LAVORATORE COLPITO DA DISTURBI NERVOSI CON SOMATIZZAZIONI Per ottenere il risarcimento del danno deve dimostrare che essi sono stati causati da comportamenti vessatori del datore di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 5491 del 2 maggio 2000, Pres. Grieco, Rel. Stile).


F.C., dipendente della S.p.A. Ansaldo Industria, intensamente impegnato nell’attività sindacale, ha avuto numerosi contrasti con l’azienda ed è stato più volte sottoposto a provvedimenti disciplinari, risultati a volte legittimi e a volte no.
Egli si è rivolto al Pretore di Milano, sostenendo di aver subito un comportamento persecutorio dal quale gli era derivato un danno biologico e chiedendo la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno in misura di lire 600 milioni, per violazione degli obblighi derivanti dall’art. 2087 cod. civ. secondo cui l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.


Egli ha, tra l’altro, fatto presente di essere stato colpito da disturbi nervosi con somatizzazioni (nausea, vomito, dolori epigastrici) e di aver subito gravi conseguenze nei rapporti affettivi in termini di crisi del matrimonio, nonché di perdita di relazioni sociali ed amicali.


Il Pretore, dopo avere disposto una perizia medico legale, ha ritenuto che il comportamento dell’azienda abbia causato una lesione della salute del lavoratore ed ha per questo condannato la datrice di lavoro al risarcimento del danno in misura di lire 90 milioni.


Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Milano, che ha escluso il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, in quanto ha ritenuto che la datrice di lavoro non sia stata animata da intenti vessatori e che in materia debba trovare applicazione l’art. 2043 cod. civ., concernente la responsabilità extra contrattuale, ravvisabile per fatti dolosi o colposi.


Per quanto riguarda le perdite affettive, il Tribunale, anche in base alle dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore, ha ritenuto che esse siano state una conseguenza della priorità da lui attribuita all’impegno sindacale, ad una scelta di vita totalizzante, dalla quale derivava come logica conseguenza l’incompatibilità con ogni altra persona che non accettasse la stessa scala di valori.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo tra l’altro che in materia era applicabile l’art. 2087 cod. civ. che configura a carico del datore di lavoro una responsabilità contrattuale e gli impone l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie per tutelare la personalità del lavoratore.


La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5491 del 2 maggio 2000, Pres. Grieco, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso, pur riconoscendo l’esattezza della tesi secondo cui in materia deve essere applicato anche l’art. 2087 cod. civ.; peraltro, ha osservato la Corte, il Tribunale di Milano non ha motivato la sua decisione soltanto sul rilievo dell’inesistenza di un intento persecutorio ma anche sull’accertamento della mancanza di un nesso causale tra le vicende lavorative e il pregiudizio subito dalla salute del lavoratore.


La Corte ha ritenuto che tale accertamento sia stato correttamente motivato con riferimento, tra l’altro, all’esito della perizia e pertanto, pur correggendo la motivazione della sentenza impugnata, ha giudicato esatta la decisione di rigetto della domanda.
Anche in caso di applicabilità dell’art. 2087 cod. civ. – ha affermato la Corte – incombe al lavoratore la prova dell’esistenza di un nesso causale tra i comportamenti del datore di lavoro e il pregiudizio subito dalla sua salute.

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