Pier Cesare Rivoltella*

"Ospiti", "invasori" e altri animali

Gli effetti della televisione sui minori, tra realtà e discorsi sociali

 

"Ladra di tempo", "cattiva maestra", "serva infedele". Sono solo alcune delle metafore che a partire dagli anni Settanta sono state elaborate per descrivere funzione ed effetti della televisione. Esse riproducono il punto di vista "apocalittico" di chi, sentendosi minacciato nella propria normalità quotidiana da questa nuova presenza, non ha saputo fare di meglio che mettere a punto un sistema difensivo costruito sulla attribuzione proiettiva alla televisione di poteri devastanti nei confronti del pubblico: un mezzo che coincide con il grado zero della comunicazione, induce il conformismo, sostituisce la realtà con la simulazione, omologa i gusti ed involgarisce i livelli culturali. Simmetricamente, altri hanno osservato come la televisione possa essere considerata non come un intruso, ma come un "ospite" gradito, riconoscendole una funzione sociale decisamente più positiva: quella di scandire i tempi della vita familiare, di informare in tempo reale sui fatti, di offrire una opportunità di svago comoda ed economica, di favorire la democraticizzazione della cultura.

Due aspetti di questa articolazione di prospettive sembrano rilevanti: il fatto che abbiano contribuito a sviluppare un sostenuto dibattito ai più diversi livelli - scientifico, legislativo, divulgativo - e che al centro di questo dibattito si sia presto riconosciuta la situazione del minore come situazione a più alto rischio.

Si parla di televisione, dunque, e se ne parla soprattutto in relazione alla sua pericolosità per le fasce d’età più basse. Ma esiste un rapporto tra gli effetti di cui si discute e quelli che realmente la televisione produce? O non ci troviamo di fronte a discorsi sociali che finiscono per autoalimentarsi senza riuscire a dire qualcosa di definitivo e soprattutto di efficace proprio sulla televisione che di tali discorsi è il motivo? E il fatto che il minore sia considerato soggetto maggiormente esposto ai rischi del mezzo non è ancora una volta il risultato di discorsi sociali che riflettono schemi mentali in cui il bambino, la donna, il malato di mente sono ritenuti "più deboli"?

Guidati da questi interrogativi, che presuppongono una prospettiva di lettura del fenomeno, in questo intervento vorremmo raggiungere due obiettivi. Anzitutto quello di ricostruire una mappa dei discorsi sociali sulla televisione, che provi a mettere ordine tra le ipotesi dibattute circa gli effetti della televisione sul minore, la rappresentazione della violenza, i possibili interventi educativi. In secondo luogo quello di valutare i termini della dialettica in gioco avanzando un’ipotesi interpretativa.

1. Gli effetti della televisione: un’ipotesi tipologica

Una tipologia degli effetti che risultano da una scorretta esposizione del bambino, del ragazzo alla televisione può essere ottenuta, certo rinunciando a pretese di esaustività e completezza, facendo interagire la classica distinzione sociologica tra effetti a breve e lungo termine, con quella psicologica che differenzia effetti psico-cognitivi ed effetti comportamentali. La prima consente di distinguere tra gli effetti che possono conseguire direttamente e nel tempo breve all’esposizione e quelli che invece subentrano nel tempo lungo, quasi il risultato di un lavoro di modellamento, di settaggio dello spettatore. La seconda autorizza invece la differenziazione delle risposte di tipo comportamentale (guardo la televisione e questo mi fa attivare un certo tipo di comportamenti) dagli atteggiamenti mentali (guardo la televisione e questo modifica il mio modo di pensare, i miei processi mentali).

1) Effetti a breve termine sul piano psico-cognitivo

A questo primo livello si registrano sostanzialmente due grandi dinamiche operanti nel rapporto tra la televisione ed il piccolo telespettatore: la proiezione e l’identificazione, processi che come si cercherà di chiarire spesso si intersecano fino a sovrapporsi e che sono stati individuati come gli spazi privilegiati dell’interazione simbolica dello spettatore con la realtà rappresentata.

1. I meccanismi proiettivi. Utilizzato in generale in psicologia per definire l’atto attraverso il quale un soggetto sposta e localizza un fatto psicologico dall’interno all’esterno, il termine proiezione indica il complesso di operazioni attraverso le quali il "soggetto si assimila a persone estranee o, inversamente, assimila a se stesso persone, esseri animati o inanimati. Per esempio, si dice correntemente che il lettore di romanzi si proietta in questo o quell’eroe e, nell’altro senso, che La Fontaine, per esempio, ha proiettato negli animali che compaiono nelle sue favole sentimenti e ragionamenti antropomorfici. Tale processo dovrebbe essere incluso piuttosto nel campo di ciò che gli psicoanalisti chiamano identificazione".

Pensata in questi termini, nella sua relazione con il meccanismo identificativo, la proiezione si offre quale preferenziale processo ricettivo del bambino nei confronti della programmazione televisiva manifestando consistenti riflessi sulla formazione dei ruoli sociali (figure maschili forti, intraprendenti, astute, coraggiose e figure femminili belle, sensibili, sempre subordinate, come quelle proposte dalla Tv alimentano il conformismo di ruolo) e dei quadri valoriali. Grande attenzione hanno richiamato in questa prospettiva i cartoni animati giapponesi i cui super-eroi in virtù del loro profilo carismatico esercitano sul bambino un formidabile potere di seduzione.

2. I meccanismi identificativi. Processo psicologico fondamentale nella strutturazione della personalità, l’identificazione, in senso riflessivo, indica l’atto attraverso il quale il soggetto tende ad identificarsi con qualcosa di esterno, persona o cosa; in tal caso esso lambisce l’area semantica di altri processi psicologici come: imitazione, empatia, simpatia, contagio mentale, proiezione. In psicologia si suole distinguere tra l’identificazione eteropatica (Scheler) e centripeta (Wallon) in cui il soggetto identifica la propria persona con un’altra (in questo senso il termine si assimila a quello già visto di proiezione) e l’identificazione idiopatica con cui invece il soggetto identifica l’altro con la propria persona.

E’ a questo secondo livello che si registrano gli effetti della identificazione sul pubblico infantile. Il bambino, non possedendo ancora una personalità strutturata, vive in ricerca di modelli da imitare che spesso trova nelle figure parentali. La televisione, come rilevano alcuni osservatori, facilita questa dinamica offrendogli modelli di facile identificazione in virtù di caratteristiche di simpatia e tono emotivo. Questi modelli, tuttavia, in ossequio ad una logica semplificatoria, spesso non sono portatori di valori positivi ed influenzano il modo in cui il bambino si comporta e valuta il bene ed il male, oppure gli sono causa di frustrazione nel riscontrare la differenza che intercorre tra l’eccezionalità delle avventure dei suoi eroi e la normalità della sua esperienza.

2) Effetti a breve termine sul piano comportamentale

A questo secondo livello si registrano effetti che spesso hanno alimentato ed alimentano le riflessioni degli psicologi trovando spazio quasi quotidianamente nelle pagine di cronaca dei quotidiani. Essi si raccolgono attorno al tema della spinta all’emulazione che la televisione indurrebbe soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione di azioni violente.

Il problema va contestualizzato nel più ampio discorso relativo ai rapporti tra il sistema dei media ed i comportamenti che esso induce nel pubblico. Diversi studi sono stati dedicati, in quest’ambito, alla capacità dell’informazione stampata a funzionare da innesco per comportamenti imitativi. Si pensi alle ricerche di Holdensul rapporto tra i dirottamenti aerei degli anni Settanta e la pubblicità ad essi garantita dai media che vi dedicavano sempre più spazio, od ancora a quelle di Phillipsche rilevavano un rapporto tra l’incidenza di omicidi e suicidi e lo spazio ad essi dedicato in cronaca dalla stampa quotidiana. Quest’ultima ricerca è proseguita poi verificando l’esistenza di un nesso analogo tra l’incidenza dei suicidi e la loro rappresentazione nella fiction televisiva. E’ proprio in quest’ottica - quella di un "effetto contagio" della televisione rispetto alla produzione di comportamenti imitativi - che il dibattito giornalistico e televisivo su tv e minori si è alimentato in Italia in questi ultimi anni registrando (e riflettendo su) una lunga striscia di omicidi e suicidi involontari in cui l’imitazione da parte del bambino di azioni viste in televisione ha provocato spesso la morte del bambino stesso o del suo compagno di giochi.

Le ragioni del verificarsi di questi comportamenti imitativi andrebbero cercate nel carattere stesso dell’immagine televisiva, nel suo essere finta e reale ad un tempo, nella verisimiglianza che insieme la irrealizza e tuttavia la rende possibile. Charles S.Clarkriporta un episodio assai indicativo al riguardo: "Una volta, nel pronto soccorso di un ospedale di Boston, la giovane vittima di un colpo d’arma da fuoco sbalordì i medici dicendosi stupita perché la ferita gli faceva realmente male. "Ho pensato che fosse una specie di deficiente: chiunque sa che un proiettile fa male", ricorda la dottoressa Deborah Prothrow-Stith, vicepreside dell’Istituto di Sanità Pubblica dell’Università di Harvard e autrice di un libro sulla violenza pubblicato di recente. "Ma a un tratto mi è venuto in mente che alla televisione, quando sparano in un braccio al super eroe, lui usa quello stesso braccio per aggrapparsi ad un camion che prende una curva a 140 all’ora. E già che c’è, riesce anche a sopraffare l’autista e a sparare ad un paio di centinaia di persone"".

 

 

 

3) Effetti a lungo termine sul piano psico-cognitivo

E’ questa la categoria di effetti che più ha trovato riscontri nella pubblicistica specializzata, alimentando poi il dibattito all’interno del sistema dei media. L’idea che la televisione inibisca la creatività infantile, ristrutturi i processi mentali del bambino, favorisca la costruzione di un’identità debole se non addirittura la scomparsa dell’infanzia come condizione caratteristica di una ben precisa età della crescita, sono tutti temi caratteristici di questo tipo di dibattito. Temi che con facilità sono stati esportati oltre lo specifico massmediale a giustificare le analisi culturologiche delle società tardo-capitalistiche avanzate contribuendo alla definizione della categoria della post-modernità.

1. L’inibizione della creatività e la morte conseguente dell’immaginazione. E’ un’ipotesi avanzata da diversi studiosi che evidenziano come la prolungata ed abituale esposizione ai messaggi televisivi produca una compressione delle capacità ludiche dei bambini da un minimo consistente nella tendenza a ripetere nel gioco schemi stereotipati e poco creativi mutuati dalla stessa programmazione televisiva, ad un massimo che prende corpo nel venir meno della stessa capacità di giocare. La ragione va cercata nella stessa natura dell’immagine televisiva: un’immagine iper-reale, caratterizzata da uno sguardo ravvicinato sulle cose capace di aprire prospettive inattese sugli oggetti, di restituire una realtà più reale di quella reale; un’immagine satura dal punto di vista informativo, debordante, "oscena", come suggerisce Baudrillard, dove l’oscenità non è la mortificazione del pudore, ma la mancanza di rispetto nei confronti della realtà, del suo mistero, della sua distanza dall’osservatore; un’immagine estremamente calda, per ricorrere alla terminologia mcluhaniana, tale da non richiedere allo spettatore interventi particolari di integrazione del senso o di elaborazione dei significati.

Ora, proprio l’immaginazione sembra pagar dazio a questo tipo di logica rappresentativa, l’immaginazione che una ricca tradizione fenomenologica ha insegnato a considerare non, empiristicamente, come una percezione sbiadita della realtà, ma come una diversa modalità di incontrare intenzionalmente l’oggetto, in assenza anziché in presenza. E’ così che la povertà strutturale della nostra percezione (povera perché situata, incarnata in un corpo che se da una parte le consente di aprirsi su un mondo, dall’altra la condiziona ad una prospettiva - quella dello sguardo, della soglia uditiva - parziale e limitata) trova nell’immaginario una straordinaria possibilità di integrazione e di sporgenza sull’intero, sull’infinito, sullo sfondo, mai colto e sempre avvertito, che ospita il darsi stesso dei fenomeni. Certo, lo spazio dell’immaginazione vive fino a quando l’immagine, l’analogon percettivo, conserva la sua strutturale ambiguità: un’ambiguità preziosa proprio perché non sintomo di carenza o di limitazione, ma di ricchezza simbolica. Questa ambiguità, questa vitalità simbolica, è proprio ciò che l’immagine televisiva, oscena perché dice troppo, dice tutto, rischia di eliminare irrimediabilmente. A queste condizioni l’immaginazione muore, muore per saturazione da realtà, muore per afasia indotta, muore per mancanza di spazio.

Questo tipo di rilievo spesso prepara la dialettica tra lettura e visione, libro e TV, come se la capacità di innescare l’immaginazione sia una prerogativa del mezzo (letterario e non televisivo) e non del tipo di utilizzo che se ne fa. Ma è proprio impossibile fare della televisione capace di non inibire, anzi, di alimentare la fantasia? Una domanda che risulta particolarmente valida soprattutto se si riflette ad esempio sul fatto che la strutturazione stessa del discorso televisivo potrebbe favorire la liberazione dell’immaginario sostituendo al flusso catodico che contraddistingue la programmazione attuale una conversazione più distesa fatta di pause, di sospensioni; od ancora se si pensa a come la componente visiva, specifica della comunicazione televisiva, favorisca l’estetizzazione dell’esperienza, enfatizzi il gusto del colore e della luce, faciliti la distinzione delle forme. Come indicava McLuhan in un passo profetico ed illuminante, "la Tv è soprattutto un’estensione del tatto, che implica un massimo di azioni reciproche tra tutti i sensi. (...) La forma a mosaico dell’immagine televisiva esige partecipazione e coinvolgimento in profondità dell’intero essere, come il senso del tatto. (...) L’osservazione banale e rituale dell’alfabeta covenzionale, che cioè la Tv sia un’esperienza per spettatori passivi, è completamente infondata. La TV è un medium che richiede una reazione creativamente partecipazionale". Una provocazione che invita a ripensare seriamente proprio la questione che veniva posta in precedenza: è l’immagine televisiva a non essere simbolica, o l’uso che ne fa la neotelevisione a negarle questa natura che essa, peraltro, linguisticamente, possiede?

2. L’atrofia del cerebro-sinistro e la ristrutturazione dei processi mentali. In ossequio alla riscoperta fatta dalla teoria della comunicazione recente - sui diversi versanti della psicologia, della sociologia, dell’antropologia culturale - delle tesi pionieristiche di chi, come Innis e Mumford, sottolineava già agli inizi del secolo gli stretti rapporti intercorrenti tra lo sviluppo delle tecnologie comunicative ed il riorientamento psico-cognitivo dei soggetti, molte ipotesi teoriche sugli effetti della televisione sono state avanzate sul piano di un’analisi di tali effetti sulla neurofisiologia individuale. E’ il caso della celebre ricerca di K.Moody sulle alterazioni cerebrali che si verificano durante la visione televisiva, in cui la studiosa rileva come il cervello si trovi, in tale situazione, in una "fase alfa" caratterizzata da generale passività e bloccaggio degli occhi, oltre che da una inibizione dell’attività dell’emisfero sinistro a vantaggio di quello destro.

Già le osservazioni di McLuhan, riprese ed approfondite da DeKerkhove, hanno dimostrato come l’emisfero sinistro sia deputato peculiarmente alle funzioni simbolico-astratte, come il linguaggio e la concettualizzazione, mentre quello destro costituirebbe lo spazio del pensiero iconico ed analogico. La televisione, alimentando l’attività cerebro-destra, inibirebbe così la concettualizzazione a vantaggio dell’associazione analogica consentendo di trovare una possibile causa non solo a quella crisi di immaginazione di cui già sopra si diceva, ma anche giustificando le osservazioni di molti insegnanti quando addebitano all’esposizione televisiva una sintomatologia costituita da scarsa attitudine alla verbalizzazione, incapacità di attenzione, desuetudine allo studio ed alla applicazione costante.

A queste osservazioni si possono ricondurre quelle di altri ricercatori, come M.Winn e R.Berger, che a proposito della situazione del consumo televisivo parlano rispettivamente di una vera e propria "trance catodica" e di una esperienza quasi-onirica che il "bambino-dormiente" sarebbe chiamato a vivere. Una vera e propria "sindrome da consumo televisivo", con tratti fisiologici distintivi molto ben riconoscibili (il bloccaggio degli occhi, causa di una vera e propria forma di trance leggera, ed il fenomeno della luce trasmessa, responsabile dell’alto effetto di realtà che si riconosce all’immagine televisiva) ed una sintomatologia "da rientro", registrabile subito dopo la fase di consumo, caratterizzata da cattivo umore, nervosismo, irritabilità, stanchezza, insoddisfazione.

Tutte queste letture, abbastanza apocalittiche nel loro approccio al medium, sembrano autorizzare spesso comportamenti difensivi nei confronti degli effetti presunti della televisione, riproducendo facilmente la dialettica tra presente tecnologico e passato pretecnologico, nuova cultura televisiva e tradizionale cultura pretelevisiva, e risolvendola in un nostalgico rimpianto per i bei tempi andati della cultura del libro. Ma è proprio vero che la televisione ristruttura i processi cognitivi impoverendone intensità e carattere? Tutta una serie di studi recenti sembrano rispondere negativamente, evidenziando, al contrario, la capacità della televisione di facilitare il bambino nel processo di apprendimento.

Da ricerche condotte in Svezia, ad esempio, P.M.Greenfield ha potuto stabilire un rapporto tra esposizione alla televisione e potenziamento dei processi mnemonici: il movimento visivo proprio delle immagini televisive facilita il ricordo in proporzione maggiore rispetto alle immagini fisse ed ancora di più rispetto ai codici verbali. Allo stesso modo guardare la televisione agevolerebbe il piccolo spettatore nel coordinamento spaziale. Ma in generale è tutto il processo che conduce dalla percezione del dato alla costruzione del significato a guadagnarne nella misura in cui anche il testo (ed il palinsesto) televisivo richiede un contributo attivo dello spettatore nella costruzione del significato, tanto da far sostenere a Schramm: "i bambini sarebbero vittime sedute che la televisione assale. Nulla è più distante dalla verità: sono i bambini ad essere più attivi in una tale relazione; sono piuttosto i bambini che si servono della televisione, che non viceversa".

3. La formazione di un’identità debole. Molti contributi di psicologi e sociologi della comunicazione sono organizzati attorno agli effetti che la televisione sortirebbe sulla costruzione da parte del bambino della proria identità personale. Le loro conclusioni si possono articolare in tre affermazioni fondamentali: la televisione modifica il profilo dell’io infantile; la televisione promuove il narcisismo sociale; la televisione contribuisce alla costruzione di identità deboli.

La modificazione del profilo personale si può registrare a livello di processi diversi: la destrutturazione, cioè la tendenza del bambino ad eleggere a proprie strutture di riferimento realtà lontane dalla sua esperienza che la televisione gli porta in casa senza che abbia la possibilità di stabilire con esse una precisa relazione di appartenenza; la frantumazione, cioè lo squilibrio tra affettività e razionalità indotta dal forte orientamento emotivo della programmazione; l’esteriorizzazione, cioè lo scollamento tra la percezione partecipe ed emotivamente coinvolta della realtà rappresentata e quella distratta della situazione reale .

Se dal piano intrapsichico ci trasferiamo su quello delle relazioni sociali, possiamo registrare a questo ulteriore livello di analisi come la televisione contribuisca, in un contesto già caratterizzato dalla fuga nel privato e dal rifiuto delle responsabilità sociali, ad alimentare la formazione di personalità a forte orientamento individuale. E’ il caso soprattutto di certa fiction di importazione, in particolare le sitcom americane, in cui l’io individuale si sostituisce all’io collettivo, la casa viene avvertita come rifugio dalla società rappresentata come causa di tutte le tensioni, il presente isolato quale unica realtà temporale accogliente, data l’irrilevanza del passato e l’incertezza del futuro.

Tutti questi rilievi sono da ultimo funzionali a registrare come la televisione costituisca parte integrante dell’attuale sistema sociale, una società "trasparente", senza profondità, che trova nella comunicazione come garanzia dell’esistenza sociale dell’individuo la sua cifra interpretativa: "L’homo communicans è un essere senza interiorità e senza corpo, che vive in una società senza segreti, un essere interamente rivolto al sociale, che esiste soltanto attraverso l’informazione e lo scambio in una società resa trasparente grazie alle nuove "Macchine per la comunicazione"". La tecnologia, quindi anche la televisione, in un simile contesto rischia di non funzionare più come estensione dell’uomo, secondo l’ipotesi mcluhaniana, ma, come suggerisce Baudrillard, quale sua espulsione: "tutta l’alta tecnicità illustra il fatto che, dietro i suoi doppi e le sue protesi, i suoi cloni biologici e le sue immagini virtuali, l’essere umano ne approfitta per scomparire". L’uomo che ne risulta è un uomo che non è più diretto dall’interno - dall’anima, dalla ragione - come nella tradizione del soggettivismo moderno e che tende a risolvere la sua identità nel gioco delle maschere, nella dialettica dei ruoli che si abitua volta a volta ad incarnare (il soggetto frattale di cui parla Baudrillard). Un’identità debole, dunque, che soprattutto nel caso dell’adolescente, viene rinforzata dai personaggi che popolano i mondi della fiction ed ancor più dalle logiche sottese ai nuovi media, come i videogiochi interattivi, in cui il giocatore è chiamato a calarsi nei panni di personaggi diversi, o la navigazione in rete, in cui la virtualità della presenza favorisce il mascheramento sessuale o lo slittamento d’età.

4. La scomparsa dell’infanzia. E’ questa una delle ipotesi più diffuse tra gli studiosi che si interessano degli effetti della televisione sul pubblico infantile: l’infanzia come realtà socio-culturale, l’universo infantile con i suoi tratti psicologici e comportamentali caratteristici, tende a trasformarsi fino a rischiare di scomparire.

A ben vedere non è la nostra l’unica epoca contraddistinta da una scarsa visibilità dell’infanzia: già nel Medioevo al bambino non veniva riconosciuto uno status sociale poichè in quel tipo di contesto storico egli entrava relativamente presto a far parte della società adulta facendone propri il linguaggio, i comportamenti, gli schemi mentali. Questo comporta che solo a partire dal ‘500 l’infanzia inizi ad imporre una propria identità, anche grazie all’introduzione della stampa a caratteri mobili. Come fanno notare Postman e, in tempo più recente, Meyrowitz, la stampa è un medium che consente un forte controllo dell’accesso all’istruzione da parte del mondo adulto: il libro, infatti, per essere letto, necessita di competenze alfabetiche e con facilità consente interventi censori volti a tutelarne il contenuto proprio dallo sguardo di chi come il bambino può essere ritenuto non ancora adatto a comprenderlo. L’idea di una stampa per l’infanzia e, per converso, di contenuti riservati ai soli adulti nasce qui. Lo sviluppo dell’istituzione familiare fa il resto, manifestando nuovi bisogni, come quello della privacy, che rendono il bambino oggetto di attenzioni prima sconosciute collocandolo al centro di una rete affettiva di cui i genitori e le altre figure parentali sono i responsabili.

Questa situazione muta radicalmente nel nostro secolo. Il ripiegamento della famiglia sul modello nucleare, la crisi di identità dei ruoli genitoriali, soprattutto quello paterno, l’espulsione delle altre figure parentali, la perdita del senso del radicamento dentro una tradizione, la svalutazione del lavoro adulto a causa della tecnologia, concorrono a trasformarla. Il bambino è sempre meno oggetto di attenzioni educative e sempre più di confuse aspettative alla cui base operano meccanismi proiettivi e compensatori dei desideri dei genitori, sempre meno soggetto di dialogicità comunicativa e sempre più curato dal punto di vista dei suoi bisogni immediati e delle sue esigenze materiali.

La televisione si inserisce in questo contesto accelerandone il cambiamento. Come rileva Postman, "essa trasmette le stesse informazioni a ciascuno, simultaneamente, a prescindere dall’età, dal sesso, dal grado di educazione, o dalla precedente condizione di schiavitù" ed inoltre non richiede le stesse competenze alfabetiche necessarie per accostarsi al libro. Il risultato è che la società adulta viene espropriata del suo controllo sul sapere e che il bambino entra in contatto con linguaggi, valori e contenuti "da adulti": l’innocenza infantile lascia il posto alla smaliziata consapevolezza propria dell’adulto, l’infanzia scompare cedendo la scena ad un nuovo tipo di spettatore, un "bambino-adulto" in cui convivono età biologica infantile ed età sociale adulta.

5. La trasformazione dei ruoli sociali. L’adultizzazione precoce è solo una delle trasformazioni di ruolo che la televisione con il suo avvento ha imposto al nostro vivere sociale. In tal senso il problema della scomparsa dell’infanzia andrebbe ricompreso dentro un quadro più ampio entro cui rilevare anche fenomeni paralleli come il declino dell’autorità e l’emancipazione della donna. E’ l’analisi che J.Meyrowitz conduce in un libro diventato in breve tempo un classico della recente sociologia della comunicazione. Applicando all’analisi degli effetti della televisione le categorie della sociologia interazionale di Goffman, lo studioso americano osserva come essi dipendano dalla separazione, indotta proprio dalla televisione, del luogo fisico e del luogo sociale della comunicazione.

Prima dell’avvento dei media, non esiste relazione sociale che non appartenga allo spazio fisico occupato dai parlanti per cui, per escludere qualcuno dalla comunicazione, è sufficiente impedirgli di accedere allo spazio fisico dentro il quale essa si sta svolgendo: quando un bambino non può ascoltare la conversazione degli adulti lo si manda a letto o lo si invita a giocare con i suoi coetanei. Chiaro il risvolto pedagogico di un simile sitema: la società adulta governa rigidamente i processi educativi configurando per il minore un percorso di crescita scandito da una serie di riti di passaggio (la prima confessione, gli esami scolastici, il raggiungimento della maggiore età) la cui funzione è quella di ammetterlo a spazi fisici e sociali propri degli adulti.

I mass media e soprattutto la televisione scardinano alla base questo sistema. La ragione di questo fatto va cercata nella separazione che essi comportano del luogo fisico rispetto al luogo sociale. La programmazione televisiva, soprattutto quella generalista della neo-Tv, non discrimina tra spettatore adulto ed infantile, soprattutto non ha consapevolezza della capacità del medium televisivo di abbattere porte e aggirare pareti. La Tv funziona così per il bambino da occhio aperto sul mondo degli adulti, da orecchio attento ai loro discorsi. Grazie alla Tv egli brucia le tappe della sua crescita, ridimensiona, smitizzandole, le figure parentali, spiazza contemporanemante il lavoro di iniziazione pedagogico-culturale della famiglia e della scuola.

Proprio sul versante pedagogico sono rilevanti le conseguenze di questo processo. La televisione, infatti, passa modelli di interazione sociale stereotipati (spesso dissonanti rispetto a quelli forniti dalla scuola), incentiva il mantenimento dello status quo (la scuola, invece, dovrebbe promuovere una cultura del cambiamento), propone soprattutto un vero e proprio percorso di conoscenza parallelo che rischia di disorientare il giovane utente spiazzando le altre attività formative (ad esempio la lettura).

6. La trasformazione del linguaggio. Linguisti e critici televisivi come Tullio De Mauro e Beniamino Placido, ma anche culturologi attenti al rapporto tra media e comportamenti sociali sull’asse storico come Jacques Ellul, hanno evidenziato come la televisione eserciti una funzione grammaticalizzante sullo spettatore, cioè si dimostri capace di modificare le abitudini linguistiche di un gruppo sociale. Questo dato viene inteso generalmente in termini negativi, sia nel senso che la televisione, medium che si rivolge soprattutto ad un pubblico popolare e di massa, tenderebbe a produrre nello spettatore un impoverimento linguistico, sia perché, strutturalmente caratterizzato dal dominio dell’immagine dinamica, il linguaggio televisivo favorirebbe una vera e propria "umiliazione della parola", secondo la celebre metafora di Ellul, spiazzando la posizione teorica di chi fa della televisione la principale protagonista della fase di oralità secondaria o di ritorno che stiamo attraversando. Simili rilievi sono confortati dall’osservazione "sul campo" degli insegnanti che rilevano un progressivo disagio del ragazzo ad esprimersi con appropriatezza linguistica, l’impoverirsi del lessico utilizzato, l’omogeneizzazione gergale degli idiomi. Come osservava Federico Fellini in una intervista rilasciata all’"Europeo" nell’85, lo "stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata" che la televisione produce "ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, a esaltarsi, ad applaudire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo".

Ma questo non è certo l’unico modo in cui la televisione contribuisce ad alterare le competenze linguistiche di chi ne consuma. Pensiamo ad esempio a trasmissioni divenute di culto come Quelli della notte, Indietro tutta o, più recentemente, Mai dire goal e alla loro capacità di modificare la conversazione attraverso espressioni idiomatiche e neologismi che vanno a costituire veri e propri nuovi lessici televisivi e, spesso, entrano nell’uso linguistico. Non possedere gli stessi codici dei suoi ragazzi per l’insegnante od il genitore antitelevisivo significa in questo caso rimanere escluso da parte delle loro routines relazionali approfondendo lo scarto generazionale e di comunicazione tra sé e loro.

Questi dati allarmanti che sembrano confermare l’atteggiamento protettivo dei teorici dell’high culture nei confronti degli effetti negativi dei media a livello di standardizzazione dei gusti vanno comunque problematizzati alla luce dei possibili effetti positivi che proprio la funzione grammaticalizzante della televisione può ottenere. Facciamo riferimento a due casi concreti. Il primo è quello del celebre programma Non è mai troppo tardi con cui il maestro Alberto Manzi ha di fatto accelerato il processo di alfabetizzazione del nostro Paese a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Il secondo si può trovare nel servizio che la RAI svolge in Alto Adige per la diffusione di programmi in lingua ladina contribuendo alla unificazione dei tre idiomi tuttora parlati nelle tre valli in cui questo gruppo etnico è insediato. Esempi questi in cui grammaticalizzazione non significa impoverimento della parola, ma garanzia di pari opportunità linguistiche e costruzione di un linguaggio comune.

7. La soddisfazione del bisogno di narrazione. Diverse analisi recenti hanno evidenziato come la funzione della televisione all’interno del nostro contesto socio-culturale sia quella di un central story teller system, surrogando in questo il ruolo sociale che l’aedo rivestiva nelle comunità ad oralità primaria. Grazie ad essa il bambino, ma anche l’adulto, ha l’opportunità di fare esperienza di un mondo nel quale simulazione e narrazione si incontrano e convivono: "L’una mette in campo un "far finta", l’altra la costruzione di una "storia"; l’una opera sul "come se", offrendoci una realtà nella forma dell’ipotesi, l’altra mira a tessere delle "trame" che collegano in modo organico le varie vicende. Le due dimensioni investono processi differenti: la simulazione porta alla costruzione di mondi possibili, giocati sulla ripresa e sulla trascrizione del reale; la narrazione avvalla l’organizzazione di determinati eventi secondo dei rapporti di successione e di trasformazione". Così la televisione assolve ad una funzione affabulatoria rispondendo al bisogno strutturale dell’essere umano, ma soprattutto del bambino, di sentirsi raccontare qualcosa, una funzione che assume ad un tempo una valenza bardica, radicando lo spettatore dentro una tradizione, rituale, dettando i tempi di quella vera e propria uscita dal mondo che può diventare il consumo di fiction, modellizzante, fornendo quadri interpretativi per la lettura del mondo. La mediazione linguistica di questi racconti trova nella ripetizione la sua logica più naturale. Le storie televisive sono prevedibili perché ripetute, inscritte in generi, strutturalmente costruite come variazioni indefinite di un identico. Il piacere del consumo e la sua efficacia psicologica stanno proprio nell’effetto tranquillizzante di questa ripetizione, quello che fa dire al bambino "ancora", non perché il narrato sia particolarmente gratificante, ma perché il narrare lo rassicura profondamente.

Naturalmente c’è chi ha indicato anche i possibili risvolti negativi di questo rapporto fascinatorio che la televisione eserciterebbe sul bambino sovrapponendo le sue narrazioni alle narrazioni tradizionali. In particolare viene rilevato come attraverso la televisione i bambini non si trovino di fronte la realtà, ma solo un modello semplificato di essa, caratterizzato spesso da un livello di verisimiglianza talmente elevato da stravolgere l’abituale rapporto tra la realtà rappresentata e l’immagine che la rappresenta. E’ quello che è stato definito come effetto maquette, cioè la destinazione dei bambini "a vivere in un mondo interpretato attraverso uno spettacolo, attraverso una scenografia fantastica" .

4. Effetti a lungo termine sul piano comportamentale

Ultima delle quattro grandi tipologie di effetti che abbiamo individuato, quella degli effetti comportamentali a lungo termine trova nelle ricerche sociologiche sul campo e nelle osservazioni degli psicopedagogisti i propri spazi naturali di sviluppo. Come la categoria di effetti appena analizzata, anche questa dimostra la capacità di una tecnologia pervasiva di orientare, modificandoli, abitudini e schemi d’azione dei singoli e dei gruppi sociali all’interno dei quali sono inseriti, influendo anche sulle modalità di relazione tra gli individui entro questi stesso gruppi sociali - emblematico e tra i più studiati il caso del contesto familiare.

1. La trasformazione delle relazioni sociali. Proprio sulla capacità della televisione di modificare le relazioni sociali che intervengono tra i membri di un piccolo gruppo hanno focalizzato la loro attenzione recenti lavori accomunati da un’impostazione metodologica di tipo etnografico. Queste ricerche - pensiamo tra gli altri ai contributi di Morley, Lull, Casetti - risentono del cambio di paradigma che nelle scienze sociali ha comportato l’avvento delle metodologie di ricerca qualitative, attente più che alla attendibilità statistica dei risultati ai rilievi possibili sul piano micro-sociologico. Più precisamente oggetto dell’attenzione di tutti questi ricercatori sono i processi di negoziazione tra i componenti del nucleo familiare in presenza della televisione, la capacità del mezzo di favorire o inibire le relazioni sociali nel nucleo familiare stesso, la sua capacità di modificarne le routines comportamentali. Il dato generale che emerge dai risultati cui essi pervengono è piuttosto rassicurante ed indica in direzione di una neutralità della Tv al valore: essa può rafforzare come indebolire la coesione interna al gruppo familiare.

Nella ricerca di Lull questo aspetto è reso molto ben visibile dalla delineazione di due tipologie familiari: la famiglia social oriented, caratterizzata da un uso del mezzo televisivo come sostituto della conversazione (si lascia parlare la televisione perchè in caso contrario difficilmente si riuscirebbe a trovare argomenti di discussione - la televisione riempie cioè silenzi imbarazzanti che evidenziano la scarsa coesione della famiglia); la famiglia concept oriented, in cui la televisione stimola invece la conversazione, accresce le conoscenze dei componenti del gruppo, permette di rafforzare e discutere valori, è occasione di scambio e di confronto.

Questi risultati vengono ripresi e rimessi in gioco dalla recente ricerca di Casetti che ha il merito di allargare l’attenzione oltre la rete delle relazioni intrafamiliari a considerare anche il contesto spazio-temporale entro cui tali relazioni intervengono. L’aspetto più interessante del lavoro è il rilievo della biunivocità del rapporto tra famiglia e televisione. Tale dato è verificato a livello di tre fondamentali frame: lo spazio, il tempo, le relazioni.

A livello spaziale, se da una parte la televisione impone una modificazione della percezione dello spazio domestico (ad esempio offre la possibilità alla famiglia di riappropriarsi del salotto, di solito ambiente "di rappresentanza" e quindi poco abitato, proprio grazie alla presenza in questo luogo del televisiore più grande e tecnologicamente aggiornato), dall’altra la famiglia può esercitare un controllo sulla sua presenza decidendo di confinarla in alcuni luoghi deputati e di escluderla da altri luoghi da mantenere riservati ai membri della famiglia stessa (molti non vogliono la presenza della televisione in cucina per evitare che alteri la qualità della conversazione durante l’unico momento, quello del pasto, in cui la famiglia si riunisce).

A livello temporale, poi, la televisione può funzionare sia da calendario sociale influendo sulle routines familiari (ad esempio facendo anticipare la cena per seguire un certo programma), sia da sveglia finendo per essere utilizzata dalla famiglia come indicatore di alcuni momenti della giornata (era la funzione che la famiglia italiana media riservava a Carosello come limite orario oltre il quale mandare a letto i bambini regolando di conseguenza il loro consumo di televisione).

Infine, sul piano delle relazioni interne al gruppo familiare, la televisione può funzionare come un interlocutore, cioè favorire un consumo dinamico producendo assetti relazionali nuovi, o avere una presenza puramente strumentale che favorisca un consumo allineato e quindi non faccia altro che lasciar emergere situazioni relazionali già presenti a prescindere da essa.

Il dato più interessante che emerge da tutte queste ricerche è l’indicazione del ruolo fondamentale che il contesto fruitivo gioca sugli effetti che la televisione può produrre sullo spettatore, soprattutto infantile. Non esiste programma dannoso in sé, come non è possibile decretare drasticamente l’ostracismo nei confronti della televisione: in un contesto familiare capace di arginare la presenza del mezzo ritualizzandone il consumo, trasformandone i messaggi, facendone oggetto di conversazione, il minore è sicuramente tutelato; è invece fortemente a rischio laddove la famiglia latita.

La reazione che questi lavori hanno suscitato in Italia e all’estero è stata di perplessità nei confronti di un atteggiamento interpretativo ritenuto troppo ottimistico nei confronti della capacità dei contesti di "filtrare" l’influenza del mezzo. Pensiamo alla recente ricerca coordinata da Giulio Carminati e Vittorio Cigoli per il Servizio Studi e Ricerche di mercato della RAI i cui risultati indicano come, rispetto al decennio scorso, si sia innalzata nelle famiglie la consapevolezza della minacciosità della televisione ma, contemporaneamente, si sia ridotto il governo familiare del consumo fino al solo trenta per cento. Un dato che viene confermato da un altro importante rilievo, quello che individua nell’atteggiamento delle famiglie del campione due fondamentali posizioni nei confronti della Tv: quella che i curatori definiscono di doppia scissione e che consiste nel rilievo della pericolosità del mezzo e quella di svalutazione/negazione di questa stessa pericolosità. Questi atteggiamenti sembrerebbero disegnare due profili di consumo, preoccupato e consapevole il primo, sdrammatizzante sino alla proiezione su altri dei propri sensi di colpa il secondo: di fatto la ricerca dimostra come solo in una minima parte dei casi analizzati alla doppia scissione corrisponda un reale governo del mezzo da parte della famiglia e come, viceversa, molto spesso chi sdrammatizza gli effetti della Tv ne abbia il governo. Un dato molto interessante sulla cui valutazione torneremo in sede di conclusioni ma che, indipendentemente dalle valutazioni che se ne possono fornire, problematizza i risultati delle ricerche cui sopra si accennava: la televisione, nella grande maggioranza dei casi, costituisce per la famiglia più che un ospite a tavola un pericoloso invasore.

2. La perdità di realtà. La televisione trova sin dalla sua nascita nell’elemento iconico il proprio carattere fondamentale. Essa, infatti, grazie a questo forte orientamento visivo, "alla simultaneità della comunicazione già realizzata dalla radio, poteva unire il fatto di un’evidente specularità dei suoi segni rispetto agli oggetti rappresentati" proponendosi all’individuo come una sorta di diaframma tra il suo mondo interno ed il mondo esterno. E’ nato così il mito, poi dimostratosi ingannevole, della televisione "finestra sul mondo", dell’immagine televisiva come immagine "trasparente" attraverso la quale poter essere "testimoni oculari" della realtà nel momento stesso in cui essa sta accadendo . Questa tendenza si è tradotta in tempo neotelevisivo nelle ben note logiche della certificazione e dell’autoreferenzialità, in ossequio alle quali la televisione diviene garante dell’esistenza della realtà fino a modificarla (certificazione) - è il caso degli pseudo-eventi di cui parla Boorstin, fatti che non accadono spontaneamente ma vengono provocati appositamente allo scopo di essere ripresi dalla televisione - configurandosi in ultima istanza essa stessa, con il suo immaginario, come una nuova forma di realtà (autoreferenzialità).

Esempio di quella tipologia di immagine che Baudrillard definisce "oscena" e "pornografica" perché così invasiva, così vera, così reale, da perdere ogni contatto con le cose che dovrebbe rappresentare, costituendosi essa stessa a nuova forma di realtà, l’immagine televisiva compie così l’unico delitto che si possa considerare realmente perfetto perché capace di far scomparire in modo irrimediabile il corpo stesso del delitto, l’omicidio della realtà: "Fine dell’illusione selvaggia del pensiero, della scena, della passione, fine dell’illusione del mondo e della sua visione (e non della sua rappresentazione), fine dell’illusione dell’Altro, del Bene e del Male (del Male soprattutto), del vero e del falso, fine dell’illusione selvaggia della morte, o di quella di esistere a ogni costo; tutto ciò è volatilizzato nella telerealtà, nel tempo reale, nelle tecnologie sofisticate che ci iniziano ai modelli, al virtuale, al contrario dell’illusione - alla disillusione totale". Il piccolo telespettatore, coinvolto nella fascinazione dello schermo, può da una parte incontrare difficoltà a distinguere la realtà dalla sua rappresentazione televisiva, dall’altra optare lui stesso per l’indistinzione dei due piani facendo la scelta di immergersi nella realtà altra della televisione.

Giustificato da quanto sopra si osservava circa lo strutturale bisogno di narrazione del bambino, quest’ultimo atteggiamento è quello che ha autorizzato le osservazioni più preoccupate da parte degli studiosi. Per soggetti particolarmente fragili e frustrati nel loro desiderio di gratificazione affettiva, "il mondo dell’immaginario televisivo gratificante e onnipresente può assurgere a dignità di reale, l’unico reale che il bambino è disposto ad accettare". Diverse le conseguenze: il rischio di una espropriazione del mondo interiore del bambino; l’umiliazione e la frustrazione nel comparare la propria situazione reale a quella fantastica modellizzata dalla televisione; la tendenza ad esibire simboli ed atteggiamenti proposti dalla televisione offrendosi quali autentici specchi della realtà da essa rappresentata.

3. Zapping televisivo e zapping sociale. Già un vecchio studio di Giulio Carminati e Paolo Carmignani sottolineava come uno degli aspetti che rendono efficace ed interessante l’immagine televisiva orientando la scelta del programma sia l’attrattiva che l’immagine stessa è in grado di esercitare sullo spettatore, aspetto che configura il consumo di televisione nei termini di una esperienza esplorativa in cui il telecomando gioca un ruolo centrale.

Elemento tecnologicamente distintivo della neotelevisione, insieme al colore ed alla presenza del videoregistratore, il telecomando ha favorito il diffondersi tra le pratiche di consumo dello zapping, cioè di quell’approccio alla programmazione televisiva che sacrifica l’attenzione tematica e continuativa ad un solo programma a vantaggio di una visione frammentaria, continuamente interrotta, caratterizzata dalla navigazione trasversale e spesso casuale e distratta di rete in rete. Sul suo uso, soprattutto sul rapporto che esso intratterrebbe con il già complesso problema delle relazioni bambino-televisione, molto è stato scritto da pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva. Qualcuno ne sottolinea la valenza di ulteriore ostacolo al governo familiare del televisore ("se da un lato può sembrare repressivo vietarne l’uso, dall’altro è azzardato lasciare che i bambini di qualsiasi età vedano senza alcun filtro interpretativo ogni sorta di spettacoli, da quelli violenti a quelli pornografici, da quelli volgari a quelli molto scadenti sotto il profilo estetico e contenutistico"), altri evidenziano come esso possa indurre un approccio frammentario all’esperienza, una sorta di morselage che rischia di far perdere di vista l’intero in favore del ritaglio ("basta un click, stando seduti in poltrona e il mondo cambia istantaneamente"), un dato che tra l’altro sembra confermato dal profilo psico-sociologico del nuovo adolescente italiano, volubile, incostante, insoddisfatto e caratterizzato da un impatto con l’esistenza improntato al "mordi e fuggi". Allo zapping televisivo, frequentatissimo come pratica di consumo televisivo, corrisponderebbe in sostanza uno zapping sociale.

Anche in questo caso, tuttavia, il fenomeno non è univocamente interpretabile. Infatti, se letto in un’ottica differente, il telecomando può essere ritenuto una tecnologia di libertà, importantissimo ai fini della acquisizione da parte del minore di una indipendenza di giudizio critico nei confronti dei messaggi propostigli dalla televisione. Lo conferma il giudizio di chi, come il filosofo Bernard-Henry Lévy, ha definito lo zapping "categoria di pensiero", "forma a priori del mondo e dell’intelletto", "scuola di verità", o, come Hans Magnus Enzensberger, ha insistito sul ruolo del telecomando non come mezzo di comunicazione, ma come mezzo per il rifiuto della comunicazione: se la televisione materializza il "vuoto perfetto", di idee e contenuti, il telecomando è lo strumento per realizzarlo.

Fare zapping vuol dire imparare a riconoscere un programma a partire da un numero esiguo di unità minime significanti e questo richiede un affinamento delle competenze di genere. Inoltre contribuisce in maniera decisiva ad assegnare allo spettatore un ruolo attivo nella costruzione del suo palinsesto personale: unità di montaggio domestica, il telecomando consente di ritagliare parti discrete di trasmissioni diverse e di assemblarle in una nuova struttura. E’ la stessa logica cognitiva su cui si costruisce Blob, non a caso metafora metalinguistica della neotelevisione: il taglia-e-incolla che trova nel word-processing la sua più recente ed efficace applicazione.

4. La trasformazione dei quadri valoriali. Un ultimo consistente gruppo di interventi, infine, si sofferma sulla capacità della televisione di contribuire alla definizione dei quadri valoriali, sottolineando da un lato il potere di fascinazione dell’immagine, dall’altro l’innata tendenza del bambino ad imitare comportamenti, soprattutto degli adulti, assumendoli a propri modelli.

Nell’operare in questa direzione la televisione risponde ad alcune logiche ben precise, anzitutto la semplificazione. La programmazione procede per stereotipi e generalizzazioni, si caratterizza per una perdita degli aspetti eccezionali a favore della quotidianità, tende a costruire facili prospettive dicotomiche in cui l’eroe è portatore di valori positivi, l’antieroe di valori negativi: "Ci sono buoni e cattivi: i buoni non possono fare nulla di male, i cattivi non possono fare nulla di buono. Questa è la concezione morale di un bambino di cinque anni". Oltre alla semplificazione, l’altra logica che sembra prevalere è quella della globalizzazione delle culture. E’ facile capire in cosa consista se si pensa a due semplici esempi. La produzione giapponese, sia quella a cartoni animati che la più recente di fiction (come gli studiatissimi Power Rangers), è l’incarnazione di un’etica shintoista, tipicamente giapponese, improntata alla ricerca dell’assoluto e a valori come il sacrificio, la dedizione al lavoro, il culto della famiglia e delle tradizioni, il terrore della vergogna e del disonore. Dall’altra parte, la fiction americana (pensiamo a serie fortunatissime anche nel nostro paese come Beverly Hills o Melrose place) propone invece un’etica della realizzazione personale, tipicamente americana, di lontana matrice puritana, in cui i valori da perseguire sono il successo, la prosperità economica e il benessere sociale, la stima ed il riconoscimento da parte del gruppo. Ora, grazie alla televisione, queste etiche locali, a forte coloritura etnica, vengono esportate anche oltre i confini dei loro contesti di appartenenza con il risultato di promuovere una graduale globalizzazione dei valori e degli atteggiamenti. Come osserva qualcuno, la televisione diviene in tal modo un’immagine fedele del mondo attuale, "disorganica, frammentaria, tecnologica, smisuratamente ampia", un’immagine che in virtù di matrici culturali sostanzialmente identiche a quelle della novellistica antica e medievale e riportabili ad alcuni grandi archetipi dell’inconscio colettivo favorisce l’esportabilità di ogni prodotto in tutto il mondo e, di conseguenza, la standardizzazione in tutto il mondo dei valori da esso proposti.

Proviamo ora a sintetizzare in una tabella la mappa di tutti questi effetti, evidenziando per ciascuno i principali indicatori.

 

 

 

breve termine

lungo termine

 

effetti

indicatori

effetti

indicatori

cognitivi

proiezione

identificazione

formazione dei ruoi sociali e dei quadri valoriali

strutturazione della personalità

morte dell’immaginario

atrofia del cerebro-sinistro

 

formazione di identità deboli

scomparsa dell’infanzia

trasformazione del ruolo sociale infantile

trasformazione del linguaggio

soddisfazione del bisogno di narrazione

stereotipizzazione e inibizione dell’attività ludica

inibizione della concettualiz-zazione, disturbi dell’attenzione, problemi di verbalizzazione

destrutturazione, esteriorizzazione, frattura emotività/razionalità

consapevolezza elevata, adultiz-zazione precoce

smitizzazione delle figure parentali, educazione parallela, stereotipiz-zazione del consumo

impoverimento del lessico, modi-ficazione dell’uso linguistico

tranquillizzazione emotiva, effetto maquette

comportamentali

emulazione

 

trasformazione delle relazioni sociali

 

perdita di realtà

 

 

zapping

 

 

definizione dei quadri valoriali

modificazione della percezione dello spazio-tempo domestico, alterazione delle dinamiche intrafamiliari

espropriazione del mondo interio-re del bambino, frustrazione, assunzione di modelli comporta-mentali

approccio frammentario e inco-stante all’esperienza, libertà di consumo, indipendenza di giudizio critico

semplificazione, globalizzazione

 

 

2. Televisione, violenza, minori

Da questa articolazione tipologica rimane escluso il problema della rappresentazione della violenza in televisione e dell’impatto di tale violenza rappresentata soprattutto su un pubblico di minori - un tema questo annoso e frequentatissimo (tremila ricerche in paesi diversi negli ultimi quarant’anni) rilanciato di recente dalla nuova generazione di cartoon giapponesi e dal passaggio in prima serata di pellicole ad elevato tasso di violenza rappresentata. Sul problema, particolarmente sentito anche dal punto di vista etico-giuridico, vorremmo soffermarci in questo paragrafo per valutarne motivi e prospettive.

1. I dati: la Tv è violenta e i bambini la guardano

La pubblicistica specializzata ma anche la stampa quotidiana e periodica in questi ultimi anni ci hanno aggiornato in tempo reale sulla quantità del consumo infantile di televisione. Dati recenti del Servizio Ricerche della Rai parlano di un consumo diffuso lungo l’intero arco della giornata televisiva, capace di spaziare su tutti i generi, quantitativamente identico in sostanza al consumo adulto e attestabile, da ottobre a maggio - cioè nel periodo di più intenso consumo - sulle tre ore e mezza giornaliere. La fascia oraria di maggior ascolto è il prime time con una consistente percentuale di pubblico minorile che rimane davanti al televisore anche in seconda serata, dopo le 22.30. In questa fascia il 70% della programmazione è violenza o pubblicità - dati recenti parlano di un consumo infantile giornaliero di pubblicità pari a circa 18 minuti, contro i 21 minuti di uno spettatore adulto.

L’urgenza del problema ha portato le emittenti e i governi a confrontarsi su di esso e ad assumere posizione. E’ così entrata in vigore negli USA nel 1993 una regolamentazione che impone alle emittenti di far precedere i programmi violenti con avvisi ad uso delle famiglie che ne segnalino il contenuto. In Italia Mediaset ha introdotto l’uso di corredare i programmi con dei piccoli segnalatori che nell’angolo del teleschermo indicano se possano essere visti dai minori con riserva o sconsigliati. Ancora dagli Stati Uniti, dove la violenza televisiva è stata al centro nel 1995 di due acclamati interventi di Clinton al Congresso e del Senatore Robert Dole, arriva la proposta di installare su ogni apparecchio domestico un V-chip (violence chip), un integrato capace di riconoscere e censurare scene violente, a garanzia dei minori ed in aiuto dei genitori.

Anche il mondo della ricerca, come il dato sopra ricordato attesta, non è rimasto a guardare. Già negli anni Sessanta George Gerbner, presso la Annenberg School of Communication della Pensylvania University di Philadelphia, aveva iniziato il monitoraggio scrupoloso della programmazione televisiva compilando censimenti periodici del numero e della tipologia degli atti violenti mostrati. Grazie a questo tipo di approccio sperimentale si è potuto determinare che un bambino americano assiste in media a 8000 omicidi ed a circa 100.000 atti di violenza prima di aver terminato le scuole elementari. In tempo più recente, questa metodologia quantitativa è stata integrata da ricerche qualitative - ne è un esempio la ricerca del settembre 1995 condotta presso l’Università di Los Angeles - che hanno consentito di determinare oltre al numero degli atti violenti ed alla loro tipologia, anche il loro reale impatto sulla giovane audience in relazione al contesto entro cui vengono fruiti.

La conclusione che da tutti questi dati è possibile trarre è che, oggettivamente, la nostra programmazione televisiva presenta tassi elevati di violenza rappresentata, spesso non funzionale alla diegesi, e che una percentuale consistente di minori viene raggiunta da questi messaggi: "Certamente la violenza è antica quanto l’umanità, vi è tuttavia da osservare che in passato la violenza toccava, almeno sotto il profilo dell’informazione, solo chi ne era vittima o vi assisteva da vicino; oggi invece essa viene letteralmente rovesciata a piene mani sugli schermi televisivi in ogni casa, a qualunque ora". Il problema è di determinare se tutta questa violenza influisca sui pensieri e sui comportamenti dei bambini e secondo quali modalità.

2. La genesi della violenza: le teorie dell’aggressività

Per essere adeguatamente compresa nei suoi termini, la questione va riportata alle teorie socio-psicologiche dell’aggressività che ne costituiscono il terreno naturale di radicamento. Queste teorie si possono ricondurre a tre grandi paradigmi: quelli del carattere primario, secondario ed appreso.

Le teorie del carattere primario dell’aggressività. Sostenute in ambito sia psicanalitico che etologico, queste teorie dell’aggressività sono basate sull’istinto ed insistono sul fatto che l’aggressività non sarebbe un comportamento appreso, ma un aspetto strutturale, biologico, della personalità.

Adler e soprattutto Freud hanno ricondotto il manifestarsi di comportamenti aggressivi nell’uomo ad una pulsione di morte che spingerebbe l’individuo all’autodistruzione se l’istinto di autoconservazione non intervenisse ad eterodirigerla: questo significa che la pulsione aggressiva è innata e può essere controllata solo a prezzo di un intervento repressivo, se occorre anche violento - sebbene Freud ritenesse possibile riscattarla attraverso lo sviluppo di sentimenti positivi come l’amore (e con questa valenza sociale interpretava la prescrizione evangelica dell’amore del prossimo).

Lorenz e l’etologia, per parte loro, hanno sottolineato la funzione evolutiva dell’aggressività legandola alla difesa del territorio individuale o di gruppo ed individuando come tratto specifico dell’uomo la tendenza a deritualizzare la violenza intraspecifica. In base ad uno schema di comprensione del comportamento di tipo energetico, non dissimile da quello cui Freud ricorre per spiegare la dinamica psichica, gli etologi hanno determinato come l’accumulo di aggressività produca tensione nell’individuo, mentre al contrario la possibilità di abreagirla, cioè di scaricarla, induca una sensazione di piacere. E’ questa la ragione per cui il soggetto cerca nella vita quotidiana occasioni per scaricare aggressività. Una di queste occasioni è il consumo di violenza fictionale: "Si può abreagire l’aggressività assistendo a un film di contenuto aggressivo: evidentemente ci si identifica con quanto accade nel film. La larga offerta di film di contenuto aggressivo al cinema e alla televisione mostra che esiste un bisogno - un mercato - di ciò. Gli uomini abreagiscono spesso in questo modo gli impulsi aggressivi; i film sono, per lo più, costruiti in modo da, prima attivare, poi abreagire negli spettatori l’aggressività, di solito su un ‘cattivo’".

Le teorie del carattere secondario dell’aggressività. Questo secondo gruppo di teorie si organizza attorno all’ipotesi della frustrazione-aggressività proposta alla fine degli anni Trenta da un’equipe di psicologi coordinata da John Dollard. La versione originale di questa ipotesi legge il rapporto tra frustrazione ed aggressività nei termini di una relazione biunivoca: la frustrazione porta sempre ad un comportamento aggressivo e l’aggressività è sempre il risultato della frustrazione. Studi successivi hanno precisato meglio i termini della questione osservando come l’effetto di una frustrazione possa non essere necessariamente un comportamento aggressivo, ma anche, ad esempio, uno stato depressivo e come il determinarsi della risposta aggressiva dipenda dalla natura della frustrazione: in particolare, frustrazioni arbitrarie (cioè tali da sembrare senza spiegazione causale) porterebbero a comportamenti aggressivi, non così le frustrazioni non arbitrarie.

Questo dibattito ha favorito alla metà degli anni Settanta la riformulazione della teoria in ordine ad una nuova ipotesi, quella degli spunti aggressivi. Essa corregge la teoria standard di Dollard su due aspetti: la frustrazione non produce immediatamente comportamenti aggressivi ma stati d’ira che si traducono in comportamenti aggressivi solo in presenza di spunti che consentano lo svilupparsi dell’aggressività; inoltre, mentre la teoria standard riteneva che l’aggressività potesse scaricarsi (catarsi) anche su persone ed oggetti che non fossero la causa diretta della frustrazione, la nuova ipotesi ammette questa possibilità solo nel caso in cui il soggetto che sviluppa il comportamento aggressivo lo possa realizzare colpendo direttamente la fonte della sua frustrazione.

Le teorie del carattere appreso dell’aggressività. Si tratta di contributi teorici concordi nel sostenere l’ipotesi dell’aggressività strumentale secondo la quale l’aggressività è appresa e realizzata perché capace di rinforzare positivamente il soggetto che si rende protagonista di comportamenti aggressivi. Il punto di riferimento teorico di questa prospettiva è la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura e Walters, alla base della quale è la convinzione che la spiegazione sostanziale del comportamento sociale stia nell’imitazione delle risposte altrui. Sta proprio in questo aspetto, confermato da molti casi sperimentali, la fecondità della teoria di Bandura in funzione della spiegazione dei rapporti tra la violenza mostrata al cinema o in televisione e il comportamento infantile. Alla radice del comportamento aggressivo agisce, infatti, secondo lo psicologo americano, un processo di modellamento attraverso il quale il bambino apprende di fatto schemi comportamentali da riportare alla sua esperienza. Ora, tali schemi possono essere reali (se il modello osservato è accaduto realmente) o simbolici. E’ quest’ultimo il caso della violenza rappresentata che funziona quindi da innesco di comportamenti aggressivi, soprattutto se l’attuazione da parte del bambino di comportamenti analoghi è accompagnata da rinforzi positivi.

3. Violenza rappresentata e comportamenti soggettivi

La spiegazione dei rapporti tra violenza mostrata (dalla televisione) ed agita varia in rapporto alla posizione che a partire da queste teorie si assume nei confronti dell’aggressività individuale. Anche in questo caso sono tre le ipotesi principali portate in gioco dagli studiosi.

1. L’ipotesi della catarsi vicaria. Una prima posizione possibile di fronte alla necessità di spiegare il rapporto tra la violenza rappresentata sullo schermo televisivo e l’insorgere nel telespettatore di comportamenti violenti è quella che, negando tale relazione, affida invece alla violenza rappresentata la funzione di elaborare, inibendola nella meta, l’aggressività naturalmente appartenente al soggetto. Si tratta dell’antica dottrina della catarsi, che già Aristotele aveva definito nel libro sesto della Poetica e che i commentatori rinascimentali dello Stagirita avevano ripreso ed elaborato con straordinaria finezza analitica anticipando le conclusioni della psicologia contemporanea.

La visione di violenza fictionale, secondo questa ipotesi, produrrebbe nello spettatore una reazione violenta di tipo fantastico e sostitutiva di quella reale che funzionerebbe da meccanismo riequilibratore dei suoi potenziali di energia psichica: consumare violenza consente al telespettatore di scaricare la propria aggressività nel recinto protetto della simulazione fantastica evitandogli di conseguenza di procedere ad atti violenti reali. A questa dinamica, come osserva Bettelheim, non sarebbe estraneo il bambino: "Nel Vecchio Testamento, come del resto nelle fiabe, la violenza e il delitto non mancano; e nel teatro greco, come in quello shakespeariano, assistiamo a esempi di grande crudeltà e di rivalità in seno alla famiglia, all’omicidio, addirittura al parricidio o all’incesto. Questo induce a pensare che l’uomo abbia sempre avuto bisogno di integrare nelle forme di svago più popolari una certa quantità di fantasie di violenza. Aristotele diceva che ce n’è bisogno perché avvenga la catarsi, la scarica delle nostre tensioni emotive. Orbene, i bambini hanno bisogno di scaricare tensioni tanto quanto gli adulti, di più forse, e sempre l’avranno". Dunque non solo la violenza televisiva non farebbe male al piccolo telespettatore, ma svolgerebbe addirittura una funzione terapeutica non aliena da una forte rilevanza sociale - come già rilevavano i teorici cinquecenteschi, l’intero sistema spettacolare può funzionare da strumento di controllo dei comportamenti eversivi dell’ordine sociale favorendone la realizzazione nello spazio altro della scena.

2. L’ipotesi dell’effetto mediato. Radicalmente contrapposta alla posizione che abbiamo appena illustrato ed ampiamente diffusa nella pubblicistica e nell’opinione pubblica è l’ipotesi dell’effetto mediato, secondo la quale è indubbia la capacità della violenza mostrata di condizionare i comportamenti aggressivi del pubblico, in modo particolare quelli di alcune categorie meno protette come coloro che sono affetti da disturbi psichici o i minori. Questa capacità, secondo la tipologia proposta da Ronald G. Slaby, psicologo dello sviluppo ad Harvard, sortirebbe sul pubblico tre possibili effetti:

a) l’effetto-aggressore, cioè la registrazione di un aumento della probabilità di avere un comportamento violento. Ricerche condotte negli Stati Uniti hanno consentito di accertare la proporzionalità diretta tra introduzione della televisione e aumento dell’aggressività nei giochi infantili, od ancora hanno dimostrato che ad una robusta dieta di violenza televisiva in età precoce corrisponde un aumento dei comportamenti aggressivi negli stessi soggetti a diciotto-diciannove anni. La ragione andrebbe cercata nel fatto che spesso bambini problematici trovano nella violenza mostrata in televisione un comportamento capace di soddisfare i loro sentimenti di rivalsa, soprattutto poi se questi comportamenti sono messi in atto da personaggi che costituiscono dei riferimenti per il gruppo in cui essi sono inseriti;

b) l’effetto-vittima, cioè l’aumento del timore di restare vittima della violenza. Come osserva J.Condry, "i giovani che vedono molta televisione in genere hanno più paura delle situazioni violente che possono verificarsi nel mondo reale". Questo perché lo sviluppo psicologico del bambino ancora non gli consentirebbe di elaborare adeguatamente il contenuto delle immagini che riceve: "Rispetto agli adulti, i bambini sono più vulnerabili alle scene di violenza perché sono ai primi stadi dello sviluppo di schemi di comportamento, attitudini e valori relativi alle interazioni sociali, cosicché quelli troppo esposti alla tv, pur non avendo fatto esperienze traumatizzanti "in proprio", possono sviluppare timori eccessivi nei confronti del mondo, reazioni aggressive, a volte fobie vere e proprie o una immagine distorta della realtà. Quanto più sono piccoli, infatti, tanto più i bambini hanno difficoltà a cogliere il filo conduttore delle storie: vedono e ricordano delle sequenze a se stanti, provviste di tutta la loro carica ansiogena, non mitigata da un finale che spieghi, inquadri gli avvenimenti o li ridimensioni. Possono, infine, soffrire di incubi notturni e di un senso di esagerato pericolo";

c) l’effetto-spettatore, vale a dire l’aumento dell’indifferenza verso la violenza subita dagli altri. Diverse le ragioni di questo fatto secondo gli studiosi. Alcuni (Gerbner) ritengono che anche la "violenza felice" dei cartoni animati - così definita perché i suoi effetti sui personaggi sono reversibili, non lasciano traccia (si pensi a un personaggio come Vil Coyote, capace di sopravvivere a esplosioni, investimenti da parte di treni in corsa, voli di migliaia di metri nel Grand Canyon), sono riscattati dal riso comico - contribuisca a produrre un atteggiamento minimizzante nei confronti della violenza, proprio perché chiaramente irreale ed incapace di produrre effetti. Altri puntano l’attenzione, invece, sul numero degli atti di violenza mostrati e sulla loro iterazione, sottolineando come l’indifferenza ed al limite il cinismo di fronte alla violenza subita da altri sia il risultato di una ripetizione indefinita dello stimolo. In entrambi i casi ci si trova comunque di fronte alla stessa funzione di accettazione dell’episodio violento come fenomeno normale, perfettamente coerente ad una certa visione del mondo.

3. L’ipotesi del non-effetto. Contraria alla posizione sia di chi assegna una funzione positiva alla violenza televisiva (catarsi vicaria) sia di chi le riconosce invece una funzione negativa (effetto mediato), è la prospettiva di quei teorici ed osservatori secondo i quali non esisterebbe alcun rapporto tra i due tipi di violenza, quella reale e quella rappresentata. Due sono gli argomenti di solito addotti a sostegno di questa tesi.

Il primo è quello che invita a rovesciare lo schema di lettura del rapporto televisione-realtà: non è la televisione violenta a produrre una realtà violenta, ma la realtà violenta a produrre una televisione che, essendo rappresentazione dei contenuti sociali, non può essere che violenta. In sostanza in questa prospettiva la violenza televisiva non può produrre sul minore effetti più devastanti della violenza reale dell’ambiente in cui egli vive.

La seconda ragione, invece, invita a ripensare il ruolo del minore di fronte al televisore, un ruolo attivo e non passivo, caratterizzato anche precocemente da indubbie competenze interpretative. Tra queste competenze ci sarebbe quella di saper discriminare la violenza reale da quella fictionale, una competenza in grado di neutralizzare tutti gli effetti di cui sopra si è cercato sinteticamente di dire.

4. La violenza della rappresentazione

Tutti questi rilievi sono relativi, a ben vedere, ad un solo caso: quello in cui la televisione mostra situazioni violente. Ma la televisione non è violenta solo in questo caso, bensì anche quando preferisce, ad esempio, una comunicazione strategica, prevaricante, ad una comunicazione dialogica, paritaria, oppure quando opta per la spettacolarizzazione del privato della persona, come i generi neotelevisivi della tv-verità (Chi l’ha visto?, Stranamore) e della tv-del-dolore (Cronaca in diretta) dimostrano. Una riconsiderazione più attenta di tutto il problema dei rapporti tra violenza e rappresentazione nelle comunicazioni di massa (che esula comunque da questo contributo) dovrebbe dunque occuparsi del problema in un’ottica più vasta. Un’indicazione di metodo, peraltro intuita, seppur approssimativamente, da alcuni contributi già negli anni Settanta, potrebbe prevedere almeno tre livelli di lettura del fenomeno.

1. L’analisi della violenza mostrata. E’ quella di cui la grande maggioranza delle ricerche si occupa e che anche noi abbiamo provato a documentare in chiave di sintesi. con l’attenzione a distinguere a questo livello tra violenza gratuita e diegeticamente giustificata. Per tornare al già citato rapporto della UCLA è facile individuare nel cinema trasmesso in televisione e nella fiction i generi maggiormente caratterizzati da questo tipo di violenza. Per quanto riguarda il cinema, dei 118 film monitorati dai ricercatori americani, circa il 42% facevano un uso pericoloso della violenza; alcuni di essi contenevano più di 40 scene violente. Per parte sua anche la fiction presenta quantità di violenza consistenti. Due dei serial analizzati nel rapporto, X-Files e NYPD Blue, programmati anche in Italia, hanno presentato il maggior tasso di violenza rappresentata, sebbene diegeticamente funzionale e mai gratuita: "Lo scopo implicito di X-Files è quello di far sentire lo spettatore a disagio. E per fare ciò si serve di alcuni stratagemmi. Uno è quello di trattare la violenza in modo assolutamente realistico, più che nei film d’azione. Inoltre numerosi episodi contengono immagini particolarmente sconvolgenti e le armi usate rendono lo spettatore inquieto. (...) A queste azioni brutali e fastidiose si affianca un notevole sforzo per frenare l’aggressività gratuita. Non ci sono scene violente se non sono funzionali al plot o non accrescono l’intensità; né ci sono lunghe e gratuite scene di combattimento. In alcuni casi azioni violente, necessarie per il racconto, ma non tanto da dover essere viste dallo spettatore, sono state tagliate giusto un attimo prima che avenisse il gesto in sé".

2. L’analisi della violenza della comunicazione. Si tratta di una tipologia di violenza tipicamente neotelevisiva, perché caratteristica di quel genere di programmi della trash-tv che trovano nella telerissa la loro manifestazione più caratteristica. Nella dialettica verbale tra i due ospiti di un talk-show non scorre di certo sangue e non si assiste a squartamenti, ma sicuramente vi passa un’idea di comunicazione strategica e prevaricante che si deve sicuramente considerare violenta. E’ una violenza metacomunicativa che fornisce allo spettatore, soprattutto se infantile, modelli di comportamento eticamente problematici, inducendolo a credere che l’unico modo per risolvere un contenzioso sia di gridare più forte dell’avversario, di imporsi ad esso aggredendolo verbalmente.

3. L’analisi della violenza del mostrare. E’ l’aspetto più squisitamente linguistico che ha a che fare con la violenza insita nel mezzo e caratteristica del suo modo di comunicare. Una violenza che prende corpo più nella pressione psicologica esercitata dall’immagine sullo spettatore, che non nella rappresentazione di fatti raccapriccianti - è il caso del passaggio televisivo di pellicole come Full Metal Jacket di S.Kubrick o Tè nel deserto di B.Bertolucci, che non sono sicuramente violente quanto al mostrato ma certo segnate da una insopportabile pressione sul piano psicologico che le rende non meno violente che se mostrassero atti di violenza fisica. Discorso analogo può essere fatto a proposito dell’uso dell’immagine cui ricorre certa informazione televisiva, in cui il primo piano o il dettaglio possono avere un elevatissimo impatto emotivo sul piccolo telespettatore.

3. Quale intervento educativo?

Il dato che emerge dagli elementi che abbiamo provato a comporre insieme nei precedenti paragrafi è quello di una grande complessità di posizioni. Ad essa corrisponde una articolazione altrettanto ricca di ipotesi di intervento educativo. Le si può ordinare sui due grandi versanti dell’emittenza e della ricezione.

1. Disciplinare le emittenti.

Un gruppo nutrito di contributi di teorici e professionisti di settore ha sottolineato la responsabilità di chi detiene la comunicazione, di chi "fa" televisione, in ordine agli effetti che essa può produrre sui minori, soprattutto nel caso del servizio pubblico. L’obiettivo di un servizio pubblico: "Ora, non c’è nulla nella democrazia che giustifiche le tesi di quel capo della tv, secondo il quale il fatto di offrire trasmissioni a livelli sempre peggiori dal punto di vista educativo corrispondeva ai principi della democrazia "perché la gente lo vuole". (...) Al contrario la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello dell’educazione; è, questa, una sua vecchia tradizionale, aspirazione. Le idee di quel signore non corrispondono per niente all’idea di democrazia, che è stata ed è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori". Un principio su cui il grande filosofo austriaco Karl Popper ha insistito rilevando l’assurda contraddizione di una democrazia che dovrebbe favorire la crescita dell’educazione, se fosse realmente tale, e che invece nel caso della televisione attuale sembra perseguire l’obiettivo di un indefinito abbassamento dei livelli culturali del pubblico.

Tra le tante soluzioni prospettate per favorire da parte dei produttori l’assunzione di precise responsabilità, propro quella di Popper, in un intervento divenuto in breve tempo un caso editoriale, si è segnalata per efficacia e operatività. Si tratta dell’introduzione di una patente che permetta di controllare, sanzionandola, l’attività di tutti coloro che hanno a che fare con la produzione televisiva: "Chiunque faccia televisione deve necessariamente essere organizzato, deve avere una patente. E chiunque faccia qualcosa che non avrebbe dovuto fare secondo le regole dell’organizzazione e, sulla base del giudizio dell’organizzazione, può perdere questa patente". L’idea è in sostanza quella di subordinare l’esercizio delle professioni relative all’emissione di programmi televisivi ad un corso di addestramento e di vigilare costantemente sulle loro responsabilità educative nei confronti della audience.

Una soluzione analoga viene prospettata da A. Oliverio Ferraris, che propone di sostituire al Jury istituzionale suggerito da Popper un "osservatorio" costituito da un comitato di genitori, di psicologi dell’età evolutiva e di esperti delle diverse discipline che oltre a vigilare sulla qualità della programmazione partecipi alla elaborazione dei palinsesti. E’ la soluzione del movimentismo, della scelta associativa che coinvolge gli apparati attraverso il gruppo di pressione costituito dalle associazioni dei consumatori e prende corpo in dichiarazioni programmatiche, in "carte". Tra le iniziative più recenti di questo tipo ricordiamo, in Italia, il Codice di regolamentazione assunto dalla Federazione radio-televisioni nel gennaio del 1994, negli USA la raccomandazione ai Network Broadcast che ha chiuso il già citato rapporto della UCLA sulla violenza televisiva, la costituzione a St.Louis da parte di George Gerbner del CEM (Communication Environment Movement) nell’aprile del ‘96. Le intenzioni espresse in questi come in altri simili documenti sono improntate a larghi principi di tutela della audience, soprattutto minorile: la promozione di valori positivi, il controllo della pubblicità, la cura della programmazione per ragazzi, la definizione degli obblighi del servizio pubblico, l’informazione esauriente sui programmi, la realizzazione di un adeguato canale di comunicazione tra scuola e televisione.

2. Educare i ricettori

L’altro grande versante della proposta pedagogica è costituito dall’intervento sullo spettatore volto ad attrezzarlo perché impari a convivere con la televisione.

In quest’ambito un primo grande contesto educativo è costituito dalla famiglia e dal controllo che essa è in grado di esercitare sul consumo televisivo dei minori. Le forme di questo controllo sono svariate. Qualcuno propone di "staccare la spina", almeno periodicamente, per riscoprire alternative di socializzazione a quella mediata dalla presenza del televisore, altri, attraverso strategie differenti, pensano di favorire nel minore l’assunzione di un atteggiamento attivo nei confronti dei messaggi televisivi. In tal senso si devono intendere le indicazioni ai genitori di "condividere coi bambini gli stessi interessi, conoscere le storie, le avventure, i linguaggi dei loro eroi e personaggi preferiti" - è l’idea del guardare insieme la televisione per scambiarsi opinioni, discutere, favorire la consapevolezza critica, come suggerisce Bettelheim: "quanto più tempo passeremo a parlare con i nostri figli dei programmi che hanno visto, tanto più essi diventeranno spettatori intelligenti e selettivi. Rimane il fatto che, nel formare i nostri figli e il loro modo di vedere la vita, quello che siamo noi, i nostri valori contano di più della televisione". Un’esperienza in cui, come opportunamente osservato da Fausto Colombo, è importante fare attenzione anche ai percorsi di navigazione che i bambini descrivono nel loro consumo di televisione, oltre che ai contenuti con cui vengono in contatto, imparando a condividere con loro tali percorsi: "Sta a noi imparare a pensare come loro, per inventare insieme un nuovo modo di conoscere".

Ma il governo del televisore può prevedere interventi limitatori dell’esposizione dei bambini al televisore stesso attraverso una sorta di regolamento interno alla famiglia, sottoscritto da tutti i suoi componenti, che preveda orari, tipo di programmi e modalità della visione.

Altre proposte sono venute da chi ha preferito enfatizzare il ruolo dell’educazione informale in contesto extrafamiliare. E’ il caso dei vari interventi che hanno per obiettivo la alfabetizzazione televisiva del minore attraverso la fornitura di competenze linguistiche e di genere: conoscere il linguaggio televisivo, le logiche che presiedono alla sua organizzazione, può essere utile per svelare la costruzione delle immagini, conoscere il sistema televisivo con le sue leggi, smitizzare il valore sociale della televisione, la sua credibilità. Esperienze queste che spesso possono configurarsi quali nuove forme di socializzazione e riflessione culturale, come nel caso della pratica del "teleforum".

L’altro grande ambito che soprattutto in area anglosassone gioca un ruolo fondamentale in funzione di una educazione del minore al corretto rapporto con la televisione è la scuola. In molti paesi europei ed extraeuropei questo intervento educativo rientra in una più vasta strategia di integrazione del ragazzo con la cultura e la tecnologia dei media che prende il nome di Media Education, si è ritagliata spazi ben precisi all’interno dei curricoli - in senso disciplinare autonomo o trasversalmente alle diverse discipline - ed è andata assumendo il carattere di un vero e proprio movimento culturale e politico. Anche in Italia, nonostante il ritardo delle istituzioni e della legislazione, non mancano le prese di posizione al riguardo, come la proposta di introdurre "l’ora di Tv" a scuola. Due le linee di intervento pedagogico entro le quali questa attenzione si tematizza.

Una prima direttrice è quella di un approccio critico ai media, alla loro cultura, all’ambiente che essi contribuiscono a creare, da perseguire nella scuola italiana attraverso percorsi curricolari multidisciplinari che consentano al ragazzo di riflettere sulle logiche produttive, elaborare corrette metodologie di approccio ai testi, acquisire consapevolezza dei propri stili ricettivi.

La seconda linea applicativa, invece, percorre la "via strumentale", quella della realizzazione di un "sistema didattico multimedia" in cui linguaggi verbali e non verbali risultino integrati insieme alle tecnologie comunicative (il videoregistratore, la telecamera, il computer e le sue applicazioni) per realizzare una situazone formativa affatto nuova in cui il bambino possa rendersi più consapevole ed attivo nell’interfacciarsi con una realtà multimediale passando da un approccio bidimensionale ai media (quello cosiddetto della "lettura critica") ad un approccio tridimensionale, che consiste nella capacità di sviluppare creativamente un discorso servendosi della tecnologia: dal leggere televisione, allo scrivere televisione.

4. Conclusione: la televisione fà male ai bambini?

Philippe Breton, in un libro molto bello, indica la genesi dell’attuale società della comunicazione più che nello sviluppo tecnologico, nella proposta di un vero e proprio nuovo paradigma, culturale e politico ad un tempo, le cui premesse teoriche andrebbero ricercate nel programma cibernetico proposto da Wiener. L’idea di fondo di quel programma, quella di trovare nella comunicazione come relazione tra le parti di un sistema il modello unificante della realtà, è responsabile del fatto che oggi la comunicazione si proponga come nuova categoria metadisciplinare per la comprensione di ambiti di realtà diversissimi tra loro, la biologia e l’analisi sistemica, l’antropologia e l’economia, la semiotica testuale e la psicologia sociale.

A tale funzione il concetto di comunicazione ha potuto assurgere sulla base di coordinate storiche che trovano nel 1942 un fondamentale momento di svolta, perché in quell’anno, secondo il sociologo francese, lo sviluppo della razionalità tecnologica avrebbe guadagnato la propria tappa decisiva con l’inizio dei bombardamenti a tappeto da parte degli alleati, la maturazione dell’idea della soluzione finale come ultima tappa della politica antisemita del Terzo Reich e dell’uso della bomba atomica su un bersaglio civile, che poi si verificherà con le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki.

Di fronte a questo esito possibile, la comunicazione si materializza più che come realtà di fatto, come bisogno sociale, come controutopia, come progetto di un futuro alternativo rispetto all’autodistruzione. Essa svolge la funzione di valore-quadro in base al quale articolare una nuova visione del mondo: una visione dialogica e non strategica, razionalmente anarchica e non eterodiretta. Nel persguimento di questo compito l’innovazione tecnologica è sorretta dalla pianificazione e, soprattutto, accompagnata da una fitta rete di discorsi sociali. E’ questo aspetto che occorre precisare perché costituisce il punto di vista a partire dal quale provare a tirare le somme del nostro discorso.

Parlare dei media, parlare di televisione - Pensiamo al computer, alla multimedialità, alle autostrade dei dati, a tutto ciò che viene oggi correntemente definito come "nuova frontiera elettronica". Le matrici teoriche di queste realtà comunicative anticipano di molto la fase della loro realizzazione tecnologica, ancor più quella della loro disponibilità commerciale: il primo computer viene progettato nel 1945, entra in funzione nel 1948, si diffonde capillarmente a livello di uso sociale allargato solo a partire dagli anni Sessanta; l’idea della realtà virtuale viene messa a fuoco da Ivan Sutherland nel 1965 ed è soltanto di questi anni la sua prima vera disponibilità per un pubblico più largo di quello dei ricercatori. Ma proprio mentre si è passati dalla fase di progettazione a quella di realizzazione, tutte queste tecnologie sono state affiancate da discorsi sociali che hanno svolto una funzione di supporto mediatico nei loro confronti. Pensiamo al tema della "società cibernetica" negli anni Cinquanta, a quello della "rivoluzione informatica" negli anni Settanta, a quello recente delle "autostrade dei dati". Questi discorsi - elaborati nella letteratura fantascientifica, nella saggistica, nella produzione divulgativa - costruiscono giustificandolo il bisogno sociale di tecnologia indicandone lo sviluppo come una necessità inevitabile e mescolando a questo riguardo ciò che esiste realmente, ciò che ragionevolmente si potrebbe realizzare e ciò che rimane solo a livello di pura ipotesi. E’ così che tutti parlano della rete, pensano ad una cablatura totale del pianeta come ad un evento necessario, si convincono di non poter continuare a sopravvivere senza allacciarsi a qualche nodo di Internet, ritengono di trovare nella rete qualsiasi informazione, disponibile subito ed utilizzabile senza particolare dispendio di energie.

Il risultato è duplice. Anzitutto la tecnologia, sovraccaricata di senso da tutti i discorsi che ha provveduto ad alimentare, può finalmente agire diffondendo il proprio uso sociale. In secondo luogo, questa stessa tecnologia rischia di trovare nella elaborazione teorica che l’accompagna un proprio doppio virtuale, anzi, un prolungamento da cui risulta difficile distinguerla, con l’effetto che spesso si ritenga reale ciò che ancora non è neppure in una fase di progettazione avanzata.

Tutto questo può offrire un interessante spunto interpretativo in relazione alla dialettica delle idee che abbiamo provato a raccogliere. Anche nel caso della televisione - vorremmo dire "soprattutto" nel caso della televisione - la realtà effettiva del mezzo è affiancata da una fitta rete di discorsi sociali. Discorsi che sono di tre tipi e che si articolano entro altrettanti contesti. Essi riguardano anzitutto i suoi contenuti (la televisione come è) e comprendono le analisi e le discussioni sui palinsesti, sui programmi, sulla loro qualità. A questi discorsi si devono aggiungere quelli relativi allo status di medium della televisione, al profilo tecnologico che essa verrà assumendo (la televisione come sarà): è l’ambito in cui maggiormente ricorre l’argomento dell’inevitabilità di cui sopra si parlava, nel disegnare uno sviluppo futuro dominato dai temi della trasmissione satellitare, della televisione tematica, delle nuove possibilità di fruizione garantite da pay-tv e pay-per-view. Infine i discorsi sulla funzione sociale della televisione (cosa fa la televisione), il problema degli effetti, dell’impatto della violenza, di un possibile ruolo pedagogico del mezzo.

Ciascuno di questi discorsi trova motivi per alimentarsi all’interno di tre diversi contesti: il dibattito istituzionale, in particolare accademico; il sistema dei media - all’interno del quale la stessa televisione, insieme alla critica televisiva della carta stampata, contribuisce metacomunicativamente al dibattito sui suoi sviluppi e sulla sua funzione; i discorsi informali del senso comune - questi ultimi spesso determinati dalla dialettica delle idee attivata entro i due precedenti contesti.

Il risultato di tutta questa proliferazione di parole, simmetricamente a quanto sopra osservato per i media in generale, è da una parte un sovraccarico di senso che precede e lancia (anche in senso commerciale, di marketing) l’uso sociale della televisione, dall’altra la impossibilità di distinguere la realtà effettiva del mezzo dai discorsi che esso autorizza: è così che si finisce per parlare della pay-per-view come se già fosse disponibile per il consumo, si può discutere di un programma senza nemmeno averlo visto, si prende posizione a favore o contro il mezzo televisivo sulla base delle letture che si sono fatte o, più spesso, delle opinioni che si sono ascoltate.

Proprio questo dato, quello di una contaminazione della televisione con i discorsi sulla televisione, dovrebbe consentirci di tornare su alcuni elementi fatti emergere nella nostra analisi per provare a rileggerli interpretativamente.

Apocalittici o integrati? - Un primo dato chiaramente registrabile all’interno del dibattito sugli effetti della televisione ed in particolare della violenza televisiva sul pubblico infantile è l’indecidibilità in favore di una o dell’altra posizione. Lo zapping induce incostanza, disorientamento cognitivo e valoriale, o favorisce l’assunzione di abilità contestuali? Il linguaggio televisivo perverte l’uso della parola e conduce all’analfabetismo, o costituisce una straordinaria possibilità di sviluppo delle competenze alfabetiche? La violenza televisiva scarica o produce aggressività nel piccolo telespettatore? In altre parole, esistono ragioni decisive per schierarsi dalla parte degli apocalittici o degli integrati?

Di fatto pare di poter rispondere negativamente. Il volume enorme delle ricerche prodotte sull’argomento sembra innescare un effetto boomerang nei confronti dell’opportunità stessa della ricerca: come in altri casi è stato possibile rilevare riguardo alle manifestazoni di una società, la nostra, che si è autointerpretata come una "società trasparente", la trasparenza dilegua proporzionalmente allo sforzo di materializzarla, con il risultato che più ci si sforza di mostrare e meno si è capaci di cogliere anche solo l’essenziale. Questo anche perché, spesso, le ragioni che portano i ricercatori a formulare le loro ipotesi sono extrascientifiche e non indenni da mode o dalla volontà di muoversi controcorrente per segnalare la propria esistenza in un ambiente iperinflazionato come quello della sociologia dei media. Così, in un contesto dominato da ricerche quantitative può fare tendenza optare per un paradigma qualitativo, come pure, nello scetticismo dominante nei confronti della televisione, può rivelarsi opportuno, persino elegante, assumere nei suoi confronti una posizione indulgente se non favorevole.

Il risultato è che moltiplicare i discorsi sociali circa gli effetti della televisione sul pubblico infantile rischia di equivalere a non riuscire più a capire se questi effetti vi siano e quali essi siano. E’ possibile gestire il superamento di un’impasse così scomoda? E come?

Minacciosità avvertita e rinuncia al controllo del mezzo - C’è un secondo elemento che consente di comprendere e problematizzare ulteriormente questo primo rilievo. Uno dei risultati della ricerca condotta da Carminati e Cigoli per la Rai cui sopra abbiamo fatto cenno è di disegnare due profili di consumo familiare: l’atteggiamento che i due ricercatori definiscono di doppia scissione, caratterizzato da una precisa consapevolezza della minacciosità della televisione in relazione alle dinamiche familiari e dei rischi che l’esposizione ad essa può comportare per il minore, e quello di svalutazione/negazione, che al contrario minimizza l’impatto del mezzo sui bambini, evidenziando la capacità di quest’ultimi di rapportarsi ad esso in modo corretto ed autonomo. Sono i due atteggiamenti possibili, ribaditi dal dibattito teorico, da assumere di fronte al problema, l’uno serio ed allarmato (solitamente quello dello psicologo o dello psichiatra), l’altro disteso e sdrammatizzante (solitamente quello del sociologo o del teorico della comunicazione). Ma l’aspetto interessante che il campione di famiglie considerato ha consentito di evidenziare è che nella maggior parte dei casi non è l’atteggiamento di doppia scissione ad appartenere a contesti familiari particolarmente attenti dal punto di vista educativo all’esposizione televisiva dei figli. In sostanza chi riconosce i rischi della televisione invece di tradurre questa consapevolezza in un intervento educativo, lascia che i figli ne facciano l’uso che credono. Come si può leggere questo dato? A cosa si può addebitare questo scarto curioso?

Senza generalizzare è possibile che esso si debba ricondurre proprio alla proliferazione dei discorsi sociali sulla televisione e sui suoi effetti sul pubblico. Essi trovano spazio in quel gigantesco apparato paratestuale che è costituito dalle pagine che l’informazione stampata dedica alla televisione, dalle rubriche e dai programmi che la radio o la televisione stessa dedicano al problema, dalle conferenze che la scuola, i centri giovanili o culturali e le altre istituzioni sul territorio promuovono al riguardo. In esso è facile ricostruire una certa immagine (di solito negativa e preoccupata) della televisione e ricevere in dotazione una serie di "istruzioni per l’uso" del mezzo. L’esito è diverso, come i due profili di consumo che stiamo considerando indicano.

Una prima possibile risposta è l’innalzarsi della consapevolezza nei confronti del problema: ci si informa sugli effetti che la televisione sortisce sul minore, si sviluppa una certa preoccupazione per questo fatto, ma questo non implica necessariamente il realizzarsi di risposte educative adeguate - anzi, come risulta dalla ricerca cui stiamo facendo riferimento, nella maggioranza dei casi comporta l’assoluta mancanza di queste risposte.

L’alternativa è il subentrare di un atteggiamento svalutativo, relativizzante: in questo caso non si generano preoccupazioni od allarmismi per i "pericoli" corsi dai figli o dalla famiglia nel suo complesso ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, questo atteggiamento disteso si traduce in un’efficace presidio del mezzo. La ragione va cercata nel fatto che questo tipo di consumatore o rimane estraneo ai discorsi sociali sulla televisione (e quindi non coltiva eccessivi allarmismi), oppure riesce a framizzarli nella loro funzione di discorsi, distinguendo in modo pertinente la realtà della televisione dall’immagine che essi ne disegnano. Se nel primo caso l’estraneità può diventare funzione di un atteggiamento pericolosamente anarchico traducendosi nell’abbandono del mezzo, nel secondo - che pertanto spiega la sollecitudine educativa riscontrata da Carminati e Cigoli - il riconoscimento dei discorsi nella loro funzione di discorsi è sintomo di reale consapevolezza critica e di autonomia di giudizio.

Una consapevolezza che l’altro tipo di consumatore, quello preoccupato della minacciosità della tv, non possiede pur credendo di possederla, scambiandola di fatto con le informazioni superficiali e di seconda mano che ha potuto ricavare prendendo parte, spesso solo nella veste di ascoltatore interessato, ai discorsi sviluppati sulla televisione dal sistema dei media. Così quando egli verbalizza la propria paura nei confronti del mezzo, non è della televisione in carne ed ossa che ha timore, ma della sua immagine sociale. Ciò che si verifica è la sostituzione della televisione così come essa è con l’immagine autoreferenziale che il discorso sociale, ai diversi livelli, consente di costruirne. Dire la propria, manifestare preoccupazione, è la risposta che la famiglia caratterizzata dall’atteggiamento di doppia scissione fornisce al problema: una risposta "discorsiva" che, rimanendo a livello di discorso sociale senza che ad essa corrisponda una strategia educativa concreta, evidenzia l’esistenza di uno scarto rilevante tra atteggiamento sociale e consumo reale. Ecco perché chi biasima Castagna, la domenica sera aspetta insieme a tutta la famiglia che inizi Stranamore!

Il ruolo del contesto e i profili individuali - Quanto siamo venuti dicendo mette in circolo effetti reali ed effetti presunti della televisione, sottolineando l’importanza dei discorsi sociali per la definizione dei secondi, ma anche le responsabilità in ordine alla confusione degli uni con gli altri. Di qui il problema che a questo punto diviene fondamentale: è possibile tornare al problema degli effetti per cercare di distinguere quelli che appartengono alle pratiche discorsive da quelli che realmente interessano i soggetti che fanno uso di televisione? La risposta passa attraverso la corretta valutazione del ruolo dei contesti e delle differenze individuali.

Per quanto riguarda i primi occorre operare una distinzione ulteriore.

In un primo senso il contesto è importante per determinare l’impatto del mostrato sullo spettatore, il minore in particolare. Il rapporto della UCLA sulla violenza nella televisione americana parla in proposito di una violenza diegeticamente giustificata che, sebbene non possa essere assolta in sé, tuttavia ottiene un impatto sostanzialmente diverso da quello di una violenza gratuita, non richiesta dal plot entro cui è inserita. Un parametro, questo, che mentre contribuisce a negare un qualsiasi valore assoluto agli effetti di ciò che viene mostrato in televisione, fornisce un’indicazione precisa circa la definizione della qualità di un qualsiasi programma televisivo: non è mai problematica o negativa la singola scena o sequenza, ma solo il valore che essa viene ad assumere all’interno del sistema generale delle occorrenze cotestuali cui appartiene.

D’altra parte il contesto, inteso questa volta in senso più proprio come insieme delle circostanze comunicative, come "situazione comunicativa", è determinante per stabilire quali scambi, quali negoziazioni si attivano tra il telespettatore e la televisione e di conseguenza quali effetti essa può riportare su di esso. La centralità del dato è stata avvertita da tempo sia nel mondo cattolico che in area laica. Si pensi alle considerazioni del cardinale di Milano Carlo Maria Martini sull’importanza di un "contesto ricco" per bilanciare educativamente gli effetti della televisione ed alle riflessioni della sociologia neomarxista sullo svantaggio scolastico, facilmente riportabili alla dinamica delle relazioni tra il ragazzo ed il piccolo schermo: la scuola, osservavano questi autori ancora negli anni Settanta, non riduce ma aumenta lo svantaggio di chi proviene da un contesto culturalmente povero rispetto a chi vive in un contesto ricco di stimoli e sollecitazioni culturali. Analogo il discorso per quanto riguarda la televisione, come ha puntualmente osservato Aldo Grasso in un corsivo sul "Corriere della Sera": "Se un ragazzo ha come unica fonte di informazioni il televisore è un ragazzo povero. Se un ragazzo, accanto al televisore, ha la possibilità di incontrare giornali, libri, dischi, film, parole è un ragazzo ricco. Se un ragazzo a scuola trova insegnanti a loro volta abbrutiti dalla TV è un ragazzo sventurato. Se un ragazzo può scegliere scuole dove gli insegnanti insegnano, è un ragazzo invidiabile. Non esiste la famiglia, esistono le famiglie. Non esiste la televisione, esistono le televisioni".

A tutte queste osservazioni vanno aggiunte quelle relative alla diversità dei profili individuali di chi consuma televisione. L’insieme dei contributi raccolti in questo fascicolo già nel titolo sottintende un punto di vista condiviso secondo cui il minore, per le sue esperienze, la sua enciclopedia di riferimento, la fase delicata di formazione della sua personalità che sta attraversando, risulterebbe essere particolarmente vulnerabile ai possibili effetti della televisione. Di fatto occorrerebbe precisare che non esiste il minore, ma i minori e analogo ragionamento vale per il pubblico adulto: ogni soggetto, ogni gruppo di soggetti, può reagire secondo modalità straordinariamente differenti allo stesso messaggio. Un rilievo ancor più condivisibile entro un contesto psicosociale come quello attuale in cui i confini della normalità sono più difficili da definire rispetto ad un recente passato.

Qualità dei programmi e analisi microsociale - Proprio la rilevanza dei contesti e delle differenze individuali, problematizzando l’universalizzabilità di qualsiasi constatazione circa gli effetti della televisione sul pubblico infantile, consente di indicare in conclusione due direzioni di ricerca e di intervento educativo che contribuiscano a riportare l’attenzione sugli effetti reali metendo tra parentesi la proliferazone delle ipotesi favorita dal reticolo dei discorsi sociali.

La prima indicazione si organizza attorno al primo dei due poli che definiscono la relazione televisione-pubblico ed è relativa al problema della qualità. Accettata l’esistenza della televisione e la sua presenza sociale e messe in conto, di conseguenza, le trasformazioni psico-cognitive che essa come tutte le tecnologie di comunicazione è in grado di indurre su chi ne fa uso, porsi seriamente il problema della qualità televisiva significa riflettere valutativamente sui programmi per acquisire una adeguata consapevolezza spettatoriale. Certo questo non risolve il problema di una determinazione oggettiva degli effetti che rimangono legati a dinamiche singolari, spesso occasionali, e quindi sfuggono comunque ad ogni logica predittiva. Inoltre, nel caso della qualità, ci troviamo di fronte ad una categoria estremamente controversa, in perenne tensione tra chi la ritiene, in positivo o in negativo, una peculiarità strutturale del mezzo televisivo (dichiarando per definizione impossibile la televisione di qualità o, per contro, indicando proprio nella ricerca della specificità televisiva la sua possibilità) e chi, invece, la risolve sul piano della programmazione nella dialettica tra una televisione di qualità ed una televisione di consumo. La questione è molto complessa e andrebbe posta in un quadro più ampio che tenga conto anche del mercato, della rete di negoziazioni che intervengono tra i diversi attori sociali coinvolti (telespettatore, critica televisiva, ricerca istituzionale), della soggettività degli atteggiamenti, tanto che sembra di dover dare ragione a chi nega che la qualità possa essere determinata operativamente in quanto "decisa, in via provvisoria, dagli individui che portano il peso delle loro interpretazioni e dei loro valori".

A noi in questo contesto preme più l’indicazione pedagogica che l’esigenza di precisione scientifica e in quest’ottica ci pare che la via di una determinazione operativa della qualità possa e debba essere battuta. Essa prende corpo in una rinnovata attenzione alla testualità televisiva ed ai discorsi sociali che da essa si generano e trova nella strumentazione di tipo semiotico il proprio sussidio metodologico fondamentale. I momenti di questo tipo di intervento potrebbero essere tre: l’analisi dei messaggi, l’analisi dei discorsi, l’analisi ideologica.

L’analisi dei messaggi è il primo passo di un processo induttivo che, muovendo dallo studio del singolo testo televisivo (la puntata di un varietà, l’episodio di un telefilm, l’edizione di un telegiornale) nei suoi elementi di forma e contenuto, passa a considerare il palinsesto che costituisce il suo contesto naturale, fino a risalire alla politica di offerta dell’emittente. In questo lavoro di contestualizzazione progressivamente più ampia un ruolo importante viene giocato, come abbiamo provato ad evidenziare, dai discorsi sociali che si intrecciano consustanzialmente alla televisione e tra questi soprattutto la critica televisiva, "elemento saliente del mercato culturale non tanto per la sua funzione, quanto piuttosto per la sua natura di metadiscorso a sua volta scomponibile, riutilizzabile, aggregabile al proprio discorso-oggetto". E’ proprio grazie ai rapporti che la pratica critica intrattiene con la produzione, di cui spesso costituisce un elemento di marketing, che sarà possibile risalire alle logiche produttive ed economiche che stanno a monte del programma fornendo all’analisi anche uno spessore politico.

La seconda direzione che abbiamo indicato per la ricerca ruota attorno al pubblico e consiste nell’orientamento allo studio delle pratiche di consumo dei piccoli gruppi, dei profili spettatoriali individuali. Un simile orientamento di ricerca, che risente della "svolta interpretativa" che sta interessando in questi ultimi anni la ricerca sociologica sulla comunicazione, mi sembra perfettamente coerente con il duplice rilievo che registravamo circa la rilevanza del contesto nella determinazione degli effetti dell’esposizione televisiva e la specificità dei singoli profili individuali.

Quanto al contesto, le metodologie etnografiche utilizzate in questo tipo di ricerche consentono di tematizzarlo in termini sempre più ampi sino a prendere in considerazione le relazioni reciproche di tutti coloro che interagiscono con la televisione e fra loro in una determinata situazione, senza dimenticare la rilevanza di alcune coordinate importanti come quelle dello spazio e del tempo. In ordine poi all’attenzione ai profili individuali è facile intuire come questa metodologia ne faccia il proprio focus, esponendosi per questo alle obiezioni critiche della ricerca amministrativa, favorevole all’analisi di tipo quantitativo.

Utili orientamenti per la ricerca istituzionale, il ritorno alla testualità e l’analisi microsociale possono da ultimo essere assunte, con l’onere di un’opportuna mediazione di tipo culturale, quali efficaci indicazioni per l’intervento educativo. Che sia la famiglia o, forse più opportunamente, la scuola ad occuparsene, un simile approccio presenta un indubbio vantaggio: quello di sottrarre la risposta educativa degli utenti al gioco simbolico delle dichiarazioni e dei proclami - spesso reazioni puramente discorsive ai discorsi sulla pericolosità del mezzo televisivo - consegnandola alla prassi concreta in situazione. Dalla televisione come "provincia pedagogica" o come "istituzione morale", alla televisione come campo metodologico aperto.

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