Oebalus
Associazione Culturale Onlus



DOSSIER ARCHEOLOGIA  
ANTICHITA' E CAPRESITA'

        Negli ultimi mesi l’Amministrazione Comunale di Capri ha iniziato una virulenta polemica nei confronti della Sovrintendenza ai Beni Archeologici. La polemica si sovrappone e trae spunto dalla scoperta di resti archeologici in località Gasto e da un intervento coercitivo della Pubblica Amministrazione di Capri nei confronti della Sovrintendenza stessa, accusata di svolgere lavori abusivi per l’installazione di una rete fognaria a favore dei locali di servizio degli scavi archeologici di Villa Jovis.
        Questa polemica sembra essere, in realtà, la manifestazione eclatante di un rapporto conflittuale sotterraneo protrattosi per anni.
        Nel presente dossier, pertanto, si vuole indagare sul rapporto tra la società isolana ed i beni archeologici, sullo stato di un patrimonio inestimabile, su quali prospettive si intravvedono per una giusta tutela e valorizzazione di quella che potrebbe essere una grande fonte di ricchezza materiale e intellettuale per l’intera isola di Capri

Lo scrittore e l’archeologo
        Nell’affrontare ogni tipo di discorso relativo all’archeologia a Capri, è importante partire da due figure rappresentative di un’epoca: Amedeo Maiuri e Edwin Cerio.
        Il primo è il grande scopritore, l’archeologo per antonomasia che ha dato il maggior apporto ed impulso agli scavi sull’Isola, il secondo è lo scrittore di cose capresi, l’ideologo della capresità. Entrambi rappresentano il momento apicale di una concezione romantica del rapporto con la natura, con il bene archeologico e con la storia. Sia Maiuri che Cerio sono, con le dovute differenze, il frutto naturale di una visione dell’isola di Capri, sviluppatasi durante tutto l’Ottocento, che individuava nell’Isola un luogo in cui si sintetizzavano e si fondevano in maniera quasi perfetta elementi naturali di straordinaria bellezza con vestigia storiche di grande importanza e fascino. Capri diventava, così, il tramite, lo strumento per capire o ritornare ad un perduto equilibrio con la natura, ad un rapporto con un passato idealizzato nella sua perfezione.
        Amedeo Maiuri ed Edwin Cerio lavorarono quasi contemporaneamente in maniera assidua e frenetica, quasi a presagire che un’epoca stava terminando e che cominciavano a prevalere valori e concezioni opposte alle loro.
        Cerio intuisce il pericolo insito in quella che lui chiama "la borghesia rampante" e cerca di trasportare Capri da un mondo romantico ed ingenuo ad un altro in cui poter coniugare la conservazione e l’avvaloramento dei beni archeologici naturali con le esigenze di sviluppo economico e sociale della comunità locale.
        Con vari suoi scritti quali L’avvaloramento dei beni archeologici ed iniziative come il Convegno sul Paesaggio, Cerio cerca di creare questo collegamento, inserendo i siti e gli scavi archeologici in un percorso in cui si integravano paesaggio ed archeologia. Il tentativo, visto oggi, può sembrare velleitario, considerando anche la cultura fondamentalmente idealista dell’autore in rapporto ai meccanismi economici che si andavano consolidando sull’Isola, legati al mercato immobiliare, ad un tipo di turismo sempre più attento ai nuovi miti della Capri mondana e ricca.
        Si arriva, così, al paradosso: proprio quando il rapporto tra Capri e i beni archeologici sembra avviato al culmine con l’ultimazione degli scavi di Villa Jovis, inizia a consolidarsi una divisione, che dura ancor oggi, tra la popolazione e le istituzioni locali da una parte e la Sovrintendenza competente dall’altra.

Una profonda rottura
        È chiaro che questa rottura nasce dall’affermazione di un modello di sviluppo che predilige lo sfruttamento, anche selvaggio, del territorio e non la conservazione e la valorizzazione, che sceglie valori legati ad una fruizione dell’Isola superficiale ed effimera.
        Dagli anni ’50 fino alle attuali polemiche si consolida una profonda avversione degli isolani nei confronti della Sovrintendenza, vista come elemento estraneo e frenante un tranquillo ed indisturbato abuso del territorio.
        Oggi, di fronte ad una crisi di questo modello di sviluppo, che ha provocato e continua a provocare incalcolabili ed irreversibili danni, sembra rinascere, in alcuni ambienti isolani e non, l’esigenza di una riflessione sulla possibilità di uno sviluppo diverso, che prediliga una fruizione colta e totale dell’Isola con un’attenta valorizzazione dei beni archeologici e monumentali, non separata da una tutela più complessiva del territorio isolano: un modello di sviluppo che superi una visione cristallizzata o museale dei beni archeologici per collegarli pienamente allo sviluppo economico e culturale della comunità ed alla pianificazione e programmazione territoriale. È importante, in tal senso, aprire un ampio dibattito sull’utilizzazione futura di monumenti come la Certosa e sulla creazione di una struttura museale che si ponga quale momento propulsivo di studio e di ricerca più che semplice contenitore di reperti e testimonianze della storia locale.

Un’archeologia non autarchica
        Oebalus è convinto, come altri, che la valorizzazione del patrimonio archeologico rappresenti un indiscutibile passo avanti nella creazione di un’economia che produca ricchezza da una parte e, dall’altra, si mostri rispettosa della natura e del territorio. Ma, a differenza di molti altri, Oebalus sceglie una strada diversa, non cedendo ai facili entusiasmi né a manie attivistiche. Anche confortato da responsabili e studiosi intervenuti in questo dossier Oebalus avverte, innanzitutto, l’esigenza di allargare gli orizzonti della ricerca archeologica e storica sull’Isola per collegarli a visioni più ampie e rinnovate nel metodo, che permettano di fuoriuscire da una pericolosa e deleteria tendenza a concepire tutto ciò che è isolano come qualcosa di assolutamente peculiare ed esclusivo.
        Ritiene, perciò, inutile oltre che pericoloso ogni rapporto conflittuale delle istituzioni locali con le Sovrintendenze che, è bene sottolineare, costituiscono ed incarnano l’aspetto istituzionale e, quindi, ineliminabile del discorso storico-archeologico.
        Oebalus intravvede e nello stesso tempo scongiura il pericolo della creazione di un’archeologia caprese tendente a fare del patrimonio archeologico uno spazio di cura esclusiva o particolare delle Amministrazioni locali, sottostante alle regole e alle convenienze di queste ultime e valorizzato culturalmente da dilettanti ed esperti locali arruolati dalle Amministrazioni locali in sostituzione di ufficiali rappresentanti, di cui Oebalus invoca ed auspica una più frequente e massiccia presenza.
        La prospettiva culturalmente ed economicamente giusta di un turismo colto e non elitario rischia di arenarsi proprio nel momento in cui vari ambienti isolani, prediligendo scelte autarchiche, vagheggiano sempre più un’autocultura e, perché no, un’autoeconomia caprese.

Il Comitato di Redazione



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