa e la mattina dopo molto presto si riprendeva il lavoro. Fatto suddiacono, vi era il breviario. Egli amava recitarlo in chiesa assieme ai sacerdoti presenti. Terminato il pranzo, avvicinava i volonterosi perché lo accompagnassero in chiesa per la preghiera. Così di parrocchia in parrocchia.
Superato l'ultimo esame, si ottennero dalla Santa Sede le necessarie facoltà. E si arrivò all'ordinazione sacerdotale. Vi si era preparato ogni giorno nell'adorazione di Dio, nell'offerta totale di sé, nella rettitudine dello spirito, nella sete di perfezione che lo bruciava, nella visione chiara dei compiti che lo attendevano.
Fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1940, festa di S. Matteo, e celebrò la prima Messa solenne il giorno successivo. Dopo l'ordinazione gli parlai io da vescovo e da amico; alla prima Messa gli disse una calda parola il parroco di Pola, Mons. Angeli.
Conosceva perfettamente le cerimonie e si era esercitato nel canto. Faceva tutto con impegno. Una limpida e filiale pietà riempiva la sua anima che da Dio umilmente accettava la tremenda investitura. Il sogno balenato fin dai primi passi rapidi e sicuri sulla nuova strada, era realtà. Ancora medico, ma la singolare terapia che userà si comporrà di verità, di carità e di grazia. Ancora poeta, innamorato della bellezza, ma il suo canto, vibrante e alto, esalterà il regno di Dio.
Nell'antica Cattedrale la commozione aveva preso tutti i presenti. A S. Giusto in quei due giorni s'erano dati convegno amici, conoscenti, vecchi e nuovi, tanti. Erano giunti anche il figlio e la figliola con la famiglia.
La domenica dopo era già a Pola a celebrare e a predicare. Fu invitato, ma lo aveva anche desiderato. Aveva colà tanto lavorato da medico; voleva ora, alla città che aveva intensamente amato, offrire Gesù e la sua verità. Volle farmi conoscere quello che avrebbe detto laggiù erano parole che aveva lungamente meditato.
Per il ricordo dell'ordinazione scelse il potente quadro del Caravaggio, che rappresenta Matteo al telonio e Gesù che lo chiama. La faccia di Matteo è piena di grato stupore. Così egli aveva accolto, non al telonio, ma in un ambulatorio medico, la misericordiosa chiamata. E scriveva sull'immagine:
"Va...e annuncia...quanto per te abbia fatto il Signore, e quanto sia stata verso di te abbondante la sua misericordia." (San Marco 5:19)
Si concludeva un cammino lungo, avventuroso, singolarissimo.
Era nato ebreo. Ma subito aveva istintivamente sentito che quella non era la sua Casa. Gesù era venuto. Non ci si poteva fermare fuori della porta. L'anima era stata fin da principio naturalmente cristiana.
Scoppiata la guerra, la moglie aveva fatto voto alla Madonna che si sarebbero battezzati ambedue. Quando si trovarono a Lubiana, chiesero e ottennero il Battesimo (23 dicembre 1914). Forse era stata una cosa precipitata. La preparazione non era stata adeguata. Era stato l'adempimento di una promessa più che una conversione. La vita era continuata lontana dalla pratica religiosa.
Ma il Battesimo è un fermento che, se trova in un'anima le condizioni necessarie, vi fa germogliare una nuova vita. Qui le condizioni vi erano: rettitudine, ricerca della verità, carità operosa, sete di giustizia. Vi si aggiunse il dolore, che è un torchio il quale, quando l'uva è buona, spreme mosto generoso.
Così incontrò Gesù. E strinse con lui un patto di amore e di fedeltà, che prientò tutta la sua vita. Di questo nuovo cammino punto di arrivo, ma anche di partenza, il momento nel quale la basilica di S. Giusto vide questo medico a cinquant'anni salire deciso l'altare.
Guida verso l'alto
Consacrato sacerdote, bisognava dargli una destinazione.
Gli dissi: "Andrà a Capodistria a dirigere il Seminario quale pro-rettore."
"Dove Lei vuole."
L'obbedienza era in lui fede limpida e accettazione amorosa della volontà di Dio. Ben so che sarebbe andato lietamente, senza rimpianti, l'avessi destinato anche alla più minuscola e sperduta frazione dell'Istria.
Non era un seminario ideale, quello di Capodistria. Ricordiamo com'era nato.
La diocesi di Parenzo e Pola aveva aperto a Capodistria, alla fine dell'Ottocento, un Convitto vescovile ad accogliere gli alunni che frequentavano quel ginnasio statale e dimostravano di avere vocazione al sacerdozio. Ospitava pure un gruppo di alunni della diocesi di Trieste e Capodistria, a cura del Comitato dei Santi Giusto e Nazario costituitosi a questo scopo. Il Convitto aveva sede nel palazzo Grisoni.
Dopo l'unione della nostra zona all'Italia vi si aggiunsero l'attiguo palazzo di calle Eugenia, la Rotonda (antico battistero usato fino allora quale teatrino) che divenne la nuova cappella, e un nuovo padiglione intitolato a Pio XI, dono della Santa sede. Si ebbe così un complesso edilizio formato di case vecchie, non costruite a quello scopo, e di una nuova ala. Nell'anno 1927 il Convitto si trasformò nel Seminario Minore interdiocesano, eretto per le diocesi di Parenzo-Pola e di Trieste-Capodistria. Vi si aprì il ginnasio-liceo e vi si organizzarono gli studi sull'esempio degli altri seminari d'Italia.
Creatore della nuova istituzione era stato il compianto Mons. Sirotti, che ne fu l'anima sino al 1933.
Ora vi andava lui.
Assumendo la direzione dell'importante istituto, vi portò il suo concetto altissimo del sacerdozio, la sua esperienza di padre, la sua sensibilità di educatore e il suo occhio clinico di medico. Entrò con lui nel Seminario un soffio fresco di vita nuova. Avvicinava tutti, acquistandosi la fiducia affettuosa di ognuno: superiori, professori e alunni. Portava nell'anima un ardore che tutti riscaldava.
Un giorno alla settimana veniva a Trieste ad informarmi. Passava in rassegna ogni cosa. La sua relazione era la fotografia della vita del Seminario nei minimi particolari. Chiedeva consiglio, faceva qualche proposta.
Nella stessa giornata andava anche a S. Antonio Nuovo e si metteva nel confessionale a disposizione delle anime. Gli avevo infatti suggerito di esercitare un po' di ministero nel confessionale e nella predicazione. Aveva accettato con gioia. Era un eccellente direttore di anime, così che i penitenti si andavano facendo sempre più numerosi. Ugualmente a Capodistria, dove la domenica celebrava in Duomo la Messa ultima, ascoltatissimo.
Nella parte vecchia del Seminario cercò di aumentare i servizi indispensabili. Abbellì la cappella, che fornì di nuovi, preziosi paramenti.Il suo cuore era soprattutto lì. E quando andavo a Capodistria voleva che vedessi tutto; era felice se aveva da mostrare qualche cosa di nuovo che era riuscito a donare al Signore.
Usava estrema delicatezza con le suore Elisabettine - che curavano la cucina e il guardaroba del seminario - alle quali predicava il ritiro, perché a chi dà con tanto sacrificio la sua opera, diceva, bisogna ridare comprensione e aiuto spirituale.
Erano tempi difficili. La guerra creava situazioni pesanti. Incominciavano a scarseggiare i viveri. Era medico e perciò si preoccupava dell'alimentazione e della salute degli alunni.
Ed era giusto con tutti. Se prese delle disposizioni che a qualcuno potevano sembrare non eque, so io quanto esse furono meditate davanti al Signore e suggerite solo dal cocente desiderio di dare una profonda formazione spirituale ai futuri sacerdoti. Aveva il senso della giustizia nel sangue.
Impazzavano allora le nuove teorie razziali portateci dal nord. Sapeva quanto avevo fatto e facevo in difesa degli ebrei perseguitati. Ma mai mi parlò della sua situazione o dimostrò qualche apprensione. Continuò imperturbato e sereno nella sua attività. Non era un incosciente. Intelligente e sensibile com'era, vedeva, giudicava e soffriva. Egli però era abbandonato alla volontà di Dio, pronto a ogni rischio e pericolo, tranquillissimo. Sopra tutti gli eventi vedeva in Dio il Padre, che lo amava, e il Paradiso che lo attendeva e al quale anelava con intensa nostalgia.
Diceva: "L'Italia ha scelto una via che è contro la sua storia e il suo interesse. Ma soprattutto una via ingiusta. L'Italia è l'ideale della mia giovinezza; l'amore appassionato di tutta la mia vita. Tanto più soffro per la sventura alla quale va incontro."
Esiliato
Venne il 1943. Dopo l'8 settembre i tedeschi crearono il Küstenland e se ne fecero padroni.
Un giorno mi capitò davanti. Era tranquillo. Mi disse: "I tedeschi mi hanno dato 48 ore per abbandonare il Küstenland. Altrimenti..."
Lo guardai in silenzio. Egli lesse nei miei occhi tutto l'affetto, la tristezza e la preoccupazione per lui.
"Non si preoccupi. Dove mi manda?"
Esaminammo insieme la situazione.
"A Roma?"
"E' troppo lontano. Vorrei essere qui vicino."
Appena fuori dai confini segnati dai tedeschi, vi era la diocesi di Portogruaro.
"Andiamo da Mons. Paulini" gli dissi. Salimmo in automobile e raggiungemmo Portogruaro. Il venerando vescovo era malato. Ci accolse con l'affabilità, che gli era naturale.
"Il parroco di Fossalta di Portogruaro mi chiede un cappellano. Ecco pronti lavoro e casa."
Preparò un decreto. Ritornati a Fossalta lo consegnai a quel parroco.
Gli dissi: "Ha un tesoro. Ne avrà grande aiuto."
Lo abbracciai commosso e ritornai a Trieste, pensando come lo avrei sostituito a Capodistria.
A Fossalta s'accorsero presto che cosa racchiudeva nel cuore quel sacerdote umile, semplice, sempre amabilmente pronto, che era capitato all'improvviso in mezzo a loro e ne approfittarono. Tutti. Fedeli e sacerdoti. Ma per lui lavorare era come andare a una festa.
A Fossalta non l'hanno dimenticato. I sacerdoti della zona e i fedeli ne parlano con ammirazione e gratitudine. Fu un brutto momento per loro quando terminò il suo operoso esilio.
Se passavo per Fossalta (conferenze episcopali o altre occasioni) mi fermavo in canonica. Mi narrava del suo ministero: predicazione, confessionale, malati, esercizi spirituali, religiose, clero. Dimenticava tutto, anche la guerra, anche la sua situazione anormale e non sicura: come un torrente impetuoso gli sgorgava dal cuore la gioia di donare Gesù alle anime, la sete di sacrificio e di apostolato che gli ardeva dentro.
Terminò la guerra. Lasciai passare anche i famigerati quaranta giorni. Poi, come lo avevo consegnato a quel vescovo, così andai a ringraziare e riprenderlo.
E rientrò a Trieste.
In prigione
Gli dissi con semplicità: "Ed ora Lei ritornerà a Capodistria, dov'era prima.
E vi ritornò. Riprese il suo posto di Rettore, come se nulla fosse successo, con quell'impegno illuminato e illimitato, che poneva nel suo compito.
Capodistria era in mano di Tito, che vi aveva instaurato il suo regime comunista. Non imperava la legge, una legge. L'odio, il capriccio, gli interessi, l'ignoranza di ras maggiori e minori disponevano di uomini e cose. Ma il Seminario continuava la sua vita. Vi fui ripetutamente per rendermi conto della situazione.
Riprese il suo lavoro: plasmare anime sull'esempio di Gesù, specialmente le anime sacerdotali. Parecchi giovani sacerdoti lo avevano scelto come guida spirituale. A Capodistria e a Trieste aumentavano le persone che richiedevano il suo ministero e i suoi consigli. La sua parola ardente, chiara, priva di retorica, sempre ricca di dottrina, che non si staccava dai gusti sani degli uomini di oggi, perché a loro era diretta, era ricercata.
La dignità sacerdotale era in lui sopratutto esigenza personale di virtù autentica, di santità di vita, di nobile equilibrio. E raccoglieva il rispetto convinto di uomini di tutte le idee.
S'impose così anche nel nuovo ambiente politico e sociale di Capodistria. Continuò a predicare nel Duomo, senza nascondere la verità.
Continuava a venire regolarmente a Trieste ogni settimana: prima con la barca, poi con il vaporetto quando fu ristabilita la linea.
Così passarono quei due anni. Nel giugno 1947, per S. Nazario, avvennero i noti fatti, che lasciavano presagire poco di buono per il Seminario. Poi le cose precipitarono anche per questo. Narra un testimonio presente: "Ricordo la prima settimana di agosto. Era ormai chiaro che l'avrebbero arrestato. Conservò in quei giorni la sua normale attività: preghiera, studio, disbrigo delle cose più comuni per la casa. Riusciva a vincere l'agitazione e la sofferenza. Leggeva spesso i tratti del Vangelo che ricordano la Passione del Signore. Fu arrstato il giorno 13 agosto. Mi trovavo in casa. Lo videro passare per il Brolo in mezzo alle guardie popolari pallido, ma composto e sereno."
Quando l'avevo invitato a lasciare Capodistria per il timore di quanto poteva eventualmente accadere, mi aveva risposto fermamente: "Se permette, preferisco rimanere al mio posto." Anche quella volta ero rimasto ammirato.
Il Seminario fu perquisito, saccheggiato, devastato. L'odio contro Dio e la Chiesa era il solo vero motivo. Le solite imputazioni dissennate, alle quali nessuno credeva, nemmeno gli accusatori, erano puri pretesti.
Fu imbastito un processo. Affidai la difesa all'avv. Stocca, che allora era l'unico che fosse ammesso a quel foro, se si può parlare di foro quando degli uomini arbitrariamente condannano altri uomini a pene già preventivamente stabilite da un partito, solo perché non condividono le loro idee e no approvano le inumane imprese d'un regime inumano.
L'avv. Stocca mi riferiva i colloqui che aveva con don Marcello e le impressioni che ricavava dai contatti che procurava di avere con gli organi del tribunale. Il sacerdote, tranquillo, conduceva la sua vita fra preghiere e letture in attesa di sapere per quanto tempo sarebbe rimasto in prigione. L'avvocato mi informava che non vi era nulla da sperare perché una legge sola vigeva, l'odio, contro il quale non valevano né testimonianze, né argomenti giuridici.
Ai primi di ottobre fu condannato a un anno di carcere. L'avvocato mi avvertì di aver saputo che con una domanda di grazia gli avrebbero condonato il resto della pena. Don Marcello gli aveva detto che avrebbe fatto quello che gli avrebbe suggerito il vescovo. Mi preoccupai che la domanda non riconoscesse alcuna delle colpe di cui era stato accusato. Così fu da lui firmata e presentata. E il 30 dicembre uscì dal carcere e venne a Trieste.
Aveva subìto l'esilio dai tedeschi e il carcere dai comunisti di Tito. "Beati sarete voi, quando vi oltraggeranno e perseguiteranno, e falsamente diranno di voi ogni male per cagion mia." (Mt 5:11). Era veramente beato. Non aveva perduto la sua lieta pace, il suo fervore, il suo zelo per le anime.
"Ed ora che mi fa fare?"
Lo mandai a Gorizia dove avevamo gli alunni del Seminario perché li dirigesse spiritualmente. Ma ogni settimana scendeva a Trieste a continuare il suo ministero di confessionale e di predicazione.
Pastore
Intanto era morto il parroco di S. Giusto, i mite e amabile Mons. Guido Galvani. Durante le vacanze scolastiche estive di quell'anno (1948), don Marcello fu nominato canonico del Capitolo Cattedrale e parroco di S. Giusto. La nomina fece in città buona impressione.
S. Giusto è una parrocchia vasta e difficile. La chiesa è in cima al colle, staccata dalle case dei parrocchiani.
#160 "Come farò? Non posso avere una chiesa piena solo nelle grandi occasioni e per di più di fedeli di tutte le parrocchie."
"Trovi la strada sulla quale i figli ritornino alla loro Casa."
"Sì. E' proprio questo. Perché io non voglio essere un pastore senza gregge. Ma è strada materialmente e spiritualmente in salita. E le strade che salgono sono faticose e vengono evitate."
"Ci vorrà del tempo. Ma a Lei non manca la costanza."
Ci si mise. Si alzava alle 4 e prima delle 5 era a S. Giusto, salendo da via Cavana; abitava nel vescovado. Apriva lui la chiesa e pregava. Egli sapeva pregare e apriva l'anima a Dio con la semplicità di un bimbo. Poi confessioni. Il suo posto era accanto al confessionale. Alle 7 celebrava, con una pietà e una dignità che colpivano tutti. Ogni mattina prima della Messa diceva un pensiero sul Santo, sulla ricorrenza; dava le indicazioni liturgiche perché si potesse seguire la Messa. Lo seppi più che da lui stesso da parrocchiani che se ne compiacevano. Rimaneva in chiesa fino alle 10.
Poi ritornava a casa. Studiava, preparava le prediche (domenicali, corsi di predicazione, Esercizi ai quali veniva invitato), riceveva chi voleva parlargli. Prima delle 16 usciva: impegni, malati, confessioni, chiesa, associazioni. Rientrava alle 20 o alle 21. Lavorava un po'. Alle 22 andava a letto.
Organizzò razionalmente la parrocchia. Funzioni fatte bene e brevi. Predicazione viva, abbondante che era un colloquio cordiale interessantissimo tenuto con chi ascoltava. Voleva che i suoi fedeli sapessero tutto. Ogni novità in chiesa veniva spiegata, mostrata. La parrocchia doveva essere una famiglia. E in una famiglia ogni membro si interessa di quanto avviene.
La chiesa risplendeva per ordine e pulizia. Controllava tutto ogni giorno. Dava disposizioni, le scriveva perché se ne ricordassero. Ma non ammetteva che non fossero puntualmente eseguite. Sapeva farsi obbedire. E chi gli obbediva lo faceva con gioia. I suoi dipendenti ne erano fieri.
Rinnovò i paramenti sacri, fece restaurare i preziosi, ne acquistò di nuovi e aumentò ilumero dei vasi sacri. Aveva un gusto finissimo. Nulla era troppo bello per il Signore.
Voleva che vedessi tutto.
"Le piace?" Gli ridevano gli occhi.
"Sì." Gli bastava.
E le Opere. Azione Cattolica. Dottrina Cristiana. Conferenze di S. Vincenzo (oltre ad entrambe le Conferenze della parrocchia, ne assisteva un'altra extraparrocchiale e in più il Consiglio particolare femminile). Oratorio. Esploratori. Aveva l'arte di sapersi far aiutare. Per le "Lampade viventi" preparava ogni settimana i punti per l'adorazione, che collocava sull'inginocchiatoio.
E per quanto intense fossero le giornate e grave la fatica, non si ritraeva mai dal dare la sua opera a servizio della Chiesa, come quando accettò l'invito rivoltogli dal Cardinale Pizzardo, proprio per la sua passata esperienza di medico, a partecipare al III Convegno dei Superiori e Professori dei Seminari Regionali e Maggiori d'Italia per tenervi una relazione sul tema "Qualità fisiche e psichiche dei candidati al sacerdozio."
Quando si avvicinavano i mesi caldi gli dicevo: "Quest'anno se lo prende un po' di riposo? E' necessario. Non può continuare così."
"Riposerò in paradiso. Le anime attendono..."
Dovevo insistere: "Vada dai Suoi. E si fermi poi lì. Li farà contenti e si riposerà anche Lei." Vi era sempre qualche Battesimo o qualche prima Comunione da amministrare.
"Le pare?...Allora sì, mi fermerò un paio di giorni."
Ed era tutto.
Tenne per parecchi anni la predicazione della Messa Capitolare domenicale che viene trasmessa per radio. La sua parola era ascoltata con gaudio e spesso giungevano lettere che ringraziavano, s'informavano, manifestavano soddisfazione e consenso.
Lentamente la parrocchia si moveva. Il parroco voleva conoscere i suoi parrocchiani e li invitava paternamente alla loro bella chiesa.
Si fermava con l'uno o con l'altro, dall'addetto alla nettezza urbana, che incontrava ogni mattina nelle ore antelucane, al bambino che ritornava dalla scuola, all'operaio che cercava lavoro.
Nelle domeniche di primavera e specialmente d'estate S. Giusto è meta di folle di turisti. Egli rimaneva in chiesa più a lungo possibile, specie nelle ore calde libere da funzioni, per impedire ogni profanazione. Voleva che i ciceroni parlassero sottovoce, escludeva inesorabilmente chi non veniva vestito come si addice al luogo sacro; ma la sua pena era vedere tanta gente passare davanti al SS. Sacramento senza fermarsi ad adorare il Signore, spesso senza neppure una geuflessione. E rimaneva lì, inginocchiato a lungo, ad adorare per chi non adorava, a implorare con lo sguardo, a dire cortesemente all'uno o all'altro che lì vi era il Signore...
E aveva trovato un modo elegante di ricordare tutto questo a chi girava inconsapevolmente per la chiesa col naso all'aria in cerca di quanto vi era da vedere.
S. Giusto si rianimava. Le funzioni parrocchiali erano frequentate, si formava la famiglia parrocchiale.
Così per cinque anni.
Al timone
Un giorno gli dissi guardandolo negli occhi: "Avrei bisogno che Lei lasciasse S. Giusto e prendesse la direzione del Seminario."
Amava molto la Cattedrale. La curava con amore. Si era donato senza limiti alla parrocchia, di cui voleva fare la famiglia del Signore. Sentiva la bellezza e l'ampiezza del suo ufficio di parroco, nel quale il senso di paternità riuniva e fondeva amore, responsabilità, impegno, sacrificio in modo incomparabile. Aveva sessantatré anni: certo pensava che non avrebbe lasciato S. Giusto mai più.
Ed ora abbandonare la sua chiesa, la parrocchia, questo suo compito per il quale sembrava tagliato da sempre...?
Rispose senza battere ciglio: "Se me lo ordina eccomi pronto."
Due decreti: il rettore del Seminario divenne parroco di S. Giusto e il parroco di S. Giusto divenne rettore del Seminario. I due sacerdoti diedero un esempio di obbedienza umile e generosa che mi commosse.
Così Mons. Labor riassunse le redini del Seminario, che ora era a Trieste e non più a Capodistria. Nuovo negli edifici e nel personale, era ormai un seminario completo, comprendente cioè anche la teologia.
Una delle gioie di cui un vescovo non ringrazia mai abbastanza il Signore, è quella di poter spostare il clero a seconda dei bisogni della diocesi e delle anime, senza dover imporre una volontà a chi per motivi che ritiene legittimi è riluttante o vi si adatta di malavoglia. Dopo di aver considerato ogni cosa davanti a Dio, il superiore fa una scelta, un cambiamento, affida un incarico. Il sacerdote che, chiamato da Dio, gli si è donato totalmente perché lo adoperi come suo strumento dove e come vuole per la salvezza delle anime, vede nella designazione del suo vescovo la mano del Signore che lo destina a un servizio che gli ha preparato. E anche se ragioni di prestigio, di comodità, di gusto, di interesse gli sembra che vi si oppongano, accetta senza far pesare al suo superiore l'ordine dato; accetta con gioia, perché Dio ama colui che dona con letizia (dona se stesso, i suoi criteri, i suoi desideri sacrificati). Il sacerdote dallo spirito retto, l'uomo di Dio si conosce qui.
E ancora una volta misurai qui Mons. Labor, soldato dimentico di sé, pronto ad assumere il posto indicato dal superiore. Non è retorica. In pratica per far questo bisogna essere morti all'uomo vecchio e aver rivestito Gesù Cristo.
A metà settembre (1953) entrò in Seminario. Lentamente accostò superiori, professori, alunni, religiose, personale di servizio. Tutti. Parlava con chiarezza, cercando di comprendere ognuno, ispirando fiducia. Ognuno vedeva che parlava un uomo di Dio, che cercava Dio, che amava colui con cui parlava, che prima di dire faceva, dando l'esempio in ogni cosa. Aveva acquistato una grande dolcezza di carattere: era fermo, non violento; serio senza essere severo; tenace senza apparire duro. Così con dolcezza e fermezza si acquistò la fiducia generale e poté imprimere alla vita del Seminario un respiro armonioso cui tutti sentivano il bisogno di collaborare.
Gli avevo detto: Il Seminario, se rimane nuovo solo nei muri, è nulla. Lo deve essere nello spirito, che deve tutti animare.Diventi una grande famiglia nella quale regni l'amore verso Dio: un amore che sia adorazione, responsabilità, gioia, dedizione e cresca ogni giorno nella consapevolezza della vocazione ricevuta, nella visione del sacerdozio di domani. Una famiglia nella quale tutti si vogliono bene. La scuola - severa, moderna, aperta a ogni sana novità di studi e di metodi - sia conceita quale sacro dovere oggi, come lo sarà domani il ministero sacerdotale. La disciplina sia ispirata alla visione soprannaturale della vita. La preghiera sia il colloquio primo e più bello. Ardano dal desiderio di sapere e di essere santi, perché da noi, meno ancora che altrove, sacerdoti mediocri non servono. Allora il Seminario alimenterà e orienterà la vita cristiana del popolo e preparerà la Chiesa tergestina a sostenere difficoltà e lotte e ad attuare quegli sviluppi che assicureranno lo splendore santo del Regno di Dio su questa nostra erra così contrastata e tribolata e bella, dove per operare ci vuole coraggio, equità, equilibrio, disinteresse e ardente carità.
Egli concordava pienamente con me sulla meta da raggiungere e sui mezzi da impiegare. Quante volte, dopo un lungo esame di situazioni e provvedimenti, mi sentivo commosso e fiducioso al calore che portava in ogni questione, alla saggezza delle sue osservazioni, all'umile prontezza con cui accoglieva ogni desiderio, alla santità che sublimava l'ansia che lo moveva infaticabilmente e non gli dava riposo.
Voleva che le funzioni fossero curate al sommo: per l'onore di Dio e perché domani i novelli sacerdoti portassero con sé il gusto delle cose belle. Il Seminario doveva dare a tutti l'esempio del modo come si onora Dio nel culto sacro.
Insegnava ai più grandi come si doveva leggere, come parlare per farsi ascoltare, per essere compresi.
I Seminario era cosa viva che lentamente, ma visibilmente si sviluppava secondo le linee che avevano sognato e voluto anche coloro che lo avevano preceduto.
Aveva continuato ad alzarsi alle 4 del mattino, disponendo ogni cosa con ordine lungo la giornata. Perché amava l'ordine: nelle cose e negli impegni. Nello studio, nella camera da letto, sulla sua scrivania, nella biblioteca, sulla sua persona, pulizia e ordine che si accompagnavano bene con la povertà, che aveva sposato con amore. Non è un modo di dire. La povertà era per lui uno degli ideali più cari. Se riceveva del danaro per opere pastorali e doveva conservarlo per qualche tempo nel suo cassetto, mi avvertiva: "Non è roba mia. Se muoio, lo ricordi. Non è roba mia. Non voglio aver danaro, voglio essere povero, povero."
E poiché sapeva coordinare tutto sapientemente, era riuscito anche a continuare a confessare e predicare nella Cattedrale, impiegando alla lettera ogni minuto senza mai un momento di respiro. Il suo riposo era la preghiera. Quella era il primum al quale non rinunziava mai.
Quante volte dovevo intervenire perché si avesse un po' di cura.
"Si risparmi. Non è più giovane. Quel Suo cuore..."
Non serviva.
"Sono arrivato tardi. Devo guadagnare tempo."
Per mano di Sorella Morte
"Mons. Labor sta molto male."
Così mi si telefonò dal Seminario alle 14:30 del 29 settembre 1954.
Ebbi una fitta al cuore e un senso d'angoscia mi pervase. Salii in via Besenghi. Lo trovai adagiato su di una poltrona nella sua stanza da letto. Era vestito.
Ritornando la mattina da S. Giusto, dove aveva confessato, si era sentito male e si era gettato sulla scrivania nel suo studio. Poi si era ripreso. Ma alle 14 un nuovo attacco più forte lo colpì. E fu trasportato nella camera da letto.
Il dott. Peri, subito accorso, gli aveva premurosamente fatto delle iniezioni e dati i suggerimenti necessari. Ma Mons. Labor era medico e sapeva quello che aveva. Chiese l'Olio Santo. Voleva che lo trasportassero in chiesa per iceverlo con solenne pietà. Non fu accontentato, data la gravità del male. Ma egli parlava con serenità e letizia. Lo ricevette con viva fede ripetendo le preghiere liturgiche. Trovammo poi già preparata la predica sull'Estrema Unzione che doveva tenere la domenica prossima a S. Giusto. "L'avrei fatta tanto volentieri questa predica. E' da anni che mi preparo e la medito." proprio la sera precedente, rovistando tra le sue carte, aveva trovato il diario degli anni in cui esercitava la professione di medico e vi aveva letto le riflessioni e le meditazioni sull'Estrema Unzione che aveva steso a tavolino dopo le visite notturne agli ammalati.
Quando giunsi, mi sedetti accanto a lui e lo pregai di non parlare, di non muoversi. Egli sapeva che in simili casi questi erano gli ordini da eseguire.
Mi guardò sorridendo: "Seguo il corso del mio male. Andiamo verso la fine. Ne conosco i sintomi. Mi fa bene parlare."
E volle che ascoltassi la sua confessione, come faceva ogni settimana da quando era sacerdote.
Eravamo commossi, ma calmi.
Sorella Morte, che tante volte aveva visto sul volto dei suoi pazienti da medico, che gioiosamente aveva salutato da sacerdote, ci stava davanti. La guardavamo e parlavamo di lei, che apre la soglia gloriosa della Casa paterna. E' dolce cosa andare incontro al Padre.
Lo pregai di riposare e per togliergli l'occasione di parlare me ne andai.
Ma egli continuò a ricevere superiori e alunni, dando disposizioni, raccomandazioni, suggerimenti, con calma, scrivendo quasi nel cuore dei suoi collaboratori il suo testamento.
Ne furono tutti edificati e commossi fino alle lacrime.
Dopo che il medico gli ebbe prestato nuove cure, alle 21 si fece leggere da un sacerdote il Cap. XV di S. Giovanni, il brano evangelico dell'unione e della carità: fu la sua preparazione immediata all'incontro con il suo Redentore. E fu l'insegnamento ultimo che lasciò al Seminario.
Alle 22 lo misero a letto. Dopo mezz'ora spirava. Disse alla Suora: "Tutto per la Chiesa." L'ultima sua parola.
E nella lettera a persona a lui carissima, scritta quella mattina stessa dopo aver celebrato, aveva detto: "La Messa è sempre il più grande dono che Dio mi ha fatto."
Conosco il valore del termine se dico con piena convinzione che era morto un sacerdote santo.
Lasciò questo testamento, dettato quando non era ritornato ancora in Seminario, che va meditato. Vi è espressa con semplicità l'anima sua.
Siloe: l'avventura spirituale di Marcello Labor di Vittorio Cian (Edizioni Paoline: Roma 1997) si può acquistare dal Centro L. Boyle, tel. 0444/54 46 32 (Vicenza) o dal Punto d'Ascolto Siloe, presso l'ufficio parrocchiale di S. Antonio Nuovo, via Ponchielli 2, Trieste, tel. 040/30 18 66 (Trieste); o via internet da www.unilibro.it (sezione "Usati").
[Siloe: l'avventura spirituale di Marcello Labor is available from the Centre for Mediaeval Studies Leonard Boyle, Vicenza.]
Da: Siloe: l'avventura spirituale di Marcello Labor
Il libro narra l'itinerario spirituale di Marcello Labor (1890-1954) dall'infanzia di figlio d'un ricco banchiere ebraico alla morte come rettore del Seminario Teologico Diocesano di Trieste, e comprende numerosi estratti dai diari di Labor (di prossima pubblicazione) e dalla sua vasta corrispondenza.
Marcello Labor nacque Marcello Loewy a Trieste nell'anno 1890. Il padre era un israelita ungherese, la madre triestina; nell'ambiente familiare vi erano agiatezza, cultura ed un'apertura cosmopolita favorita dai molteplici fattori che influenzarono il giovane Marcello. Trieste era allora parte dell'impero austro-ungarico, ma cultura e sentimenti erano italiani, e Marcello, benchò non fosse ebreo praticante, era ben conscio della sua identità israelita. Carducci, simbolo di nazionalismo italiano, ed il filosofo Schopenhauer erano presenti contemporaneamente nell'animo di Marcello adolescente, fra i migliori allievi del liceo triestino "Dante Alighieri."
I movimenti letterari ed intellettuali dell'epoca erano vivi alla mente di Marcello negli anni di studio a Vienna ed a Graz. Studiava medicina, ma la letteratura rimase per lui un interesse costante e collaborò a varie riviste fra cui La Voce di Firenze. In quegli stessi anni Trotzki, a Vienna sotto altro nome, preparava la rivoluzione socialista e Marcello Labor divenne, almeno intellettualmente, un socialista. Come Franz Kafka, Loewy cercava le sue radici ebraiche. Alla fine scelse di cambiar nome, non per negare la sua identità ebraica, ma per affermare in un ambiente filogermanico i sentimenti di italianità che condivideva con gli amici Giani Stuparich e Scipio Slataper. Fu cosí che Marcello Loewy divenne Marcello Labor.
Quand'era ancora studente universitario, Marcello Labor pubblicò su La Voce un saggio in favore della castità prematrimoniale, e nei suoi diari fece riferimento al "privilegio della castità." Il suo atteggiamento, non motivato da scrupoli religiosi, corrispondeva - ma nella vita reale - ad idee che avevano preso corpo in figure ben note della letteratura tedesca: Adrian Leverkühn del Doktor Faustus, con il bruciante rifiuto del sesso prezzolato per poter darsi completamente alla musica, od alcuni personaggi dei drammi di Gerhart Hauptmann, preoccupati per l'ereditarietà e la salute dei loro bimbi ancora di là da venire.
Nel 1911 Labor si laureò in medicina e sposò Elsa Reiss nel Tempio israelitico a Trieste in via del Monte - l'erta ricordata nei versi di Umberto Saba. Poi venne la prima guerra mondiale e Marcello Labor fu ufficiale medico, prima in Croazia, poi sul fronte russo. La famigliola - poiché presto vennero i figli - ebbe molto a soffrire.
Con la fine della prima guerra mondiale vennero per la famiglia Labor, ora stabilitasi a Pola, il successo professionale e qualche anno di felicità. Marcello, che era allora socialista impegnato, si fece conoscere in città come il medico dei poveri, perché li curava gratuitamente. La fine di questo lieto intermezzo venne con l'inizio della malattia di Elsa. Da medico che era, Marcello sapeva che la scienza era impotente a salvare sua moglie. La assisté fino alla fine e rimase vedovo con due figli. In quegli anni di sofferenza Marcello Labor divenne lentamente cattolico praticante.
Fu una decisione estremamente riservata. La conversione non fu nulla di sensazionale, e men che meno basata su fattori emotivi. Marcello non era un sognatore: dalla sua esperienza di scienziato e di medico egli derivava il bisogno di provare e sperimentare; benché non credente, doveva provare - mettere alla prova - cosa fosse la preghiera. Lesse e pensò molto, e la conversione fu per lui una vera convergenza di interessi di tutta una vita, interessi che trovavano ora il loro centro in Dio, non un'idea astratta, ma il Messia promesso al Popolo Eletto. Da medico Marcello era stato testimone di molte umane sofferenze; ora poteva trovare un senso per quelle sofferenze nell'Uomo dei Dolori del profeta Isaia. Ora che aveva trovato Dio, Marcello Labor doveva portarlo agli altri. Man mano che i figli crescevano e lasciavano il nido, Marcello capí di voler essere prete.
Entrare in seminario a 48 anni d'età non è cosa di tutti i giorni, e Marcello Labor dovette affrontare molti ostacoli. Le parole che aveva scritto da studente "Resterò sempre ebreo" - rimasero vere. Anche prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, sotto Mussolini, Labor si trovò isolato. Il seminario che dirigeva a Capodistria (il suo primo incarico da prete) era noto per l'atmosfera di libertà intellettuale nel regime fascista. Quando i tedeschi occuparono la Küstenland, Labor fu esiliato per motivi razziali. Più tardi fu incarcerato dai partigiani di Tito perché era un sacerdote cattolico.
Dopo la guerra Labor si stabiliì a Trieste, dove divenne parroco della cattedrale di San Giusto e più tardi rettore del seminario diocesano. La persecuzione aperta era cessata e Labor poteva lavorare incessantemente. Dalla sua esperienza professionale gli venivano cultura, signorilità, apertura e curiosità intellettuali che spiccavano in quell'ambiente parrocchiale: era il cigno fra le anatre, e di tanto in tanto le anatre schiamazzavano. Non vi dava alcuna importanza, perché la sua unica preoccupazione era portar anime a Dio. Quando sentì i sintomi del collasso cardiaco da lui prontamente (ed accuratamente) riconosciuto terminale, Labor ricevette gli ultimi sacramenti e passò le sue ultime ore congedandosi da ogni seminarista.
Marcello Labor è ora numero 311 sulla lista del Vaticano per le canonizzazioni. Sembra che, come sempre, egli faccia sapiente uso del tempo e sia in anticipo sul Vaticano, poiché arrivano notizie di grazie che gli vengono attribuite.
Per meglio conoscere Vittorio Cian
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Vittorio Cian, sacerdote e cancelliere della diocesi di Trieste, ha conseguito il dottorato in Sacra Liturgia presso il Pontificio Istituto Liturgico Sant'Anselmo di Roma. Ha pubblicato La catechesi aquileiese nel IV secolo, su Cromazio d'Aquileia e la liturgia aquileiese. Già vicepreside dello Studio Teologico Aquileiese, Vittorio Cian è ora docente di teologia dogmatica e di liturgia all'Istituto Superiore di Scienze Religiose della Facoltà Teologica del Triveneto, via Besenghi 16, Trieste. Come postulatore della causa di canonizzazione di Marcello Labor, ora in lista d'attesa al Vaticano, monsignor Cian raccoglie testimonianze sulla fama di santità e su grazie o miracoli attribuibili all'intercessione di Marcello Labor e ne vaglia l'attendibilità. Assiste anche l'Associazione Siloe: Amici di Marcello Labor e pubblica il periodico Siloe, organo dell'Associazione.
Per richiesta d'informazioni, per inviare commenti o testimonianze: mandare una email al Punto d'ascolto Siloe o telefonare a 39/040/30 18 66 oppure a 39/0444/54 46 32.
Quaderni di Marcello Labor: commenti sui cinque quaderni postumi pubblicati con il titolo I diari del servo di Dio Marcello Labor e testimonianze su Marcello Labor.