LICENZIAMENTO PER AGGRESSIONE VERBALE CON PAROLE MINACCIOSE
– Può essere ritenuto legittimo ove il dipendente non abbia subito un’ingiusta provocazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 2115 del 24 febbraio 2000, Pres. Lanni, Rel. De Matteis).
R.A., dipendente della S.r.l. Acqua Santa Roma, è stato licenziato con l’addebito di aver detto a un consulente dell’azienda, nel corso di un’accesa discussione: "Ti rompo il culo". Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Roma, che ha rigettato il ricorso. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma, che ha annullato il licenziamento, in quanto ha ritenuto eccessiva la sanzione applicata al lavoratore, privo di precedenti disciplinari. Il Tribunale ha ravvisato un’attenuante nella vivacità dell’alterco e nel conseguente stato di grande agitazione determinatosi nel lavoratore. Secondo il Tribunale, l’infrazione avrebbe dovuto essere punita con una severa sanzione disciplinare conservativa, come la sospensione. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale, per giustificare il suo giudizio di eccessività della sanzione, avrebbe dovuto accertare che il lavoratore fosse stato ingiustamente provocato dal consulente, non essendo sufficiente, come attenuante, la vivacità dell’alterco.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2115 del 24 febbraio 2000 Pres. Lanni, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso. Costituisce errore di diritto – ha affermato la Corte – ritenere lo stato d’ira esimente o attenuante per sé e non nella misura in cui sia provocato da fatto ingiusto; nel caso di specie, a fronte della gravità, riconosciuta dallo stesso Tribunale, di un comportamento culminato in frasi non solo volgari, ma soprattutto minacciose, la sentenza impugnata ha ritenuto sufficiente a scriminarlo, ai fini della legittimità del licenziamento, la mera alterazione delle parti, senza valutare se l’alterazione del lavoratore potesse trovare una qualche giustificazione nel comportamento datoriale.