MOBBING: un problema attuale che ha più di cent'anni.

Presentiamo qui di seguito la relazione tenuta dal Dott. Antonio Casilli, studioso di trasformazioni del lavoro, durante il Seminario "MOBBING: UN MALE OSCURO".


RELAZIONE di Antonio Casilli Studioso di trasformazioni del lavoro, curatore Collana MAP della casa editrice Deriveapprodi


Un approccio sistemico al mobbing e logiche di risposta.

L'assunto principale di un approccio sistemico al mobbing è che si tratti di un fenomeno tipico del sistema "impresa moderna", e dunque che non esista una tipologia statistica della vittima e dell'abusatore.

Esistono al mondo statistiche che vanno in direzioni opposte. Ad esempio, alcune statistiche svizzere dimostrano che il mobber maschio, cioé l'abusatore, sia nettamente prevalente rispetto al mobber donna; oppure altri dati, elaborati negli Stati Uniti, dicono che i mobber sono molto giovani, mentre secondo statistiche giapponesi a essere altrettanto giovani sono i mobbizzati. In sintesi direi che se ci volessimo affidare alle statistiche potremmo arrivare a tutto e al contrario di tutto.

Siccome effettivamente non è possibile un'attendibile descrizione statistica vuoi di chi è il mobbizzato, vuoi di chi è il mobbizzatore, possiamo tentare un approccio completamente diverso, di tipo sistemico, che parte dalla definizione di mobbing. L’ipotesi di partenza è che "il mobbing è un sistema di organizzazione produttiva dell'attività umana consistente in una successione di episodi traumatici correlati l'uno con l'altro, e aventi come scopo l'indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione della volontà del soggetto mobbizzato".

Se non è dato di sapere né chi sia, per definizione, una persona a rischio di diventare abusatore né, per definizione, chi sia una persona a rischio di diventare vittima, non possiamo che imputare l'emergenza di un fenomeno di mobbing al sistema dell'azienda stessa.

Questo tipo di approccio tra l'altro spiega come mai si verifichi che molti mobbizzati siano particolarmente creativi, e che quasi altrettanti mobbizzati non lo siano affatto. Nell'ambito dei new media, per esempio, in un settore in cui la creatività è molto richiesta, una persona che non è creativa viene maltrattata proprio per il fatto che non riesce a stare al passo con la creatività e la comunicatività degli altri. Ancora, in alcuni settori lavorativi i quadri anziani vengono mobbizzati, ma in altri avviene che vengano maltrattati alla stessa maniera le persone più giovani, i neolaureati, gli stageur, coloro che sono al primo impiego. Che poi questi maltrattamenti si trasformino in mobbing conclamato - e per mobbing conclamato intendo malattia da mobbing - è un'altra faccenda, perché per arrivare all'effetto fisico, al momento in cui il disagio lavorativo entra nel corpo del lavoratore, ci vogliono ulteriori elementi. Molto dipende da una serie di fattori, quali ad esempio la disposizione culturale del bersaglio di mobbing, o ancora la sua stessa resistenza fisica o emotiva, o il fatto che faccia un determinato lavoro o un altro (vedremo poi come effettivamente questo approccio sistemico tenga conto anche di quali sono le trasformazioni che si sono avute all'interno del mercato dei lavoro).

In conclusione quindi, secondo questo approccio, il mobbing è strettamente legato all'attuale organizzazione del sistema produttivo, ovvero a tutti i cambiamenti intervenuti all'interno dell'organizzazione del lavoro, del sistema produttivo e per questo il mobbing diviene una proprietà emergente del sistema-impresa.

Intendo per sistema-impresa quell'insieme di operazioni volte alla produzione e alla creazione di merci o servizi destinati al consumo. "Una proprietà emergente di un sistema - secondo la definizione data da John Searle nel saggio "Il mistero della coscienza", Raffaello Cortina, Milano 1998 - è qualcosa che è spiegato casualmente dal comportamento degli elementi del sistema; ma non è una proprietà di qualsiasi elemento individuale e non può essere spiegata semplicemente come la somma delle proprietà di quegli elementi".

Se noi abbiamo un'azienda costituita da tante persone, tanti uffici, tante unità produttive, questa azienda non potrà mai individuare il punto da cui parte il mobbing. Il mobbing non viene fatto da una sola persona, anche se il capo è tirannico. Il mobbing non viene fatto da un solo ufficio, anche se in un ufficio il clima è psicotossico, cioè succede che tutti fanno dispetti e soprusi a tutti gli altri. Non esisterà mai all'interno di un'azienda un centro, un punto di accumulazione da cui parte il mobbing, perché è il sistema stesso dell'azienda nel suo insieme, inteso come unità olistica (che cioè non può essere ridotta ai suoi singoli componenti) che genera il mobbing.

Come mai il mobbing può diventare un sistema? Perché esiste, tanto per cominciare, un trauma connaturato alla forma stessa del lavoro moderno, il lavoro industriale. Quando nel diciottesimo secolo l'occidente ha conosciuto la rivoluzione industriale, ha anche conosciuto una nuova forma di organizzazione dell'attività umana che sostituiva agli antichi mestieri del medioevo il lavoro all'interno delle manifatture, degli atelier, delle fabbriche.

Le caratteristiche del lavoro moderno possono così essere sintetizzate:

1) si svolge secondo una tempistica precisa, cioè ogni giorno ha un'ora d'inizio, e deve essere svolto nel luogo di lavoro per un determinato numero di ore;

2) esclude ogni altro impegno;

3) è un'attività separata dalla vita privata e dal tempo libero.

Tutto questo spiega come effettivamente il lavoro moderno sia stato percepito dai nostri antenati come uno stacco netto rispetto alla precedente attività lavorativa. Nelle società contadine e nel mondo feudale il lavoro non era organizzato in questa maniera, si svolgeva in modo più sciolto, più informale: il contadino non aveva una settimana lavorativa, al massimo poteva lavorare per 150-160 giorni all'anno, e all'interno di questi certamente non faceva né 8, né 10, né 16 ore, ma svolgeva un'attività per un numero limitato di ore (da 3 a 5) al giorno.

Il passaggio al regime di fabbrica che si è imposto con la rivoluzione industriale e successivamente con l'organizzazione scientifica del lavoro fordista e taylorista ha rappresentato comprensibilmente un trauma per il mondo occidentale, il trauma originario della nostra società.

Tale trauma originario può anche essere interpretato come una forma di "sadomasochismo da ufficio". In un libro ("La fabbrica libertina", Manifestolibri, 1997) che ho pubblicato qualche anno fa spiegavo come effettivamente esista una logica comune tra un pensatore come il marchese De Sade, cioè l'inventore della crudeltà più estrema, e l'impostazione mentale di coloro che per primi hanno dato vita all'organizzazione delle fabbriche. Queste persone, come il noto libertino, avevano in mente lo stesso obiettivo: l'organizzazione a fini produttivi, cioè la produzione di un surplus economico, dai corpi umani; da una parte attraverso la catena di montaggio, dall'altra attraverso la catena di monta, se mi si permette questa provocazione.

Altri studiosi, meglio di me, hanno affermato lo stesso concetto, ad esempio la sociologa americana Lynn S. Chancer nel suo saggio "Sadomasochism in everyday life" pubblicato nel 1992 dalla Rutgers University Press, ha spiegato che tra datore di lavoro e impiegato all'interno del rapporto di lavoro si viene a creare una relazione di tipo sadomasochistico analoga a quella esistente tra padrone e schiavo. Il datore di lavoro, secondo l'autrice, è un sadico che ha un forte desiderio di controllo sul proprio lavoratore. La violenza psicologica viene accettata, nel sistema aziendale, come forma di comunicazione tra le parti, esistono rituali di sottomissione e di inferiorità che vengono codificati e resi visibili anche nell'organizzazione degli spazi e nel modo di vestire dei capi e dei dipendenti.

Ancora, il lavoratore masochista in una certa misura subordina i propri sentimenti ai bisogni del capo. Inoltre si realizza una forte dipendenza emotiva per cui il lavoratore deve essere esposto a disagi e a sofferenze psicologiche (in questo caso si tratterebbe di mobbing). In ultimo esistono dei rituali codificati di ribellione che non servono ad altro che a confermare ulteriormente la posizione dominante del datore di lavoro sadico (sarebbero le strategie errate di risposta al mobbing).

Dopo questa digressione, vediamo quali sono state le trasformazioni più recenti del lavoro che hanno portato a considerare il mobbing come "emergenza", intendendo con questo termine non solo il fatto che questo fenomeno crea allarme, ma anche che si tratta di qualcosa che oggi emerge con particolare evidenza.

Le trasformazioni del lavoro si sono realizzate nel contesto del cosiddetto capitalismo flessibile, cioè in un sistema postfordista ben diverso da quello della fabbrica e della catena di montaggio che i nostri genitori hanno conosciuto. Sono diversi i fattori che hanno determinato i cambiamenti del lavoro.

Tra questi, la globalizzazione (o la mondializzazione) che determina la dislocazione produttiva in paesi terzi delle attività economiche in precedenza tradizionalmente collocate in occidente.

Inoltre l'economia si smaterializza, ovverosia spariscono le fabbriche e cambia il modo di produrre, con il passaggio dalla produzione di merci a mezzo di merci alla produzione di servizi a mezzo di linguaggio (ad esempio con l'industria della comunicazione o dell'intrattenimento); si realizza infine un fortissimo grado di finanziarizzazione, con scambi finanziari che superano di gran lunga (nell'ordine di centinaia di volte) i traffici commerciali delle merci.

Un altro fattore di trasformazione è quello che l'economista Jeremy Rifkin chiama "the end of work": non esistono più elementi di garanzia del lavoro, non soltanto del posto fisso ma neppure del lavoro in sé.. Se si riflette sul fatto che l'86 per cento dei posti di lavoro creati l'anno scorso in Italia erano atipici, part-time o lavoro precario, e se a questo si aggiunge che in quella percentuale non sono comprese tutte le forme servili o semiservili di lavoro attualmente esistenti, come gli stageurs o gli obiettori di coscienza, ci si rende conto dei cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro.

Un ulteriore fattore di trasformazione del lavoro riguarda l'impossibilità di misurare il risultato economico dell'attività lavorativa. La produzione di bulloni alla catena di montaggio non creava questo problema, ma ad esempio la progettazione di un portale Internet rende assai più problematica la misurazione della produttività giornaliera di un lavoratore. La valutazione diventa in questo caso arbitraria, e quando si inseriscono elementi di arbitrio nella valutazione economica della prestazione lavorativa evidentemente esiste il rischio del mobbing come fenomeno sistemico.

Altro fattore con cui fare i conti è la personalizzazione del processo produttivo che non produce più merci standard, ma prodotti personalizzati sulla base delle esigenze individuali del consumatore. Parallelamente, sul versante della produzione, non esiste più un contratto standard di lavoro, ma cresce ovunque la contrattazione individuale.

Quando il lavoro si trasforma in un rapporto individuale tra il lavoratore e la controparte padronale, si stabilisce tra le due parti una relazione che può facilmente degenerare in violenza psicologica.

Inoltre si verifica una sovrapposizione tra gli ambiti pubblici e gli ambiti privati dell'attività del singolo lavoratore con la confusione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro. Infatti sempre più spesso il lavoro, grazie agli straordinari e ai cosiddetti orari flessibili, si trasferisce nella casa del lavoratore, entra nel suo corpo, nella sua quotidianità. Non c'è un momento in cui il lavoratore lascia da parte il suo lavoro, in cui esce dall'azienda (anche perché l'azienda è diventata rete, è entrata ovunque, è entrata nella casa stessa del lavoratore se quest'ultimo telelavora) e anche per questo si arriva al nodo del mobbing, nel momento in cui il lavoro entra nel corpo stesso delle persone.

A questo punto vorrei soffermarmi sulle strategie sistematiche di risposta mobbing.

A mio parere, esistono tre grosse trappole nelle quali si può cadere nel momento in cui si vuole rispondere al mobbing in maniera sistematica.

La prima è quella dell'atteggiamento messianico, quella che coloro che lavorano con i mobbizzati - medici, consulenti dei lavoro, sindacalisti o chiunque altro -conoscono benissimo. Di solito arriva una persona che soffre un disagio personale e questa persona cerca nel medico o nel sindacalista un salvatore, cioè qualcuno che lo possa tirar fuori rapidamente da quella situazione di disagio. Purtroppo il problema è che nella delega a una persona terza non si riesce assolutamente a disinnescare la bomba mobbing, che è sempre all'interno dell'azienda. Il medico si trova nel suo studio di medico, il sindacalista se pure si trova all'interno della struttura è comunque separato dalla persona che vive ogni giorno nel suo ufficio la situazione di disagio. Purtroppo non c'è niente da fare se non intervenire a livello locale, cioè all'interno di quello stesso ufficio in cui si sta realizzando il mobbing.

E neppure funziona una strategia di tipo new age, frequentando ogni sera un luogo nel quale s'insegnano le meditazioni trascendentali che rendono insensibili a quello che il capoufficio dirà il giorno successivo: sicuramente servirà a rilassare il lavoratore ma il giorno dopo il capoufficio ricomincerà con la stessa solfa. In sintesi, voglio dire che quando si delega a qualcuno il controllo della situazione si perde questo controllo e ci si ritrova "alienati" anche dall'ultimo privilegio rimasto al lavoratore, cioè la facoltà di resistenza, quella che nessun forma di capitalismo è mai riuscita a sottrarre o sussumere.

Per questo direi, seguendo il poeta Walt Withman, "resistete molto e obbedite poco", perché è nella resistenza individuale che si può trovare la vera risposta.

Un'altra trappola è a mio parere quella della legge, cioè pensare che con una legge sia possibile far scomparire il mobbing da un giorno all'altro. Se, come abbiamo visto, il mobbing è un fenomeno che è legato a fattori di carattere storico e diffusi a livello mondiale, non è possibile che una legge locale possa risolvere il problema se contemporaneamente non si verificherà un cambiamento che riguarda le stesse componenti che lo hanno determinato. E tale cambiamento non può certamente venire dalle diverse proposte di legge attualmente esistenti nel nostro paese.

Tra queste, alcune sono impostate secondo un approccio di tipo svedese in un'ottica di concertazione tra datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori, un po’ come è previsto con la legge 626 per la sicurezza del lavoro. Altre proposte di legge optano per una soluzione "penale" nei confronti di chi esercita il mobbing. Ma una soluzione penale non tiene conto del fatto che spesso non si riesce a sapere chi è il mobbizzato e chi è il mobber, ci sono anzi dei casi in cui è tale il clima di avvelenamento psicologico all'interno degli uffici per cui tutti fanno mobbing su tutti. In questi casi si finirebbe per infliggere alle stesse vittime dai tre ai cinque anni di carcere, come vogliono i proponenti, proprio nel momento in cui diventano abusatori, perché costretti da questo sistema di cose! Si tratterebbe ovviamente di un controsenso che non aiuterebbe nessuno.

L'unica modesta proposta che mi sento di fare è che più che una legge conciliativa o punitiva, si potrebbe utilizzare una soluzione premiale o contropremiale, cioè la creazione di una specie di marchio di certificazione della qualità dei rapporti interni all'impresa, sul modello dell' ISO 9000 o del SA 8000: un marchio che starebbe a dimostrare che l'azienda produce senza "inquinare" l'ambiente sociale.

In tal caso l'obbligo di legge per i datori di lavoro sarebbe di rendere pubblici i più comuni indicatori di disagio lavorativo, per permettere il monitoraggio sociale da parte degli azionisti, dei consumatori, dei contribuenti, dei sindacalisti e dei dipendenti.

In questo caso gli indicatori di disagio lavorativo possono essere l'indice di turn over delle persone, perché se i lavoratori non riescono a rimanere a lungo in un'organizzazione questo deve rappresentare un campanello d'allarme. Altri indicatori possono essere il numero di permessi per malattia, di esaurimenti nervosi, di prepensionamenti, di vertenze sindacali per motivi legati al mobbing, di trasferimenti, di sospensioni o di procedure disciplinari, il numero di licenziamenti, le spese per la sorveglianza, il controllo e l'ispezione dei dipendenti (altro indice di mobbing) e il numero di denunce per episodi di mobbing contro persone dell'azienda o contro l'azienda stessa.

Mi rendo conto che questa mia modesta proposta è solamente provocatoria e che, allo stato attuale dei fatti, chiaramente resterà lettera morta. Comunque sia, si tratta di una proposta che è coerente con la spiegazione che ho sopra cercato di dare al mobbing, un sistema, una sorta di ordigno che è innescato nell'impresa e che certamente non può essere disinnescato semplicemente punendo la singola persona che in quel momento l'ha messo in moto.

  • Antonio Casilli

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