La tela, conservata al Louvre, è uno degli ultimi lavori del grande pittore olandese (1632-1675) e rappresenta, verosimilmente, il ritratto del naturalista olandese Anthony Van Leeuwenhoek, concittadino e contemporaneo di Vermeer.

Sebbene si discuta ancora tra i critici se i due si conoscessero, è certo che la loro metodologia di lavoro era straordinariamente simile. Entrambi, infatti, conoscevano le prerogative delle lenti e se ne servivano: Van Leeuwehoek utilizza il microscopio (che contribuisce a perfezionare) per l’indagine microbiologica (studi sui cotiledoni, i globuli rossi, gli spermatozoi), Vermeer, quasi sicuramente, si serve delle lenti per produrre gli straordinari effetti di luce che hanno reso celebre la sua pittura. In particolare, pare che l’artista olandese ricorresse a una doppia lente concava montata in una camera oscura attraverso la quale poteva distribuire minuscoli globuli di pittura bianca nelle zone illuminate delle sue tele.

Questa cura "scientifica" della sua arte, che gli fa dipingere probabilmente solo 53 tele in tutta la sua vita (con un tempo medio di lavorazione di circa 9 mesi per ogni quadro realizzato), ha contribuito all’affermarsi di una corrente interpretativa che vede nella sua opera uno dei vertici assoluti del realismo di tutti i tempi in pittura. Questa linea di lettura viene inaugurata da Hegel nelle sue Lezioni di Estetica dove il filosofo tedesco parla della pittura olandesa proprio in questi termini: "Gli olandesi hanno trascelto il contenuto delle loro manifestazioni da loro stessi, dal presente della loro vita e non si può rimproverare loro di aver dato ancora una volta realtà a questo presente per mezzo dell’arte. Ciò che è portato dinanzi agli occhi ed allo spirito dei contemporanei deve appartenere anche a questi se deve pretendere tutto il loro interesse. Per sapere in che consisteva l’interesse contemporaneo degli olandesi, noi dobbiamo interrogare la loro storia".

Questa lettura è sicuramente confortata anche da questo dipinto in cui, a una analisi attenta, è possibile addirittura riconoscere il libro aperto davanti all’astronomo: si tratta delle prime due pagine del Libro Terzo dell’opera di Adriaan Maetius Sull’investigazione delle stelle. Una delle due pagine mostra l’astrolabio a ruota inventato dallo stesso Maetius attorno al 1620. Realmente il risultato della pittura di Vermeer pare di ottenere un effetto "più vero della verità" come dice il critico Lawrence Gowing.

E tuttavia è difficile non ritenere limitante ridurre tutto a fotogenia, soprattutto nel caso dell’Astronomo. La pittura "enigmatica e silenziosa" (Castelnuovo) di Vermeer pare evocare altro, aprirsi a significati simbolici, forse servendosi proprio del realismo come chiave di accesso (Pasolini, del resto, nella sua Medea, faceva dire al Centauro Chirone che "solo ciò che è mitico è realistico, e solo ciò che realistico è mitico").

Così il mappamondo sul tavolo diviene il vertice della triangolazione tra la luce che entra dalla finestra e lo sguardo intento dell’astronomo. La stessa triangolazione coinvolge lo spettatore la cui posizione, fuori dallo spazio della rappresentazione, viene fissata trovando questa volta nell’astronomo seduto al tavolo il proprio vertice. Il risultato è che mentre l’astronomo fissa il mappamondo, noi siamo portati, suo tramite, a seguire il fascio di luce fuori dalla finestra. Le conseguenze che da questa architettura si possono trarre sono evidenti: l’arte come luogo "meta" del senso, il gioco della verità, la dialettica tra apertura e nascondimento. Una metafora straordinaria della ricerca scientifica.

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