Pier Cesare Rivoltella

Televisione e minori in contesto educativo

Lettura dela situazione e ipotesi di intervento

 

 

 

Oggetto di questo intervento è di riflettere sul problema degli effetti della televisione sul minore declinandolo dal punto di vista degli educatori e delle loro responsabilità e possibilità educative. L’ipotesi è che parlare troppo di televisione forse "fà male", più della televisione. Vorrei provare a far vedere perché indicando alcune strategie che consentano di passare dai discorsi alla prassi educativa.

1. Un punto di partenza: governo e abbandono del mezzo

La ricerca coordinata lo scorso anno da Giulio Carminati e Vittorio Cigoli per il Servizio Studi e Ricerche di mercato della RAI fornisce almeno due rilievi che, nella nostra ottica, risultano molto interessanti e possono costituire un valido punto di partenza a quanto intendiamo proporre.

Anzitutto i suoi risultati indicano come, rispetto al decennio scorso, si sia innalzata nelle famiglie la consapevolezza della minacciosità della televisione ma, contemporaneamente, si sia ridotto il governo familiare del consumo fino al solo trenta per cento. Come dire: "siamo sempre più sospettosi nei confronti della televisione, la televisione ci fà sempre più paura, quindi diventiamo meno capaci che in passato di orientare le scelte dei nostri figli".

Questo dato viene confermato dal rilievo, nell’atteggiamento delle famiglie-campione della ricerca, di due fondamentali posizioni nei confronti della Tv: quella di genitori preoccupatissimi e altamente consapevoli della sua pericolosità per il minore (atteggiamento che viene definito di doppia scissione) e quella di genitori che invece assumono un atteggiamento di svalutazione/negazione di questa stessa pericolosità. Questi atteggiamenti sembrano disegnare due profili di consumo, preoccupato e consapevole il primo, sdrammatizzante sino alla proiezione su altri dei propri sensi di colpa il secondo.

Il problema (o il dato interessante) è che solo in parte dei casi analizzati alla preoccupazione corrisponde un reale governo del mezzo da parte della famiglia.

Gli adulti "affetti" da "doppia scissione" "al mondo dei "grandi" riferiscono il dolore di vivere, il calcolo e la durezza d’animo, mentre al mondo dei "piccoli" essi attribuiscono la gioia, la vivacità, l’ingenuità e la dolcezza. Il fuori (la società) è pericolo, il dentro (la famiglia) è protezione. Se questa è la dinamica interna alle generazioni (ai grandi il male ed ai piccoli il bene di vivere), la dinamica tra l’interno (la famiglia) e l’esterno (la società) è a sua volta caratterizzata dal pericolo attribuito al fuori". Questa consapevolezza spesso si traduce in un controllo censorio del mezzo. In una recente ricerca coordinata da Francesco Casetti, ad esempio, la famiglia che viene definita "ipercritica" è una famiglia che proprio in virtù della conoscenza degli effetti della televisione e di una appartenenza religiosa totalizzante esercita un controllo del mezzo televisivo formidabile, fino a configurare un "atteggiamento riprensivo e censorio verso il medium". Il problema è di verificare se il controllo corrisponda al governo o piuttosto non sia sintomo proprio di una incapacità di governo, comunque diseducativa anche se apparentemente impegnata in un presidio rigorosissimo del televisore.

Quanto al genitore che si rapporta al mezzo in termini svalutativi, spesso non controlla neppure il televisore: a maggior ragione non si potrà parlare nel suo caso di una capacità di governo.

2. Le ragioni di un comportamento "strano"

La provocazione che ci proviene da un simile riscontro è realmente molto forte. Esso infatti sembrerebbe mettere in discussione la ricetta pedagogica che i dibattiti televisivi, i dossier della carta stampata, la pubblicistica specializzata e non, le istruzioni pastorali dei vescovi, negli ultimi tempi hanno messo a fuoco e che consiste nel formare i genitori, perché sappiano fare del contesto familiare un luogo pedagogicamente protetto entro cui il minore fruisca di televisione al riparo da rischi. Una tendenza che prende corpo in una vera e propria manualistica i cui titoli, performativi, sono molto eloquenti: dall’ormai classico, commovente, Tv per un figlio, al più recente Cosa fa la Tv ai bambini?, passando attraverso una gamma vastissima di variazioni sul tema: Genitori col telecomando, Il bambino che addomesticò il televisore, I figli e la televisione.... Persino la televisione non si sottrae a questa tendenza: pensiamo alla recente campagna di Mediaset per educare la famiglia al consumo televisivo il cui slogan, Sai guardare la Tv?, è perfettamente in linea con quanto appena rilevato.

Tutte istruzioni per l’uso rivolte al genitore il cui senso è sempre lo stesso: "La televisione: se la conosci e la guardi insieme ai tuoi figli non te li uccide!".

Come leggere, allora, il dato che la ricerca ci mette di fronte, di un genitore "istruito", consapevole, che però non governa il mezzo? Si possono dare diverse risposte.

Una prima, metodologica, potrebbe insinuare che in fondo la ricerca in questione è di tipo qualitativo, che il campione di famiglie da essa studiato non è rappresentativo dal punto di vista statistico, che, quindi, le sue conclusioni non si possono generalizzare. Alcuni genitori consapevoli non governano il mezzo: ma questa non è una legge, restano fuori dall’analisi tutti gli altri genitori che invece proprio perché consapevoli lo governano.

Una seconda, apocalittica, potrebbe leggere il dato come una riprova del diabolico potere del mezzo, capace di condizionare di fatto persino il comportamento del genitore educativamente più attento. Oppure, si potrebbe ancora sostenere che se il genitore consapevole non è pedagogicamente efficace significa che l’informazione che ha ricevuto è stata insufficiente o addirittura scorretta, con il risultato non di mettere in discussione ma di rafforzare l’idea che si debba intervenire sulla famiglia per dettare ad essa regole opportune di interazione col mezzo.

Personalmente proporrei un’altra ipotesi e cioè che spesso il genitore consapevole rischi di non essere educativamente presente proprio perché troppo consapevole. Provo a chiarire meglio questo punto.

3. L’utopia della comunicazione

Secondo il sociologo francese Philippe Breton la comunicazione che oggi tanto viene chiamata in gioco per definire lo specifico della nostra società (definita una società dello spettacolo, una società trasparente, una società della comunicazione generalizzata), più che una realtà di fatto è un bisogno sociale, una controutopia, il progetto di un futuro alternativo rispetto all’autodistruzione resa possibile dallo sviluppo della tecnologia. Essa svolge la funzione di valore-quadro in base al quale articolare una nuova visione del mondo: una visione dialogica e non strategica, razionalmente anarchica e non eterodiretta. L’importante non è che la nostra sia realmente una società della comunicazione, ma convincersi che di fatto lo sia.

La genesi di questa utopia va cercata secondo Breton nel 1942 che egli considera un anno-chiave nell’economia generale del secolo XX. É in quest’anno che gli Alleati maturano la decisione di estendere i bombardamenti anche alla popolazione civile, una scelta "tecnica" che condurrà a Hiroshima e Nagasaki. Sempre in quest’anno la guerra, soprattutto da parte del nazismo, diviene a tutti gli effetti "ideologica" e questo si traduce, oltre che nel massacro quasi sistematico dei prigionieri sovietici, nell’idea della soluzione finale che porterà ad Auschwitz.

Proprio nel 1942 Norbert Wiener, insieme ad altri studiosi, pubblica sulla rivista "Philosophy of Science" l’articolo Behavior, Purpose and Teleology, prima esposizione del paradigma cibernetico, cioè di quella immagine scientifica del mondo che pensa la realtà come sistema di relazioni, cioè come comunicazione. Cinque anni più tardi, lo stesso Wiener nella introduzione a Cybernetics scriverà a proposito della nuova scienza: "Non possiamo fare altro che consegnarla al mondo che ci circonda, e questo è il mondo di Belsen e di Hiroshima". La contrapposizione dei due paradigmi, quello strategico e violento della tecnoscienza e quello dialogico e pacifico della comunicazione non potrebbe essere più chiara.

Un compito fondamentale nella costruzione della utopia della comunicazione lo svolge, più che lo sviluppo tecnologico nelle comunicazioni, la fitta rete di discorsi sociali che accompagna questo sviluppo. Pensiamo ad un esempio concreto: ad Internet, al World Wide Web, alla rete. Tutti ne parlano, pensano ad una cablatura totale del pianeta come ad un evento necessario, si convincono di non poter continuare a sopravvivere senza allacciarsi a qualche nodo, ritengono di trovare nella rete qualsiasi informazione, disponibile subito ed utilizzabile senza particolare dispendio di energie. Ma poi si scopre che il numero degli utenti, almeno in Italia, è ancora limitato, che molti di coloro che ne parlano non la usano. Questi discorsi - elaborati nella letteratura fantascientifica, nella saggistica, nella produzione divulgativa ed infine diffusi persino nelle normali conversazioni quotidiane - costruiscono giustificandolo il bisogno sociale di tecnologia indicandone lo sviluppo come una necessità inevitabile e mescolando a questo riguardo ciò che esiste realmente, ciò che ragionevolmente si potrebbe realizzare e ciò che rimane solo a livello di pura ipotesi. Così diventa difficile determinare cosa è Internet oggi, cosa potrà diventare domani, cosa sarebbe bello che fosse.

Due le conseguenze.

Anzitutto la tecnologia, sovraccaricata di senso da tutti i discorsi che ha provveduto ad alimentare, può finalmente agire diffondendo il proprio uso sociale.

In secondo luogo, questa stessa tecnologia rischia di trovare nella elaborazione teorica che l’accompagna un proprio doppio virtuale, anzi, un prolungamento da cui risulta difficile distinguerla, con l’effetto che spesso si ritenga reale ciò che ancora non è neppure in una fase di progettazione avanzata. Pensiamo all’alta definizione, a questa rivoluzione del modo di vedere televisione che sembrava inevitabile alla metà del decennio scorso e che poi non si è mai verificata: partorita nell’ambito della ricerca, per ragioni economiche (costi troppo alti) e politiche (quale standard adottare?) non è mai esistita se non in quell’ambito. Eppure ciascuno di noi, oggi, avrebbe dovuto avere in salotto un apparecchio in HD!

4. Televisione e discorsi sociali sulla televisione

La realtà odierna della televisione non sfugge, a ben vedere, a questo tipo di valutazione. Infatti anch’essa è affiancata da una fitta rete di discorsi sociali: discorsi che riflettono sulla televisione come è, cioè sui palinsesti, i programmi, la loro qualità (è l’ambito di discussione prediletto dalla critica televisiva e dal mondo accademico); discorsi che provano a disegnare il profilo della televisione come sarà, le caratteristiche che l’evoluzione tecnologica le imporrà di assumere (qui sono gli apparati e le holding dell’elettronica ad alimentare il dibattito, mettendo in circolazione l’idea dell’inevitabilità di un futuro dominato dai temi della trasmissione satellitare, della televisione tematica, delle nuove possibilità di fruizione garantite da pay-tv e pay-per-view); discorsi, infine, che promuovono il confronto su cosa fa la televisione, la sua funzione sociale, il problema degli effetti, dell’impatto della violenza, di un possibile ruolo pedagogico del mezzo (è l’ambito più discusso e nei termini più generali a tutti i livelli, accademico, televisivo, giornalistico).

Il risultato di tutta questa proliferazione di parole, simmetricamente a quanto sopra osservato per i media in generale, è da una parte un sovraccarico di senso che precede e lancia (anche in senso commerciale, di marketing) l’uso sociale della televisione, dall’altra la impossibilità di distinguere la realtà effettiva del mezzo dai discorsi che esso autorizza: è così che si finisce per parlare della pay-per-view come se già fosse disponibile per il consumo, si può discutere di un programma senza nemmeno averlo visto, si prende posizione a favore o contro il mezzo televisivo sulla base delle letture che si sono fatte o, più spesso, delle opinioni che si sono ascoltate.

É proprio questo che ci preme sottolineare: la contaminazione della televisione con i discorsi sulla televisione.

Di questa contaminazione risente, a ben vedere, un po’ tutto quel macrogenere della letteratura, non soltanto scientifica, che si organizza attorno al problema degli effetti (reali? presunti?) della televisione sul minore.

Lo zapping induce incostanza, disorientamento cognitivo e valoriale, o favorisce l’assunzione di abilità contestuali? Il linguaggio televisivo perverte l’uso della parola e conduce all’analfabetismo, o costituisce una straordinaria possibilità di sviluppo delle competenze alfabetiche? La violenza televisiva scarica o produce aggressività nel piccolo telespettatore? In altre parole, esistono ragioni decisive per schierarsi dalla parte degli apocalittici o degli integrati?

Il volume enorme delle ricerche prodotte sull’argomento sembra sollevare riserve sulla opportunità stessa della ricerca: moltiplicare i discorsi sociali circa gli effetti della televisione sul pubblico infantile rischia di equivalere a non riuscire più a capire se questi effetti vi siano e quali essi siano, o a scambiare effetti reali e presunti come quando in una recente ricerca un’equipe psichiatrica romana confonde la possibilità di interpretare psicopatologicamente un campione di spot pubblicitari con il loro effettivo funzionamento psicopatogeno sullo spettatore.

5. Minacciosità avvertita e rinuncia al governo del mezzo

Torniamo allo spunto da cui siamo partiti: il genitore "avvertito" che però non governa il consumo televisivo dei figli. Come abbiamo provato ad anticipare, forse esiste un rapporto tra il suo comportamento e la proliferazione dei discorsi sociali sulla televisione e sui suoi effetti sul pubblico.

Il genitore, come ciascuno di noi, vive immerso in un ambiente che non è fatto solo di immagini televisive, ma anche delle pagine che l’informazione stampata dedica alla televisione, delle rubriche e dei programmi che la radio o la televisione stessa dedicano al problema, delle conferenze che la scuola, i centri giovanili o culturali e le altre istituzioni sul territorio promuovono al riguardo. In questo ambiente è facile ricostruire una certa immagine (di solito negativa e preoccupata) della televisione e ricevere in dotazione una serie di "istruzioni per l’uso" del mezzo. Perché il genitore di cui stiamo parlando è preoccupato? Perché, penso, da tutto quello che ha ascoltato in merito, ha ricavato la conclusione che la televisione può fare male. Non si tratta qui di reale consapevolezza, ma solo di informazioni, spesso superficiali e di seconda mano, che ha potuto ricavare prendendo parte, spesso solo nella veste di ascoltatore interessato, ai discorsi sviluppati sulla televisione dal sistema sociale. Così quando egli verbalizza la propria paura nei confronti del mezzo, non è della televisione in carne ed ossa che ha timore, ma della sua immagine sociale. Ciò che si verifica è la sostituzione della televisione così come essa è con l’immagine autoreferenziale che il discorso sociale, ai diversi livelli, consente di costruirne. Dire la propria, manifestare preoccupazione, è la risposta che la famiglia caratterizzata dall’atteggiamento di doppia scissione fornisce al problema: una risposta "discorsiva" che, rimanendo a livello di discorso sociale senza che ad essa corrisponda una strategia educativa concreta, evidenzia l’esistenza di uno scarto rilevante tra atteggiamento sociale e consumo reale.

Ma chi è, allora, il genitore attento? In che cosa consiste la capacità di governo televisivo della famiglia?

Si potrebbe rispondere che è o colui che rimane estraneo ai discorsi sociali sulla televisione (e quindi non coltiva eccessivi allarmismi), oppure riesce a framizzarli nella loro funzione di discorsi, distinguendo in modo pertinente la realtà della televisione dall’immagine che essi ne disegnano.

6. Dai discorsi alla televisione

"Dai discorsi alla televisione!": questo sembra allora l’imperativo cui ispirare l’intervento educativo. Si tratta, in sostanza, di cessare di rapportarsi alla televisione solo come ad una "provincia morale" o "pedagogica", come suggerisce Enzesberger, per iniziare a farne un campo metodologico, un terreno di confronto.

In questa direzione il mondo della ricerca, sia in Italia che all’estero, sembra indicare due possibilità: una rivalutazione dell’attenzione al testo e l’analisi microsociale. Cerchiamo di dirne qualcosa.

6.1. Il ritorno della testualità: programmi e palinsesti

Questa prima indicazione costituisce una "evoluzione" dell’approccio critico ancor oggi dominante nella maggior parte dei contesti educativi quando si prova a rendere i media oggetto di riflessione pedagogica e quindi strumento di educazione.

L’obiettivo di questo approccio è la costruzione di un lettore critico, avveduto. L’assunto implicito da cui muove è, di conseguenza, che lo "stato normale" dello spettatore è di essere ingenuo e quindi facile vittima delle strategie comunicative e ideologiche dei media. L’immagine dei media che opera sullo sfondo di una simile prospettiva è quella di realtà non trasparenti, luogo di una comunicazione basata sull’inganno o comunque tale da tradire la buona fede dei suoi destinatari.

La ricerca ha messo in evidenza questi tratti, sottolineando come siano assolutamente improponibili nell’attuale contesto. L’approccio della lettura critica presuppone uno spettatore passivo, non riconosce ai testi mediali il loro carattere di costruzioni simboliche che sono il risultato di una negoziazione tra essi e lo spettatore, riserva alla figura dell’educatore o del formatore una posizione ancora troppo centrale all’interno del sistema formativo. In sostanza è quel che succede in un qualsiasi cineforum o teleforum in cui i partecipanti sono chiamati a confrontarsi non con il film ma con l’opinione del conduttore sul film e attraverso la messa in dialogo dei loro punti di vista accompagnati a convergere sempre di più su di essa.

Di quest’approccio non intendiamo naturalmente riprendere tutti questi limiti, ma l’indicazione fondamentale da cui muove: l’esigenza di prestare attenzione al testo. Tale attenzione dovrà inoltre inserirsi dentro un frame più largo che preveda la considerazione dei palinsesti.

La necessità di pensare il palinsesto come luogo naturale in cui i singoli programmi vivono e si ritagliano è dettata dalla realtà della neotelevisione che fa del flusso la sua fondamentale proposta comunicativa. Programmi, dunque, che si snodano in soluzione di continuità reciproca, per lo più senza interventi che favoriscano la loro riconoscibilità come testi autonomi, e tali da promuovere uno sguardo distratto, nomade, chiuso nello zapping senza posa, ma anche dotato di elevate competenze e quindi capace di individuare proprio dentro il flusso i frammenti di proprio interesse.

In un simile contesto, il testo televisivo (la fiction come lo spot, l’informazione come i programmi-contenitore) diviene protagonista e, a mio avviso, deve necessariamente marginalizzarsi la figura dell’educatore.

Questa marginalità non è evidentamente da intendere come la volontà di cedere spazi educativi alla televisione, ma come il tentativo di pensare ad una presenza educativa più efficace e soprattutto capace di interpretare il nostro momento storico-culturale. E’ facile capire, infatti, come questa marginalità nel caso, ad esempio, delle nuove tecnologie, non sia scelta ma imposta dallo sviluppo stesso dei media. Assumere un analogo atteggiamento significa dunque anticipare già nell’educazione alla televisione una disposizione pedagogica che nel caso dei new media diviene irrinunciabile.

Come si può praticare, allora, l’analisi del testo in famiglia o nella scuola?

Nel contesto familiare credo si possano indicare alcuni atteggiamenti concreti che l’educatore può assumere in questa direzione: il vedere insieme; l’educare il gusto, anche in età precoce ( ad esempio attraverso domande che inneschino nel bambino la verifica di quanto ha visto e di quanto gli è effettivamente piaciuto); di conseguenza, l’educare alla scelta del programma o... di fare altro (si tratta qui di aiutare il minore a rifiutare quella legge non scritta della fruizione che guida alla scelta non di ciò che più piace, ma di ciò che di meno peggio viene programmato); l’aiutarlo a capire i suoi bisogni in rapporto alla televisione, o ad altre attività ludiche (è noto, infatti, che almeno fino alla preadolescenza, la scelta della tv passa in subordine rispetto a quelle del gioco, dell’aggregazione con coetanei, dello stare all’aria aperta).

Il risultato è la costruzione di un piccolo telespettatore che, naturalmente in rapporto alla propria età, sia in grado di sviluppare un insieme di competenze cognitive (saper vedere) e metacognitive (sapere di vedere).

Un discorso analogo si può fare per la scuola sebbene in questo contesto sia più difficile per l’educatore non assumere una posizione centrale e direttiva nel processo educativo. Cosa significherà, allora, marginalizzare l’intervento didattico sulla televisione? Indico anche in questo caso alcuni spunti di lavoro per l’insegnante: privilegiare, nella scelta dei programmi da analizzare, le proposte della classe mettendo tra parentesi i propri gusti e pregiudizi; evitare di considerare o di imporre un punto di vista sul testo come autorevole o addirittura unicamente valido; aiutare a distinguere l’oggettività linguistica del testo dai diversi possibili percorsi interpretativi che essa autorizza; valorizzare i contributi personali di ciascuno riconducendoli ai vissuti individuali; più in generale, sforzarsi di svolgere il ruolo del facilitatore limitando la propria presenza o al rilancio di problemi o al chiarimento di domande che provengano dagli studenti.

Il risultato, oltre a garantire nello studente le competenze di cui già a proposito della famiglia si diceva, dovrà essere in questo caso lo sviluppo di una situazione pedagogica assolutamente nuova: da un agire didattico di tipo strategico (Habermas), il cui obiettivo è l’efficacia dell’insegnamento, ad un agire dialogico (Buber), il cui obiettivo è la costruzione condivisa del senso (Bettetini).

6.2. La centralità del ricettore: consumo e quadri di valore

Il fatto che l’educatore scelga di "farsi da parte" per non condizionare la fruizione/comprensione, non conduce soltanto alla sottolineatura della centralità del testo, ma anche - ed è l’aspetto più importante - ad una maggiore attenzione al ricettore.

Una simile prospettiva risente della svolta interpretativa che gli studi sociologici hanno vissuto in questi ultimi anni. Da una attenzione esclusiva per il punto di vista macrosociologico della ricerca quantitativa, si è gradualmente passati (anche se con resistenze da parte di alcuni esponenti della comunità scientifica) a un punto di vista microsociologico e strettamente qualitativo. Ciò significa soprattutto sostituire alla strumentazione statistica ed ai grandi campioni una strumentazione etnografica applicata a piccoli contesti.

Nell’ambito dei Media Studies, in particolare dell’analisi del consumo televisivo, i principali riferimenti teorici si trovano nei lavori di David Morley in ambito europeo e di James Lull in area americana. Recentemente anche la ricerca italiana si è confrontata con questo approccio come testimoniano i lavori di Paolo Mancini e Francesco Casetti e le ricerche coordinate da Gianfranco Bettetini per l’Istituto Gemelli-Musatti per la comunicazione di Milano.

Metodologicamente questo tipo di ricerche si avvale di dati raccolti tramite l’osservazione partecipante, le interviste in profondità, le interviste di gruppo (focus group). L’osservazione partecipante, prevedendo la presenza di un ricercatore all’interno della situazione che si sta studiando e consente di rilevare atteggiamenti, posture, pratiche discorsive, modalità di visione dei soggetti monitorati durante il consumo. Le interviste, nelle due forme sopra accennate, permettono la verifica e l’approfondimento delle indicazioni emerse durante l’osservazione.

Poco rappresentativi delle medie delle tendenze (limite dichiarato, quasi perseguito, della ricerca qualitativa), i dati che ne risultano hanno il pregio di disegnare i contorni di singole comunità interpretative segnate da specifiche condizioni storiche, culturali, psicologiche.

Il risultato è coerente con l’immagine di una società come la nostra, frammentata e complessa, quindi poco incline a lasciarsi comprendere in quadri generalizzanti.

Quale spendibilità può avere una simile strumentazione in contesto educativo?

In famiglia si intravede la possibilità di coinvolgere i genitori in qualità di "osservatori" dei processi fruitivi dei loro figli. Mediante la registrazione quotidiana delle scelte di programma, dei tempi e delle modalità di consumo, si tratterà di verificare quelle che altrimenti resterebbero solo percezioni irriflesse. Raggiungere la consapevolezza delle reali abitudini di fruizione dei figli consentirà allora di studiare opportune e mirate strategie educative al riguardo.

Nella scuola è l’insegnante a diventare "osservatore" della sua classe e dei singoli che la compongono. In questo caso il contesto di consumo ha caratteristiche particolari. Non si tratta infatti di un contesto "reale", essendo riprodotto artificialmente: abitualmente la Tv non si guarda in classe con gli amici. L’attenzione di chi osserva non potrà chiaramente andare ai tempi e alle scelte degli studenti, tuttavia essa potrà focalizzarsi comunque su posizioni, atteggiamenti, commenti verbali e non. La valutazione di questi elementi favorirà la individuazione di quadri di valore che agiscono dietro ai comportamenti di consumo. Questa la ragione per cui l’etnografia in classe può diventare, oltre che un mezzo per studiare come i ragazzi guardano la Tv, anche (soprattutto) un potente strumento di diagnosi psico-sociale favorendo la individualizzazione della didattica e l’attenzione educativa.

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