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A cura di Massimo Ariati              


Sulla moda giovanile                                                                ariati.jpg (2096 bytes)

Uno spettro si aggira tra i sociologi, tormenta gli antropologi e sguscia tra le dita degli psicologi. Pare si sia smarrita una generazione, un enorme cono d’ombra eclissa l’oggetto della ricerca e le reti d’indagine, per quanto fitte e accuratamente predisposte, restano desolatamente vuote.

Senza pretese, ecco una serie di definizioni: "una generazione senza ricordi", "ragazzi senza tempo", "adolescenti in crisi, genitori in difficoltà", "suoni nel silenzio". E ancora: "la generazione invisibile", oppure "di sprecati" e anche "in ecstasy".

Il pensiero di sorvolo che sembra caratterizzare, secondo l’ultimo rapporto Censis, la natura profonda degli italiani in realtà è all’opera già da tempo. Forse siamo un po’ troppo banali, aggrappati alla superficie delle cose, sprofondati in un’egolatria che è un mix di egoismo e solitudine. Il nostro io si è dilatato a tal punto che non riusciamo più a raccontarci la nostra storia, anche quella più quotidiana, anche quella più intima, che tocca le corde del sentimento e degli affetti e ci annoda ai nostri figli. Gli specialisti non ci aiutano, dopo la morte dei maitre à penser pure gli esperti si sono addormentati, così rimaniamo sul bagnasciuga dell’indecisione, oscillanti tra il non capisco ma mi adeguo e il carpe diem. Eppure li vediamo tutti i giorni questi ragazzi, mentre vanno a scuola con lo zainetto Invicta, quando fanno capannello davanti al Mc Donald’s e ingannano il tempo della solitudine di gruppo armeggiando con il Nokia, nelle ore della sera confuse tra televisione e play station. Li guardiamo ma non li vediamo, o meglio li guardiamo per specchiarci nella loro diversità: il nostro eskimo e il loro Barbour, i nostri anfibi e le loro Nike, i nostri ideali e il loro vuoto, il nostro percorso e il loro vagabondaggio.

Non c’è davvero da stupirsi sul silenzio degli addetti ai lavori, sulla loro incapacità di stringere un oggetto così impalpabile, così etereo, così rapsodico. Per chi è abituato alla Storia, quella con la esse maiuscola, è difficile misurarsi con la cronaca, per chi produce ponderosi saggi è impervio riassumersi nelle poche righe di un articolo, per chi riesce a insinuarsi negli interstizi più reconditi della cultura diventa frustrante misurarsi con chi bordeggia la quotidianità.

Ma dove tacciono gli intellettuali, agiscono gli operatori di mercato. Per loro la generazione del disagio è una fonte di agio, ed è trasparente che la mancanza di futuro deve essere riempita dal nuovo, perché solo un nuovo sempre rinnovato può saziare la bulimia del presente. Stilisti e produttori di abbigliamento hanno ben compreso che il consumo è il surrogato del pensiero, che le emozioni offrono spicchi di appartenenza se non di consapevolezza, che l’impressione della libertà consiste nel potersi e doversi cambiare continuamente. E allora via con la produzione di simboli, perché nel pantheon c’è posto per tutte le divinità, basta solo che nessuna pretenda di soppiantare le altre: tolleranza e tornaconto procedono a braccetto. Vanno bene sia il tribale che il postmoderno, dal piercing all’hight tech gli stili si ibridano, si intersecano, così come il sacro e il profano, ma tutto in un’atmosfera di leggerezza perché tutto deve essere intercambiabile.

Per questo i nostri figli, così attenti al look, disposti ad ogni ascetico sacrificio pur di accontentare l’immagine, capaci di camminare su scarpe che assomigliano a trampoli, con il cavallo dei pantaloni così basso da inibire la camminata, con i capelli dai colori improbabili, sono il più riuscito dai prodotti, quello in grado di rottamare in un flash ogni novità. Invulnerabili alla riflessione teoretica, capaci di sottrarsi all’indagine sociologica, sono però vulnerabilissimi alle stimolazioni. "Emozioniamo", recitava il profetico slogan di uno spot pubblicitario di alcuni anni fa. Già, emozioniamo, ma senza impegno. In fondo tutto quanto fa spettacolo, notizia, e lo scalpore viene presto riassorbito e omogeneizzato in un generico costume che fa tendenza.

Resta però una considerazione. I papà e le mamme sognavano l’immaginazione al potere, i figli subiscono il potere dell’immaginazione. Se è vero che c’è stata un’eterogenesi dei fini, questi ragazzi assomigliano tuttavia molto ai loro genitori.

 

 

 

 

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