Campobase - Manifesto

Il manifesto di CAMPOB@SE

COMUNITA' CONTROSTATO

...l'avventura continua:

la Rivoluzione scende in campo!

Nel '95 Campobase segnò la rinascita di uno spirito e di una volontà di spingersi avanti, incominciare il grande viaggio, armati di nuovo di zaini, tende e volontà di scoprire nuovi mondi e di esplorare nuove terre.
La nostra Comunità ritrovò il gusto dell'avventura... e non era facile dopo Fiuggi, e in piena era di decostruzione e di totale fiacca movimentista a destra, trovare il vento in grado di farci uscire dalle secche in cui eravamo incagliati.
Cercammo le radici più prossime da cui succhiare nuova linfa.
Andammo a Castel Camponeschi, là dove 15 anni prima, pazzi, eretici, animi inquieti di ogni sorta, diedero vita ad uno dei momenti più alti della storia del movimentismo giovanile a destra.
Dopo l'Hobbit si ripartiva... da Gandalf a Nathan Never, passando per il triste presente impersonificato da Ambra.
L'obiettivo era ambizioso, da una simbologia tradizionale consolidata a un futuro che per il momento era solo un fumetto, per compiere la nostra rivoluzione conservatrice, per non eludere quella e sostituirla con l'altra, ma per affiancarla in un tutto organico, o che almeno avesse la pretesa di esserlo.
E ci riuscimmo, introducendo nuovi argomenti di dibattito, cercammo di risvegliare un mondo addormentato che rischiava di rinchiudersi in comportamenti antiquati fuori contesto come reazione al nulla cosmico che veniva prospettato quotidianamente.
E ben prima che altri ne parlassero, quando era già stato dichiarato finito dagli stessi creatori, parlammo di "mitomodernismo".
Poi ci fu Rieti, con il corollario traumatico per noi di una sconfitta congressuale e abbandoni e tradimenti e ...
E nel '97 la Comunità aveva bisogno di ritrovarsi con se stessa e di rimettere le idee a posto, ed era naturale nel clima di quel momento fermarsi un secondo, ripensare alla casa, e cercare rifugio nel "Noi", per rigenerare lo spirito, forse non più intatto; e giustamente ancora una volta le pretese non sono mai state quelle di fermarsi: abbiamo voluto impugnare insieme unendoli Excalibur e il cyber, per essere noi, cavalieri elettrici all'assalto del cielo, ... perché si svegli il Re dormiente nella caverna e l'albero secco ritorni a fiorire.
E così, come tre anni fa, come l'anno scorso, dobbiamo ancora dirci, con Nietzsche, che, "abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave. Ebbene navicella guardati innanzi!... Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà...", dunque dobbiamo ripartire, senza più pensare da dove il viaggio è incominciato, non è importante se ogni tanto ci siamo fermati a riposare, sono passati anni.

Ripartiamo oggi.

Comunicare col mondo

Non vi sono dubbi sul fatto che un individuo, una comunità naturale, un popolo possano relazionarsi col mondo solo se con l'interlocutore, chiunque esso sia, trovano una forma per comunicare.
Non stiamo ad indagare sul potere massmediale, né sul fatto se il media si sia sostituito al messaggio o su come siano cambiati i rapporti interpersonali e comunicativi con l'avvento delle nuove tecnologie, né riduciamo il tutto in termini minimalistici sulle nostre capacità di comunicare con le masse, perché non è questa la sede per farlo.
Però è certo che sul linguaggio qualcosa in positivo va pure detto.
E cominciamo col dire che in questa sede intenderemo per linguaggio non la forma. orale o scritta, con cui compiutamente si esprime un ceppo linguistico, ma la capacità di trasmettere sensazioni per tutti condivisibili, o almeno comprensibili e perciò potenzialmente condivise, senza che per questo si debba essere iniziati a qualche pratica esoterica.
E con questo intendiamo prescindere dalla lingua in quanto tale, considerando il vocabolario una parte e non il tutto dei mezzi e dei modi espressivi.
Un paio di esempi per spiegare il problema e chiarire ancora qualche dubbio che può essere rimasto dalle dissertazioni precedenti:

1) Se noi parliamo di Pensiero unico, e lo individuiamo (operazione concettualmente giustissima!) come nemico principale, ci scontriamo con il fatto che di Pensiero unico possiamo parlarne senza dover spiegare tutto daccapo e senza troppi rischi di equivoci, con un ristretto gruppo - generalmente gli addetti ai lavori, la classe dirigente del nostro movimento per intenderci; se già ne parliamo alla base del nostro movimento, dobbiamo spesso fornire gli elementi minimi per comprendere ciò di cui stiamo trattando e utilizzare tutta una serie di preliminari per chiarire anticipatamente dubbi ed equivoci; se ne parliamo con il ragazzino medio che frequenta una scuola di provincia, invece, ci guarderà con la faccia un po' stavolta e penserà di essere finito in una gabbia di matti; il disoccupato napoletano invece ci spaccherà la testa perché convinto che lo stiamo prendendo per il culo, perché il suo vero problema, contingente, che gli tocca testa e stomaco, che gli brucia nelle viscere, per lui è e resta il problema del non-lavoro, a poco vale il tentativo di spiegargli che probabilmente senza l'esistenza della società mercantile del pensiero unico e senza le sue logiche aberranti il suo destino di disoccupato sarebbe stato diverso.

2) l'esempio più classico: una serena e disincantata critica alla democrazia, tipica per chi è cresciuto in quest'ambiente, per noi significa una critica spietata a tutto ciò che dalla Rivoluzione francese in poi si è prodotto in termini degenerativi; per qualche sprovveduto che ci gira intorno potrà invece significare l'apologia dell'autoritarismo e del totalitarismo (che sia ben chiaro non ci appartengono!); per chi non ci conosce e con noi non è cresciuto significherà invece la nostra volontà di sopprimere la libertà di espressione. E ricomincerebbero le solite cacce alle streghe...

Sono, questi, esempi significativi del modo con cui occorre relazionarsi con diversi soggetti e questo ci introduce necessariamente nell'intricato terreno della raffigurazione estetica della nostra comunità e del linguaggio con cui essa si deve esprimere.
A nulla servirebbe, siamo chiari, invocare esorcismi o prendersela col popolo bove o l'adolescente ignorante: il primo obiettivo che una comunità politica con volontà egemoniche si deve porre davanti, è quello di aumentare la propria capacità relazionale, "assoldare" interlocutori e non spaventarli con fraintendimenti che, scava scava, sono puri fraintendimenti linguistici.

E la guerra di oggi, insegnano in tanti, si gioca anche e soprattutto sul linguaggio.

Da qui si parte.
A cominciare da Campobase, serenamente, senza allarmismi, senza timori, senza forzature.
Per non finire nelle recriminazioni dell'esercito tedesco nella Grande Guerra: "Il nemico ci ha sconfitto sul fronte della propaganda a mezzo dei volantini. Ci siamo resi conto che, in questa lotta per la vita o la morte, era necessario utilizzare gli stessi metodi del nemico. Ma noi non ne siamo stati capaci [...]. Il nemico ci ha vinto non in corpo a corpo sul campo di battaglia, baionetta contro baionetta. No! Pessimi testi su fogli malamente stampati hanno fatto venir meno il nostro braccio".

Vogliamo che il campo per noi sia una festa nel senso più tradizionale del termine?
Vogliamo inoltre che esso serva a mantenere unita su valori condivisi la nostra comunità?
Vogliamo che dia una spinta propulsiva, creativa, fecondatrice alla nostra comunità, che è anche movimento politico?
Vogliamo che la nostra festa sia anche veicolo di trasmissione di messaggi verso l'esterno, e verso l'ambiente a noi più prossimo e in termini massmediali appetibili?

Dalla risposta combinata a queste domande, che dovrebbe essere "Sì" per tutte - altrimenti si decida di cambiare mestiere - ci viene ovvia allora la necessità di modellare, e non, sia ben chiaro, moderare, il nostro linguaggio e la nostra estetica, perché essi divengano per tutti comprensibili e per tutti veicolo di comunicazione e interrelazione.
Sembra banale, ma senza aver alcun bisogno di sopprimere simboli che ci appartengono basterebbe adattarli alla comprensione per tutti. Non basterebbe ad esempio che la celtica non fosse cristallizzata nei tre colori usurati bianco-rosso-nero, ma esprimesse quell'esplosione di colori futurista a cui spesso ci siamo voluti richiamare, per evitare che qualche giornalista imbecille e qualche moderato stronzo ci scambino e additino come naziskin (e pure mascherati)?
E sarebbe tanto grave da essere un tabù infranto o forse sarebbe proprio questo il primo atto creativo di chi ama la trasgressione e non l'ortodossia? Riteniamo che sia così sciocca e impreparata la nostra comunità?

Lasciamo spazio libero alle riflessioni, ma discutiamone.

Ernst Jünger: "La parola Tradizione ha per noi assunto un nuovo significato, noi in essa non vediamo più la forma compiuta, bensì lo spirito vitale ed eterno della cui formazione ogni generazione risponde soltanto a se stessa".
Berto Ricci: "Quelli che fanno dipender tutto dalla tradizione ignorano o dimenticano che la tradizione italiana è cattolica ed eretica, monarchica e repubblicana, si chiama San Benedetto e Giordano Bruno, Emanuele Filiberto e Michele di Lando, Pisacane e Cavour; che non si può accettarla a mezzo cancellando metà volume della nostra storia. Necessario dunque ammetterla totalmente; o convincersi che dobbiamo creare una tradizione nuova.".

"La sensazione diffusa ed epidermica che la vita politica attraversi un punto di svolta ha dato luogo, nell'ultimo periodo, ad una serie di prese di posizione, nell'area non conformista, oscillante tra la preoccupata difesa di un'identità minacciata (spesso degenerata nella sclerosi nostalgica, del fascismo, dei mitici anni '70, del MSI) ed una volontà aperturista (altrettanto spesso degradata a superficiale trasformismo ed affrettata liquidazione, in una babele di abiure e modernizzazioni a modernità finita, spesso fatte senza ripensare a fondo e criticamente il proprio passato).
Non esiste un'identità astratta, estranea alle convulsioni politiche della più profonda attualità.
Un'identità politica è anche costituita dall'insieme delle relazioni che in un'infinità di sfumature si hanno col mondo esterno, e viceversa è altrettanto evidente che un'impronta originaria, un ben determinato stile, rimane elemento irrinunciabile per l'accettabilità di qualsiasi nuova sintesi con altre e diverse esperienze."
(pezzo liberamente tratto e adattato da Le Radici e il Progetto)

Queste considerazioni, che abbiamo semplicemente ripreso, possono valere per affrontare tutti i discorsi che vogliamo sviluppare a Campobase e che dovranno poi creare la mobilitazione della nostra area politica giovanile.
Da parte nostra dobbiamo necessariamente porci nella condizione di chi vuole traghettare il proprio patrimonio storico, culturale e ideale, che è preesistente rispetto all'epoca appena passata e ad altre precedenti - e che certamente qualche scatto isterico non potrà spazzare via - nella situazione totalmente nuova che stiamo attraversando e che si va compiendo e realizzando, e questo perché in caso contrario o finirà inevitabilmente nell'oblio oppure non sarà in grado di essere trascinante e coinvolgente.
Spogliarci del superfluo (e con questo termine si vuole indicare quanto 20 anni di elaborazione politica, metapolitica, culturale, dell'area non conformista sono riusciti a definire tale: è una parte fondamentale e irrinunciabile del nostro percorso personale e comunitario) significa affrontare il viaggio con una maggiore capacità combattiva, con un minor peso sulle spalle che ci consenta quella leggerezza (Zarathustra per danzare non ha bisogno di pesi addosso, se ne libera!) e quell'agilità necessaria ad affrontare imprevisti e situazioni radicalmente differenti rispetto a quelle per cui alla sostanza del nostro retaggio si era data una forma ben precisa, attualizzata nei tempi e nei luoghi in cui si svolgeva.
Non è, non vuole esserlo, non lo dovrà mai essere, un balzo in avanti tipico del cedimento a logiche progressiste quello che dobbiamo fare.
Ma un salto di qualità e di livello, questo sì, consapevoli tanto che non possiamo lasciare ad altri questo compito o l'illusione di compierlo, perché in tal caso assisteremmo alla costruzione di un'identità "altra" rispetto alla nostra, e desiderosi altrettanto di non compiere un percorso per pochi (che a quel punto potremmo chiamare un po' prosaicamente depoliticizzazione), ma essere invece in grado di trasportare con noi una base militante sempre più consapevole del proprio ruolo, della propria funzione, del proprio compito rivoluzionario e inoltre destinando la stessa cura e attenzione nei confronti del nostro popolo, sul presupposto classico e tradizionale (e che fu proprio delle migliori aspirazioni rivoluzionarie di inizio secolo) che una rivoluzione nazionalpopolare si realizza con il trasferimento e la socializzazione di valori aristocratici (propri di élite ristrette, minoranze attive) nella massa, che diventa, "si fa" popolo.

Per l'ennesima volta facciamo ricorso a Nietzsche: "Il nostro tempo fa l'impressione di una situazione provvisoria, le vecchie concezioni del mondo, le vecchie culture sono ancora in parte esistenti; le nuove non ancora sicure e abituali, quindi senza compattezza e coerenza. Sembra che tutto diventi caotico, che il vecchio vada perduto e che il nuovo non abbia alcun valore e diventi sempre più debole. Noi barcolliamo, ma è necessario non spaventarsene e non abbandonare le nuove conquiste. Inoltre non possiamo tornare al vecchio, abbiamo bruciato le navi, non resta che essere valorosi, quale che sia l'esito. Solo muoviamoci, solo, usciamo dall'immobilità".

Non dobbiamo attribuire a questa frase un senso politico diretto poiché coinvolge altri e più profondi piani dell'essere, ma non possiamo, finché crediamo che la politica sia, o debba diventare nuovamente, altro rispetto alla pura e semplice amministrazione, ordinaria e contingente, della res publica, altro rispetto al nichilismo, ma un plus che coinvolga i valori e le aspirazioni più alte dell'uomo, escludere che debba necessariamente esserci di profondo insegnamento.
Riprendendo una delle intuizioni di Campobase '95 ricordiamoci che allora introducemmo, discutendo di fantasy, la letteratura cyber, non perché essa dovesse sostituirsi - non potrebbe e non sarebbe giusto - alla più classica trilogia del tolkieniano Signore degli Anelli, ma perché, affiancandosi ad essa, che stigmatizza luoghi totalmente fantasiosi e atemporali, non reali e nemmeno appartenenti al passato, completava il bisogno di relazionarsi col nostro tempo, permettendo un'applicazione di significati e simbologie mitiche - su tutte il guerriero - in un luogo e in un tempo prossimi a venire, in parte già realizzati, favorendo così la divulgazione di quell'attualità del mito che la cultura razionalista tende inesorabilmente a cancellare.
Ci fu facile in quel contesto trovare immediata relazione tra il cyber - che immagina una società del futuro, dove non esistono Stati-nazione e le multinazionali e le mafie lottano per il controllo economico-politico-commerciale del pianeta, dove il divario sociale è terribilmente maggiore rispetto alle peggiori realizzazioni del liberismo odierno - e quel processo di globalizzazione planetaria che si sta realizzando, dove agli Stati è lasciato sempre meno il potere di controllo e di decisione, spossessati della piena sovranità dalla delega alla sovranità economica lasciata ad altri organismi internazionali. Avevamo proposto all'attenzione di tutti immagini del prossimo futuro di un "pianeta di naufraghi", per riprendere la formula delle eccezionali analisi di Serge Latouche sull'argomento.
Ed era chiaro allora come oggi il tentativo di trovare immagini in grado di spiegare gli avvenimenti politici, e proprio traducendole in termini politici, capaci di evocare il senso della battaglia globale.
Probabilmente peccammo di ingenuità, non colpevole, illudendoci che quello fosse sufficiente ad affermare "l'attualità del mito nell'istante del richiamo alla guerra".

Gioventù e cultura antagonista

"Per anni e anni hanno invaso le piazze, occupato fabbriche e aule universitarie, riempito di sé le pagine dei giornali, tenuto occupati sociologi e sindacalisti, turbato i sonni dei politici: ma ora, dove sono finiti i giovani?", questo si chiede Gianni Borgna, nel suo libro "Il mito della giovinezza".

Facciamoci aiutare da qualche riflessione:
"Qual è il progetto culturale che ci aiuta ad apprendere, con il pensiero, il nostro tempo?
E' possibile riconvertire le nostre radici nel nostro tempo, riportare il nostro tempo alle nostre radici?
E' possibile davanti allo stacco generazionale, alle scissioni di mentalità in atto, far sì che il tempo che viviamo, il tempo del post-moderno, possa recepire radici e modelli antichi?
Non si rischia, non rispondendo, di non comprenderci più, di non intenderci più, di parlare lingue morte?" (Beppe Niccolai)

"(L')affermarsi, come figura dominante dell'adulto efficiente e manageriale... si accompagna ad un ben più rilevante "tramonto dell'egemonia giovanile" vale a dire ad una sensibile diminuzione dei comportamenti dei giovani su quelli della società globalmente considerata.
(Aggiungiamo) un dato oggettivo: da un lato la curva demografica, con il suo prospettare una società di vecchi; dall'altro il senso comune che si va generalizzando come sensazione di vivere in una società impotente di fronte ai propri problemi, priva di fantasia e di creatività, estenuata da una cultura della mediazione e dell'analisi che ha dissipato le ultime riserve energetiche senza pervenire, sul piano etico, politico o almeno tecnico e amministrativo, a nessuna nuova sintesi...(ha fatto sì che) la fine della giovinezza sia dovuta ad un clima di smobilitazione interiore in cui trova la sua ragion d'essere la società razionalista con la sua logica quantitativa e lineare che esclude, per definizione, ogni appello alle risorse spirituali e ogni considerazione sul "come" e sul "quale".
(Peppe Nanni)

Queste considerazioni combinate ci devono far riflettere sulle necessità che ha oggi una comunità militante che vuole continuare ad esprimersi in termini di contestazione globale e cultura antagonista.
Se guardiamo bene al fondo dei nostri problemi scorgiamo sicuramente:

a) che la serie di "strappi" vissuti in questi anni non sono stati metabolizzati a fondo, ma si è invece diffusa tra la base la sensazione che i cambiamenti (in questo caso, purtroppo) subiti fossero semplicemente ulteriori cedimenti ad un processo di incremento del moderatismo (peraltro proprio tipizzato a ben vedere dalla storia della maggioranza del MSI), e che ha contribuito ad idealizzare un passato missino, puro e scevro da logiche moderate, e un presente invece avvinto da logiche politiche mercantili (e ciò è almeno in parte falso);

b) che non si è ben compreso il ruolo, pragmatico, realista e davvero significativo, che deve avere la nostra presenza nel nuovo quadro politico;

c) che a questo ruolo, in termini giovanili non si è riusciti a dare uno sfogo e una realizzazione, e che ciò ha prodotto lo sconforto di fronte a egemonie dichiarate e mai provate nel quotidiano, contestazioni annunciate e nemmeno abbozzate;

d) che si è perso il filo conduttore di ogni battaglia politica, lasciando così diffondersi una sensazione di "politica tutta elettoralistica" che avrebbe ucciso ogni sogno e sforzo rivoluzionario, e che tutto ciò che da anni definiamo "metapolitica" sia strato conseguentemente lasciato fuori dalla porta.

Cerchiamo di individuare delle risposte:

1) quando si parla di soggetto giovanile, si tende ad immaginarlo sempre con una caratterizzazione immediatamente politica, e questo lungo tutto l'arco del novecento, a partire dalle Avanguardie giovanili del Fascismo sino ad arrivare al '68 e al '77, espressa sempre in termini antagonisti e istintivamente all'opposizione.
Sappiamo bene però che intendere una categoria della gioventù solo ed esclusivamente in termini politici significa consegnare inesorabilmente la stessa alla sfera biopsichica, per la quale l'uscita dallo status anagrafico di giovane coinciderebbe inevitabilmente con l'abbandono di pulsioni e fermenti antagonisti;

2) una concezione come questa prevederebbe perciò l'impossibilità di costruire, rispetto alla società mercantile e all'ideologia liberaldemocratica, nuove "forme del politico" costantemente antagoniste e in grado di influenzare non solo comportamenti, abitudini del mondo giovanile, ma soprattutto di contaminare in modo sottile e in un arco di tempo più lungo l'intera società, compreso il mondo adulto;

3) sappiamo bene che ciò non è vero, che il '68 ad esempio ha avuto notevole influenza negli anni successivi su svariati comportamenti personali e sociali, che il giovanilismo ha profondamente caratterizzato tutto il vitalismo eroico dell'epoca fascista, che un fenomeno come quello dei Wandervögel, dei raduni sul Monte Meissner che coinvolsero gran parte della Gioventù tedesca, ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo della rivoluzione conservatrice, incidendo non poco sui costumi e i sentimenti della Germania degli Anni '20 e '30;

4) per fare questo è però necessario definire oggi la categoria metapolitica di movimento giovanile come spazio costantemente antagonista rispetto alla società mercantile (o società del pensiero unico, in termini più culturali) senza per questo rinunciare però, in alcun modo, al ruolo politico di opposizione alle concrete rappresentazioni della stessa;

5) ciò significa, in buona sostanza, che il movimentismo giovanile va inteso come spazio in cui si sfogano e crescono le energie giovanili, lontane da ogni pensiero lineare, che si preparano in tal modo all'altezza di sfide sempre più complesse e insidiose, e dotato di una sorta di "mistica della giovinezza" vicina a quella dell' "estetismo" degli anni '30, in grado di rendere i giovani protagonisti del cambiamento, senza farsi condizionare dalle ideologie e dalle usanze, che pure possono costituire una memoria storica, ma non devono schiacciare ogni tentativo di nuova sintesi, né soprattutto impedire, con richiami bucolici, l' "atto creativo", l'eros della politica.

Inoltre, uno degli ultimi scogli su cui si è incagliato il nostro ambiente nel corso degli anni rimane, comunque, il rapporto con tutto ciò che nel linguaggio comune va sotto il nome di "creatività". Cioè l'espressione artistica in tutte le sue forme, il calarsi nell'epoca che si vive non solo attraverso gli strumenti della politica, ma anche attraverso la sperimentazione di strumenti metapolitici che vadano a costituire un approccio non ortodosso al contemporaneo. Ogni generazione giovanile, nei grandi momenti di "scatto" verso nuove e poche, durante i grandi appuntamenti rivoluzionari con la storia, ha sempre posseduto i suoi cantori: chi ha saputo tradurre in musica, versi o immagini le contraddizioni o le nuove coordinate di ciò che era e stava per essere.
Subito dopo la Prima guerra mondiale furono gli "esteti armati", "coloro che non volevano crescere", a cantare l'ansia di una "nuova purificazione" che potesse cancellare le colpe e colpire l'immobilismo dei padri, a guidare anche esteticamente le grandi rivoluzioni di quell'epoca. Rivoluzioni che, senza alcuni giganti creativi, con molta probabilità, avrebbero perso gran parte della loro capacità "radioattiva".
E nonostante questo ancora oggi noi, che aspiriamo a rappresentare una cultura completa – e non semplicemente una subcultura immobile davanti alla politica istituzionale – non siamo stati capaci di dotarci di una vera e propria espressività artistica a trecentosessanta gradi.
Qualcosa però, anche tra le mille difficoltà di un ambiente spesso asfittico per tutto ciò che non sia strettamente ortodosso rispetto alle tradizionali attività militanti, s sta muovendo: non nascono solo le solite trite e ritrite associazioni culturali, ma spontaneamente alcune energie sparse sul territorio s stanno incontrando, e nascono così nuovi gruppi musicali, compagnie teatrali, diversi e nuovi approcci al mondo della pittura o della fotografia, e così via.
E allora, anche in questo settore – così importante per contrastare i disegni di potenza di una sinistra lasciata felicemente sola a gestire l'immaginario giovanile – dobbiamo concentrare gli sforzi organizzativi per costituire una specie di "osservatorio sulla creatività" che si muova a destra, in maniera intelligente, costringendo anche chi a orecchie da mercante nei confronti di cose troppo spesso ritenute superflue a fare i conti con una realtà viva. E visionaria.

E tutti questi richiami servono per far capire come il ruolo unico, autenticamente vero, che noi possiamo e dobbiamo caricarci sulle spalle, non si può esaurire semplicemente nel recitare la parte dei "guardiani notturni" di un tesoro, imponente ma infruttuoso.
La difesa dell'immobile lasciamola a chi preferisce appassire in retroguardia.
Essere presenti in ogni luogo in cui si combatte la guerra per l'egemonia: ecco la nostra collocazione naturale. E se questo passa per una sperimentazione continua, per il pericolo e il fascino della contaminazione, se tutto questo significa azzardare ciò che altri nemmeno potrebbero sognare...
Prendiamo per buono ciò che dice Piero Visani: "La comunità... non è per noi forma di aggregazione statica ed immutabile, vagheggiamento sentimentale, nostalgia di un tempo perduto e che sta a noi far ritornare.
Ma la comunità, per noi, si qualifica soprattutto in termini culturali: essa significa allora comune appartenenza ad un universo di valori, ad un'eredità, ad un progetto, e l'accettazione delle tradizioni, delle appartenenze e delle identità collettive ha un significato solo se si tende a continuarle o , meglio a rifondarle nuovamente e in senso dinamico in ogni fase dell'eterno divenire storico.
Questa comunità è perciò una comunità politica ad aggregazione volontaria ed ha senso soltanto se si inserisce da protagonista, da soggetto politico, nella dinamica del divenire storico.
(...)In quest'ottica - nell'ottica heideggeriana per cui "l'essere in sé non è, ma diviene" - è possibile addirittura creare nuove tradizioni, poiché non si tratta di restaurare ciò che è di ieri, ma di dare forma compiuta a ciò che è di sempre".

Su questa base allora il nostro sforzo - e ci si può in questo caso riferire alla ridefinizione estetica dell'area non conformista - deve essere quello che fu proprio del futurismo (si pensi al clima di vita-festa che si respirava nella Fiume dell'impresa Legionaria tra manifestazioni, comizi, baldorie, brindisi, discorsi e il generale sovvertimento di ogni regola borghese) e delle avanguardie giovanili degli anni '20 e '30, le quali non si fermarono a sognare l'improbabile ritorno della Grande Germania dell'era guglielmina, ma, all'atteggiamento classico dei conservatori, al Kulturpessimisten e al suo realismo eroico in epoca ritenuta di decadenza irreversibile, contrapposero la "Bejahung", l'accettazione gioiosa e con spirito faustiano delle sfide epocali (Il 2° raduno dei Wandervögel sul Monte Meissner nel 1919, ebbe il suo momento culminante (e magico) nel rito del canto corale dell' "Inno alla Gioia" di Beethoven con testo di Schiller, e non nella rievocazione di canti di una guerra appena persa e che essi avevano in larghissima parte combattuto da protagonisti eroici, in questo riprendendo proprio la funzione sacrale della festa e del rito, nella liturgia del quale il mito si invera).
La consapevolezza della Tragicità dell'esistenza deve indurre per forza ad uno sforzo di superamento di se stessi e di accettazione delle sfide, altrimenti si ricade nel conservatorismo piccolo borghese di valori, che saranno senza dubbio più alti e nobili di quelli comunemente diffusi, ma che si trasformerebbero in semplici "miti incapacitanti", privi per ciò stesso della carica evocativa del mito, e quindi in quanto tali non più miti, ma semplici parvenze degli stessi, "ombre", rimpianti confinati nei ricordi dell'ultimo testimone.

"Noi che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci a volta a volta, aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo i relativisti per eccellenza e la nostra azione si richiama direttamente ai più attuali movimenti dello spirito europeo"
(Benito Mussolini)

E facciamo allora uno sforzo per attualizzare la nostra identità, compiere la nostra rivoluzione conservatrice, per rendere di nuovo "vero", "esistente", il mito, e trasferire le nostre considerazioni nel campo politico, il cui presupposto è proprio la relazione schmittiana amico-nemico. Individuare quindi non solo il nemico principale, ma anche evidentemente l'amico.

Siamo in epoca di globalizzazione, con una profonda modificazione tanto dei rapporti tra i popoli, quanto degli assetti finora conosciuti.

Europa, sovranità popolare, democrazia

Non è negabile che, con tutte le critiche che possiamo e dobbiamo fare al modo con cui si è compiuto il processo di integrazione europea, e su chi lo controlla e se ne è servito, questo si rappresenti come un fondamentale punto di svolta nella storia del mondo, in un epoca in cui i popoli perdono la propria sovranità politica, e gli Stati, rinunciando alla sovranità economica, abdicano dal ruolo di "soggetti politici", rimanendo soltanto noiose espressioni burocratico-amministrative e più odiose forme poliziesche di controllo dei corpi e delle menti, dell'anima e dello spirito.
Trattando in particolare del processo di unificazione monetaria europea, deve seguire come logica conseguenza la battaglia politica per la riappropriazione della piena sovranità popolare (democrazia, almeno nel senso classico greco del termine, e probabilmente nell'opinione comune), sulla base dell'assunto per il quale ad una sovranità limitata corrisponde un deficit di democrazia.
Di fronte ad un fatto epocale di tale portata, e sulla base di ciò che Nietzsche ci può suggerire (Sembra che tutto diventi caotico, che il vecchio vada perduto e che il nuovo non abbia alcun valore e diventi sempre più debole) sarebbe un errore metodologico immenso voler semplicemente rappresentare chi si pone impaurito come freno a dei processi che sono ineluttabili, non modificabili, quando più probabilmente il nostro compito deve essere quello di inserirci nel processo di modificazione in atto e cercare di indirizzarlo, consapevoli che è in questo nuovo contesto che si deve svolgere il nostro ruolo di - per ora? - minoranza attiva (non possiamo tornare al vecchio, abbiamo bruciato le navi, non resta che essere valorosi, quale che sia l'esito...).

Lo Stato e l'alternativa comunitaria

Chiarendo - se mai ce ne fosse bisogno! - che non stiamo mettendo in discussione il valore dell'identità nazionale, a ciò si può aggiungere che lo Stato-nazione per come lo stiamo conoscendo è una realizzazione storica, che proviene proprio da quel nucleo di principi contro i quali la nostra tradizione ci insegna a scagliarci: il processo di "costruzione dello stato" registra la sua tappa forse più significativa nel 1789, nella Rivoluzione francese giacobina, nemica di ogni identità territoriale e di ogni specificità al di sotto della "macchina" statale. Lo Stato, salvo la parentesi fascista in Italia dove ben altre tentazioni e tendenze si mossero in termini di teoria e pratica politica, si è presentato dapprima come realizzazione del liberalismo autoritario ottocentesco e poi come luogo nel quale si realizzavano e tuttora si realizzano i compromessi e le mediazioni tra i diversi attori sociali.
Approfondendo un po' questo ragionamento, la realizzazione storica dello stato sociale nell'Italia del dopoguerra è stata inizialmente quella del modello cosiddetto istituzionale di Stato sociale, che si caratterizza per una progressiva deresponsabilizzazione dell'individuo, per l'attesa di risposta statuale ad ogni bisogno inevaso o non soddisfatto, per la cosiddetta distribuzione a pioggia (universalistica) degli interventi statali. Successivamente, ed è ciò che si va realizzando oggi, in seguito alla crisi del modello universalistico istituzionale la discussione sul futuro dello Stato sociale si dibatte tra la revisione del modello residuale di Welfare State (e in diverse sfumature) preconizzato da Lord Beveridge ("si lasciano allo Stato quei compiti che lo Stato soltanto è in grado di svolgere o che esso è in condizione di svolgere assai meglio rispetto ad ogni altro ente locale o rispetto a singoli o associati privati cittadini, per lasciare invece a queste altre agenzie ciò che esse volendo sono in grado di svolgere altrettanto bene o meglio dello Stato stesso"), revisione necessaria perché è ormai diffusa la consapevolezza della falsità del principio di sviluppo illimitato sul quale il modello residuale si basava, e la ristrutturazione invece del modello istituzionale realizzato in Italia verso una "infrastruttura di servizi universalistici minima per tutti sulla base della quale discriminare poi positivamente e selettivamente i più bisognosi".
In questo dibattito poi si inseriscono pesantemente influenzando tutte le parti in causa le teorizzazioni degli iperliberisti e le tendenze neothatcheriane in politica economica, tutte auspicanti trasformazioni in senso neoliberale dello Stato, vale a dire il ritorno alla libera dialettica Stato/mercato, dove sotto il pieno (?) controllo della macchina statale rimarrebbero solo la giustizia, la difesa e l'ordine pubblico... ovvero un apparato esclusivamente repressivo, spogliato invece di ogni capacità di progettualità, "delegata" ad altri soggetti istituzionali ed economici "più grandi", come le banche e gli organi centrali della Ue.
E lo Scontro appare suddivisibile non senza operare una certa forzatura tra due visioni differenti rappresentate da un lato dalla coalizione Ulivista (che vuole uno Stato sociale di ispirazione liberalsocialista e matrice socialdemocratica), con tentazioni cosiddette neocorporative(è il termine che scientificamente le definisce e non c'entra nulla con il corporativismo e la teoria dei corpi intermedi!) e dall'altro lato dal Polo (con il suo modello liberale di Stato sociale residuale: lo Stato agisce solo dove il mercato fallisce), in cui prevale la tentazione liberal-liberista.
La tendenza ulivista all'autoritarismo burocratico per realizzarsi prevede sia che "la coalizione governativa contenga al suo interno, in posizione egemonica o comunque centrale, un partito socialista o comunista con connessioni strette e organiche con il sindacato più potente e rappresentativo" e inoltre che "tanto i partiti di governo quanto i sindacati siano organizzazioni molto burocratiche, (ciò) aumenta la probabilità di assicurare tanto la centralizzazione delle decisioni quanto l'accettazione, da parte dei rappresentati, delle decisioni dei rappresentanti"(A. Panebianco, Tendenze carismatiche nelle società contemporanee)
Per ciò che concerne invece la tendenza neoliberale esiste un punto d'arresto, probabilmente invalicabile, che consisterebbe nel necessario avvio di un processo che, una volta ultimato, porterebbe alla decostruzione non solo delle strutture statuali ma anche di ogni legame comunitario di solidarietà sociale.


"Alla fine del ventesimo secolo le implicazioni di questa situazione sono fin troppo ovvie. Lo sgretolamento delle tradizioni e la disintegrazione delle comunità stanno, alla fine, facendo pagare il loro prezzo. Quello che i marxisti occidentali chiamavano "alienazione", il nichilismo diffuso, si è rivelato ben poco legato allo sfruttamento economico o al plusvalore, quanto piuttosto è il risultato della frammentazione delle comunità, dell'atomizzazione sociale e della degradazione delle persone al livello di astratti individui manipolabili. (...) Oggi la voglia di comunità è tanto intensa che le sue varie manifestazioni (la popolarità dei culti, il diffuso bisogno di appartenenza, eccetera) non solo tendono a prendere forme strane, ma comportano una ricerca di identità che minaccia la natura stessa del liberalismo moderno"
(Paul Piccone)

E in questo quadro alcune cose sono certe:

1) che il progetto ulivista non può soddisfare pienamente la pretesa armonia sociale poiché sempre maggiori sono le categorie che sfuggono al controllo burocratico dell'apparato politico sindacale (i disoccupati non sono ad esempio rappresentati da nessuno, tantomeno dai sindacati tradizionali)

2) che le ipotesi liberal-liberiste cozzano con la realtà di una nazione in cui esistono vere e proprie zone sottosviluppate, in cui stanno emergendo sempre più nuovi e pericolosi segnali dell'aumento della povertà e del degrado sociale, per cui una deregulation anglosassone trasformerebbe la nostra terra in jungla, la qual cosa determinerebbe in primo luogo la perdita di potere politico di chi ha inteso laissez faire

3) che lo Stato sociale, di matrice tutta socialdemocratica, ha dimostrato i limiti che gli sono propri e non è più in grado di dare risposte, né ai vecchi né ai nuovi bisogni sociali.

Una provocazione: quale può essere il nostro ruolo in tutto questo scenario di trasformazione e confusione?
Senza pretese di assolutezza e verità, discutiamone...

"Fu la civiltà borghese a divinificare la morale. E alla fine questa spuria divinità doveva essere messa al vertice dello Stato... ciò che ne deriva è il falso autoritarismo e la forma più odiosa di totalitarismo.
Il totalitarismo in veste di Stato etico lo si può paragonare al pedagogo con la frusta in mano che si immischia dappertutto, persuaso di avere non solo il diritto, ma anche il dovere di "educare" e "perfezionare" gli individui trattandoli come bambini, senza alcun rispetto per l'altrui libertà e personalità.
E' l'ideale politico di un preside di liceo con velleità paternalistico-dittatoriali o un sergente istruttore.
E' lo Stato che si può ben chiamare "seccatore", perché non conosce limiti per una petulante ingerenza del pubblico nel privato, per un insopportabile controllo virtuistico e riformistico, ove ha anche parte essenziale la fisima che il popolo possa divenire diverso da quello che è sempre stato e che, fondamentalmente, esso sempre sarà.
Su tale piano, aspetti non simpatici che (bisogna riconoscerlo) furono propri allo stesso fascismo e che la teoria gentiliana in discorso sanzionò, s'incontrano con quelli che, mutatis mutandis, si ripresentano nell'attuale regime di dittatura moralizzante demo-cristiana"
"...non possiamo e non dobbiamo nasconderci che l'idealismo gentiliano non ha nulla a che vedere con la nostra dottrina, legato com'è al "mondo" del pensiero liberaldemocratico."
(Julius Evola, Giugno - Luglio 1955)

Si possono imputare gravi errori a questa interpretazione di Evola?

E se anche si volesse tentare di farlo, siamo certi che, nell'attuale fase storica, proprio chi si batte contro la società del pensiero unico liberale, debba porsi tra le fila di chi difende ad oltranza la centralità dello Stato in ogni decisione, politica, economica e sociale?

Non è forse degno di uno sforzo rivoluzionario il tentativo di immaginare la sostituzione del soggetto Stato con nuove ipotesi comunitarie, la Comunità al posto dello Stato o, se si preferisce ragionare in termini più moderati, affianco allo Stato, per mitigarne le degenerazioni statolatriche, burocratico-amministrivative e pervadenti, o quelle ancor più perniciose sulla strada della rinuncia al proprio ruolo e della delega al mercato che lo Stato come soggetto politico sembra sempre più destinato a seguire?

Nel 1963 Carl Schmitt, che era tutto tranne che un liberale, scrisse "l'epoca della Statualità sta ormai giungendo alla fine... Con essa vien meno l'intera sovrastruttura di concetti relativi allo Stato, innalzata da una scienza del diritto dello Stato e internazionale eurocentrica, nel corso di un lavoro concettuale durato quattro secoli. Lo Stato come modello dell'unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè il monopolio della decisione politica, ...sta per essere detronizzato" (C. Schmitt, Il concetto di "politico").

Schmitt annuncia la fine dello Stato, consapevole che lo stesso, nella sua pluralità di forme, è la forma politica compiuta di una modernità che va esaurendo le sue spinte propulsive, e che sta morendo portando con sé le sue creature bastarde, il liberalismo e la socialdemocrazia.
Cosa c'è dopo lo Stato, che cosa contrapporre al cosmopolitismo imperante, alla società mercantile, all'individualismo assoluto? Come si realizzerà il post-moderno, epoca che, l'abbiamo già detto, si può per il momento solo qualificare per un post rispetto ad altro che va scomparendo? Sarà il consolidamento del nichilismo dell'età moderna o potrà essere la ricostruzione di un patrimonio di valori condivisi?
Si può tentare di giocare la carta comunitaria, l'etica del dono, l'anti-utilitarismo, per caratterizzare il nostro ruolo metapolitico e cercare di dare "forma" alla civiltà che nascerà con la fine della modernità ormai decadente?
E non è forse lo Stato (o meglio gli Stati?) oggi, la levatrice di quel processo di sradicamento, di indifferenziata antipoliticità e di totale supremazia dell'economicismo che accompagna il ben più complesso fenomeno della "globalizzazione"?
E non è proprio nello Stato che oggi si nega quello che è l'atto fondante di ogni scelta politica, cioè la "decisione"?
Non è il caso di esagerare con la fantapolitica visionaria, ma forse stiamo assistendo ad un cambiamento epocale in cui del "nomos" che era alla base delle società statuali rimarranno solo gli atteggiamenti più fastidiosamente polizieschi e burocratici: per garantire order and law, tanto cari al conservatorismo, all'interno delle entità amministrative; e sul piano del diritto internazionale, assicurare un mondo pacificato da un gendarme planetario proprio per garantire il dominio degli interessi economici su tutto il globo terrestre.

In questo contesto si evince come realmente il rigetto culturale del Pensiero unico, e la sostituzione di questo con un Pensiero plurale, che contrappone specificità e differenze all'egualitarismo indistinto e al nichilismo trionfante, abbia come sua traduzione politica la lotta ai monopoli, la contrapposizione a quel calderone di interessi economico-finanziari che stanno imprimendo direzione ai cambiamenti politici con la fine della modernità, a quell'insieme di soggetti istituzionali, burocratici ed economici che cercano in ogni modo di relegare la politica alla pura e semplice ordinaria amministrazione.

Tra questi, lo Stato, che come abbiamo visto ha abdicato dall'essere "soggetto politico", e lo Stato italiano, con il suo governo, che ha matrice tecnocratico-liberal-progressista, contro la quale ci scagliammo prima ancora che si formasse l'Ulivo, che è l'espressione più evidente, elementare, diretta e visibile per tutti di questo calderone.

Chiudiamo le Scuole!

Uno dei campi in cui lo Stato esplica più che altrove il suo ruolo di controllo è senza dubbio quello della scuola.
Dall'infanzia fino all'età adulta, lo Stato si affianca, e tendenzialmente si sovrappone, alle comunità naturali - in primo luogo alla famiglia - nella cura, nell'educazione e nella formazione dei giovani.
"Non venite fuori colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l'educazione dello spirito, l'avanzamento del sapere...
Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuori dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece che sollevarli e che le scoperte decisive non sono venute fuori dall'insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non vi insegnavano, ... che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.
... Le scuole, dunque non sono altro che reclusori per minorenni istituiti per soddisfare ai bisogni pratici e prettamente borghesi.
... Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi...
... Bisogna chiudere le scuole - tutte le scuole. Dalla prima all'ultima.
... Non bisogna dare retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento.
... Si troverà il modo di sapere (e di sapere meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative.
... Daremo pensioni vitalizie a tutti ... purché lascino andare i giovani fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato."
( Giovanni Papini)

Questo scritto di Papini, indubbiamente provocatorio sotto molteplici aspetti, ci consente però di recuperare appieno il senso di un importante spirito di contestazione nei confronti di quella longa manus dello Stato che più di tutte incide sulla vita delle giovani generazioni.
Molto spesso ci capita di ragionare del problema scuola incentrando esclusivamente la nostra attenzione sulle scuole medie superiori, laddove cioè si svolgono le nostre battaglie studentesche.
Ora, non vi può essere dubbio che il problema "scuola" è ben più vasto, poiché coinvolge qualcosa che va oltre la semplice dialettica studenti medi/istituzione scolastica, con tutto il bagaglio dei diritti degli studenti e quant'altro.
L'impressione è che continuando a ragionare in termini di - sia ben chiaro - giuste battaglie di rivendicazione studentesca, ci si limiti ad un operazione di sindacalismo dei diritti degli studenti, e non si colga invece il nocciolo della questione, che è ben più grande, grave e importante.
E il panorama scolastico che abbiamo di fronte è quello di un edificio scolastico-educativo che si preoccupa di allevare i giovani dall'infanzia fino al termine degli studi universitari, basando la sua azione sull'impianto scolastico della riforma Gentile, che nasceva in ben altre situazioni socioeconomiche e con la pretesa etica dello Stato di forgiare l'uomo.
Giusto o sbagliato che fosse l'impianto gentiliano certo è che oggi desta qualche preoccupazione l'ipotesi che al posto di Gentile vi siano Berlinguer e compagni, i quali si apprestano a fare la nuova riforma scolastica a colpi di decreto, scollegando tra loro i vari aspetti della scuola, incidendo all'apparenza in modo solo marginale sull'istituzione scolastica, ma arrivando alla fine a cambiarne totalmente il quadro.
Il tutto mentre gli studenti, quelli di destra compresi, invece di avviare davvero una contestazione forte e sui contenuti al Ministro e all'apparato statale, si divertono a presentare più o meno serie "piattaforme rivendicative" di sindacalismo studentesco.
Senza ovviamente incidere per nulla sui destini della scuola.
"Purtroppo, quella delle battaglie di retroguardia è sempre stata la tentazione di una certa Destra, a tutte le latitudini; e c'era del nobile, fin'anche del giusto nel difendere tradizioni e istituzioni minacciate e derise. Ma qui e ora, che senso ha?... Prendiamo la scuola. Invece delle inutili geremiadi sulla disciplina, sul mantenimento del latino, sull'insegnamento o meno della storia contemporanea nei licei... invece di inseguire i fantasmi delle maestre d'antan, l'Italia pre-boom, cartella e grembiuli, i bidelli in uniforme, figurine ingiallite di un Paese in ginocchio, gli insegnanti precontestazione, ordine e gerarchia, la fiera del nozionismo, caricatura mediocre del sapere... perché non dire chiaramente che bisognerebbe far saltare dalle fondamenta l'edificio scolastico?... Università senza prestigio, lauree senza sbocchi professionali, licei senza identità, professori senza dignità, né economica né di status, concorsi col trucco... Qui sì che la scuola pubblica dovrebbe funzionare come una grande impresa a petto di quella privata, investendo sui docenti, liberandoli dalla comoda quanto avvilente tutela dello statale, selezionandoli e pagandoli al massimo, impegnando risorse su strutture e servizi, dotando di borse di studio degne di questo nome i più meritevoli, ma riducendo al farsa di una scuola dell'obbligo che obbliga solo ad un interregno senza domani... Qui sì che si dovrebbe avere il coraggio di svuotare la laurea del suo valore legale, di mettere in competizione le università, premiando le migliori, retrocedendo le peggiori... Se la formazione di una classe dirigente incomincia dai banchi scolastici, bisognerebbe avere il coraggio di investire su scuole di amministrazione, di reclutare la burocrazia attraverso appositi istituti e non con la piaga clientelare del concorso, di favorire al massimo le premesse per un interscambio con il mondo del lavoro... E naturalmente ci vorrebbe più fantasia, più duttilità nei programmi, più musica, più leggerezza, più gioco, più sport, a partire dalle elementari ... non la scuola come prigione, murati vivi a studiare ciò che non ti servirà mai, che non comprenderai mai... Céline lo aveva capito benissimo: ci potranno salvare i ragazzini se non si uccide in loro la freschezza dell'età, il piacere delle scoperte, l'orgoglio delle appartenenze..."
( Stenio Solinas )

Forse è proprio il caso di immaginare un'azione politica che vada oltre un movimentismo studentesco ormai appiattito da anni sulle semplici rivendicazioni sindacali degli studenti, per arrivare a toccare il senso di una grande battaglia: contro l'istituzione "Scuola", la cristallizzazione del sapere, il nozionismo retorico incapace di critica e di suggestione, l'irreggimentamento della cultura, la diffusione del "verbo" progressista come unica e ultima verità rivelata, l'occupazione sistematica, dalla base al vertice, da parte del pensiero catto-progressista, del sistema scolastico.

La necessità di controbilanciare ad una egemonia gramscianamente imposta della cultura tecnocratica e progressista l'egemonia del pensiero di chi ha criticato la modernità e i suoi dogmi, di chi l'ha sfidata, di chi l'ha superata.
La battaglia deve essere quella di chi è ancora oggi il "polo escluso" della cultura italiana ed europea e aspira a diventare il "polo includente" che giochi un ruolo attivo e creativo nei prossimi anni.
Per far questo, senza voler imporre nessuno stravolgimento a quelle che per anni sono state le giuste, perché necessarie, battaglie in termini di rivendicazioni studentesche, battaglie che vanno rivisitate, ma continuate, per non abdicare al ruolo conquistato, si deve riflettere non sul "se", ma sul "come" vada impostata la guerra contro una riforma Berlinguer che certo non risponde alle necessità nostre e dell'Italia, e decidere se non sia davvero il caso di ripensare i meccanismi di regolamentazione della scuola, di quella di Stato e di quella privata.
Se non sia davvero il caso di intraprendere da oggi la battaglia perché nel futuro la Scuola sia fonte di pluralismo culturale, perché a tutti, indipendentemente dalle loro possibilità economiche, sia garantito l'accesso a qualsiasi scuola.
Perché il problema non è forse proprio quello combinato, per cui da un lato non possiamo lasciare nelle mani di uno Stato onnivoro e pervasivo, e terribilmente poliziotto del pensiero, con i suoi dogmi imposti e le noiose facce che li hanno accompagnati in tanti anni di dittatura, prima democristiana e oggi progressista, al Ministero dell'Istruzione, e dall'altro lato, assicurata la pluralità dell'offerta di sapere (starà anche a noi, o a chi per noi, attrezzarsi a offrire la nostra cultura, la nostra visione del mondo) , garantire che tutti possano accedere alla scuola, in base alle loro preferenze e scelte?

Lasciamo pure aperto l'interrogativo, per fare sì che nel tempo, nella discussione e nell'azione si formino le rivendicazioni politiche, ma teniamo ben presente che i famigerati decreti Berlinguer probabilmente continueranno a essere emanati, e che in questo momento esiste un forte dibattito sulla parificazione scolastica da cui noi non possiamo essere assenti, né tantomeno appiattirci su posizioni che vedano prevalere la Scuola di Stato su ogni altra offerta di pluralismo culturale.
A questo proposito è forse utile chiarire un preliminare e introdurre una nuova diversificazione: il preliminare è che la Scuola, a qualsiasi livello, dalle elementari all'Università, deve essere pubblica, ossia accessibile a tutti; e che la scuola pubblica si può dividere tra quella gestita dallo Stato, e quella gestita da privati o associazioni, garantendo così alle famiglie e agli studenti la possibilità di scegliere, senza che ciò sia un limite per censo e reddito, qualsiasi istituto scolastico.
E potrà essere una grande battaglia sociale e di pluralismo culturale quella per garantire a chiunque l'accesso a qualsiasi scuola indipendentemente dalle possibilità economiche. Si tratta in sostanza di valutare come il mettere in competizione istituti statali e istituti pubblici non statali possa trasformarsi in un plus di offerta per gli studenti e le famiglie e non invece in una diminuzione delle reali possibilità offerte.
Un'altra battaglia da non sottovalutare per niente è quella "contro l'obbligo scolastico", intendendo in questo senso almeno la battaglia contro l'elevazione della scuola dell'obbligo a 16 anni, elevazione che senza una seria riforma di tutto l'impianto scolastico è solo una demagogica operazione di facciata e uno squallido tentativo di sostenere che la disoccupazione diminuisca grazie al governo dell'Ulivo, che sotto questo aspetto trarrebbe vantaggio dalla non iscrizione alle liste di collocamento dei ragazzi dai 14 ai 16 anni.

Tanto più che non esiste proprio alcun motivo per cui si dovrebbe obbligare un ragazzo di 14 anni, che non ha la minima voglia di proseguire gli studi a farlo comunque.

Concludendo ... lasciamoci creare!
(o dell'erotizzazione della politica)

"Sbaglia chi crede che le innovazioni tecniche siano solo un fatto di mestiere e di soldi. Tutto questo può essere la condizione necessaria. Perché resta il fatto che alla base di tutte le rivoluzioni del pensiero vi sono sempre (o si accompagnano sempre) rivoluzioni espressive, concettuali, che procedono all'unisono con quelle tecniche".
(Francesco Maiello)

Il '68 parlò di fantasia al potere, quasi sessant'anni prima Marinetti voleva abbattere tutte le vestali del passatismo dando libero sfogo all'immaginazione che doveva subentrare al potere costituito di un'Italietta liberale, tanto simile a quella odierna.
Il '99 sarà l'ultimo anno del secolo che si è aperto con una grande ondata di rinnovamento, creatività, nuove sintesi politiche e culturali a destra, in un fermento rivoluzionario che non ha conosciuto precedenti nella storia della modernità, poi ci sarà il nuovo millennio, con tutte le contraddizioni e i contrasti che la fine della modernità porterà con sé.
"Avremo nuovi miti quando l'arte e la filosofia troveranno per gli uomini modelli di identificazione planetaria: ricorderanno le razze e le tradizioni, ma solo come un'origine che costruisce unità dalle differenze. Saranno miti pericolosi per questo ordine sociale, ma saranno quelli che salveranno dalla devastazione l'individuo, ridotto a un piccolo organismo economico, dal saccheggio la Natura, ridotta a materia da sfruttare, dalla corruzione la politica, ridotta a traffico del consenso e a celebrazione del denaro"
(Stefano Zecchi)

Il Novecento è stato il secolo del movimentismo giovanile, i prossimi anni potranno vederci impegnati e in movimento per la ri-affermazione dell'egemonia giovanile, con un rinnovato entusiasmo nell'affrontare le sfide che ci si parano davanti.
E dovremo dotarci, ancora una volta, della capacità di immaginare e creare "nuove sintesi", aprendoci costantemente al nuovo che troveremo e realisti nei confronti dell'esistente, con tutte le contraddizioni che possono sorgere da questo agire, e che in questo documento probabilmente saranno già presenti in gran parte.

"Ma la gioventù è proprio la condizione esistenziale di chi vuole far fronte alle inevitabili contraddizioni, attingendo a quel "più di vita" che cova nel profondo dell'animo umano e che molti (troppi) sembrano aver dimenticato"
(Peppe Nanni).

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