La città come spazio per la comunicazione formativa

Pier Cesare Rivoltella, Università Cattolica di Milano

Relazione al corso Città: laboratorio di conoscenze ed esperienze formative – S.Remo, 21 aprile 1999

 

 

Il punto di vista dal quale mi colloco in questo mio intervento è duplice:

La domanda centrale che intendo pormi è relativa alla possibilità di pensare alla città come luogo di comunicazione e, di conseguenza, come spazio per l’intervento formativo. Si tratta di una scelta di campo che non ne preclude altre (storiche, geografiche, culturali) ma che rivendica una sua originalità di approccio: quella della Media Education, cioè di uno sguardo pedagogico attento a tutto ciò che nel nostro contesto socio-culturale riguarda l’intersezione tra la prospettiva della comunicazione e i processi formativi. In sostanza: cosa e come comunica la città? E in che misura questa comunicazione urbana sollecita l’educazione?

Procederò in tre passaggi, che corrispondono ad altrettanti modi di pensare la città in termini di comunicazione (e che sono, poi, in fondo, le tre indicazioni che alla progettazione didattica, in questo settore, voi stessi avete prospettato):

  1. la città come oggetto di comunicazione, cioè come fonte e contenitore di conoscenze;
  2. la città come supporto di comunicazione, cioè come occasione e opportunità di fare cultura;
  3. la città come soggetto di comunicazione, cioè come stimolo della fantasia.

La tassonomia è ripresa da un saggio di Sainati che parla delle tre funzioni del cinema rispetto al sapere: mi sembra che funzioni comunque bene anche nel nostro caso.

 

Comunicare la città

Il primo modo di pensare la città dal punto di vista della comunicazione è di considerarla come un archivio di informazioni, come l’oggetto delle nostre attività di comunicazione.

Troviamo, qui, la prima declinazione dell’idea di città, che allude al suo significato socio-antropologico: la città come luogo. Che cosa significa?

Come ha spiegato bene Marc Augé in un libro molto bello, sono tre le caratteristiche distintive di ciò che definiamo luogo:

  1. esso si riconosce in una propria identità, ha un nome, costituisce per il gruppo che lo abita uno spazio in cui convenire e proprio per questo viene difeso contro le minacce esterne;
  2. si offre come uno spazio di relazioni, è costituito da una rete di conoscenze, è caratterizzato dalla condivisione dello stesso linguaggio che, in fondo, rimanda all’appartenenza ad uno stesso mondo;
  3. infine, è il capolinea temporaneo di una storia; come dice Augé, è la "presenza del passato nel presente che lo supera e lo rivendica".

Comunicare la città significa, allora, promuovere la conoscenza del luogo, favorire l’incontro con la sua identità, riflettere sugli scambi di comunicazione di cui è costituita. Gli strumenti per farlo sono diversi e si offrono come opportunità di altrettanti percorsi didattici media-educativi: dalla mostra fotografica, al giornale di classe; dalla realizzazione di un video allo sviluppo di un ipertesto multimediale.

La finalità educativa di questo tipo di lavoro è chiara: si tratta di costruire il senso dell’appartenenza, di favorire lo sviluppo di una cultura della memoria, in un tempo in cui i processi di globalizzazione e l’effimera leggerezza dei media possono invece autorizzare fenomeni di perdita di identità e della memoria. Non si tratta, qui, di promuovere chiusure localistiche, ma di equilibrare l’ormai necessaria apertura alle logiche planetarie con i valori del locale. Più che un problema politico, è una questione culturale.

 

Comunicare con la città

La città non è soltanto un luogo da recuperare alla memoria collettiva, da conoscere e valorizzare nell’ottica della costruzione di una identità, ma può anche essere concettualizzata come un’opportunità per fare cultura.

Si tratta di una seconda declinazione dell’idea di città, che rinvia a un significato organizzativo e di animazione culturale: la città come laboratorio.

Ancora una volta proviamo a tematizzare il concetto.

La realtà delle nostre culture è una realtà secolarizzata. Questo significa, al di là delle riflessioni di tipo socio-religioso che qui non ci interessa fare, che esse hanno vissuto una transizione da un modello festivo a uno non festivo di società. In una società festiva non c’è bisogno di creare occasioni festive: tutto, in essa, è festa, dall’evento più quotidiano al grande appuntamento rituale. Quando questo modello di società si eclissa, la progressiva ferializzazione del tempo cui in essa si assiste espelle anche gradualmente fuori del tempo sociale degli individui la dimensione della festa. Come dice Bernardi, la festa, da necessaria che era, diventa elettiva, opzionale: se non pensano gli individui a crearne le occasioni diventa sempre più difficile che la si viva spontaneamente.

Qui si coglie il senso di quel che ho definito comunicare con la città. Significa collaborare a riconsegnare alla città, sempre più ferializzata nel nostro tempo post-industriale, delle occasioni festive.

Gli strumenti per farlo sono quelli della progettazione culturale e dell’animazione, che richiedono il dialogo con le istituzioni e le associazioni di cultura e del tempo libero, la capacità di diventare soggetti attivi sul territorio. Qui mi pare possano collocarsi iniziative che prevedano l’uscita sul territorio della realtà scolastica, nella forma del concorso (foto-cinematografico), della produzione di spettacoli (le varie forme possibili di teatro-ragazzi), più in generale della fattiva collaborazione con le risorse operanti nel locale per consegnare alla città una nuova qualità di relazione festiva.

Anche in questo caso mi preme sottolineare la finalità educativa di questo tipo di lavoro: in gioco, questa volta, è la costruzione della cittadinanza, l’educazione al valore della partecipazione, che significa riscoprire l’individuo come soggetto attivo, capace di dialogo con le istituzioni e la società civile. E questo consente di ripensare il significato stesso dello spettacolo e delle sue forme: da una valenza puramente fruitiva, di consumo, alla loro riscoperta come tecnologie espressive, come opportunità di realizzazione del sé.

 

La città comunica

Siamo così alla terza dimensione che avevo individuato introduttivamente, che ci fa pensare alla città più che come risorsa di conoscenza o partner nella progettazione culturale, come vero e proprio soggetto di comunicazione.

La declinazione dell’idea di città cui ci troviamo di fronte, qui, è ancora diversa, e rinvia a un significato estetico, o semio-linguistico: la città come testo. Vediamo di chiarire il concetto.

Kevin Lynch, in un libro diventato ormai un classico, The image of the city, descrive la realtà della città alienata attraverso la metafora della griglia: la città-griglia, come Jersey City negli Stati Uniti, è una città fatta di incroci tutti uguali perché in essa non esiste centro, non esistono monumenti riconoscibili, non esistono segni distintivi di alcun tipo. La forma di questa città "parla" a chi ci cammina in mezzo e gli dice: "Qui non ti puoi orientare".

Allo stesso modo parla una città senza storia. Un mio collega di Vancouver, che accompagnavo in giro per la Brescia storica durante la pausa di un convegno, mi diceva che casa sua a Vancouver era giudicata antica, anzi, forse tra le più antiche: è stata edificata nel 1895. Ecco, anche una città tutta nuova "parla" e sicuramente influisce sull’immaginario dei suoi abitanti.

Sono due esempi che servono a chiarire come, seguendo la lezione di Lotman, qualsiasi sistema di segni – e quindi anche una città – possa essere fatto funzionare come un testo. Si può "aprire" una città come un libro, leggerla, far viaggiare la fantasia a partire dagli spunti che essa le fornisce.

Anche in questo caso gli strumenti per accostarsi alla città-testo possono essere molteplici: si può studiare la cartellonistica pubblicitaria; fare una ricerca sull’aspetto dei caseggiati, su alcune strade; produrre narrazioni audiovisive partendo dalle suggestioni di alcuni luoghi (il mercato, il parco, la piazza alla domenica mattina).

E ancora una volta sottolineo la finalità educativa di questo tipo di attività, che è duplice: da una parte, leggere la città significa sviluppare il pensiero critico, accorgersi degli scempi edilizi, verificare la mancanza di verde, avvertire che non ci sono piste ciclabili o che resistono ancora troppe barriere architettoniche; dall’altra, leggere la città significa liberare la propria fantasia, divertirsi a immaginarsi una realtà diversa, più nostra, più rispettosa dell’uomo. Attraverso il tema della comunicazione si annodano, qui, i fili dell’educazione ambientale e della cultura civica, oltre che del pensiero utopico, la cui valenza formativa di indicazione del possibile è fondamentale dimensione della natura umana.

 

Pensare la città nell’ottica della Media Education

Proviamo a raccogliere in sintesi i rapidi spunti che abbiamo fatto emergere.

Abbiamo interpretato la città a partire da tre descrittori: il luogo, il laboratorio, il testo.

Per ciascuno di essi abbiamo individuato un modo specifico di pensare la città: la città come riserva di informazioni, come spazio di un sapere da recuperare e trasmettere; la città come insieme di opportunità per l’intervento di animazione; la città in quanto essa stessa capace di creare comunicazione.

Infine abbiamo associato ad ogni singola declinazione dell’idea di città una dimensione dell’intervento formativo: l’educazione della memoria a cercare nella tradizione l’originalità del locale; l’educazione alla partecipazione che consenta di ripensare in senso attivo la propria cittadinanza; l’educazione del pensiero critico che si traduce in una nuova cultura dell’abitare.

In schema.

Descrittore

Idea di città

Dimensioni formative

Luogo

Riserva di informazioni

Il valore del locale

Laboratorio

Opportunità di animazione

La cittadinanza

Testo

Soggetto di comunicazione

Il pensiero critico

 

Se torniamo, ora, sulle tre istanze educative che abbiamo fatto emergere è facile individuare in esse tre grandi valenze che la Media Education riconosce al lavoro formativo con i media.

1. La prima valenza è culturale e prende corpo nella dialettica equilibrata di due spinte: la spinta all’apertura in senso globalistico e quella opposta alla custodia di ciò che rende irriducibilmente originale la dimensione locale. Questa doppia tendenza traduce quello che poi, di fatto, sociologicamente oggi si verifica, cioè il processo di globalizzazione da una parte e il contemporaneo fenomeno della localizzazione dall’altro. Il movimento della Media Education assume questa dialettica facendone una indicazione di direzione nell’intervento formativo oggi: un intervento attento alle grandi logiche planetarie, attento verso il mondo, ma anche capace di orientare questa apertura alla valorizzazione del locale. Così la Media Education può riconoscersi contemporaneamente una dimensione internazionale e associarsi (come succede nell’Ontario o nel Quebec francesi) allo sforzo di conservazione dell’identità linguistica di una regione.

2. Una seconda valenza è sicuramente di tipo politico. Nella misura in cui la realtà dei media e della comunicazione è oggi la realtà ambientale dentro la quale i soggetti si trovano a vivere e agire, risulta ormai impossibile pensare all’intervento educativo su di essi nei termini di una attività opzionale. Anche perché i problemi che questa realtà mediatizzata porta in gioco sono consistenti: dal rapporto tra realtà e rappresentazione alla questione deontologica, dal problema dell’accesso a quello del rapporto tra potere economico e scelte di comunicazione. Problemi che toccano tutta una serie di questioni fondamentali per il vivere civile: la tutela dei minori, il diritto alla libertà, il rispetto delle minoranze. Pensata in questa prospettiva, soprattutto nel mondo anglosassone, la Media Education copre l’area dell’educazione civica e politica: educare ai media significa, in fondo, educare alla nuova idea di cittadinanza che i media stanno contribuendo a costruire.

3. L’ultima valenza è di tipo critico e si può ritenere come l’obiettivo storico che la media Education si è sempre proposta di raggiungere: l’educazione di soggetti consapevoli, critici e quindi capaci di scelte autonome. Un’idea, questa, che presuppone la consapevolezza che tutti i linguaggi rappresentativi, e in modo particolare quelli iconici, costruiscono uno spazio "altro" rispetto alla realtà attraverso un processo di selezione-decontestualizzazione-ricontestualizazione.

Anche nel caso della rappresentazione più realistica che si possa immaginare, i media non mettono in scena la realtà, ma un effetto di realtà. Questo significa che ogni immagine rinvia a un occhio, a un filtro che si interpone interpretativamente tra la realtà e la sua rappresentazione: i media non sono finestre aperte sul mondo, ma vetri opachi. Educare ai media significa, allora, smontarne i messaggi, svelarne il dispositivo "costruttivo", guadagnare un punto di vista di secondo livello sulla loro realtà.

La sottolineatura di queste tre istanze educative ci riconduce al nostro tema. Cosa significa, in ultima istanza, riappropriarsi della città come luogo, pensarla come spazio di progettazione culturale, accostarsi a essa come a un testo capace di comunicazione? Significa promuovere una nuova idea dell’abitare, un’idea poetica dell’abitare che, come dice Heidegger commentando una celebre poesia di Hölderlin, implica la capacità di costruire ma anche di prendere le misure al mondo, di trasformare le cose ma anche di disporsi in ascolto verso di esse.

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