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DOSSIER ARCHEOLOGIA
LE ANTICHITÀ PRODUTTIVE
Per una nuova visione del "bene archeologico"
Il patrimonio
archeologico di Capri va difeso, tutelato, valorizzato ed offerto al pubblico
per una corretta fruizione che sia prima di tutto crescita culturale ed
economica della comunità locale.
Tutto questo non è impossibile, ma rischia di diventarlo, se si
continua a pensare all’archeologia di Capri solo nei termini delle ville
romane (in gran parte, peraltro, ancora da ubicare) e se gli isolani continuano
a "mantenere il segreto" sui tanti, piccoli e meno piccoli, rinvenimenti
occasionali di cui hanno notizia, diretta o indiretta che sia.
Dal punto di vista dell’indagine
archeologica, quello che a Capri si deve ancora fare è molto di
più di quello che si è già fatto: se agli scavi degli
anni ’30 di A. Maiuri dobbiamo la conoscenza di complessi quali quelli
di Villa Jovis e di Damecuta,
si constata, peraltro, che da allora la ricerca non registra progressi
significativi.
Si può facilmente dare
la colpa di questo alla Sovrintendenza: sarebbe comodo, ma ingiusto, perché
non bisogna dimenticare che il lavoro degli ispettori archeologi che operano
sul territorio non consiste quasi mai in grandi imprese di scavo né
tantomeno in sensazionali scoperte, e che i magri bilanci annuali raramente
consentono di programmare qualcosa di diverso dagli "interventi di emergenza".
Il recente scavo della Sovrintendenza a Gasto
può essere un esempio: durante i lavori pubblici relativi all’impianto
del depuratore, la ruspa ha parzialmente distrutto le strutture romane
conservate poco al di sotto del piano di campagna; in seguito ad
una pronta segnalazione i lavori sono stati sospesi e si è intervenuti
con l’indagine archeologica. La località Gasto, peraltro, era stata
in passato più volte segnalata dagli studiosi per la presenza di
importanti ruderi.
Ma prima ancora dell’auspicabile
ripresa di una ricerca archeologica programmata, scandita da regolari
campagne di scavo, l’impegno più urgente consiste nel salvaguardare
quello che oggi è ancora visibile, nel custodire i segmenti di
storia antica sparsi per l’Isola e, soprattutto, nel vigilare affinché
nulla, per insignificante che possa sembrare, vada perduto.
Una corretta partenza credo
consista nell’inventario completo dell’esistente: se da un lato la Sovrintendenza
ha provveduto alla catalogazione di tutte le emergenze, dall’altro non
sempre gli isolani si sono dimostrati sensibili a cooperare in tal senso.
È purtroppo ancora diffuso, infatti, un atteggiamento non tanto
diverso da quello dei contadini capresi "poverissimi" delle pagine di
Gregorovius, che distruggevano i ruderi rinvenuti nei loro terreni per
paura di perdere quel poco che avevano. Ma, a differenza di quelli, chi
oggi nicchia su quello che sa, offende se stesso e la propria memoria
storica.
Perché l’operato dei
funzionari responsabili possa essere fruttuoso, oggi più che mai
c’è bisogno della partecipazione consapevole di tutti, di uno sforzo
intelligente che, recuperando le infinite microstorie, faccia luce sulla
storia insediativa del sito nel suo insieme. Il "bene culturale", sia
esso un vaso, un frammento di osso, un tratto di muro, non va isolato,
ma pazientemente registrato, per riconoscere il valore di relazione tra
i singoli episodi e quindi il significato di ciascuno all’interno di un
"sistema". Perché questo si possa realizzare, prima di tutto dobbiamo
rileggere quello che è stato scritto sull’archeologia di Capri
e smettere di contentarci delle solite introduzioni storiche che aprono
ogni nuova pubblicazione dedicata all’Isola: se le lettere di Hadrawa
sono lo specchio di un interesse antiquario tipicamente settecentesco,
se spesso anche gli autori dell’800 sono interessati soprattutto all’identificazione
delle famose dodici ville imperiali, gli scritti di Fabio Giordano, di
Secondo, di Feola, di Mangoni, fino a quelli della prima metà del
‘900 di Mingazzini, Alvino e Friedlaender, sono una miniera inesauribile
di dati e costituiscono l’insostituibile punto di partenza per una riflessione
sulla storia insediativa dell’Isola.
La schedatura bibliografica
non significa, naturalmente, la redazione di un elenco, ma la base per
la formulazione di un programma: ai testi scritti vanno poste domande
storiche precise, in quanto l’operazione non ha valore in sé, ma
deve servire a recuperare alla ricerca moderna una serie di dati che altrimenti
andrebbero perduti, a capire il significato di tanti altri "frammenti"
che oggi rischiano di restare muti e, quindi, ad indirizzare ogni nuova
indagine.
Ugualmente urgente è
la realizzazione del Museo, che deve connotarsi non solo come spazio espositivo
dei materiali provenienti da questa o quella parte dell’Isola, ma soprattutto
come luogo deputato allo studio ed alla conoscenza del territorio, sede
di servizi informativi, didattici ed editoriali, punto di partenza di
un itinerario culturale strutturato, polo centrale all’interno di un complessivo
"parco archeologico" che implica da un lato la tutela delle emergenze
e dall’altro la "produttività" degli stessi beni archeologici e
lo sviluppo del loro ruolo economico e sociale.
Adelia Pelosi
(Borsista post-dottorato del Dipartimento
di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico dell’Istituto Universitario
Orientale. Collaboratrice esterna della Sovrintendenza Archeologica di
Napoli e Caserta)
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