Il bambino in televisione
Pier Cesare Rivoltella, Università Cattolica del S.Cuore
Quale immagine dellinfanzia ci viene restituita dalla televisione oggi? Si tratta di unimmagine fedele o artefatta? Lo specchio della Tv è "nitido", come rileva una recente ricerca del CENSIS, o "sporco", come paiono invece indicare alcune ricerche europee? E quali possono essere le ragioni che stanno dietro alle logiche della rappresentazione televisiva dellinfanzia? Si possono leggere come un "segno dei tempi" o sono soltanto la conferma degli interessi cinicamente commerciali del sistema dei media?
Sono alcune delle domande che terremo sullo sfondo di questo intervento che sullinfanzia in televisione vorrebbe riflettere in tre momenti successivi: anzitutto, collocandolo in prospettiva storica, per verificare quali differenze il racconto televisivo evidenzi nella rappresentazione del bambino rispetto ai racconti tradizionali, quelli della fiaba e della letteratura per ragazzi in genere. A partire da questa operazione contestualizzante, proveremo a individuare alcune costanti nella attuale programmazione televisiva facendo sintesi dei risultati degli studi più recenti sullargomento. Cercheremo, infine, di proporre alcune linee interpretative.
Logiche del racconto: dal bambino "bambino" al bambino "adulto"
Philippe Ariés, in un libro molto bello che costituisce ancora oggi un unicum nel suo genere, sostiene che linfanzia, non come età fisiologica, ma come categoria socio-culturale, non esiste prima del Cinquecento.
Nelle epoche precedenti, infatti, il bambino, appena uscito dalla prima infanzia, viene considerato a tutti gli effetti già un adulto. Delladulto condivide le responsabilità, assorbe precocemente i costumi, frequenta gli stessi ambienti: il bambino beve in taverna come ladulto, svolge le stesse mansioni delladulto, è testimone come lui della morte, la cui vista non gli viene risparmiata, come quella del sesso, del resto.
Con il Cinquecento la situazione cambia radicalmente. Certo non si può dire che linfanzia inizi ad essere tutelata (ancor oggi non è possibile sostenerlo in generale), ma sicuramente le si riconosce uno status di età separata, distinta da quella adulta. Le ragioni di questo cambiamento sono diverse e probabilmente andrebbero considerate tutte insieme per restituire un quadro interpretativo sufficientemente rispettoso della complessità del fenomeno: Ariés lo mette in relazione con la diminuzione della mortalità infantile e quindi con il rinsaldarsi dei legami affettivi tra genitori e figli, altri con la comparsa della Riforma e con la conseguente necessità di rivolgersi allinfanzia per allargare la base sociale che aderisce alle nuove dottrine (Sommerville, Stone), altri ancora, come Meyrowitz, sulla scorta degli studi di Elizabeth Eisenstein, lo riconducono alla comparsa della stampa a caratteri mobili. In una cultura in cui il sapere non si tramanda più oralmente ma attraverso la scrittura a stampa, laccesso ai temi propri delletà adulta avviene attraverso il processo dellalfabetizzazione. Questultimo finisce così per costituirsi a vero e proprio elemento di separazione tra chi sa e chi non sa e, con landar del tempo, tra il bambino e ladulto, dato che la fornitura delle competenze alfabetiche allinterno del sistema scolastico riguarda proprio linfanzia.
Questo dato è molto interessante. Esso dimostra infatti lesistenza di una relazione tra la diffusione delle tecnologie di comunicazione ¾ in questo caso la stampa ¾ e la definizione dei ruoli e delle identità sociali: linfanzia nasce come età socialmente identificabile solo quando lavvento della stampa contribuisce a separare il sapere proprio degli adulti da quello di chi ancora adulto non si può considerare.
Solo a partire da questa consapevolezza si può comprendere un fenomeno come quello della nascita della letteratura per ragazzi nel sec. XVII e della sua evoluzione nel secolo successivo da forme improntate a una educazione moralistica e pedante verso la strutturazione di una vera e propria sottocultura infantile che trova nelluniverso della fiaba il proprio spazio di elaborazione privilegiato. È chiara, qui, la volontà della società adulta di proteggere linfanzia da realtà, tra cui la letteratura per gli adulti, per rapportarsi alle quali non viene ancora ritenuta adatta. Si tratta in sostanza ¾ e se ne può trovare traccia nella riflessione dei pedagogisti ¾ di perseguire una missione di tutela del minore che prende corpo del demarcare il campo di ciò che gli può essere detto, da quello che deve invece essergli taciuto: " i libri per bambini hanno due particolarità importanti: sono lunico tipo di libri che i bambini sanno leggere e che, in genere, vengono letti solo da loro. In questo senso, la letteratura per bambini è una sorta di ghetto informativo, che isola ed è isolato". La conferma viene dallanalisi dellimmaginario fiabesco "tradizionale" il quale rivela un universo di senso in cui ladulto e il bambino sono nettamente distinti: il primo viene addirittura glorificato, il secondo ridicolizzato o addirittura espulso dalluniverso narrativo.
Questa situazione, enfatizzata nellOttocento (il "secolo dellinfanzia"), inizia a mutare alla metà del nostro secolo, precisamente negli anni Sessanta, quando si verifica una rivoluzione dentro la letteratura per linfanzia. La generazione dei nuovi autori decide che al bambino si può dire tutto, si deve dire tutto: in una società divenuta violenta e irrispettosa di tutto e di tutti, anche dei bambini, è meglio che il minore venga attrezzato per affrontare la vita reale e non rinchiuso nel mito di una realtà "per linfanzia" che non esiste se non nelle fiabe. Dal modello protettivo si passa così a quello inoculatorio: la letteratura per linfanzia come vaccino, come sistema di anticorpi nei confronti del mondo.
Questa rivoluzione dimostra un modo completamente nuovo di rapportarsi allinfanzia, antitetico rispetto a quello precedente. I nuovi piccoli protagonisti della narrativa per ragazzi hanno un corpo da bambino, ma responsabilità da adulti, mentre gli adulti tendono ad essere descritti con tratti infantili, vulnerabili, incapaci.
Di questo nuovo modo di rapportarsi allinfanzia sono testimoni anche i media, in particolare la televisione, tanto da autorizzare qualcuno a parlare di una scomparsa dellinfanzia proprio a seguito della sua diffusione. Come la "nuova" letteratura per linfanzia, la televisione ¾ narratore dei tempi moderni ¾ dice tutto al bambino, rompendo il sistema di protezione informativa che la stampa in oltre due secoli gli aveva costruito intorno, con il risultato di fare del bambino un piccolo adulto ( e delladulto, come rileva Postman, un bambino cresciuto): dallinfanzia negata del Medioevo, allinfanzia riconosciuta delletà moderna, allinfanzia scomparsa di oggi.
La scomparsa dellinfanzia dalla televisione
La scomparsa dellinfanzia pare non essere solo un effetto indotto dalla televisione sul bambino reale, sempre meno bambino nella misura in cui "consuma" un immaginario da adulti, ma anche un tratto caratterizzante della programmazione televisiva recente. Lo si coglie con chiarezza in una ricerca condotta nel 1996 dal Dipartimento di Giornalismo, Media e Comunicazione dellUniversità di Stoccolma. Lidea consiste nel mettere a confronto la rappresentazione del minore in televisione nel 1982 (quando la televisione svedese aveva ancora due sole reti di stato) e nel 1995, dopo lavvento dei networks privati.
Lavorando sui dati del 1982 la ricerca parla di un fenomeno di "annichilimento simbolico" del bambino: solo il 10 % della popolazione televisiva ha unetà compresa tra gli 0 e i 15 anni (contro il 20 % della popolazione reale), una percentuale che decresce con il decrescere delletà (i minori di anni 12 in televisione sono circa 1/3 di quelli reali, i minori di 8 anni un quinto, i minori di 5 anni un ottavo). Tra i 16 e i 50 anni, invece, cè un rapporto pressoché identico tra popolazione televisiva e popolazione reale; il rapporto comincia a decrescere di nuovo dopo i 50 anni. Questi dati, nello stesso anno, sono confermati dalla Danimarca (una sola rete pubblica) e risultano anche più evidenti in USA e Australia. In sostanza, pare di poter dire, limmaginario televisivo tende ad espellere fuori dei suoi bordi il bambino e lanziano: un dato su cui occorrerà ritornare in sede conclusiva.
Al di là del dato quantitativo, quando il bambino viene rappresentato non ha meno importanza delladulto e rispetta più equamente il rapporto tra maschile e femminile (42% di ragazze, 56 % di maschi, contro il 25 % di donne e il 75% di uomini nella popolazione adulta). Inoltre il bambino, rispetto al giovane e alladulto, viene presentato come maggiormente capace di interazione, meno coinvolto in conflitti, meno aggressivo, più dedito ai propri obiettivi (anche se, tra il giovane e ladulto, è soprattutto questultimo ad essere rappresentato secondo un profilo più negativo, mentre il giovane viene rappresentato come disimpegnato ma non come deviante o violento). "Insomma, i bambini sono rappresentati in maniera abbastanza idilliaca, quando vengono rappresentati. Il dato più rilevante è la loro forte sotto-rappresentazione. Anche se le immagini dei bambini sono diverse nei programmi per i bambini, la costruzione culturale dei bambini nella televisione considerata nel suo complesso si potrebbe dire caratterizzata da una tiepida benevolenza se non addirittura ignorata".
Cosa cambia dal 1982 al 1995? I bambini figurano di meno sulla tv commerciale che su quella pubblica e anche in questultimo caso sono meno rappresentati che nel 1982 (in proporzione sono molto più rappresentati nei prodotti americani). La maggior parte dei minori, poi, sono rappresentati nella fiction e più nella sfera intima (la casa) che in quella sociale (la scuola). I bambini degli anni 90, infine, presentano più conflitti, sono più aggressivi, indipendenti, precoci, adultizzati, prendono più iniziative.
Il dato interessante è che, mentre il tasso di rappresentazione dellinfanzia diminuisce in tutti i programmi, rimane costante nella pubblicità: negata fino quasi alla sua eliminazione nellintero palinsesto, linfanzia "tiene" in pubblicità, sintomo, forse, che più che come a un gruppo sociale capace di influenza politica o culturale il sistema dei media pensa ad essa come a un target che esercita una importante funzione di consumo.
Dentro la rappresentazione dellinfanzia in TV
Il dato quantitativo offerto da questa ricerca può trovare conferme ed interessanti sviluppi in una indagine del CENSIS condotta nellautunno del 1996 sulla rappresentazione del minore nella televisione e nella carta stampata italiani. Proviamo a raccoglierne i dati attorno alle due osservazioni per noi più interessanti.
Anzitutto, per quanto riguarda le sue relazioni sociali, il bambino televisivo che emerge dallindagine è caratterizzato dalla perdita dei suoi punti di riferimento tradizionali e da un sostanziale isolamento nei confronti delladulto. Da una parte, infatti, il padre risulta assente o, se presente, connotato da caratteri marcatamente infantili; dallaltra, la madre tende a ricoprire una funzione eccessiva rischiando di non riuscire non solo a surrogare lassenza del padre, ma nemmeno a svolgere più in maniera equilibrata la propria funzione di madre. Poco spazio viene garantito ad altre figure di adulto, come lanziano (si relaziona con il bambino nel 2,7% dei programmi di fiction) o linsegnante (7,3%). In ogni caso, "gli adulti presenti accanto al minore sono per lo più affettivi, complici, paritari, se non addirittura infantili, assai raramente educativi". È il gruppo dei pari, in questa situazione, a surrogare il venir meno delle figure parentali, anche se non certo sul piano della guida educativa: "Il gruppo di adolescenti che si impegna per vincere una partita o per affermare il bene e sconfiggere il male, lo fa in nome di una vitalità spontanea ancora una volta, ma stupisce la fragilità del principio-guida: le guerriere di Sailor agiscono in "nome della Luna", le giovani atlete dei tanti cartoni animati giapponesi sognano il successo sportivo ( ). Il gruppo dei pari, dunque, non disegna percorsi e motivazioni forti: si limita a veicolare strategie di achievement, a segnalare percorsi di realizzazione, a suggerire complicità funzionali".
Se, poi, spostiamo la nostra attenzione sulle ragioni che sorreggono la rappresentazione televisiva del minore, incrociamo quella che si può ritenere lacquisizione centrale della ricerca, cioè la definizione del bambino non tanto come oggetto, quanto come mezzo di comunicazione. E questo in almeno tre direzioni.
Anzitutto la televisione si serve del bambino per produrre emozioni nello spettatore. È facile capirlo se si pensa come i tre temi cui la rappresentazione del bambino è più spesso associata nellinformazione televisiva siano il sottosviluppo (22,7%), la povertà e i disagi sociali (18,7%) e la guerra (16%). Ora, spesso questo tipo di ricorso allimmagine del bambino si giustifica come ultimo disperato tentativo di condurre uno spettatore svagato e indifferente alla presa di coscienza, ma occorre comunque riflettere su quali siano i reali vantaggi che il minore possa trarre da questo tipo di operazione.
Un secondo modo che la televisione ha di servirsi della rappresentazione del bambino è di usarlo come testimonial di un prodotto ¾ e questo vale, come si capisce, nel caso della comunicazione pubblicitaria. La strategia comunicativa non è più, qui, il ricorso a immagini a forte impatto emotivo, ma lidealizzazione del bambino attraverso la stereotipia, soprattutto di tipo sessuale (la ricerca evidenzia, ad esempio, come lintelligenza, la forza, la vivacità siano associate di solito al maschio, la tendenza romantica e sentimentale alla femmina).
Infine, sempre con particolare riferimento alla comunicazione pubblicitaria, la televisione tende ad appropriarsi del bambino come di un vero e proprio "ostaggio generazionale", invitato a misurarsi con limmagine di padri-baby sitter e di madri in carriera e, contemporaneamente, a identificarsi in modelli sessuali daltri tempi "con bambine e ragazze preadolescenti sognanti tra abiti di tulle rosa, bambole da accudire, goielli e trucchi ad usum infantis e con bambini e ragazzi incoraggiati verso modelli di riferimento, in cui forza, aggressività, competizione e coraggio virile sono doti indispensabili per crescere e diventare uomini".
La Tv, specchio deformante o immagine fedele?
Quali considerazioni si possono trarre in conclusione dagli elementi che sono stati fatti emergere? E quali sottolineature di tipo educativo possono autorizzare?
Proviamo a individuare di seguito le indicazioni più interessanti che si possono ricavare da quanto siamo andati dicendo.
Tutto questo, nella prospettiva dellintervento pedagogico, comporta probabilmente di rivedere in senso più "interattivo" il rapporto del minore con il mezzo televisivo: "Noi siamo probabilmente daccordo sullimportanza di prestare attenzione a ciò che il minore vede. E siamo anche daccordo che prestare attenzione a ciò che vede il minore significa garantirgli degli spazi effettivi per poter esprimere la sua voce. Sia i media tradizionali che i nuovi media interattivi possono costituire delle risorse enormi a questo proposito. E la media education può essere uno dei molti strumenti mediante i quali facilitare il processo". Dal bambino televisivo al bambino reale, dunque, per conoscere meglio il suo mondo, ma anche per capire più in profondità quello degli adulti.