Il Fedro platonico è un dialogo che appartiene sicuramente alla tarda maturità del grande filosofo (si pensa sia stato composto tra il 368 e il 363 a.C., quando Platone aveva tra i sessanta e i sessantacinque anni). Due ragioni inducono a crederlo. Anzitutto il riferimento ai due momenti di cui consiste la dialettica, quello sinagogico e quello diairetico (265c - 266d), presuppone la stesura di Sofista e Politico, dialoghi già riconosciuti tardi dalla critica. In secondo luogo, alcuni temi che esso contiene, come il riferimento alla tripartizione dell’anima (nella celebre immagine dell’auriga e dei due cavalli che, nel "secondo discorso di Socrate" rinvia chiaramente all’anima razionale, concupiscibile e irascibile), alludono chiaramente alla Repubblica, capolavoro della maturità platonica per definizione.

La critica letteraria da sempre esalta questo dialogo come opera tra le più liriche e letterariamente raffinate dello scrittore Platone ¾ si pensi all’inizio idillico, con la straordinaria descrizione dell’atmosfera agreste, o alla celeberrima preghiera del filosofo che ne costituisce il congedo ideale dal lettore. La tradizione ermeneutica volta a volta l’ha indicato, sul piano filosofico, come il vero e proprio manifesto programmatico del pensiero platonico ¾ di cui fornisce nel "grande discorso" di Socrate (243e-257b) una sintesi mirabile per chiarezza espositiva e dignità poetica ¾ sul piano retorico, come un trattato sulla metodologia del costruire discorsi, precisamente come un confronto tra il metodo logografico della grande oratoria (Lisia, uno dei massimi retori greci, è sullo sfondo del dialogo dall’inizio alla fine) e della sofistica e il metodo psicagogico proprio della linea socratico-platonica.

A questa fama consolidata si è aggiunto, a partire dal decennio scorso, un rinnovato interesse soprattutto per il mito che chiude il dialogo, il mito di Theuth, in cui Platone racconta le leggendarie origini della scrittura. Tale interesse va ricondotto in un senso alle ricerche che hanno portato Hans Krämer e la Scuola di Tubinga a rintracciarvi, insieme alla Epistola VII, una delle due autotestimonianze che consentono di sostenere l’esistenza di un corpus di dottrine non scritte che costituiscono il nucleo della filosofia platonica e che Platone avrebbe scelto di insegnare solo oralmente all’interno dell’Accademia per la cerchia più ristretta dei suoi discepoli. D’altra parte, questo stesso mito, ha consentito ad autori come Erick Havelock, Derrick deKerkhove, Walter Ong e Neil Postman, di farne una potente metafora dei decisivi processi di cambiamento che intervengono sul piano socio-culturale quando una nuova tecnologia di comunicazione subentra a una tecnologia standard.

É proprio quest’ultimo il punto di vista a partire dal quale proveremo a interrogare il testo platonico, con due attenzioni: quelle di riflettere sulla trasformazione tecnologica e di raccoglierne le interpellazioni riguardo alle esigenze e ai processi della formazione. La "società della comunicazione", che abbiamo sino ad ora definito come realtà e insieme come sistema discorsivo, trova qui una chiave ermeneutica decisiva del suo nascere.

 

Comunicazione autentica e comunicazione inautentica

Per comprendere adeguatamente la portata del mito di Theuth occorre focalizzare brevemente lo sfondo entro il quale esso si ritaglia, che è la preoccupazione platonica di discriminare il discorso "buono" da quello "cattivo". Quali sono le condizioni alle quali è necessario che ottemperi chi intende elaborare un discorso? In altre parole e in termini più generali: a quali condizioni si dà comunicazione autentica?

A questi interrogativi, che non rientrano in una logica superficialmente retorica ma attestano di una interrogazione profonda di Platone sulle radici antropologiche del comunicare, il Fedro risponde con l’indicazione di quattro fondamentali regole di metodo.

Anzitutto (1) è necessario che il locutore sia al corrente di ciò di cui sta parlando, conosca la verità su quanto sta comunicando. Come dice Platone: "Una vera arte del dire che non tocchi la verità (...) non c’è e non ci sarà mai" (260e). In altre parole, Platone manifesta già qui un’idea della conoscenza ben diversa da quella promossa dalla cultura poetica e caratterizzata dall’esigenza del concetto e della definizione.

Oltre a questo (2) il locutore deve conoscere l’anima di colui al quale si rivolge: "E i discorsi che debbono venir fatti bene e in modo bello, non è forse necessario che implichino che l’animo di chi parla conosca il vero intorno alle cose su cui si accinge a parlare?" (259e). Questa indicazione, squisitamente platonica, si può intendere in due modi. Anzitutto, dal punto di vista pragmatico, essa sottolinea la necessità che chi parla conosca il suo uditorio per sapere su quali argomenti fare leva perché la sua comunicazione sia efficace. In secondo luogo, a un livello più profondo, essa rinvia direttamente al discorso platonico sull’oralità che chiude il dialogo, alludendo a quello "scrivere sull’anima" in cui consiste secondo Platone la comunicazione autentica.

Ancora (3) deve essere garantito da chi parla l’equilibrio interno tra tutte le parti del discorso. Platone ricorre al proposito alla famosa metafora dell’organismo e delle sue parti: "... ogni discorso deve essere composto come un essere vivente che abbia un suo corpo, sicché non risulti senza testa e senza piedi, ma abbia le parti di mezzo e quelle estreme scritte in maniera conveniente l’una rispetto all’altra e rispetto a tutto" (263c). Infine (4) l’argomentare deve seguire il doppio respiro della dialettica cui si faceva riferimento già sopra. Il primo movimento, dal particolare all’universale, consiste nella definizione, cioè "nel ricondurre a un’unica Idea, cogliendo con uno sguardo d’insieme le cose disperse in molteplici modi, allo scopo di chiarire, definendo ciascuna cosa intorno alla quale di volta in volta si voglia insegnare"(265d). Il secondo movimento, reciproco rispetto al primo, consiste invece "nel saper dividere secondo le Idee, in base alle articolazioni che esse hanno per natura, e cercare di non spezzare nessuna parte, come invece suole fare un cattivo scalco" (265d). In questo doppio processo argomentativo, che rinvia al non scritto e informerà di sé tanto la filosofia di Aristotele che il Neoplatonismo, sta l’attività del dialettico, cioè del filosofo.

In sostanza, se volessimo riformulare come regole pratiche le caratteristiche da Platone attribuite al discorso ben fatto e quindi alla comunicazione autentica, potremmo esprimerle come segue:

1) conoscere sempre ciò di cui si parla;

2) conoscere sempre colui al quale si parla;

3) curare i rapporti reciproci di ogni parte rispetto alle altre e al tutto di cui si parla;

4) definire sempre l’oggetto del discorso per non dimenticare nulla di essenziale.

Naturalmente non tutti si uniformano al consiglio di Socrate/Platone. Anzi, sembra che alcuni (i Sofisti) rintraccino proprio nel contrario di queste indicazioni i criteri per una buona comunicazione. Platone individua questi aspetti con grande acutezza, riconoscendoli in parte presenti nel discorso di Lisia che offre spunto al dialogo.

Anzitutto i Sofisti, i "logografi" come Platone li definisce sprezzantemente anticipando la sua critica della scrittura, sono convinti "che non è necessario, per chi sta per diventare oratore, imparare le cose che sono veramente giuste, bensì le cose che sembrano giuste alla moltitudine di coloro che giudicheranno" (260a); così, "senza esprimere nulla di sano né di vero, si danno l’aria di essere chissà che cosa, nel caso che, con l’aver ingannato alcuni omiciattoli, riescano a diventare famosi presso di loro" (242e-243a).

Ancora, la motivazione che muove i Sofisti non è mai pedagogica, ma opportunistica: essi non hanno per scopo l’educazione del loro interlocutore, ma esclusivamente la propria fama ¾ "dimentichi che i più ambiziosi dei politici amano moltissimo scrivere discorsi e lasciare dei loro scritti" (257e) ¾ o il proprio interesse ¾ "Non capisci che, all’inizio di uno scritto di un uomo politico, quello che viene scritto per primo è il nome dell’elogiatore?" (258a).

Infine, la metodologia cui essi si rifanno è una semplice esercitazione di tecnicismo, priva però di autentica comunicazione.

Dunque, esistono due modalità irriducibili di comunicazione, una caratterizzata dal rispetto della verità e dalla serietà di chi comunica, l’altra da superficialità e vuota retorica. E queste considerazioni risultano valide tanto per il discorso orale che per il discorso scritto. L’introduzione del mito di Theuth consente a Platone di verificare se oralità e scrittura godano della stessa considerazione o non vi siano ragioni per affermare la superiorità dell’una rispetto all’altra: qui è il punto di svolta del dialogo e anche l’oggetto tematico della nostra attenzione.

 

Il mito di Theuth: oralità e scrittura

Theuth, dio egiziano che nell’olimpo greco trova il suo corrispettivo in Hermes e in quello latino in Mercurio, si reca a Tebe dal re Thamus per offrirgli le sue invenzioni. Di ciascuna Theuth decanta a Thamus le straordinarie virtù; di ciascuna Thamus restituisce a Theuth critiche o apprezzamenti. Quando Theuth arriva alla scrittura, il suo discorso si riempie d’orgoglio come quello di un padre per il figlio prediletto: "Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è trovato il farmaco della memoria e della sapienza" (274e). La risposta di Thamus non si fa attendere: "O ingegnosissimo Thamus, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale" (274e-275a). E il re tebano procede a indicare quelli che secondo lui sono i limiti della scrittura.

Anzitutto lo scritto non serve a incrementare la memoria di chi ne fa uso, ma genera la dimenticanza, "perché fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi" (275a). Il valore che alla scrittura si può riconoscere è solo ipomnematico: essa non serve a ricordare, ma a conservare dati che possano essere in questo modo facilmente richiamati alla memoria! Per capire quanto Platone intende dire è sufficiente pensare al carattere personale di un appunto: serve a chi lo stende per ricordare e in tal senso una parola o un simbolo grafico possono risultare molto eloquenti; ma non appena passa nelle mani di un altro che prova a ricostruire per mezzo suo il discorso cui rinvia, si rivela assolutamente inutile.

Oltre a questo, lo scritto, avendo valore ipomnematico, non genera la sapienza, ma la convinzione della sapienza in chi legge: "infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno" (275a-b). Chi già sa perché ha imparato nell’ambito della dialettica che è resa possibile solo dall’oralità può servirsi dello scritto per rivedere le sue conoscenze, ma chi si basa solo sulla lettura per l’acquisizione del sapere mai potrà realizzare una conoscenza profonda.

A queste obiezioni si aggiungono quelle di Socrate che aveva narrato il mito a Fedro.

Lo scritto non riesce a discriminare il lettore a cui si può rivolgere da quello cui non si può rivolgere e se viene interpretato in termini scorretti non possiede strumenti per orientare il lavoro del lettore: "E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo" (275e).

Infine, e proprio per tutte queste ragioni, nello scritto non c’è mai serietà. Per sostenerlo Platone porta in gioco la celebre immagine dei giardini di Adone, recipienti in cui i greci, nel periodo estivo, erano soliti piantare semi che grazie all’acqua e al calore germogliavano nel corso di una settimana ma che altrettanto velocemente sfiorivano, allegoria della morte precoce di Adone, amato da Afrodite. Come i giardini di Adone, anche "i giardini di scritture (chi sa, n.d.r.) li seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà, accumulando materiale per richiamare alla memoria a se medesimo, per quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio" (276d), ma certo non affiderà alla scrittura le cose che più contano. Fuor di metafora, dato che la lettura dello scritto è funzionale a una informazione rapida ma effimera, chi deve comunicare pensieri profondi e decisivi che desidera non vengano dimenticati rapidamente, non li affiderà certo alla scrittura.

 

Platone, figlio della scrittura

Anche un’analisi sommaria di queste critiche della scrittura consente di accorgersi, come suggeriscono diversi autori impegnati nella riflessione sugli aspetti psicodinamici delle culture orali e letterarie e sulla transizione dalle une alle altre, che le obiezioni di Thamus e Socrate alla scrittura sono le stesse che vengono oggi mosse da parte della ricerca e della società civile ai media, in particolare al computer.

I media sono disumani perché cercano di ricreare fuori dalla mente ciò che invece è possibile solo dentro di essa: pensiamo agli sviluppi degli studi di Intelligenza Artificiale, alle ricerche sull’interazione macchina-uomo in linguaggio naturale, alle nuove possibilità di elaborazione dei dati garantite dalle ultime generazioni di software. La rivendicazione da parte di Platone del carattere esclusivamente umano della memoria incarna profeticamente le preoccupazioni di molti "apocalittici" moderni, quelle di un mondo governato dalle macchine e popolato di replicanti che proprio solo la insurrogabilità della memoria riesce a distinguere dagli uomini, come in Blade runner di Ridley Scott.

I media, inoltre, distruggono la memoria di chi se ne serve, indeboliscono la mente, sostituiscono lo skill da videogioco alla capacità di riflessione e concettualizzazione, proprio come le calcolatrici tascabili che disabituano a fare di conto. Quella che si profila a questo livello è la distinzione di un sapere della superficie, dell’effimero, della banalità ¾ quello dei media ¾ da un sapere della profondità, della durata, della serietà ¾ quello letterario.

I media, ancora, producono testi passivi, che non rispondono se vengono interrogati, che non sanno difendersi. Nonostante i progressi delle ricerche sull’interattività abbiano oggi sostanzialmente modificato i processi di ricezione dei messaggi piegandoli sempre più nella direzione di un contributo integrativo del lettore, è indubbio che il computer, come tutte le nuove tecnologie della comunicazione, restano ancora media freddi, cioè tali da richiedere al loro utente un livello elevato di competenza per essere proficuamente utilizzati. In sostanza dipende dall’utente, al di là di tutto, il tipo d’uso che della tecnologia è possibile fare.

Platone, uomo dell’oralità, sentendola minacciata dalla scrittura, la difende, proprio come spesso oggi anche noi, uomini letterari, avvertendo che la nuova era della comunicazione elettronica rischia di causare l’eclissi della letteratura e dei suoi valori, difendiamo la cultura letteraria.

Il problema è che Platone "per dare efficacia alle sue obiezioni, le presentò per iscritto; (...) lo stesso vale per la critica ai computer che si diffonde in articoli e in libri stampati da nastri composti sui terminali dei computer". Platone critica la scrittura in un dialogo, servendosi cioè della scrittura, così come gli apocalittici contemporanei stendono sul loro PC le critiche della comunicazione elettronica. Più che una contraddizione, è un sintomo interessante: Platone, pur sentendosi ancora legato all’oralità per le ragioni che vedremo, è già immerso nella scrittura di cui dimostra di conoscere alla perfezione i meccanismi, proprio come noi, pur continuando a indicarne i rischi, non sappiamo più scrivere con la penna se ci siamo abituati ad allestire i nostri testi sullo schermo di un computer.

Di più. La scrittura non è solo uno strumento di cui Platone si serve per veicolare le sue obiezioni, ma ciò che gli rende possibile formulare quelle stesse obiezioni. Il pensiero analitico, il pensiero della divisione, della anatomia del reale, non appartiene alle culture orali, è una conseguenza dell’avvento della scrittura: "come Havelock ha eccellentemente dimostrato, tutta l’epistemologia platonica inconsapevolmente si fondava proprio su un rifiuto del vecchio mondo della cultura orale, mobile e caldo, il mondo delle interazioni personali, rappresentato dai poeti, che egli non aveva voluto nella sua Repubblica". L’astrazione, la concettualizzazione, il ciclo analisi-sintesi, l’argomentare per nessi causali, sono tutte abilità cognitive indotte dalla introduzione in Occidente, proprio nella Grecia dell’VIII-VII sec. a.C., dell’alfabeto fonetico completo: un alfabeto che emancipa il pensiero dal riferimento rappresentativo alla realtà (concettualizzazione), esige il riconoscimento analitico dei singoli fonemi (analisi), comporta il loro collegamento reciproco (causalità, sintesi).

Platone, dunque, nel momento in cui rivendica il valore dell’oralità rispetto alla scrittura, "è già completamente "posseduto", per non dire "programmato", dal demone della scrittura": la sua stessa filosofia non potrebbe esistere se non all’interno di una cultura che conosca la scrittura!

La conferma viene dal fatto che quando Socrate insegna a Fedro il modo corretto di produrre discorsi, espone quattro criteri che presuppongono "uno spazio mentale già stabilito e non più in via di formazione" e nei quali non è difficile riconoscere i principi del metodo cartesiano.

 

Platone, profeta della tecnologia

Platone, dunque, non è solo figlio della scrittura a sua insaputa. Egli dimostra di conoscere alla perfezione la psicodinamica della comunicazione letteraria, indicandone le caratteristiche costitutive e, addirittura, i vantaggi rispetto alla comunicazione orale (228 A-B; p.539).

Anzitutto il testo letterario è disponibile per chi legge in quanto, a differenza del discorso orale che si iscrive nell’area dell’effimero, è fermato sulla carta. Questo comporta per chi legge la possibilità di concentrare la propria attenzione sulla pagina o su alcune parti di essa ("riesaminò quei pezzi che più gli stavano a cuore" - 228b) e farle proprie. In quest’ottica ¾ cioè in funzione di una restituzione e soprattutto di una ricezione dell’interezza di ciò che il locutore intende comunicare ¾ la scrittura è sicuramente più funzionale dell’oralità.

Inoltre, tempo dell’enunciazione e tempo della lettura, nel caso della comunicazione letteraria, non coincidono. Il lettore può infatti orientarne il ritmo in base al proprio tempo e, soprattutto, in rapporto alla propria disponibilità psico-fisica ("essendo stanco, se ne è andato a fare una passeggiata" - 228b).

Infine, non essendo vincolata dalla compresenza fisica di locutore e locutario, la comunicazione letteraria emancipa la ricezione del testo dalla presenza del suo autore rendendola disponibile in ogni tempo e in ogni luogo alla lettura (se il discorso di Lisia non fosse scritto, Fedro non potrebbe che ascoltarlo da Lisia). In quest’ultimo caso, l’assenza del padre che, nel commento al mito di Theuth veniva presentata come uno dei limiti della scrittura, diviene addirittura una delle ragioni della sua preferibilità all’oralità.

La conclusione che sembra di poterne trarre è che Platone, forse, è un po’ confuso: critica la scrittura, ma se ne serve; esalta il valore dell’oralità, ma non manca di indicarne i limiti in relazione alla scrittura; sostiene il valore dell’insegnamento orale della filosofia, ma non si rende conto che senza la scrittura la filosofia nemmeno esisterebbe. Come leggere queste apparenti contraddizioni?

Evidentemente non si può tacciare di scarsa avvedutezza una mente speculativa raffinata come quella di Platone. L’esperienza platonica, piuttosto, e il mito di Theuth in particolare, costituisce una teorizzazione straordinariamente lucida di quanto accade nel momento in cui una nuova tecnologia comunicativa irrompe sulla scena sociale senza che quella che la precede sia stata eliminata del tutto: Platone, in sostanza, nella Grecia semialfabetizzata del sec.V-IV a.C., mentre difende l’oralità dalla scrittura, di fatto intuisce che con l’avvento di quest’ultima l’intero universo umano, proprio dell’oralità, lascia il posto a un nuovo universo, dipendente dalla scrittura. E, nella finzione letteraria, disegna l’atteggiamento contrastante di coloro che salutano entusiasticamente l’innovazione tecnologica e di coloro che ne avvertono gli insiti rischi: Theuth, integrato, un "tecnofilo", vede solo gli aspetti positivi della tecnologia, ignorando, come tutti gli inventori, "le implicazioni sociali e psicologiche ¾ cioè ideologiche ¾ delle loro scoperte"; il secondo, apocalittico, un "profeta che guarda solo in una direzione", ne vede soltanto le conseguenze negative.

I rischi che Thamus intuisce non sono relativi a cosa la gente scriverà, ma al fatto che la gente scriverà. Non è l’uso, buono o cattivo, della tecnologia a renderla buona o cattiva ¾ come suggerirebbe la tesi weberiana della neutralità rispetto al valore della scienza: l’uso è condizionato dalla struttura della tecnologia stessa. Il medium è il messaggio. L’avvento di ogni nuova tecnologia produce una profonda trasformazione del significato delle parole, cambia il nostro modo di pensare la conoscenza e la verità, altera la nostra visione del mondo: "Le nuove tecnologie alterano la struttura dei nostri interessi, ciò a cui pensiamo. Alterano il carattere dei nostri simboli: ciò con cui pensiamo. Ed alterano la natura del contesto sociale: l’arena in cui i pensieri si sviluppano".

La trasformazione tecnologica, come suggerisce Postman, non è né additiva, né sottrattiva: è ecologica. "Io intendo "ecologica" nello stesso senso in cui la parola viene usata dagli scienziati dell’ambiente". Quando una nuova tecnologia subentra non toglie né aggiunge nulla al nostro sistema socio-culturale: cambia tutto!

 

Platone, tra oralità e scrittura

Questa interpretazione del rapporto di Platone con la cultura orale e letteraria non trova concordi tutti gli studiosi, soprattutto gli storici della filosofia antica che tendono a leggere nei termini di un attacco a Platone stesso, alla sua grandezza, le tesi di Havelock e dei "tecnologi" e assumono di conseguenza nei confronti di Platone un atteggiamento di difesa a oltranza (atteggiamento di cui peraltro Platone non necessita, dal momento che pensa benissimo da sé a legittimare la sua indiscutibile grandezza nel contesto del pensiero occidentale).

Questa prospettiva fortemente apologetica nei confronti di Platone è ben compendiata nel contributo di Giovanni Reale già citato nel corso di questo saggio. La tesi centrale del libro, pensato come una critica serrata di Havelock (che peraltro non ha più la possibilità di difendersi) e della sua lettura di Platone, consiste nel riconoscere allo studioso americano di avere ben evidenziato il ruolo cruciale che il grande filosofo occupa nel contesto della rivoluzione culturale che guida in Grecia la transizione dalla oralità alla scrittura, ma di avere allo stesso tempo frainteso il senso esatto di tale ruolo in un simile contesto.

Proviamo a elencare i principali capi di accusa che Reale muove all’interpretazione di chi, come Havelock, si accosta a Platone da "esperto della tecnologia della comunicazione nel mondo antico, e usa con sicurezza e con eleganza metodi desunti dalle scienze psicologiche, antropologiche e sociologiche", proprio per questo cogliendo tutta una serie di problemi che filologi e storici non hanno mai individuato ma, al contempo, fallendone la comprensione autentica.

Anzitutto chi "fa dipendere la nascita e l’evoluzione delle forme di pensiero dalle tecnologie della pubblicazione, della comunicazione e della conservazione" pecca di riduzionismo tecnologico, perché risolve il problema dei rapporti tra tecnologia e cultura a tutto vantaggio della prima, senza farsi venire il sospetto che non possa invece accadere il contrario o, quantomeno, che vi sia una "dinamica di carattere sinergetico fra l’alfabetizzazione e gli esperimenti di astrazione".

Oltre a questo, Havelock e chi, con lui, ritiene che "solo l’avvento della scrittura sarebbe stato lo strumento che rese possibile quel superamento (della oralità poetica, n.d.r.)" non ha adeguatamente valutato l’importanza delle critiche alla scrittura formulate da Platone nel Fedro e l’appassionata difesa della superiorità dell’oralità contenuta nell’Epistola VII. In particolare, l’oralità che Platone difende, non è né l’oralità mimetica dei poemi omerici (che anzi a più riprese attacca, soprattutto nella Repubblica), né l’oralità retorica che si esprime nell’eloquenza pubblica (criticata anch’essa nel Fedro, come abbiamo visto), ma l’oralità dialettica mediante la quale si esprimono la filosofia e la scienza prima ancora della comparsa della scrittura. Secondo Reale "è proprio questa "oralità dialettica" che ha imposto la necessità del libro, introducendo bisogni sempre crescenti della conservazione di ciò che veniva pubblicato mediante l’oralità, non più memorizzabile come la poesia".

Sulla base del rapporto tra avvento della scrittura e genesi del pensiero astratto, infine, Havelock attribuisce a Platone una vera e propria conversione dal mondo di immagini dell’epos omerico all’astrazione del concetto propria del linguaggio scientifico: "i vari termini metafisici con cui Platone indica le sue Idee rivelerebbero non altro che il linguaggio delle categorie e degli universali (…) E qui l’errore è notevole: Havelock intende l’"astrazione" nel senso fissato in particolare dall’empirismo inglese. Laddove, per i Greci, l’astrazione aveva un senso dialettico e metafisico assai forte…".

A margine di queste obiezioni occorre organizzare una serie di osservazioni.

Occorre subito precisare che il rilievo sui limiti di una visione eccessivamente determinista in ordine alla capacità delle tecnologie di influenzare i set culturali delle diverse epoche è assolutamente condivisibile. Infatti, se è vero che le riflessioni di Ong, Havelock e, più di recente, di DeKerkhove e della Scuola di Toronto, hanno avuto il merito di indicare agli studiosi l’importanza delle tecnologie in ordine alla trasformazione del profilo psico-cognitivo dei soggetti, d’altra parte essi hanno forse finito per accordare un’importanza eccessiva alla tecnologia che andrebbe bilanciata da una riconsiderazione dell’importanza che rivestono gli usi sociali della tecnologia stessa nella determinazione di una cultura. In altre parole, se è vero che il computer può produrre delle trasformazioni vistose sul nostro modo di elaborare un testo (promuove una scrittura per accumulazione, non sequenziale, che smonta e rimonta parti di testo), è altrettanto vero che queste trasformazioni dipendono anche dal tipo di uso che se ne fa (da questo punto di vista chi lo intende solo come una macchina per scrivere, continuerà ad elaborare testi come si fa in ambiente letterario, magari prima vergandoli a mano su un foglio e poi trasferendoli nel computer a mezzo copiatura).

Meno condivisibili sono, invece, le altre osservazioni.

Anzitutto parlare di oralità dialettica è ambiguo. Se con questo termine si intende una oralità che prende la forma del dialogo, del botta e risposta, allora si sta parlando di un tipo di comunicazione che è propria delle culture a oralità primaria, cioè di quelle culture che non conoscono ancora la scrittura, ma la forma dialettica di questo tipo di oralità va inteso piuttosto nel senso del carattere agonistico delle culture cui appartiene (è un mezzo per sostenere la funzione della memoria) e non ha nulla a che fare con la dialettica in senso filosofico, cioè con la ricerca del concetto, con il ciclo analisi-sintesi, che non si possono rinvenire in nessuna cultura a oralità primaria, come le ricerche degli antropologi sul campo possono dimostrare. L’oralità dialettica di cui parla Reale, di fatto, è una forma di oralità secondaria, come direbbe Ong, cioè una forma di oralità che coesiste con la scrittura e da essa è resa possibile, come succede quando l’autore legge il suo libro e poi risponde alle domande dei presenti. Delle due l’una, allora: o l’oralità dialettica designa una comunicazione agonistica che precede l’avvento della scrittura, ma non ha nulla a che fare con il concetto; o ha a che fare con il concetto nella forma del dibattito filosofico, ma allora non precede, bensì segue la scrittura.

Più in generale si può dire che al fondo della lettura di Reale sta un’incomprensione del piano di analisi su cui si colloca Havelock, che non è quello della filosofia, ma della teoria della comunicazione. Lo si capisce perfettamente se si pensa alla polemica circa la presunta incomprensione da parte di Havelock della esatta natura dell’Idea platonica. Quando lo studioso americano afferma che la teoria delle idee rivela un uso categoriale di tipo astratto e concettuale e che quindi presuppone la conoscenza della scrittura non intende negare il valore ontologico delle idee: intende semplicemente dire che Platone pensa per concetti e non per immagini, come attesta anche il suo ricorso al mito nei dialoghi, un mito denso di significati secondi di tipo filosofico e non sicuramente mezzo espressivo di chi non possiede categorie astratte adeguate a esprimere quel che intende dire. Obiettare, dunque, a Havelock di interpretare concettualisticamente le idee platoniche non comprendendo la loro funzione di paradigmi ontologici del reale, significa confondere la sua riflessione, che rimane sul piano della psicologia della conoscenza e non vuole entrare nel merito dell’interpretazione filosofica, con la polemica di chi, con categorie scolastiche, discetta del fatto che Platone sia o non sia realista in ordine al problema degli universali.

Non si toglie nulla a Platone descrivendo il suo disorientamento di intellettuale che capisce le straordinarie possibilità che gli vengono aperte dalla scrittura, ma capisce allo stesso tempo che essa indebolisce il controllo del maestro sul processo di apprendimento dei suoi allievi: cresciuto con Socrate nell’ottica della formazione in presenza, Platone intuisce le risorse della formazione a distanza resa possibile dalla scrittura, ma allo stesso tempo teme che essa possa sostituirsi completamente alla prima. In questo modo, però, andrebbe persa la insostituibile funzione del maestro insieme alla caratteristica fondamentale dell’educazione: quella di essere relazione forte, dialogo, ricerca in comune.

 

Il nuovo ambiente dei media

Sforzandoci di omologare il nostro punto di vista di testimoni del passaggio dalla società letteraria a quella elettronica a quello platonico, dobbiamo chiederci a questo punto quali siano le caratteristiche dell’ambiente disegnato dalle nuove tecnologie della comunicazione e come esso porti in gioco in maniera decisa i compiti dell’educazione e della formazione. Nel farlo ci serviremo ancora di alcune illuminanti intuizioni del Fedro, a dimostrazione del fatto che se la teoria della comunicazione torna a Platone non lo fa certo per dimostrarne la posizione di "retroguardia", quanto piuttosto di assoluta capacità profetica nel prevedere gli sviluppi cui avrebbe condotto la nuova logica della comunicazione sottesa ala scrittura.

a) La disponibilità del sapere

Un primo dato è il carattere di grande disponibilità che le nuove tecnologie garantiscono al sapere. Platone osservava come i più, grazie all’uso della scrittursa, "crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno". La scrittura affranca il soggetto dalla necessità di ricordare agevolando la custodia e la trsmissione dell’eredità culturale che proviene dal passato, ma contemporaneamente dilata i limiti di ciò che viene tramandato. Il sapere non è solo salvato dall’oblio ma cresce su stesso. Così, si può dire, la scrittura non solo libera l’uomo dall’obbligo di ricordare cui era condannato all’interno delle culture orali, ma gli rende materialmente impossibile il farlo: l’uomo letterario, anche se vuole, non è più in grado di possedere con la propria memoria tutto il suo sapere. L’epoca delle grandi sintesi, l’età in cui l’aedo possiede nelle sue formule la sintesi di un’intera cultura, è già tramontata: ad essa si sostituisce una nuova realtà culturale segnata dallo scarto sempre più consistente tra il sapere disponibile e il sapere effettivamente posseduto la cui metafora efficace è quella della biblioteca o dell’enciclopedia.

Ora, nella società elettronica questo scarto si approfondisce sino alle estreme conseguenze. L’introduzione delle nuove tecnologie di archiviazione (i CD-rom) e di circolazione dei dati (le reti) dilatano la disponibilità del sapere sino all’utopia della disponibilità totale, quella di una società completamente trasparente e interconnessa in ogni parte della quale è possibile attingere informazioni su qualsiasi altra. La nuova metafora che si presta alla definizione di questa società è quella dell’ologramma: "Non solo ogni parte del mondo, ma il mondo come un tutto è sempre più presente in ciascuna delle sue parti. Questo si verifica non soltanto per le nazioni e i popoli, ma anche per gli individui. Così come ogni punto di un ologramma contiene l’informazione del tutto di cui fa parte, così ormai ogni individuo riceve o consuma le informazioni e le sostanze che vengono da tutto l’universo".

b) La separazione di luogo fisico e sociale

"E una volta che un programma televisivo sia stato trasmesso, rotola da per tutto, sotto gli occhi di coloro che se ne intendono e così pure di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve mostrarsi e a chi no". Si può attualizzare così l’indicazione platonica relativa all’incapacità dello scritto di scegliere il proprio destinatario. I media elettronici, in particolare la televisione, aboliscono l’identità di luogo fisico e sociale che è stata propria della comunicazione sino al loro avvento: una telefonata, un’interazione in rete, un contatto tramite teleconferenza, sono altrettanti modi di comunicare malgrado i due locutori non siano fisicamente presenti nello stesso luogo. In tutti questi casi i media creano un luogo altro, non fisico ma virtuale, che è lo spazio sociale stesso reso possibile dalla comunicazione che grazie ad essi si può instaurare.

A dire il vero questa situazione era già verificabile in età letteraria. La scrittura, in uno scambio epistolare, consente infatti di abolire la distanza fisica tra i due interlocutori creando comunicazione a prescindere dalla loro compresenza nello stesso luogo: ma questo tipo di comunicazione anzitutto non surroga il carattere caldo e personale della interazione faccia a faccia, e poi, soprattutto, garantisce al locutore di mantenere un controllo sul proprio scritto sicuramente maggiore di quello che possono esercitare gli emittenti nell’ambito della comunicazione elettronica. In una cultura letteraria, infatti, la società adulta ha il pieno controllo sul sapere e sulla sua trasmissione e la scrittura è lo strumento di questo controllo perché per accedere ad essa è necessario acquisire precise competenze alfabetiche e perché è la stessa società adulta a poter regolare l’accesso dei più giovani a certi tipi di lettura piuttosto che ad altri. Questo controllo viene meno nella nostra società dell’immagine perché la televisione e gli altri media aboliscono il senso del luogo rivolgendo i propri messaggi indistintamente agli adulti e ai minori senza potere (e volere) selezionare cosa mostrare o non mostrare soprattutto a quest’ultimi: realmente le immagini rotolano sotto gli occhi di tutti senza distinguere a chi mostrarsi e a chi no!

c) Il riorientamento cognitivo dei soggetti

Un ultimo ma non meno importante rilievo merita, come altrove abbiamo già indicato, il vero e proprio riorientamento cognitivo che le nuove tecnologie della comunicazione comportano sui soggetti in almeno tre sensi.

In primo luogo, mentre l’evoluzione del linguaggio in Occidente è andata definendosi nei termini di un progressivo abbandono del rapporto globale, sinestesico, di tutti i sensi dell’uomo con la realtà verso un pensiero sempre più di tipo simbolico-concettuale, sembra che la comunicazione elettronica, soprattutto le nuove tecnologie che ne costituiscono l’avanguardia, inneschi un processo di ritorno al vecchio rapporto sensoriale con gli oggetti promuovendo una risensorializzazione del linguaggio. Si pensi alla funzione delle interfaccia nel word processing: il mouse, le interfaccia tattili, le interfaccia vocali già estendono nuovamente il campo della conoscenza dal piano astratto della categorizzazione a quello pratico del contatto sensoriale. Ma in tal senso ancora più inequivocabile è il caso della Realtà Virtuale in cui, ad esempio, la dimensione tattile è assolutamente funzionale all’esperienza cognitiva che si sta realizzando grazie alla mediazione della macchina.

Questo dato ne implica altri due.

Da una parte, se le scritture alfabetiche, in virtù della loro doppia articolazione, avevano progressivamente emancipato il codice dalla realtà, le diverse forme della comunicazione elettronica stanno riconducendoci verso di essa, anche se la realtà in questione rischia di non essere più "reale". L’immagine elettronica infatti, per le sue caratteristiche di verosimiglianza, manipolabilità, credibilità, si emancipa dal riferimento alla realtà di cui è rappresentazione proponendosi essa stessa quale nuova forma di realtà: la guerra del Golfo vista in diretta televisiva è assolutamente reale, ma non c’è nulla che possa garantirci che essa sia proprio la guerra che viene combattuta. L’immagine, cioè, risulta assolutamente reale, ma questo non comporta nulla in ordine al suo contenuto di verità. L’effetto è la compromissione del nesso di realtà/verità caratteristico di tutta la tradizione gnoseologica occidentale: in età pre-elettronica ciò che mi si manifesta come reale è anche sostanzialmente vero, in età elettronica, invece, il reale, pur essendo assolutamente tale, può anche dimostrarsi falso. Ma direi che, forse, entrambe le categorie del "reale" e del "vero" in un simile orizzonte culturale necessitando di una profonda revisione critica.

Dall’altra parte, nella comunicazione elettronica sembra la tendenza astrattizzante e concettuale del pensiero letterario si inverta, favorendo il guadagno di una oralità di ritorno fatta di immediatezza, di interattività, di intimità (sono tutti aspetti cui l’odierna tecnologia della comunicazione ampiamente si rivolge). Il pensiero va deconcettualizzandosi, riguadagnando il suo originario rapporto con le cose, la sua immediatezza, il procedere più per associazioni ed analogie che non per rigide implicazioni formali.

 

Un cambiamento di paradigma nella formazione?

Tutti questi rilievi conducono in ultima istanza a registrare l’impatto straordinario delle innovazioni tecnologiche del mondo della comunicazione sui processi formativi. Un impatto che consente a ragione di parlare di un cambiamento di paradigma nella gestione di questi processi. Proviamo a indicarne alcuni aspetti a nostro avviso fondamentali.

a) L’autonomia dei soggetti

La disponibilità dei dati, i sistemi di archiviazione e reperimento del sapere sempre più potenti, il carattere tutoriale della maggior parte del software disponibile sui mercati, rende in proporzione più facile oggi rispetto a un recente passato l’approvvigionamento di informazione. Questo fatto comporta una serie di conseguenze quanto mai rilevanti come l’affrancamento delle pratiche didattiche e formative dai luoghi deputati (l’aggiornamento dei quadri di un’azienda si può oggi ottenere distribuendo un CD interattivo anziché convocarli per un corso residenziale), l’affermarsi sempre più deciso di pratiche autoformative, il prender quota delle pratiche di formazione a distanza. In sostanza le opportunità per l’utente sono infinite, ma proprio in ragione di questa enorme libertà di scelta è necessario sostenere e coadiuvare sul versante della formazione i soggetti che saranno chiamati a esercitarla. La navigazione in rete come lo sfruttamento dell’offerta televisiva sono attività estremamente diverse dall’atto della lettura o dell’ascolto propri di precedenti culture, in particolare ciò che viene superato è lo schema sequenziale, lineare, di quei processi, sostituito da una logica reticolare, policentrica: non esiste un ordine oggettivo di fruizione per il sapere disponibile in rete, ma solo un’infinità di diversi punti di movenza a partire dai quali è possibile descrivere infiniti percorsi di lettura diversi. Le competenze che vengono messe in gioco sono quelle della detestualizzazione e della ricontestualizzazione delle informazioni: il ritaglio e l’assemblaggio sono le operazioni fondamentali che vengono richieste dal nuovo statuto di disponibilità del sapere, non a caso funzione tra le più importanti di un qualsiasi word-processor. La tecnologia, come si diceva, come produttrice di schemi mentali.

Tutto questo comporta una ridefinizione dell’intervento formativo più nel senso di una fornitura di abilità (saper fare) che non di informazioni (sapere): nella società della comunicazione non occorre più rendere disponibile un sapere già a disposizione, ma far acquisire delle competenze per interagire correttamente con esso.

b) Il policentrismo formativo

Un secondo rilievo è da effettuare in margine, da una parte alla già ricordata capacità dei media elettronici di prescindere dal luogo fisico per creare una situazione sociale, dall’altra in relazione al loro elevato contenuto informativo. I media si affiancano alle agenzie educative tradizionali costituendosi essi stessi a nuovo tipo di offerta formativa. L"altra educazione" o la "scuola parallela" , come sono stati definiti i media nel loro impatto culturale, comporta una ridefinizione tale del sistema formativo da rendere "altra" e "parallela" rispetto a sé medesimi l’educazione e la scuola tradizionali. In età massmediale, infatti, scuola e funzione docente devono essere rimessi drasticamente in gioco.

La prima perde la sua centralità, assiste all’erosione del suo primato, vive la propria crisi di fronte a una realtà complessa difficile da inquadrare in termini curricolari. Il sistema scolastico rischia di sganciarsi dall’ambiente nei confronti del quale l’educazione da esso promossa dovrebbe essere funzionale, e questo per diverse ragioni: l’inattualità delle immagini del mondo e dei valori proposti; l’invecchiamento dei saperi e la scarsa incisività dei programmi di insegnamento; l’incertezza dell’organizzazione. Queste difficoltà, peraltro, vengono enfatizzate dalle resistenze che l’ambiente stesso oppone al proprio aggancio da parte del sistema scolastico: la inesportabilità alla scuola della razionalità tecnologica; le difficoltà di pedagogizzazione dell’uomo contemporaneo; l’ambiguità della comunicazione di massa.

Il formatore, l’educatore, per parte sua registra una complessificazione e una parziale ristrutturazione dei suoi compiti (da fonte dell’informazione a elemento di un processo) assumendo due possibili atteggiamenti: o il rifiuto, dettato da inerzia al cambiamento e dalla fatica di una alfabetizzazione tecnologica e spesso mascherato dalla difesa di una cultura alta di cui la cultura dei media costituirebbe il pervertimento; o l’aggiornamento iperspecializzato e iperparcellare che rischia di generare un loop in cui la formazione dei formatori anziché servire la didattica diviene autoreferenziale rispetto al sistema stesso dell’istruzione.

c) L’adeguazione al mutamento

Se i nuovi media aprono la strada a un recupero del valore del corpo nell’apprendimento favorendo il pensiero analogico rispetto a quello concettuale, se essi predispongono per i soggetti un nuovo spazio di autonomia nella definizione del loro itinerario formativo, se infine invitano le istituzioni impegnate nel campo dell’educazione a riprogettare il proprio spazio di intervento, è inevitabile che questa sfida venga raccolta e tradotta in progettazione pedagogica. Adeguarsi al mutamento, a questo livello, mi sembra possa significare almeno tre cose.

Anzitutto accettare la sfida della complessità, vivere nella società multimediale, sperimentarne la realtà operando in questo modo un’opportuna mediazione culturale e linguistica nei confronti dei destinatari della formazione che già la vivono personalmente. In secondo luogo velocizzare i meccanismi che conducono alla messa a punto dell’offerta formativa. L’accelerazione (degli scambi, dell’informazione, dei processi di progettazione) è la legge che regola dall’interno la società della comunicazione: se la formazione non ne tiene conto rischia, come la nottola di Minerva, di alzarsi in volo solo quando il giorno è già tramontato.

Infine, si tratterà di realizzare un’opportuna convergenze di finalità e di compiti tra il mondo della ricerca e la prassi formativa, vincendo lo snobismo e i timori che a questo proposito ne hanno caratterizzato in passato i rapporti.

Platone conclude la sua requisitoria contro la scrittura con una domanda a Fedro: "Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltando in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore di discorsi, o scrittore di leggi?" (278d-e). Immagine profetica che ben si presta a descrivere oggi l’attività del romanziere seriale, del ghost writer o del burocrate impegnati in un word-processing che nulla crea e tutto combina. Il problema è se esista qualcosa "di maggior valore" dietro a quella routine. Ma questo riguarda l’anima di chi scrive: l’oralità, la scrittura o il computer non c’entrano!

 

NOTE

1. Sono le due forme di pensiero che Platone indica come costitutive della sua metodologia di ricerca: un processo elementarizzante, la diairesi, che procede a una riduzione dei dati complessi ai loro costituenti ultimi; un processo generalizzante, la sinagoghè, che risale invece dal particolare all’universale. Torneremo più avanti sul valore cognitivo di questi processi soprattutto per quanto riguarda il rapporto di Platone con la scrittura. Per ulteriori approfondimenti cfr.: H.Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone con una raccolta dei documenti fondamentali in edizione bilingue e bibliografia, Vita e Pensiero, Milano 1982, pp.161ss.; G.Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1987, p. 268ss.

2. Da questo momento in avanti il riferimento ai passi dei dialoghi platonici è alla numerazione progressiva della edizione curata da Giovanni Reale per l’editore Rusconi: Platone. Tutti gli scritti, Milano 19976.

3. "Invece, chi ritiene (...) che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà (...) ebbene, o Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia quello che tu ed io ci augureremmo di diventare" (277e-278a).

4. Sul ruolo della definizione già Socrate aveva centrato il proprio metodo di ricerca, meritandosi da Aristotele nella Metafisica il riconoscimento di avere introdotto il concetto nella filosofia greca. Qui Platone si dimostra fedele all’insegnamento del maestro.

5. Il termine sophistès, come è noto, è privo nella lingua greca di connotazioni negative e indica colui che conosce, il sapiente. L’accezione che esso ha finito per assumere e mantiene anche oggi si deve a Socrate che assunse una posizione fermamente critica nei confronti della nuova figura professionale del filosofo che nell’Atene della fine del sec.IV a.C. andava affermandosi: quella di un intellettuale che, a pagamento, metteva a disposizione degli aspiranti politici la sua competenza retorica e la sua abilità argomentativa. Qui Platone risente naturalmente dell’insegnamento socratico.

6. Cfr. 266d-267e.

7. I corsivi nelle citazioni platoniche sono nostri.

8. É chiaro qui il riferimento di Platone al suo modello pedagogico giocato sulla relazione in presenza di maestro e discepolo e sulla ricerca in comune come metodologia di lavoro. Fedele all’ideale pitagorico del bìos theorethikòs e all’insegnamento socratico, Platone aveva impostato la didattica dentro l’Accademia sulla convivenza di maestro e discepoli, una sorta di noviziato intellettuale in cui fondamentale era l’interazione, l’apprendimento collaborativo, l’esempio di vita. Tutto questo, evidentemente, non può essere sostituito dalla lettura di un libro.

9. Cfr. D.DeKerkhove, La civilisation vidéo-chrétienne, Retz/Atelier Alpha Blue, Paris 1990; tr.it. La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli, Milano 1995; E.Havelock, Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets 1963; tr.it. Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari, 19952; W.Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuen, London-New York 1982; tr.it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986. N.Postman, Technopoly. The Surrender of Culture to Technology, Vintage Books, New York 1992.

10. Ong, Oralità…, p.121.

11. Come fa ben vedere Giovanni Reale nel suo ultimo lavoro (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998), Platone conosce perfettamente le regole dello scrivere, come dimostra nel Fedro stesso quando dà prova di essere uno straordinario scrittore (e di esserne consapevole) facendo rifare a Socrate il discorso di Lisia.

12. Ong, Oralità…, p.121.

13. Come suggerisce DeKerkhove l’alfabeto fonetico è caratterizzato, rispetto agli alfabeti sillabici o iconici (geroglifici, ideografici), da una doppia articolazione: mentre negli altri alfabeti la lettura è funzionale al recupero iconico-rappresentativo di un significato che altro non è se non l’oggetto designato dal grafema, nell’alfabeto fonetico il significato è il concetto a cui rinvia l’insieme di segni in cui l’oggetto è stato codificato. Unica tra tutti i tipi di scrittura, quella fonetica completa rinvia a concetti, non a oggetti reali.

14. De Kerkhove, La civilizzazione…, p.43.

15. Cfr. sopra dove si parla delle regole della comunicazione autentica.

16. De Kerkhove, La civilizzazione…, p.43.

17. È facile osservare la corrispondenza quasi testuale dei criteri platonici per la stesura di un buon discorso con le regole del metodo dettate da Cartesio nella seconda parte del suo Discorso: "1)...non accettare mai per vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza esser tale...; 2) ...dividere ciascuna difficoltà che stessi esaminando in tante piccole parti...; 3) ...condurre con ordine i miei pensieri...; 4)...procedere in ogni caso ad enumerazioni così complete e a rassegne tanto generali da esser certo di non aver omesso assolutamente nulla" (G.Brianese, a cura di, Il Discorso sul metodo di Cartesio e il problema del metodo nel XVII secolo, Paravia, Torino 1988, pp.57-58).

18. É la lettura di Postman, perfettamente in linea al riguardo con le osservazioni di Harold Innis.

19. Postman, Technopoly…, p.15.

20. Ibi., p.20.

21. Ibi., p.18.

22. G.Reale, Platone…, p.21.

23. Ibi. p.24.

24. Ibidem.

25. Ibi., p.51.

26. Ibi., p.62.

27. Ibi., p.283.

28. Cfr. in questo volume il saggio Tecnologie di conoscenza e organizzazione del sapere.

29. Reale, Platone…, p.108.

30. E. Morin, A.B. Kern, Terre-Patrie, Editions de Sueil, Paris 1993; tr.it. Terra-Patria, Cortina, Milano 1994, pp. 22-23.

31. Cfr. J. Meyrowitz, No sense of place. The Impact of Electronic media on Social Behavior, Oxford University Press, New York 1985; tr.it. Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993.

32. Cfr. Enciclopedia dell’educazione religiosa, Piemme, Casale Monferrato 1998.

33. F. Ravaglioli, Genealogia della scuola. Davanti all’addensamento della complessità, Scuola SNALS, EI, Roma 1993, p.114.

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