Gustave Thibon
DIAGNOSI
Saggio di fisiologia sociale

 

INDICE di

Gustave Thibon DIAGNOSI Saggi di fisiologia sociale

PREFAZIONE

GABRIEL MARCEL

INTRODUZIONE

DELLO SPIRITO DI ECONOMIA

VITA CITTADINA E SURMENAGE AFFETTIVO

LAVORO E SVAGHI

DELL'UGUAGLIANZA E DEL PROBLEMA DELLE CLASSI

I GRANDI E IL POPOLO

"LE LIBERTÀ"

EGUALITARISMO E FUNZIONARISMO OVVERO IL MITO DEL PASSAGGIO A LIVELLO

MARXISMO E FREUDISMO

LO SPIRITO DI SINISTRA E LO SPIRITO DI DESTRA

EGOISMO E SENSO SOCIALE

LA MORALE E LA VITA

CENTRALIZZAZIONE E ANARCHIA

L'INEGUAGLIANZA, FATTORE D'ARMONIA

Le ineguaglianze naturali e le ineguaglianze sociali.

Problema dell'ineguaglianza artificiale.

L'ineguaglianza organica e l'ineguaglianza anarchica.

BIOLOGIA DELLE RIVOLUZIONI

PERSONALISMO

OPPRESSIONE E CORRUZIONE

LA MORALE E I COSTUMI

 

 

 

 

PREFAZIONE

Ho cercato, or non è molto, di attirare l'attenzione dei filosofi sul mistero dell'incontro, mistero da cui il pensiero degli specialisti tende a distogliersi, come da tutto quello che è contingente e, aggiungerò, da tutto quello che nutre l'anima. Non conoscevo, allora, Gustave Thibon, ne ignoravo persino il nome. Soltanto durante l'estate del 1939 ebbi occasione di prendere contatto con lui. Come non mi sarei subito persuaso che eravamo chiamati a unire le nostre forze e a collaborare attivamente in una stessa investigazione appassionata? La lettura delle sue pagine sullo spirito di economia, pubblicate dapprima su una rivista, suscitò in me l'imperioso bisogno non solo di chiedere di lui ai miei amici che avevano la fortuna di conoscerlo, ma anche di scrivergli, di dirgli la mia adesione fervente.

Perché quelle poche pagine, che figurano nel presente volume, trovarono in me tale eco? Ammiravo, innanzi tutto, la straordinaria vitalità del pensiero realista nel senso più pieno della parola ma anche la felicità delle formule. Ve ne sono di folgoranti: "Il socialismo confonde riserve con inutilità..., ha la fobia della profondità come dimensione". E questa: "In tutti i campi, colui che spreca di più dà meno... L'uomo economo nutre l'avvenire, lo sperperatore lo succhia". Allora non sapevo che Gustave Thibon aveva scritto centinaia di aforismi che basterebbero alla gloria di uno scrittore. Bisognerà proprio pubblicarne, un giorno o l'altro - il più presto possibile - una scelta: oso affermare che tutti quelli che leggeranno tali aforismi resteranno profondamente colpiti. Se ne vedranno, del resto, alcuni saggi più oltre.

Ma, infine, chi è Gustave Thibon? Un religioso? un professore universitario? un filosofo di professione? un economista? un medico? Ma no: un contadino, nel senso più preciso della parola, un contadino che, grazie a Dio, è rimasto contadino; che perciò non ha perduto il contatto con le "vaste riserve di freschezza e di profondità prodotte nell'anima dalla comunione stretta con la natura, dalla familiarità col silenzio, dall'abitudine alle pacifiche cadenze di un'attività accordata sui ritmi primordiali dell'esistenza". Egli appartiene in fondo alla famiglia di un Pourrat o di un Roupnel, i quali, molto fortunatamente, non hanno mai spezzato i legami che li uniscono alla terra natale, al Livradois, alla Borgogna. Tuttavia, Roupnel è insegnante universitario e, anche, romanziere; Pourrat è, lui pure, romanziere. Non so rassegnarmi al pensiero che Gustave Thibon non scriva un'opera di immaginazione, il che d'altronde non significa che ne sarebbe incapace: la sua prosa, quando racconta i casi e le avventure dei suoi vicini, raggiunge un mordente insuperabile. L'eccezionalità del suo caso consiste in una congiunzione, operatasi spontaneamente in quest'anima e in questa intelligenza privilegiata, tra l'esperienza immediata, quella delle occupazioni giornaliere, e la speculazione più alta, la vita mistica stessa. Com'è possibile ciò? Confesserò senza ambagi che a mio giudizio un destino come questo ha le sue radici nella metafisica, e sfida tutte le spiegazioni che psicologi, sociologi, ideologi di ogni specie tentassero di proporre. V'è di più: esso basta a confutare le assurde pretese che ricorrono il suolo avaro e arido di certa impotenza universitaria. Nel senso più forte del termine, Thibon è un autodidatta. Non ha altro diploma, ch'io sappia, che quello delle scuole elementari. Giovanissimo, dovette aiutare il padre, che coltivava vigne nei dintorni di Pont-Saint-Esprit. Ma venne un momento in cui la passione del sapere s'impossessò di questo modesto coltivatore; e per fortunata combinazione uno dei suoi compagni, che aveva avuto in eredità una biblioteca, la mise a sua disposizione. Senza mai trascurare il lavoro, egli trovò modo d'impararsi da solo il latino a fondo, il greco, il tedesco e la matematica, di leggere i filosofi e i poeti: sa a memoria migliaia di versi. Ma nello stesso tempo, col libero cammino del suo spirito, egli giungeva alla pienezza di una fede cattolica che doveva soddisfare tutte le aspirazioni della sua intelligenza e non soltanto una affettività di cui egli ha sempre diffidato. E, cosa ancor più strana, per sua stessa confessione lo scrittore che ha esercitato su di lui, insieme forse a Pascal, l'influenza più profonda, è probabilmente Nietzsche; è troppo poco dire: inclino a credere che Nietzsche l'ha rivelato a lui stesso; molti aforismi di Thibon sono essenzialmente nietzschiani per la forma e per lo slancio, il nisus interno.

"Molte cose quaggiù devono essere soltanto contemplate - e non gustate e toccate - molte cose per noi devono essere stelle! L'oggetto che più accende i tuoi sguardi, bada a non tendere troppo presto verso di lui le tue labbra. Altrimenti il tuo amore appassirà: non sei ancora un angelo per poter stringere una stella in purità".

Citerò ancora questo dialogo:

"A colui che si sacrifica. - Proprio te, debbo veder lottare e soffrire per questa causa impura? - Come osi biasimarmi? Non vedi che mi sono strappato al riposo e alla felicità, non vedi che affondo? - Lo so. Ma affondi nell'acqua sporca! - Che importa l'acqua, dal momento che affondo! - Allontana da te questa avarizia ultima. Più che il tuo porto devi scegliere il tuo scoglio. Più delle tue ragioni di vivere, pesa e purifica le tue ragioni di morire. Lungi da quelle acque costiere inquinate dalla melma dei fiumi e dal rigurgito delle fogne, volgi lo sguardo verso l'ultimo orizzonte del mare alto, ove la pace del cielo si congiunge alla battaglia dei flutti. Fino là, fino a quella solitudine, fino a quel silenzio, non hai il diritto di affondare".

In Nietzsche mi sembra che Thibon ammiri soprattutto l'asceta; si tratta, qui, di un spirito, dell'intelligenza stessa - quella con cui ci è dato di combattere tutti gli aspetti che il nostro compiacimento a noi stessi, di svelare tutte le commedie che ci recitiamo e di cui siamo vittime. Niente di più nietzschiano di un certo orrore della falsa gravità, del falso tragico, delle uniformi e dei fronzoli con cui ci mascheriamo per rappresentare ciò che in realtà non siamo affatto; del gusto appassionato per una vibrazione eterica - dell'essere che evoca l'ebbrezza familiare a coloro che sfidano le vette. Benché convenga diffidare di queste metafore geografiche e della loro esattezza spesso ingannevole, dirò senza esitare che, originario dell'Ardèche, Gustave Thibon arriva a toccare la strada che unisce l'Engadina di Zaratustra alle plaghe mediterranee - a Genova o a Sorrento - ma anche alla Spagna di Unamuno. Nei saggi contenuti nel presente volume, questo aspetto nietzschiano è pochissimo percettibile, tranne in alcune formule di una nervosa concisione che avrebbe incantato l'autore di Umano, troppo umano. Ma si può affermare senza esitazione che in una personalità forte e coerente come questa tutto si sostiene, che tutti i temi non solo s'incastrano e s'incrociano, ma tendono a fondersi gli uni negli altri a misura che ci si avvicina a un certo foco centrale di una intuizione unica e forse informulabile perché è la generatrice della corrente che circola attraverso gli sviluppi che il nostro pensiero discorsivo distingue e raccorda.

Come non rievocare qui le pagine immortali del Bergson sull'intuizione filosofica? "Un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una cosa: anzi, ha cercato di dirla più che non l'abbia detta veramente. E ha detto un'unica cosa perché non ha visto che un unico punto: e anche se si trattasse più di un contatto che di una visione, quel contatto ha prodotto un impulso, quell'impulso un movimento, e se tale movimento, che è come un certo vortice di una forma particolare, non si rende visibile ai nostri occhi che per quanto ha raccolto sulla sua strada, non è meno vero che diversa avrebbe potuto essere la, polvere sollevata eppure il vortice sarebbe stato ancora il medesimo".

Mi pare che un aforisma come questo ci permetta d'intravedere il foco centrale del pensiero di Gustave Thibon: "Destino dell'uomo. A Dio non si sfugge. Una sola alternativa: diventare Dio (attraverso l'ascetismo e l'amore) o giocare a Dio. Il diavolo e le sue vittime sono gli esseri che più dipendono da Dio. Essi sono legati a lui non per una subordinazione vivente, ma in una maniera servile e morta, come il copista a un testo che trascrive senza comprenderlo... A Dio non si sfugge: chi rifiuta di essergli figlio, sarà eternamente sua scimmia. La spaventosa caricatura dei costumi divini che imperversa dovunque Dio cessa di essere conosciuto e amato è chiara testimonianza di questa fatalità ".

La spaventosa caricatura dei costumi divini: non dimentichiamo queste parole: esse ci forniscono la chiave di una dialettica interna di cui i capitoli di quest'opera segnano esattamente le tappe successive. Infaticabilmente Gustave Thibon denuncerà la presenza e i misfatti di una idolatria proprio là dove un razionalismo che ha perduto ogni contatto con le sue radici ontologiche, vale a dire con la Verità che è nello stesso tempo la Vita, crede di poter celebrare l'emancipazione definitiva dello spirito umano.

"Non si sfugge all'obbedienza che per cadere nella servitù. Ti affliggi nel vedere di che cosa gli uomini sono schiavi. Per avere la chiave di questo mistero di abiezione, cerca allora di chi essi hanno rifiutato di essere i servitori". E altrove: "Sacrifici, leggi, ecc. Ogni libertà comincia con un ostacolo. Il si comincia col no".

Certo qui sembra di essere lontani mille miglia dall'autore di Aurora. Quale abisso tra quest'affermazione assoluta dell'essere in cui trova radice la vera libertà, e il parossismo negatore di Nietzsche! Eppure, le affinità rimangono forse ben più strette di quello che non si sia indotti a credere fra questi pensieri in fondo complementari. Non ci potremmo chiedere se talune fra le intuizioni più centrali di Nietzsche non procedano da un sottosuolo metafisico dove non gli è possibile portare la luce, talché egli si vede ridotto a organizzare la sua filosofia attorno a una metabiologia la quale non è che un mito ma di cui è vittima? Il fatto che in lui si svolge uno dei più rari drammi passionali del pensiero di cui la storia della filosofia abbia raccolto la testimonianza. Nietzsche ha cominciato con l'essere cristiano; la stessa veemenza delle sue diatribe contro il cristianesimo misura, mi sembra, la vastità della sua abiura. Nietzsche si è costretto a credere - gli era vitalmente necessario affermare che i valori si possono trasporre; la dottrina del superuomo è un'etica di sostituzione. Ma niente "può mai sostituire alcunché. Tale appunto è l'evidenza che esclude tutte le separazioni, tutte le idolatrie, I' evidenza che porta alla totalità e a Dio. Alla base dell'attività dei rivoluzionari e degli eretici d'ogni genere c'è questa convinzione mostruosa: ciò che noi distruggiamo può essere sostituito, abbiamo qualche cosa da mettere al suo posto". E provo personalmente un senso di vertigine leggendo le righe seguenti, in cui si considerano le certezze alle quali mi alzavo faticosamente più vent'anni fa: "Parlerai a tutto se parli a Dio. Parlare a Dio di un essere è parlare a quell'essere, perché Dio è tutto. E dicendo tu a tutto, amando tutto, sarai tutto. Ma se tu ti sbagli di Dio, se cerchi al disotto di colui che è un te assoluto, vedrai, malgrado le fatiche da schiavo per colmare l'abisso scavato dall'idolatria, questo te trasformarsi sensibilmente in lui inaccessibile e gelido".

 

GABRIEL MARCEL

INTRODUZIONE

I diversi saggi che compongono quest'opera sono stati stesi fra il 1934 e il 1939. Essi sono stati pubblicati per la prima volta in volume nell'aprile del 1940. Alcune allusioni al nazional-socialismo erano dovute scomparire nelle edizioni uscite sotto l'occupazione.

Qui riproduciamo l'edizione originale.

Su degli scritti che non sono più recenti non ci paiono inutili alcune parole di spiegazione, dopo tanti avvenimenti che hanno resa ancor più grave la confusione dei termini e dei valori.

Non contestiamo che questo libro abbia un significato politico nel senso etimologico della parola. Ma, per l'universalità e perennità dei problemi che tocca, esso si colloca nettamente fuori delle fluttuazioni dell'attualità politica. Per gran parte le etichette politiche non sono, purtroppo, precisamente che delle etichette o delle formule tanto superficiali quanto intercambiabili. Più che la sua etichetta, a noi interessa il contenuto della bottiglia. Poca importanza attribuiamo alle formule politiche in quanto temi di propaganda o di polemica: ciò che conta per noi è il loro grado di incarnazione nei costumi, è la maniera in cui esse improntano in forma durevole la sostanza dell'uomo e la struttura profonda delle comunità.

Siamo stati accusati da qualcuno di essere nemici irriducibili del regime democratico e del socialismo. Pensiamo che una attenta lettura di quest'opera permetta a ognuno di comprendere il nostro vero pensiero e coglierne le sfumature. Non faremo qui che due precisazioni:

1. Non attacchiamo la democrazia in generale (vi sono state, nel corso della storia, e vi sono ancora in certi paesi delle formule democratiche perfettamente valide), ma quella pseudo-democrazia fondata sulla legge del numero e sui giochi della politica e del denaro che, privando il popolo dei suoi legami e dei suoi appoggi naturali, sbocca necessariamente nel totalitarismo.

2. Quando parliamo di socialismo, non vogliamo designare nessuna determinata formazione politica e ci limitiamo ad applicare questo vocabolo a uno stato d'animo profondo e universale, a uno scivolamento dei costumi che interessa, sotto aspetti differenti, il mondo moderno nella sua totalità e che tende ad assorbire l'individuo umano e le comunità-base (famiglia, impresa, professione, ecc.) in uno statalismo astratto dove, in mancanza di qualunque legame vitale tra gli uomini, la libertà non può essere che anarchia e l'ordine che tirannia. Anche qui, ciò che detta il nostro atteggiamento è precisamente un rifiuto del totalitarismo. Forse non per caso Hitler aveva battezzato la sua dottrina nazional-socialismo e Pierre Laval proclamava a gran voce, nello stesso tempo che auspicava la vittoria della Germania: l'Europa sarà socialista ...

Non si tratta, beninteso, di fare un sol fascio di Hitler e dei socialisti di qualunque paese. Non ignoriamo che i socialisti contano nelle loro file molti uomini profondamente rispettosi dei genuini valori sociali, e giusto costoro noi vorremmo mettere in guardia contro i pericoli dell'ipertrofia statale. Quando Luigi XIV diceva: lo Stato sono io, non esprimeva con quelle parole che un assolutismo assai limitato. Essere padrone dello Stato non era ancora essere padrone di tutto. Un'infinità di organismi (familiari, locali, giudiziari, religiosi, ecc.) sfuggivano allora al controllo immediato dello Stato e, di conseguenza, del "tiranno". Ben diversamente va oggi in cui lo Stato tende sempre più a identificarsi con la stessa nazione. Tutto sarà nelle mani dello Stato, proclamano certi emancipatori del popolo. Benissimo. Ma lo Stato, a sua volta, nelle mani di chi sarà? Del popolo? Si sa bene che non è possibile: dunque nelle mani di avventurieri che parleranno in nome del popolo e il cui potere, moltiplicato dalla centralizzazione, sorpasserà quello dei peggiori tiranni del passato. Un Hitler ha appena finito di darci la misura esatta di che cosa è capace una tale tirannia.

Il nostro orrore dei totalitarismi non ci rende per questo partigiani di un liberalismo senza freni e senza contrappesi. Molti lettori e critici di Diagnosi ci hanno collocato spontaneamente tra gli spiriti "di destra". Accettiamo ben volentieri l'etichetta, ma a condizione che ci si lasci precisare il contenuto della bottiglia.

Nel 1942 abbiamo pubblicato, sul problema dei rapporti fra la destra e la sinistra, alcune pagine che riassumono bene la nostra posizione personale e che qui riproduciamo tal quale.

"Sei di destra o di sinistra?" ci si chiede spesso. In quei casi replichiamo immediatamente al nostro interlocutore: che cosa intende lei per destra e sinistra? E le risposte ci confermano nell'opinione che quelle nozioni di destra e di sinistra sono avvolte, nello spirito di una gran parte dei mortali, da una nube, incredibilmente spessa, di pregiudizi e d'illusioni. "Personalmente, ci ricordiamo di esserci fatti trattare nel medesimo giorno da odiosi reazionari perché affermavamo che noi avremmo trovato la salvezza soltanto nella creazione di una nuova aristocrazia, e da insopportabili socialisti perché esprimevamo qualche dubbio sulla legittimità della proprietà puramente capitalistica.

"A nostro vedere, due grandi sorgenti d'errori contribuiscono, su questo terreno, a confondere e sviare gli spiriti.

"La prima consiste nell'inquadrare certi problemi sociali che hanno un contenuto eterno, non più, come converrebbe, in funzione di leggi essenziali della natura umana, ma unicamente dal punto di vista di quella mostruosa - e relativamente recente - circostanza che è il potere assoluto del denaro. E' quella una inesauribile miniera di equivoci. Da una parte troppi uomini di destra, pontefici o profittatori del capitalismo, s'immaginano di incarnare i valori dell'ordine e della stabilità; dall'altra, troppi uomini di sinistra, dissimulando i loro istinti di sovvertimento sotto il velo d'un ideale di giustizia e di progresso, sono ben felici di scuotere attraverso il falso ordine borghese e la tirannia del denaro, le nozioni eterne di autorità e di gerarchia.

"Affermiamo la necessità di un sano ceto dirigente sciolto dalle remore e dal capriccio delle masse? Subito veniamo trattati da nemici del popolo e si identifica la nostra causa con quella delle potenze finanziarie o dei borghesi oziosi e degenerati. Si dimentica solo una cosa, ed è che l'élite di cui parliamo ha così scarsi rapporti con la pseudo-aristocrazia dei padroni e dei profittatori dell'ora presente, che essa è ancora pressoché interamente da creare.

" Noi rimproveriamo a una certa ideologia di destra di non avere altro scopo che di salvare, sotto colore di opporsi all'anarchia, determinati vantaggi esclusivamente materiali e finanziari. Ma una uguale repulsione proviamo per una certa ideologia di sinistra che mira unicamente a reclamare per tutti gli uomini i medesimi sordidi vantaggi. Nei due casi il primato assoluto della materia e del denaro - radice fatale di ingiustizie, di demoralizzazione e di conflitti - resta confermato.

"Le nostre ambizioni sono più profonde. Noi vogliamo una rifusione essenziale della società che, su tutti i gradi della scala sociale, assicuri agli uomini una larga indipendenza nei riguardi del denaro. In altre parole, come criterio dello sforzo di un uomo e del suo posto nella gerarchia noi vogliamo sostituire i valori vitali e spirituali ai valori finanziari. E siamo cosi poco borghesi, nel senso tanto disprezzato della parola, che, lungi dal voler imborghesire il popolo (Péguy aveva già denunciata questa tara d'un certo socialismo), noi vorremmo disimborghesire lo stesso borghese.

"Se il socialismo consiste nel frenare gli eccessi del capitalismo liberale a profitto delle comunità e delle gerarchie naturali, siamo socialisti. Ma, se consiste nel distruggere il capitalismo liberale a profitto del capitalismo di Stato, più estraneo ancora ai bisogni profondi dell'uomo, non siamo più socialisti. Se si tratta di assorbire il proletariato permettendo a ciascuno di coprire un suo ruolo organico in seno a una organizzata società e di sviluppare la sua personalità nel suo lavoro, siamo d'accordo. Ma se si tratta di sostituire l'insicurezza dei proletari con la sicurezza morta di una polvere di funzionari senza amalgama umano e senza legami vitali con il loro compito, ancor più spostati e irresponsabili dei borghesi egoisti, tutto ciò che noi sappiamo dell'uomo e tutto ciò che noi amiamo nell'uomo insorge contro una simile forma di "progresso".

"Il capitalismo è come una tavola dove vivande guaste vengono imbandite a un esiguo numero di uomini. Troppi rivoluzionari non hanno, sventuratamente, altra ambizione che di moltiplicare all'infinito il numero dei convitati a quell'impuro festino. Noi intendiamo invece rovesciare quella tavola, per poter servire agli uomini un alimento più umano.

"Il secondo errore consiste nello stabilire una opposizione assoluta fra la destra e la sinistra, mentre queste due nozioni, nella misura che corrispondono a un oggetto reale, si compenetrano e si completano nell'unità della vita.

"Strano abuso, questo di incollare su ogni testa pensante un'etichetta inamovibile di "uomo di destra" e di "uomo di sinistra". In realtà nessuna guida autentica dell'umanità è "di destra" o "di sinistra " in modo assoluto e definitivo, ma è "di destra" o "di sinistra" secondo i tempi, i luoghi, le circostanze e le diverse realtà di cui deve tenere conto.

"Per esempio, Bossuet è a destra quando proclama il diritto divino dei re? E' a sinistra quando denuncia l'egoismo omicida dei ricchi? E' essere a sinistra prendere le parti del vero popolo che soffre e che lotta? E' essere a destra opporsi alla plebaglia (e questa canaglia non comprende necessariamente solo dei poveri...) avida di distruggere e di dominare?

"In ultima analisi, queste nozioni di "sinistra"e di "destra" non hanno che un'importanza assai relativa. Ciò che è capitale è poter realizzare una sintesi vitale dei diversi elementi (libertà e autorità, uguaglianza e gerarchia, ecc.) nascosti sotto le due ideologie. Ogni educatore degno di questo nome si sente duro di fronte a un bimbo viziato, e tenero di fronte a un bimbo vittima. Il medesimo amore per il fanciullo detta questi due atteggiamenti in apparenza contraddittori. Un buon carrettiere spinge la ruota in salita e adopera il freno in discesa, e questi due gesti testimoniano la medesima preoccupazione di far andare avanti speditamente il carro. Lo stesso deve dirsi per la destra e per la sinistra. Là dove l'impalcatura sociale pericola verso destra noi ci portiamo verso sinistra per tentare di ristabilire l'equilibrio, là dove pericola verso sinistra noi ci portiamo verso destra. A coloro che ci accusassero di relativismo e di opportunismo e ci rimproverassero di non prendere nettamente posizione per questo o quel movimento di destra o di sinistra, risponderemmo che noi abbiamo preso posizione da sempre per il centro di gravità dell'edificio".

Non aggiungeremo nulla a queste righe tranne una ultima precisazione. Tutti sono d'accordo, oggi, nel denunziare il fallimento del capitalismo liberale. L'anticapitalismo è divenuto il grido di raccolta della maggior parte dei partiti, dall'estrema destra che si compiace di richiamare in vita i pareri del conte di Chambord sulla "fortuna anonima e vagabonda" fino all'estrema sinistra che stigmatizza rumorosamente, "la dittatura dei trusts". Guardiamoci tuttavia dal lasciarci ipnotizzare da uno scopo puramente negativo

V'è un dovere ancora più importante del lottare contro il capitalismo ed è quello di suscitare gli organismi di base, i quadri e le "élites" capaci di rifare un mondo vitale mercè il seppellimento del capitalismo. Abbiamo il diritto di affermare che oggi tali elementi esistono? L'organizzazione capitalistica non costituisce, in moltissimi casi, l'ultima struttura sociale - struttura artificiale e malsana senza dubbio, ma al di là della quale non esiste più che una polvere di individui? E se questa struttura si rompesse improvvisamente, come eviteremmo dapprima il caos e poi la violenza totalitaria?

Da cui l'urgenza di mettere in piedi al più presto quegli organismi professionali e locali, quelle viventi comunità che ci eviteranno di passare dalla tirannia del finanziere a quella del burocrate, dal regno della cassaforte a quello delle circolari. Non basta demolire, occorre anche costruire, o, piuttosto, bisogna demolire costruendo. L'ideale sarebbe che il capitalismo non venisse già distrutto da una rivoluzione, che non lascerebbe dietro di sè che rovine, ma venisse gradualmente economizzato e sostituito dallo svilupparsi di vere comunità umane. Noi dobbiamo lottare contro il capitalismo come la seconda dentizione dei bambini lotta contro la prima: ogni dente che cade è sostituito da un dente più solido e meglio conformato ai bisogni dell'essere umano.

L'isterilirsi delle tradizioni, dei costumi e dei caratteri, l'instabilità familiare e professionale, la denatalità, la lotta delle classi e dei partiti e tutti gli altri mali diagnosticati in questo libro fanno brillare ai nostri occhi, con una evidenza angosciante, la terribile perdita di sostanza che travaglia il nostro paese. Troppi francesi, fissi nelle formule politiche più astratte, da loro rivestite arbitrariamente di un potere magico, disputano per sapere se la casa sarà ridipinta in bianco, in verde o in rosso: essi dimenticano solamente che i suoi muri minacciano rovina. Non si tratta di fare l'imbianchino, ma di ricostruire. Si tratta di ricreare, umilmente, pazientemente, e cominciando dalla base, una struttura organica della società nella quale l'uomo, interiormente ricongiunto al suo compito e ai suoi simili, possa vivere e lavorare conformemente alle esigenze profonde della sua natura e in cui il minimo di costrizione legale inerente a ogni comunità sia il baluardo e non la tomba della libertà. Una simile meta dovrebbe bastare a far convergere gli sforzi di tutti gli uomini di buon senso e di buona volontà. Per conto nostro, non abbiamo mai avuto altra ambizione che di rischiarare un poco la via che conduce a quella meta.

 

Aroue, 24 novembre 1945

 

 

DELLO SPIRITO DI ECONOMIA

Gli uomini maturi d'oggi, ancora imbevuti dei princìpi del XIX secolo, hanno l'abitudine di lamentarsi sulla rovina pressoché completa dello spirito d'economia nelle giovani generazioni. Non si mette più nulla "da parte": l'operaio, l'impiegato moderno, la stessa famiglia recente spende ogni settimana o ogni mese la totalità del suo guadagno. Più ancora: si ipoteca l'avvenire, si scialacqua, comperando a credito ciò che non si possiede ancora (la nostra epoca conosce, infatti, il paradosso corruttore di un largo credito concesso al superfluo: che si pensi a delle "facilitazioni" da accordarsi ai compratori di un'auto e di una radio, mentre il credito per le cose necessarie - l'alimentazione e il vestiario - è quasi completamente scomparso). Questo sconfinamento nell'avvenire è la divorante contropartita dell'antico spirito di economia, è una previdenza a rovescio. L'uomo, che prima metteva da parte qualche cosa per il domani, poteva dire: l'avvenire sarà riempito da ciò che io accumulo oggi. Lo scialacquatore moderno può dire: l'avvenire sarà vuotato di ciò che oggi divoro. Il primo nutre il futuro, il secondo lo succhia.

Ma lo sperpero del denaro, scandalo del borghese classico, non è che il sintomo più materiale e più esteriore di una tara di cui è affetto il fondo dell'anima moderna: l'uomo oggi diventa - questo in tutti i campi - sempre più incapace di riserva. Non si sa più attendere, si vuol essere pagati subito di quanto si fa, si corre senza indugio fino all'ultimo limite di tutte le possibilità di godimento... Certi scrittori non si danno più neppure il tempo di scrivere decentemente per la fretta di pubblicare, gli amanti si possiedono carnalmente quasi prima di conoscersi, ecc. Questa fretta è l'indice di un profondo indebolimento dei caratteri: la forza e l'equilibrio interni di un uomo si misurano sull'ampiezza dell'intervallo che quell'uomo può sopportare tra il suo lavoro o il suo amore - e la loro ricompensa. In definitiva, l'uomo acconsente a non essere pagato mai...

Evidentemente, la scomparsa di quel bisogno meschino e sordido di accumulare denaro che fu il peccato del secolo scorso non merita di essere particolarmente deplorato. Ma la nostra gioventù spendereccia supera i suoi padri che tesaurizzavano, dall'alto o dal basso? Economizzare, fare riserva è un'esigenza centrale della natura umana, ed è limitare e snaturare arbitrariamente il problema intendere queste parole nell'unico senso di un accumulo di beni materiali. Un signore medioevale, un santo, un artista, un semplice contadino radicato ai campi paterni e carico di famiglia non accumulavano certo danaro. Ma accumulavano qualche altra cosa: un capitale di virtù, di tradizioni, di buoni costumi, senza parlare di riserve materiali, ma vitali, come le terre, le cose e i loro arredi, ecc.. Quella gente sapeva resistere all'invito di una soddisfazione immediata; sapevano privarsi dl qualche cosa oggi (si pensi ai sacrifici di un cavaliere, di un asceta, di un semplice padre di famiglia) in funzione di un avvenire da difendere e da fecondare. Lo spirito di economia, nel senso più alto della parola, si confonde con lo spirito di fedeltà e di sacrificio.

La borghesia del diciannovesimo secolo ha mirato a sostituire la riserva-denaro alle riserve vitali e spirituali dei secoli precedenti. Pericoloso rovesciamento dei valori: la riserva-denaro - cosa in sè fittizia, anonima e senza valore umano intrinseco - diventa una sorgente di decadenza e di catastrofi allorché l'istinto di previdenza si stringe a lei a danno delle riserve alimentari. Si sono viste, per esempio - e si vedono ancora - delle coppie che si astengono dall'avere e dall'allevare bambini per assicurarsi nella vecchiaia delle rendite più abbondanti. Se questa manovra si generalizzasse, che cosa varrebbe il denaro prestato allo Stato in una società di vecchi ugualmente improduttivi e tutti a carico dello Stato, vale a dire gli uni degli altri? La riserva-denaro; se non è corroborata e controllata, nella sua costituzione e nel suo uso, dalla formazione, almeno parallela, di riserve umane - vale a dire anzitutto di figli, futuri produttori, e di buoni costumi, che permetteranno ai figlio di far fruttare sanamente il denaro - la riserva-denaro, dicevamo, si trasforma in ricchezza morta, in ricchezza impoveritrice. Il marasma economico della Francia d'oggi non ha altra causa che questo stacco sempre più notevole tra la riserva-denaro e le riserve reali della nazione (1).

Del resto, il risparmio meschino e senza correttivo delle generazioni precedenti preparava l'ondata di sperpero dell'ora attuale. La sana previdenza era già morta nell'anima di quei Francesi che collocavano la loro speranza e la loro sicurezza suprema in un capitale-denaro, in una cifra. Il processo è classico: ogni "virtù" che sta per scomparire comincia col materializzarsi, col perdere la duttilità e la fluidità della vita e col congelarsi in un idolo inflessibile e vuoto. Ciò che deve imputridire prima indurisce. La rigidità cadaverica precede la liquescenza. Allo stesso modo in cui il falso pudore genera la dissolutezza e il sciovinismo l'oblio della patria, la previdenza morta dei padri ha dato origine all'imprevidenza assoluta dei figli.

Noi tocchiamo oggi il punto più basso della china. Psicologicamente - non si tratta di fare qui dei confronti morali - l'operaio e l'impiegato di oggi che non risparmiano più, si collocano anche più sotto dei "borghesi" egoisti che li hanno preceduti. Se non mettono più denaro in serbo, non è che abbiano vinto l'avarizia, ma non sono più capaci di alcuna specie di dominio di sé, di alcun sacrificio - neppure di vincersi oggi nel loro interesse di domani. Andiamo fino in fondo: quando ci viene predicato il "dovere dell'imprevidenza", converrebbe forse separare prima nettamente l'imprevidenza del santo, che non si preoccupa dell'avvenire perché ha "capitalizzato" in sé la sorgente e l'eternità della vita, dall'imprevidenza del decadente, la cui anima vacillante è in balìa dell'ora e della tentazione che passa e che, incapace sia di aspettare che di scegliere, cede costantemente alle sollecitazioni immediate di un egoismo senza continuità né unità.

Perché l'essere meno economo è anche il più egoista. Risparmiare, nel senso vero e santo della parola, significa soprattutto serbare per meglio donare. V'è senza dubbio una previdenza avara e chiusa, che si oppone ai veri scambi umani. Ma la sua erede, legittima, l'imprevidenza assoluta, è forse ancora di più la nemica della comunione e del dono. Nell'ordine materiale come nell'ordine spirituale, la liberalità e la munificenza non sono possibili che a colui la cui severa vigilanza ha saputo creare, in lui o attorno a lui, delle forti riserve.

Queste virtù, oggi, sono morte: l'uomo non ha più riserve in sé, si dissipa: che cosa vale il dono di se stesso - la sua amicizia, il suo amore? Non ha più riserve attorno a sé, sperpera il suo denaro: che cosa gli resta per un lusso vero (2).(intendiamo dire un lusso in durata e in profondità), per i poveri, per la chiesa, ecc.? (Non è fra i sintomi meno penosi del nostro male questa parallela decadenza del vero lusso e della carità...). La forma estrema di sperpero, che assomiglia in apparenza alla forma estrema di distacco, coincide in realtà con l'estremo egoismo, con la totale rovina della generosità. In tutti i campi, colui che sperpera di più, dà meno.

Se lasciamo ora l'individuale per passare al collettivo, constatiamo, esaminando la maggior parte degli ideali economici e politici d'oggi, lo stesso dispregio dell'economia, la stessa impotenza a creare delle riserve, la stessa tendenza a divorarle.

Per scongiurare le diverse crisi, per salvare la società, si propongono rimedi rapidi e sovvertitori (razionalizzazione, inflazione monetaria, autarchia economica, ecc., senza parlare della guerra, alla quale ognuno pensa in silenzio) (3) Questi rimedi rendono le nazioni febbricitanti. Di una febbre consumante, purtroppo, e non reattiva, che, invece di spazzare le impurità, distrugge le riserve. Le nazioni cercano la salute in ciò che le uccide. Ogni esperimento innovatore è una frustata, che comunica all'organismo collettivo un vigore fittizio a prezzo dell'esaurimento di una riserva vitale. Si dilapidano le più oscure e le più profonde risorse del corpo sociale (e pensiamo a cose tra loro diverse, come la stabilità monetaria, la continuità e l'autentica specializzazione professionale, l'inserimento dell'individuo negli antichi quadri locali, familiari e religiosi) a profitto di una riuscita effimera, di un'euforia di agonizzante. La salute dell'oggi si sconta con la degradazione dell'avvenire. Che cosa si sa oggi della vera politica, di questa saggezza paziente e silenziosa, che tiene nel giusto conto e produce le riserve?

L'impronta essenziale del socialismo (e quale nazione non è oggi infettata dal virus socialista?) consiste appunto in questo: che esso, misconosce e distrugge le riserve, le faticate riserve quiescenti, la pazienza conservatrice degli organi profondi. Dove sono i pozzi della vita - il pozzo della tradizione, dell'autorità, dell'esperienza, a cui si disseta oscuramente la carovana sociale - esso vede parassiti e ostacoli. Confonde riserva con inutilità. Tutto ciò che conserva, nel mondo dei corpi come in quello delle anime, provoca la sua avversione: forse che per caso coinvolge nello stesso odio proprietà e religione? Il socialismo ha la fobìa della profondità come dimensione. L'istinto degradatore e anti-vitale che abita in lui si rivolta contro le forze sostanziali che accumulano, dominano, temperano, contro la densità delle potenze interiori che trattengono il divenire umano nel solco di una armonia. In questi elementi di stabilità e di vita, l'ideologia marxista non vede altro che pesi morti e assurda oziosità. Forze che attendono, si nascondono, tacciono, gli sono insopportabili. Il sogno della "grande sera" ha un solo significato: ricondurre alla superficie, consumare in un vasto fuoco d'artificio materiale tutte le antiche riserve dell'umanità, e raggiungere, per mezzo di questa combustione universale, un grado mai visto di ampiezza e rapidità nella produzione e negli scambi sociali. In una parola, trasformare l'organismo collettivo nell'essere infinitamente piatto - perché infinitamente rapido - concepito dalla fantasia di Einstein. Via la zavorra, via i pesi morti, basta con le riserve che paralizzano: una vela senza spessore né densità che il vento dei "grandi principi" possa muovere a suo agio - la razionalizzazione dell'umanità! Ahimè, la vecchia massa solida e lenta può reagire ai cataclismi, ha delle riserve per traversare i deserti e resistere alle tempeste, mentre basta un soffio contrario per squarciare per sempre la membrana infinitamente rapida e infinitamente piatta.

 

VITA CITTADINA E SURMENAGE AFFETTIVO

Chi troppo abbraccia, male stringe: ciò vale anche nell'ordine dei sentimenti. Non è possibile a un uomo rispondere a tutti i richiami affettivi più che non lo sia per lui imparare tutte le scienze o fare tutti i mestieri.

Orbene, quale spettacolo ci offrono gli ambienti cittadini moderni? Gli eccitamenti di ogni tipo vi sono fantasticamente moltiplicati. Una permanente tensione è indispensabile per circolare nelle strade; i manifesti, i giornali, la radio, il cinema, portano continuamente all'individuo gli echi di tutto il mondo e vengono a stuzzicarne l'ambizione, la sessualità, la golosità, ecc. L'anima scoppierebbe se dovesse reagire profondamente a ognuna di queste sollecitazioni. Istintivamente - per salvarsi, per mantenere un minimum di equilibrio nel mezzo di questo indiavolato turbinio di eccitamenti - essa uguaglia e automatizza le sue reazioni. Troppi questuanti la assillano (qui un cartellone pubblicitario, là un teatro, più oltre quella donna dai fronzoli provocanti... ); per rispondere a tutti senza rovinarsi essa fa della inflazione, emette moneta falsa. Dopo qualche anno di simile regime non è più capace di un sentimento profondo, di un'idea personale. Tutta la sua vita si distende in superficie: le passioni e le opinioni vi scorrono indefinitamente, ma ogni virtù di penetrazione se n'è andata. Da questo spettacolo si può formulare questa legge: le reazioni affettive di un individuo si minimizzano, scivolano sul piano del gioco e della finzione nella misura in cui si moltiplicano, attorno a tale individuo, gli eccitamenti artificiali. In definitiva, gli stati affettivi più naturali e più profondi (l'amicizia, l'amore, le convinzioni religiose e politiche ecc.) diventano, nell'anima estenuata, altrettanto "irreali" e truccati quanto il mondo di macchine, di films, di carta stampata e di falsa sessualità che costituisce l'ambiente cittadino. Qui, l'adattamento perfetto all'ambiente equivarrebbe alla perfetta disumanizzazione dell'uomo.

Non intendiamo metterci in banale polemica contro la tecnica. Gli eccitamenti che provengono dall'ambiente cittadino, dagli strumenti inventati dall'uomo, dai prodotti della civiltà, possono provocare, in una natura sana, reazioni perfettamente umane in intensità e qualità. Si pensi, per esempio, alle prime emozioni di chi guida un'auto o un aeroplano! Ma per gustare queste emozioni, per rispondere umanamente agli eccitanti artificiali, bisogna possedere un capitale vergine di vita cosmica - le vaste riserve di freschezza e di profondità prodotte nell'anima dalla comunione stretta con la natura, dalla, familiarità col silenzio, dall'abitudine alle pacifiche cadenze di un'attività accordata sui ritmi primordiali dell'esistenza. I primi contatti dei contadini con le "meraviglie" della tecnica (elettricità, automobile, cinema, ecc.) sono circonfusi di un'ebbrezza che la persona civile non è più neppure capace di concepire. La risonanza è profonda perché l'anima è sgombra.

Perché l'uomo restasse un uomo in mezzo al "fittizio" della vita. di città, occorrerebbe che ogni eccitamento artificiale (se si eccettuano gli eccitamenti a cui è possibile rispondere con semplici gesti riflessi) potesse essere ricevuto in uno spirito alimentato quanto basta dalla riflessione individuale e dal contattò con l'intima realtà del mondo; occorrerebbe che si stabilisse l'equilibrio fra le perdite causate dalle emozioni e gli acquisti della vita interiore; occorrerebbe, di conseguenza, che gli eccitamenti fossero severamente filtrati e rarefatti.

Ma, in realtà, avviene il contrario: l'uomo è sempre più sopraffatto, dalle emozioni, è sempre più staccato dalle sorgenti cosmiche e spirituali della ricchezza interiore. Non ha più anima da offrire alle innumerevoli reazioni che l'ambiente circostante gli strappa: stiracchiato, premuto in ogni senso, si rifugia sul solo piano in cui le sue capacità di reazione sono pressoché infinite: quello dell'automatismo e del sogno. Là, è inesauribile in vuote e artificiose reazioni, come il torchio del falsario è inesauribile in falsa moneta! L'automatismo invade la sua attività, e i suoi affetti, le sue gioie, le sue passioni assumono il pallore, la mobilità, la leggerezza del sogno. Giunti, a questo punto, ci si può disperdere quasi illimitatamente, si può vibrare a ogni soffio, servire da eco a ogni rumore. L'attività esteriore e i sentimenti non comportano più la compromissione profonda, il dono che impegna tutto l'essere, proprio dell'azione autentica, dell'azione umana.

Come nell'ordine economico, si arriva cosi, nell'ordine affettivo, a una rovina mascherata d'inflazione. L'impura mescolanza di povertà vera e di opulenza falsa, la miseria bugiarda che è il marchio del mondo attuale s'incontra ancora una volta.

 

LAVORO E SVAGHI

Il moderno proletario ha l'odio del lavoro. Anche quando questo è ben retribuito, la sua insoddisfazione non si placa. Egli soffre meno di essere un operaio sfruttato che di essere puramente e semplicemente un operaio: le sue infinite rivendicazioni materiali non sono che manifestazioni superficiali e ingannevoli di quel malessere fondamentale.

Il proletario soffre così perché il suo lavoro è inorganico e inumano. I socialisti propongono, come rimedio alla crisi operaia, una più giusta ripartizione dei guadagni, dei salari più alti. Come se la questione operaia si fermasse lì! Si tratta invece di una rifusione totale delle condizioni prime del lavoro industriale, si tratta di sopprimere il lavoro inumano, il lavoro senza forma e senz'anima: la "grande officina", il lavoro "a catena", la specializzazione a oltranza, ecc., tutte cose che lo Statalismo socialista non può che portare alla loro suprema e mortale espressione.

Il problema dei salari è del tutto secondario. L'artigiano di villaggio, che fabbrica oggetti completi e tratta una clientela vivente, è infinitamente più felice e soddisfatto dell'operaio d'officina, pur avendo un livello di vita assai inferiore a quello di quest'ultimo.

Se le condizioni di lavoro del Proletario dea stria e del commercio non cambiano, l'alzarsi del livello dei salari non potrà che nuocergli. L'uomo votato a un lavoro malsano è votato pure a uno svago malsano. La svago (con tutte le "distrazioni" che implica) non è più per lui il prolungamento ritmico del lavoro, è una maniera di evadere, di vendicarsi del lavoro: invece di rendere più facile la ripresa del lavoro, la rende più amara. Non si rimedia ai mali derivanti dal lavoro inumano aumentando il benessere economico del lavoratore, al contrario si rischia di aggravare la sua noia e il suo decadimento.

Il marchio di certe forme moderne dell'attività sociale consiste infatti in questo: che il lavoro e lo svago normalmente complementari, vi diventano antagonisti. Semplice caso particolare, questo, di una legge generale: le cose che, sane, si completano, malsane si divorano a vicenda. L'amore cattivo dei sessi si converte in odio dei sessi, un sonno cattivo invade la veglia e l'avvelena. Lo stesso avviene per un lavoro senz'anima: la mescolanza di tensione e di monotonia che lo caratterizza, abbrutisce, e si ripercuote sul divertimento - predispone alla dissolutezza, vale a dire a piaceri artificiali e inumani come quel lavoro stesso. Le gioie che popolano il riposo dei lavoratori divengono così qualcosa di teso e di artificiale - una specie di sublavoro che, lungi dallo stendere l'anima e il corpo, aumenta la loro stanchezza e la loro intossicazione. Baudelaire, supremo vate della decadenza, non a caso ha usato la parola "travail" per designare il piacere:

Qui des Dieux osera, Lesbos, être ton iuge

Et condamner ton front pali par les travaux?...

Les débauchés rentraient, brisés par leurs travaux ...

Infatti, colui che non trova gioia nella sua fatica, troverà fatica nella sua gioia. Il lavoro forzato ha per corollario il piacere forzato.

E' amaramente istruttivo vedere la classe operaia e i suoi capi rivendicare prima di tutto, e quasi esclusivamente, un accrescimento dei salari e degli svaghi. Rivendicazioni cosi superficiali rivelano una strana dimenticanza della solidarietà intima e della continuità qualitativa che esistono fra il lavoro e il riposo. Lavoro e svago sono le due fasi di uno stesso ritmo: la perturbazione di una di queste fasi genera fatalmente nel l'altra una perturbazione corrispondente. Chi dorme male non può vegliare normalmente; allo stesso modo un uomo costretto a un lavoro anti-naturale corre il grave rischio di non occupare troppo umanamente le sue ore d'ozio. Si avrà un bell'aumentarle in quantità la loro qualità non resterà meno per questo inferiore e falsa. Non si tratta di tentare di far contrappeso a un lavoro inumano mediante l'accrescimento del "benessere" del proletari: finche il lavoro resterà inumano, questo benessere non potrà essere sano. Si tratta anzitutto (4) di umanizzare il lavoro. Fatto ciò, sarà permesso pensare di migliorare la situazione materiale delle masse: le riforme operate in questa direzione avranno allora più probabilità che non ne abbiano oggi di non esasperare, nell'anima dei lavoratori, l'odio per la fatica e lo spirito di rivolta e di anarchia.

Quando diciamo di umanizzare il lavoro, non vogliamo dire di renderlo necessariamente più facile e meglio rimunerato, vogliamo dire anzitutto di renderlo più sano. Vi è una vita dura e difficile che è umana, quella del contadino, del pastore, del soldato, del vecchio artigiano di villaggio... ; e vi è pure una vita molle e facile che è inumana e genera la corruzione, la tristezza e l'eterna rivolta dell'essere che non ha alcuna vivente funzione nella comunità: per esempio quella dell'operaio standard al tempo degli alti salari, quella del burocrate amorfo e ben pagato, ecc. E proprio quest'ultimo genere di esistenza il socialismo reclama per noi! Noi che amiamo il popolo di un amore umano (vale a dire di un amore spietato contro qualunque atmosfera inumana che lo minacci, per quanto molle e desiderabile possa essere in apparenza), chiediamo invece per lui molto più, chiediamo ben altro. I democratici moderni hanno confuso troppo in fretta la vita dura con la vita inumana. Così essi si sono condannati quasi unicamente a corrompere sotto il pretesto di umanizzare.

 

 

DELL'UGUAGLIANZA E DEL PROBLEMA DELLE CLASSI

E' un fatto che mai, forse, si erano notati così pochi scambi e tanta distanza da una classe all'altra della società o fra uomini di livello culturale diverso. L'influenza umana positiva delle élites sul popolo è ora pressoché nulla. Si era creduto, tuttavia - e fu uno dei maggiori miti del XIX secolo -, che la fraternità, la comunione sinfonica degli uomini sarebbe nata dall'affievolimento dello spirito di classe e, in definitiva, nella soppressione delle barriere sociali. Ma ciò che accade non è paradossale che in apparenza. La confusione non unisce, ma separa: essa crea fra gli elementi confusi delle opposizioni irriducibili. Ogni reciprocità d'influenza implica una solida differenza di natura e di posizione. Proprio nelle società fortemente diversificate e gerarchizzate, in cui il passaggio da un piano all'altro è molto difficile, per non dire impossibile, si stabiliscono, fra i membri di tali gerarchie, gli scambi più fecondi e duraturi: si pensi all'influenza secolare della monarchia, della nobiltà o delle caste sacerdotali sul popolo. In simili formazioni politiche ciascuno, in virtù proprio della stabilità, della "fatalità" della sua posizione, è interamente disponibile per lavorare al bene della generalità. Le classi in alto hanno le mani libere per dare, e quelle in basso per ricevere e gli scambi sono tanto più profondi quanto più è difficile a scavalcare il fossato che separa i diversi strati sociali.

La mistica democratica ha rovinato tutto ciò. Come potrebbero sussistere veri scambi all'interno della gerarchia, quando la stessa esistenza di tale gerarchia è messa in dubbio? In tal caso l'inferiore, disgustato del suo ambiente, della sua posizione, di se stesso, da questo soffio d'aria di palude suscitato in lui dall'insegnamento dell'uguaglianza, non ha più nulla da ricevere dal superiore, e non mira che a uguagliarsi a lui e a espellerlo. Il superiore, a sua volta, anziché governare avendo di mira il bene di tutti, tende soltanto a difendere la sua posizione minacciata. Da una parte l'invidia, dall'altra il timore inaridiscono tutti gli scambi vitali: questi non sono possibili che in quelle società in cui il destino degli individui è strettamente legato alla posizione che occupano e il passaggio da un piano all'altro della gerarchia esige una trasformazione e un'ascensione totale di colui che si eleva, e non il suo abbandonarsi alle grottesche combinazioni della finanza o del suffragio universale. Lo scambio sociale è puro e fecondo solo in un mondo in cui il dirigente si sente sicuro in alto perché il subordinato si sente al suo posto in basso. Ma oggi possiamo ancora parlare di scambi? Oggi, in alto si tratta di difendere, in basso di conquistare. Con la sterile confusione delle classi comincia la sterile lotta delle classi.

Non è un paradosso affermare che le barriere sociali favoriscono assai spesso la comunione umana. Alla fine del secolo scorso nei nostri villaggi provenzali non ancora travagliati dalla febbre repubblicana, un'estrema familiarità regnava tra il signore del luogo e i contadini: giocavano insieme alle bocce dopo i vespri, ,le signorine della nobiltà danzavano con i giovanotti del villaggio, ecc. Simili correnti di simpatia effettiva non erano possibili che nella misura in cui ogni classe restava legata alla sua posizione, al di fuori di ogni contestazione e di ogni invidia. In tali ambienti, in cui le differenze sociali erano accettate, vissute come indiscutibili necessità, la familiarità tra una classe e l'altra poteva crescere sempre più senza pericolo di promiscuità: una fraternità profonda nasceva dall'accettazione dell'ineguaglianza.

Il messianismo egalitario, al contrario, genera nel popolo la rivolta e la diffidenza nei riguardi dei capi e, nei capi, la preoccupazione di mantenere la distanza nei riguardi del popolo: da una parte un riflesso di aggressione, dall'altra un riflesso di difesa, la guerra al posto della comunione. Poiché - qualunque sia la abitudine che la Rivoluzione francese ci ha dato di vedere accoppiate le due parole - la fraternità non ha quaggiù peggior nemico dell'uguaglianza.

 

Un nobile dell'ancién regime poteva, senza cessare d'essere rispettato e obbedito, trattare i suoi servitori con un'estrema familiarità; un moderno parvenu, è obbligato a compensare mediante un autoritarismo morto l'assenza di autorità vivente, e di marcare tanto più le distanze in quanto esse non esistono in realtà. L'egualitarismo più malsano diventa fatale dal momento in cui la gerarchia sociale non si fonda più che su diversità di patrimonio. Perché il popolo rispetti e segua spontaneamente coloro che lo governano, occorre senta che questi ultimi lo dominano per altro che non sia il denaro. Donde la necessità di diminuire fra gli uomini le disuguaglianze di fortuna a profitto delle differenze di casta, di tradizione, di cultura, ecc., o, quanto meno, di appoggiare le differenze di fortuna su delle differenze umane. Ma quale odiosa casta di padroni questa plebe coperta d'oro! Essa suscita, nell'animo del popolo, l'invidia più nera e più legittima, quel "perché non io" che, agitandosi a vuoto, scompagina le società. Chiunque, infatti, può aspirare a esser ricco, dato che la conquista del denaro è legata agli accidenti più banali: non allo stesso modo si aspira alle ascensioni che costringono a un cambiamento profondo di costumi o di cultura, che portano con sè un accrescimento di responsabilità e il cui fallimento viene fatalmente scontato - moralmente e materialmente - a breve scadenza. Non v'è miglior freno all'invidiosità e allo spirito di rivolta delle masse della presenza di una élite dirigente la cui autorità sia indipendente in larga misura dal denaro.

Questa potenza (quella che proviene da una tradizione ereditaria o dal merito professionale) è organica, specificata, localizzata; essa si esplica all'interno di certi quadri vitali ed è feconda in virtù della sua funzione propriamente umana e del suo adattamento a determinati tempi e a determinati luoghi; essa è tutelata contro i suoi stessi abusi e la sua stessa attitudine a degenerare, da un ritmo di scambi continui con l'ambiente in cui vive e non può distruggere nulla se non distruggendosi: i suoi interessi si confondono coi suoi doveri.

La plutocrazia, invece, è inorganica e non ha un suo ambiente specifico (un ricco è ricco in ogni luogo); estranea all'ordine vivente della comunità, non può essere (e per di più senza un freno, senza un correttivo) che un fattore di disordine e di parassitismo.

Un sistema di paratie stagne fra le caste non è né auspicabile né realizzabile nel nostro mondo occidentale e cristiano. Il passaggio dal popolo all'élite deve essere possibile (altrimenti quest'ultima si estenua e degenera), ma deve essere difficile. Occorre che si elevino, da una classe all'altra e da una casta all'altra, dighe alte e robuste, in tal modo chi supererà tali dighe sarà veramente salito! Il tempio ove regna la classe dirigente dovrebbe portare sul suo frontone questa scritta: qui si entra salendo.

La miseria dell'ideale sociale moderno consiste invece precisamente nello spianare le dighe e nello stabilire fra il popolo e l'élite un piede di parità rovinoso. Di qui l'involgarirsi e il degenerare delle élites: con la scomparsa di una distanza in senso verticale (e della selezione che tale distanza implica) perisce l'élite. Una élite collocata bene in alto, d'accesso difficile e rigorosa nell'accogliere, nobilita l'uomo del popolo che s'innalza fino a lei e nobilita col suo solo riverbero tutta quanta la massa popolare. Ma oggi, plebaglia in alto, plebaglia in basso, come diceva Nietzsche. Per amore del popolo e delle migliori possibilità che dormono in lui, importa anzitutto conservare e ricreare, al disopra di lui, un potere largamente indipendente da lui, una forza attrattiva e insieme regolatrice, capace di proteggere instancabilmente le riserve popolari di forza e di vita contro la bassezza e la cecità plebee. Altrimenti, questa bassezza e questa cecità sommergeranno tutto. Infatti il popolo porta in sè quanto basta a tutto salvare e rigenerare, ma anche a tutto abbrutire e distruggere. Due correnti si incrociano nella sua anima:, una tende verso la dissoluzione e l'anarchia, e questa è sufficiente a se stessa, l'altra è portatrice di una ricchezza profonda, ma incompleta e come germinale, ed è costretta senza sosta a fare appello, per realizzarsi, a un'influenza superiore. Come Barbusse, abbiamo fiducia "negli abissi del popolo", ma a condizione che questi abissi siano rischiarati e fecondati dal di fuori, dall'alto. Essi possono creare ogni cosa come pure inghiottire ogni cosa. E la democrazia - e il termine stesso indica che niente è al disopra del popolo, che il popolo è solo - si è troppo lungamente limitata a coltivare il lato brutale del popolo, la sua tendenza all'affogamento e all'autodistruzione. Perché il popolo basta a sè per cadere, ma non per camminare.

La soppressione delle paratie stagne è oggi ormai acquisita e l'esistenza stessa delle classi è minacciata. Non è il caso né di lamentarcene né di gioirne, importa solo sapere a quali condizioni una simile società può restare sana.

Ogni uomo può ormai aspirare alle funzioni superiori. Affinché questa possibilità non sia per il popolo una ventata d'aria corrompitrice, occorrerebbe che i membri delle classi dirigenti conducessero un'esistenza assai dura e una vita in cui i doveri e i sacrifici avessero sempre più il sopravvento sui privilegi, di maniera che l'uomo del popolo comprendesse chiaramente che non avrebbe niente da guadagnare dal punto di ,vista dei suoi interessi materiali a spostarsi fuori della sua classe verso l'alto. Solo cosi coloro che salissero verso le funzioni superiori salirebbero per vocazione e non per ambizione. Un clima ascetico è tanto più necessario alle sommità della gerarchia sociale quanto più queste sommità sono accessibili al popolo.

La Chiesa ha sempre pensato così. Essa è aperta, in tutti i gradi della sua gerarchia, ai proletari, ma impone a quelli che aspirano alle funzioni sacerdotali un cambiamento tale di vita e sacrifici tali che la semplice attrattiva dei privilegi e degli onori non è sufficiente (salvo nei periodi di estrema decadenza del clero) a suscitare molte false vocazioni. L'uomo del popolo, inasprito contro i suoi umili doveri di stato, più facilmente brigherà per la funzione di deputato che per quella di monaco! Un regime di tipo democratico non può restare sano che nella misura in cui sussista, nei suoi dirigenti, uno spirito d'immolazione che ha una parentela con quello del sacerdozio, e della cavalleria.

Del resto, il figlio del popolo, chiamato a guidare il popolo, ha bisogno, più del principe o del nobile, di essere separato dal popolo. in virtù della sua anima e dei suoi costumi; per far accettare al popolo la sua autorità, occorre che egli supplisca, per merito del cambiamento profondo che s'è operato in lui, all'ascendente spontaneo che il figlio di una casta superiore possiede. La Chiesa, che trae dal popolo la maggior parte dei suoi preti, sa rivestirli di solitudine e di mistero quanto basta perché possano guidare dall'alto la classe da cui sono usciti, con il massimo di prestigio e influenza. Vi è democrazia e democrazia: in una società come la Chiesa, il proletario esce dal popolo trasfigurato dalla vocazione della sua anima; nella maggior parte delle democrazie moderne, ne esce sfigurato dalle ambizioni del suo io.

Concludiamo: un regime fondato sull'uguaglianza giuridica fra gli uomini ha bisogno d'essere incessantemente redento e purificato da un severo accrescimento delle ineguaglianze morali.

 

I GRANDI E IL POPOLO

La Bruyère parla, in una sua pagina, della venerazione ardente e irriflessiva dei poveri nei riguardi dei grandi. "Se i grandi si curassero di essere buoni, commenta amaramente, si arriverebbe all'idolatria".

Par di sognare, oggi, ripensando a tale stato d'animo. Eppure, è stato così: l'incoercibile bisogno umano di vedere la potenza unita alla purezza, di credere a un ordine sociale fondato sulla verità interiore e a qualche riflesso temporale della giustizia divina, - il presentimento di una grandezza estranea e protettrice, che per l'umile costituisce l'unica ragione vera di vivere e di servire, mantenne lungamente nello spirito del popolo un'idea profonda e sacra della persona dei grandi. Allora, l'invidia esisteva appena (l'invidia presuppone una specie d'identità nelle vocazioni e negli interessi: così un commerciante invidierà i guadagni di un altro commerciante e non il "genio" di un poeta): l'uomo del popolo viveva troppo la distanza irriducibile che lo separava dai grandi per invidiarli altro che in sogno.

Ma tutto è crollato a poco a poco, man mano che il popolo si è accorto che i potenti e i nobili gli assomigliavano, che, nel segreto dei loro atti, erano bassi e volgari quanto lui e che la loro supremazia esteriore non corrispondeva ad alcuna intima grandezza. Il popolo, allora, si è messo a detestare e a odiare questa aristocrazia discesa al suo livello e ormai svuotata, per lui, di ogni sostanziale superiorità. Essendo morta nella sua anima la distanza vissuta fra lui e i suoi capi, come avrebbe potuto sopportare lo spettacolo della distanza esteriore di quei privilegi che sentiva fondati sulla menzogna, mostruosamente usurpati? Un selvaggio, un anarchico "perché non io?" ha preso necessariamente il posto di una accettazione veneratrice della ineguaglianza.

Ma prima di quest'odio e di questa rivolta quale vertigine di disinganno deve aver suscitato nell'anima, ostinatamente adoratrice degli umili questa presa di coscienza della bassezza dei grandi, questa lacrimevole caduta dalle nuvole? Il ciclo è ormai compiuto: il popolo, il vecchio popolo da cui sgorgarono i romanceros e le leggende eroiche e che aureolò la fronte dei grandi d'uno splendore spirituale spesso inesistente, oggi non crede più alla grandezza, anche quando esiste. Ma dove cercare la colpa iniziale? Se una malsana febbre di uguaglianza consuma la plebe, non l'hanno forse accesa gli stessi grandi, abbassandosi col loro comportamento al livello della plebe?

Tu non avevi il diritto di assomigliarmi, può dire l'umile al grande. Hai scatenato ed esasperato la mia bassezza, rivelandomi la tua. L'odio che mi divora oggi è il cadavere della mia venerazione di ieri. Hai ucciso in me il sentimento vivente della gerarchia, la dolcezza e la nobiltà dell'obbedienza. E' stata dura a morire questa immagine della tua giustizia e della tua bontà, lungamente ha resistito questo povero e abbagliato rispetto che cullava i miei sogni e la mia fatica, ma è pur stato necessario che alla fine soccombesse sotto i tuoi colpi. Sei riuscito a provarmi che mi rassomigliavi. Voglio dunque, ora, che ci assomigliamo fino in fondo (questa volontà si denomina rivoluzione, egualitarismo, comunismo ... ). - Misuri il male che m'hai fatto? La giustizia, e l'amore mi hanno mentito con la tua bocca. Tu mi hai amputato della miglior parte di me: la mia confidenza in te e in tutto l'ordine umano e divino che tu rappresentavi. Eri infatti per il popolo il sostegno e il messaggero del cielo e l'immagine di Dio s'è corrotta in me con la tua immagine. Per colpa tua, mi sono sentito solo e orfano, ho perduto il sentimento di una grande realtà a me superiore, che mi sosteneva e mi tutelava mentre nutriva nel mio cuore una rassegnazione senza amarezza e una speranza senza febbre; ho cessato di sentirmi sorpassato, non ho visto più nulla al disopra di me al disopra della mia meschinità e della mia debolezza, che non sia la menzogna. Non capisci che ora io provo a ricreare il mondo sulla mia miserabile immagine?

 

"LE LIBERTÀ"

Tanto orrore susciterebbe distruggere la libertà dove Dio l'ha messa quanto introdurla dove non è, dice Pascal. Questa formula riunisce e stigmatizza i due attentati con cui i tiranni (confessi o camuffati) minacciano la vera libertà dei popoli: l'oppressione e la corruzione, la distruzione per atrofia e la distruzione per ipertrofia.

In Francia, da oltre, un secolo la libertà viene introdotta dove non è. Si strappa il popolo all'alma necessità, all'umile e materno alveo di istituzioni, di costumi e di doveri nell'interno del quale la sua libertà può esercitarsi sanamente, per farla agire fuori del suo luogo naturale, in un terreno forzatamente adattato alla sua natura, e in cui essa si ribella: dogma della sovranità del popolo, e del suo corollario pratico, il suffragio universale... Tanto varrebbe domandare a un cieco di scegliere liberamente fra i colori! All'ideale della libertà si immolano i quadri organici della natura. Si dice all'agnello: sei libero di essere o di non essere erbivoro. Poiché a questo, in fondo, vengono ricondotte istituzioni che alimentano nel cervello di tutti gli uomini l'illusione di essere sovrani, uguali a chiunque, e di risolvere netto con la loro scheda di voto i problemi più estranei alla loro competenza.

Ma stiracchiare e dilatare così la libertà è anche il modo più sicuro (e il più perfido) di sopprimerla. Di un bene di cui si abusa si perde la stessa capacità di usare. Chi vuole correr troppo oggi, non potrà più camminare domani... Dopo aver permesso al suo desiderio di pascersi fra gli alimenti carnei, l'erbivoro corrotto non sa più scegliere sanamente fra le piante che lo circondano; - l'uomo del popolo, infarcito di "idee generali" e di ambizioni grottesche, perde la saggezza specifica del suo ambiente sociale e professionale., Fuori dal suo ordine non è libero: ha solo l'illusione della libertà, ma in realtà è spinto da moti senza senso o da passioni malsane, e la sua sovranità universale si risolve in fumo e in commedia. Ma il più grave, il più terribile è il suo non esser libero neppure nel suo stesso ordine. Nulla più di un certo mito della libertà ha. contribuito a distruggere, nell'anima delle masse, la vera libertà e la vera saggezza.

Possiamo modificare così le parole di Pascal: volendo mettere la libertà dove non è, la si distrugge dove Dio l'ha messa. L'uomo che non accetta di essere relativamente libero sarà assolutamente schiavo.

 

 

EGUALITARISMO E FUNZIONARISMO OVVERO IL MITO DEL PASSAGGIO A LIVELLO

Sia nell'ordine economico che nell'ordine sociale, il liberalismo assoluto è una mostruosità. Certamente le ineguaglianze sociali sono nel loro fondamento legate alla natura, ma non appartiene alla sola natura regolarne l'espansione e i rapporti. Il libero gioco degli interessi e degli appetiti non ha mai generato che terribili disordini. Qui, come in tutto ciò che è umano, la "natura buona" non è sufficiente a se stessa; essa deve, nello stesso tempo, essere rispettata e completata; e tocca all'intelligenza e alla volontà umana (nel caso nostro, al potere politico) il compito grave di coordinare e controllare le ineguaglianze uscite dal seno della natura.

Compito arduo. Bisogna intervenire senza ferire, organizzare senza distruggere. Di fronte alle ineguaglianze naturali fra gli uomini due opposte aberrazioni attendono al varco i poteri pubblici: la prima consiste nell'abbandonare la natura a se stessa (è l'antica concezione del liberalismo: lasciate fare, lasciate passare, il caso se la caverà meglio di voi...); la seconda, nell'insorgere contro la radice stessa dell'ineguaglianza e nel procedere a una specie di rifabbricazione generale della natura (è l'ideale dello statalismo socialista). L'uno vale l'altro e l'uno chiama l'altro. Lo statalismo segue implacabilmente al liberalismo assoluto (5).

Quando delle ineguaglianze di massima sane e necessarie, ma abbandonate a tutte le corruzioni del caso e dell'egoismo, si inveleniscono e si contrappongono invece di completarsi e tornano a danno dell'insieme, la salvezza, apparentemente, consiste nella loro soppressione. Un organo ha un bell'essere prezioso; se l'anarchia cancrenosa vi si instaura, un solo rimedio ,è possibile: l'estirpazione! Tragico rimedio, del resto, che sfiora e precede la morte. Sarebbe stato ben meglio saper preservare, per non aver poi bisogno di distruggere. E' altrettanto insensato - in qualunque materia umana e, a fortiori, in materia sociale - abbandonare la natura a se stessa quanto lottare contro la natura.

Il passaggio a livello costituisce un meraviglioso simbolo dello Stato socialista ed egalitario. Una società naturale ha un alto e un basso, delle differenze, una gerarchia. Ma la natura, come è complicata! E la complessità, la gradazione, il formicolio di ineguaglianze e di privilegi di cui la natura ci offre lo spettacolo, agli sguardi livellatori di uno spirito primitivo, per forza appaiono come l'immagine del caos o, più precisamente, dell'ingiustizia. Ma, per fortuna, l'uomo è là per raddrizzare la natura - questa. natura dai capricci di tiranna! Ecco dunque che si concepisce - e si tenta di realizzare - un organismo sociale sul modello del passaggio a livello. E' la soluzione più semplice, più facile e soprattutto più equa. Ma la facilità gioca brutti scherzi! Vi è molta duttilità in una vera gerarchia: i suoi membri, esistendo e operando ciascuno al suo livello specifico, si sostengono, e si vivificano reciprocamente: le frizioni, gli urti, le "collisioni" sono ridotte al minimo. Al passaggio a livello invece, dove si incontrano i veicoli più disparati, le catastrofi si contano in gran numero. L'egualitarismo ha negato i gradi (difatti è faticoso quanto "ingiusto" far passare la strada sopra la ferrovia!), ma, dalla promiscuità di elementi irriducibili sullo stesso tragitto nasce una confusione intollerabile o la collisione mortale. E' istruttivo constatare fino a che punto due elementi, sinergici finché restano distinti l'un dall'altro e subordinati l'uno all'altro, possano diventare antagonisti dal momento in cui una fantasia egualitaria li pone sullo stesso piano...

Confusione, collisione... Occorre evitarle. Allora, sorgono le barriere e i guarda-barriera: una complessità infernale, corrispettivo della utopistica semplicità della costruzione. Il guarda-barriera non ha una positiva funzione sociale, non serve a nulla - se non a proteggere l'egualitarismo contro se stesso: la sua fatica, puramente negativa, consiste nell'inibire, interrompere, disturbare la marcia di veicoli che si incrocerebbero così armoniosamente, senza controllo rigido, senza spreco di tempo e d'energia qualora circolassero a diverso livello! E malgrado il formicolare di barriere e di guardiani, le catastrofi si succedono, fatali, stupide. L'impiastro della barriera non copre mai interamente la piaga scavata nel cuore delle esigenze primordiali della società umana dalla istituzione del passaggio a livello.

Morale dell'apologo: il passaggio a livello rappresenta l'ideale e lo stato dell'equità astratta, della giustizia matematica, il guarda-barriera simboleggia l'insostenibile proliferazione degli organismi di controllo, di difesa e di protezione: il funzionarismo: due poli indissolubili della medesima realtà; si è voluto semplificare tutto, parificare tutto, si è sognato di ridurre il corpo sociale a una figura di geometria piana. Risultato: alla complessità organica della natura, la complessità vivente, feconda, figlia e ancella dell'unità, si è sostituto una complessità meccanica, artificiale e parassita. L'esperienza attuata ormai da vent'anni, nella Russia sovietica illustra luminosamente questo doppio volto della Rivoluzione socialista.

L'eresia del passaggio a livello ha, come sanzione, la barriera e il parassita che la sorveglia. Lo stesso per l'eresia egalitaria: essa cerca un rimedio alla sua aberrazione, alla fatalità dissolvitrice che s'annida all'interno delle sue viscere, in un funzionarismo amorfo e smisurato. Ma questo rimedio estenua; è un rimedio velenoso! Il funzionarismo è lo stesso egualitarismo che s'uccide difendendosi contro se medesimo.

 

MARXISMO E FREUDISMO

Marx e Freud sono fratelli: i loro due sistemi procedono, come ha visto assai bene Rudolf Allers dal medesimo "sguardo dal basso". L'elemento inferiore (le "masse" per il primo, gli istinti per il secondo) è tutto, e la Forma (l'anima nell'individuo, i quadri tradizionali e le classi dirigenti nella società) non è che un parassita camuffato. Tutto il male viene dalla menzogna che i valori così detti superiori rappresentano. Conclusione pratica: l'inferiore deve spazzar via lo pseudo-superiore e installarsi al suo posto: sbrigliamento degli istinti, dittatura del proletariato. La salvezza consiste nel redimere ciò che è in basso dal vampirismo di ciò che pretende essere in alto. Quando l'inferiore sarà abbandonato a se stesso, tutto andrà a posto.

Vi è, in questa specie di "jacquerie" intellettuale una reazione perfettamente logica contro un eccesso millenario. L'umanità passata aveva troppo cercato la salvezza nel culto esclusivo dell'elemento superiore; l'uomo si fermava allo spirito, la nazione al Principe o ai grandi: i sensi e il popolo venivano sempre dopo - e si perdessero pure, se era necessario!

Si pensi alla parte riservata ai sensi e agli istinti nei vecchi sistemi di educazione, e a quella riservata alle masse operaie nell'economia liberale. In morale, come in politica, la mentalità del passato è contrassegnata da un'ignoranza e da una brutalità talora mostruosa nei riguardi delle forze elementari. Il mondo odierno ha reagito, più mostruosamente ancora, conforme alla tragica legge che fa alternare gli eccessi contrari (6), col sogno della assoluta emancipazione dell'elemento inferiore. Non insistiamo sui risultati di questa rivoluzione. Un organo maltrattato può reagire con un cancro, ma è la prima vittima della sua rivolta: il cancro mangia lui prima di tutto.

Il marxismo e il freudismo hanno il merito d'aver posto in tutta la sua forza e la sua dolorosa acuità il problema delle "realtà che sono in basso". Qui ancora un duplice compito s'impone agli spiriti attenti, alla verità totale dell'uomo. Queste realtà inferiori vanno protette contemporaneamente contro la tirannia delle cose che sono in alto, che vuole ridurle a niente, e contro la loro propria rivolta che vuole uguagliarle a tutto.

La salvezza, infatti, non viene dal basso: la "liberazione" marxista o freudiana si risolve in anarchia e in putrefazione. Ma non bisogna cercarla per questo in alto solamente: uno psicopatico, per esempio, non guarisce unicamente attraverso l'educazione della sua mente e della sua volontà, né una società malata attraverso la riforma di quella che è la sua "élite". - La salvezza viene dal superiore, ma dal superiore che, invece di isolarsi in se stesso, si china con intelligenza e amore su ciò che è al disotto di lui; risiede nell'atto di riconoscimento completo, nella perfetta adozione dell'inferiore da parte del superiore. In tal modo lo psicopatico guarirà per opera del suo spirito, ma del suo spirito fatto arrendevole ai bisogni e alle miserie della sua sensibilità, la nazione malata guarirà per opera della sua "élite", ma di una élite piegata sulle masse, orientata verso i bisogni del popolo. Purgati dal loro veleno rivoluzionario, marxismo e freudismo appaiono come segnali d'allarme destinati a ricordarci che la realtà inferiore esiste, che essa ha il suo ordine e i suoi propri bisogni, e che non la si domina che rispettandola.

 

LO SPIRITO DI SINISTRA E LO SPIRITO DI DESTRA

E' facile definire l'uomo di sinistra come un invidioso o come un utopista, e l'uomo di destra come un soddisfatto o un "realista". Queste formule ci dicono assai poco sulla vera differenza interiore fra questi due tipi di umanità.

Cerchiamo di vederci più chiaro. Se richiamiamo alla mente, in ogni campo, alcune delle personalità superiori (solo esse, forse, sono capaci di fornire l'ingrandimento necessario per scoprire delle essenze) si impone la constatazione seguente: il grande uomo di destra (Bossuet, De Maistre, Maurras, ecc.) è profondo e angusto, il grand'uomo di sinistra (Fénelon, Rousseau, Hugo, Gide, ecc.) è profondo e torbido. Possiedono entrambi tutta l'apertura umana: portano nelle loro viscere il male e il bene, il reale e l'ideale, la terra e il cielo. Ciò che li distingue è questo: l'uomo di destra, lacerato fra una visione chiara della miseria e del disordine umano e il richiamo di una purità che non si può confondere con alcuna realtà a lei inferiore, tende a separare, energicamente, l'ideale dal reale; l'uomo di sinistra, il cui cuore è più caldo, ma lo spirito meno lucido, è incline piuttosto a confonderli. Il primo, preoccupato di garantire all'ideale la sua altezza e la difficile sua accessibilità, fiuterà volentieri odor di disordine negli "ideali" che circolano per il mondo; il secondo, premuroso di realizzare i suoi nobili sogni e forse un poco schivo delle severe ascensioni sarà portato a idealizzare il disordine (7). Da una parte si mescola, dall'altra si disgiunge...

Imbavaglia e mortifica il demone che è in te e nel mondo, dice lo spirito di destra. Fanne un angelo, ci sussurra lo spirito di sinistra. Il guaio è, in quest'ultimo caso, che si può in misura infinitamente più facile travestirlo che trasformarlo.

L'ascetismo è a destra, il quietismo a sinistra. Il duello tra Fénelon e Bossuet riveste, da questo punto di vista, un immenso significato umano. Bossuet aveva presentato, nel quietismo, il primo indizio, ancora timido e velato, di quella catastrofica confusione di Dio e dell'uomo, che doveva caratterizzare l'età moderna. La corruzione quietista equivale, sul piano religioso, alla corruzione democratica sul piano politico: l'una e l'altra sono il frutto della premura febbrile che anima l'essere impotente il quale, privo ormai di forze per lottare e di riserve per attendere, si affretta, - per realizzare, senza ritardo e senza fatica, il suo sogno di pienezza e di felicità, a confonderlo con qualsiasi cosa. Il quietismo e la mistica democratica consistono nel bruciare le tappe - in sogno! La febbre è a sinistra.

I grandi pessimisti cristiani, come Pascal o De Maistre, non hanno certamente meno nobiltà o generosità di qualsivoglia altro spirito di sinistra, essi hanno semplicemente una coscienza tragicamente viva dell'abisso che si spalanca tra ciò che è l'uomo e ciò a cui è chiamato: essi sono scettici per rispetto della verità suprema, realisti per amore della realtà del loro ideale. -

Ci si risponderà: la visione e il riconoscimento sincero della miseria dell'uomo sarebbero dunque sentimenti di destra? Eppure, ecco a sinistra questa premura della verità, questa tendenza a strappar la maschera a ogni cosa, a mettere a nudo tante bassezze indebitamente idealizzate (il freudismo e il marxismo, per esempio, sono a sinistra), mentre a destra si osserva piuttosto il farisaismo, l'oscurantismo, la pia fraus... Potremmo replicare che ci sono anche a destra dei grandi smascheratori (un Pascal, un Nietzsche, ecc.). Ma tuttavia, bisogna confessare che, generalmente parlando, il bisogno di esplorare il sottofondo volgare o impuro dell'uomo e della società è un sentimento di sinistra. L'uomo di destra sente troppo la realtà della bassezza umana per provare il bisogno di gridarla sui tetti, sente altresì istintivamente i pericoli che comporta una simile esibizione, prova infine, di fronte alle miserie dell'umanità, una specie di pudore doloroso che lo porta ad allontanare lo sguardo (tale pudore, di natura essenzialmente aristocratica, degenera, nel tipo "borghese", in farisaismo ipocrita). E qui assistiamo a questo curioso paradosso. I politici, i moralisti, gli educatori, ecc. di destra, teoricamente trascurano la bassezza degli uomini e sembrano perfino idealizzare ipocritamente la natura umana (vedi per esempio la loro concezione un po' semplicistica dell'"anima", della "virtù", della "patria", ecc.), ma, praticamente, trattano l'uomo con la prudenza e la severità che la sua miseria esige (i climi spiritualisti furono sempre rigidi); quelli di sinistra, all'opposto, gridano ai quattro venti la materialità e l'impurità fondamentale delle tendenze umane (per esempio le teorie marxiste e freudiane); solo che, dopo questa discesa puramente speculativa agl'inferi, trattano l'uomo da angelo, e il loro ottimismo pratico è illimitato.

Allora qual è il segreto motore di questa furia smascheratrice? Il desiderio di sorpassare oppure di combattere ciò che l'uomo ha di inferiore o di vile? Il fondamentale anti-ascetismo di tutti questi smascheratori dimostra a sufficienza il contrario. L'anima della loro sincerità è ancora - la sete di idealizzare la bassezza umana! Quando si è provato che gli "ideali" dell'uomo non sono che travestimenti dell'istinto sessuale (freudismo) o moventi economici (marxismo), cioè che la carne e la materia sono l'unica realtà, quale aureola appare contemporaneamente attorno alla materia e alla carne! L'uomo di sinistra stigmatizza a gran voce il male del mondo, ma quel male, in fondo, non lo prende sul serio: per lui esso non è che un accidente superficiale ed effimero; un po' di tempo ancora e svanirà al soffio del "progresso", della "rivoluzione", ecc. Vi sono ancora, certamente, dolorose situazioni psicologiche dovute ai conflitti sessuali, vi sono pure crudeli ingiustizie sociali, ma tutti questi mali spariranno dal giorno in cui l'uomo avrà veramente preso coscienza della realtà sessuale e della realtà economica.

L'ottimismo freudiano e l'ottimismo marxista sovrabbondano di preziosi insegnamenti: per l'uomo di sinistra, il male illuminato e denunciato è già pressoché guarito, il quale non è in fondo che un malinteso, una specie di posizione falsa presa nel sonno dall'umanità... Vi è forse un modo più sottile e pericoloso di idealizzare il male del presentarlo così esteriore e curabile, evolventesi con tanta sicurezza verso un bene e un equilibrio universale?

Ma i profeti della rivoluzione denunciano proprio la bassezza umana? No, perché fanno di tale bassezza, l'essenza dell'uomo. Ciò che essi denunciano non è la materia o il peccato (anzi, vi si adattano molto bene, perché non vedono niente al di là), ma il tormento e il dolore inerenti alla materia e al peccato. Dalla materia e dal peccato finalmente organizzati, sviluppati, pervenuti alla piena coscienza e al pieno possesso di sè, essi sperano veder scaturire un paradiso. Possiamo così capire ciò che significhi questa premura di denunciare e di sopprimere tutte le miserie umane. La sventura potrebbe far pensare al peccato: si è quindi indotti a farla finita con il corteggio di dolori che la bassezza dell'uomo trae seco, affinché non vi siano più - finalmente! - obbiezioni contro tale bassezza. Si perseguita il dolore per meglio canonizzare il peccato...

Infatti il primo compito (e quanti ideali morali e politici si fondano su questo desiderio!) è di rendere indolore la bassezza, di addomesticare e castrare il peccato. Questi idealisti accettano ogni aspetto della caduta - salvo l'aculeo del castigo. Essi cercano e implorano una specie di quiete divina, nella vanità - nella povera gioia e nel povero orgoglio dell'uomo caduto. Non dubitano della fondamentale divinità di quell'uomo e lo spettacolo del male è quindi per loro insopportabile. Fin che il male sussisterà sarà impossibile adorare l'uomo senza riserve: un dio non può e non deve soffrire! Conclusione: volontà di cancellare il male-peccato come un mito, e il male-dolore come un accidente. Dopo di che, tutto nell'uomo sarà ben mescolato, confuso, divinizzato! -Tutto è Dio quando non vi è più né sommità né gerarchia. L'anarchia realizza il cielo a buon mercato.

Rigidità a destra, promiscuità a. sinistra. In tutti i campi l'uomo abbandonato a sè stesso non può che oscillare fra questi due scogli. E in ogni campo, solo un clima morale e sociale vitalmente cristiano può risparmiargli questa scelta amara. Gli abissi della ribellione e della miseria umana, la durezza ascetica di destra li ostracizza, la corta follia di sinistra li traveste, ma il cristianesimo li trasfigura. - A sinistra la vastità impura e febbricosa della palude, in cui si mescolano acqua e terra, miasmi e rugiada, - a destra la purità augusta e gelida delle rigide montagne, - in alto la suprema ampiezza del cielo puro, tenero e senza fondo - del cielo più vasto della pianura, più alto e più vergine delle montagne.

 

EGOISMO E SENSO SOCIALE

Non vogliamo qui moralizzare sul concetto, particolarmente impreciso, di egoismo. Siamo disposti a concedere che l'amore non è che un egoismo allargato e che tutti gli uomini sono necessariamente egoisti: gli esseri "disinteressati" sono quelli che perseguono interessi superiori.

Questi ultimi sono rari. L'egoismo dei più è terribilmente angusto: s'arresta spesso all'individuo, e non si estende, nei casi migliori, che alla famiglia o a gruppi assai piccoli. Sarebbe puerile chiedere all'"uomo della strada" di sacrificare o anche solo di temperare la ricerca del suo personale e immediato interesse, a profitto del bene comune dell'ordine universale. Questo angusto egoismo della gran massa degli uomini, con quanto comporta di anarchiche minacce, è insieme la pietra d'inciampo e la pietra angolare della saggezza politica.

Le istituzioni sociali non cambiano nulla a questo egoismo, ci si può obiettare. Gli uomini si equivalgono sotto tutti i regimi: dunque tutti i regimi si equivalgono.

L'argomento è valido se intende significare che tutti i regimi sono imperfetti; è fallace se intende significare che tutti i regimi sono ugualmente imperfetti.

Pensiamo infatti a questo: moralmente, può darsi che tutti gli egoismi si equivalgano, ma resta pur sempre che, socialmente, certe forme d'egoismo (in particolare quella degli uomini la cui volontà di potenza si spiega all'interno di quadri organici come la famiglia, la corporazione o la patria) si possono dire conservatrici e feconde, mentre altre si svelano essenzialmente disorganizzatrici e distruttrici. Un contadino - questo tipo d'umanità esiste ancora! - che l'avarizia piega giorno e notte sulla terra, un capo d'azienda divorato dall'attività sono egoisti. Un finanziere cosmopolita, un demagogo corruttore, un funzionario parassita, un assistito sociale la cui unica preoccupazione è di mungere più che può la vacca statale, lo sono allo stesso modo. Non si vuole pronunciare su questi diversi egoismi un verdetto morale, ci basta constatare che gli uni servono l'armonia e la prosperità collettiva, mentre gli altri lavorano in senso inverso. Ciò posto, è facile comprendere che le istituzioni tendenti a coltivare e moltiplicare questa forma di egoismo anti-sociale, si condannano da sole.

Gli uomini, nella loro immensa maggioranza, sono indifferenti al bene comune: la loro vista è troppo corta, il loro cuore troppo carnale perché sia possibile in loro un egoismo superiore. Non è il caso di spargere lacrime su tale divorzio tra l'interesse privato e l'interesse pubblico, ma di vedere se, per combinazione questi due interessi non sarebbero conciliabili. Il primo effetto di una istituzione sana è quello di piegare l'egoismo individuale al servizio del bene comune e di far coincidere, nella misura più larga possibile, l'interesse privato e il dovere sociale.

Come tendere verso questa armonia? Attraverso un'organizzazione della società nella quale ogni individuo che manchi alla sua missione sociale sia necessariamente oggetto di sanzioni organiche e prossime.

Non v'è dubbio che, anche nell'ordine più materiale, il conflitto fra l'interesse personale e il bene comune non può essere che apparente o provvisorio: in ultima analisi l'individuo non può servire il proprio interesse che servendo altresì quello della collettività da cui dipende; reciprocamente, non può agire contro il bene comune che distruggendosi. Presto o tardi, l'egoismo economico o sociale riceve la sua sanzione. Solo che, fra le molte sanzioni possibili di tale egoismo, ve ne sono di prossime e, in quella stessa misura, efficaci, e ve ne sono di remote e, in quella stessa misura, inoperanti. L'agricoltore che trascura di prestare al suo raccolto o al suo bestiame le cure necessarie, il monarca che per la sua incuria o la sua tirannia conduce il suo popolo alla rovina sono puniti, personalmente e prontamente, della loro carenza sociale. All'opposto, un funzionario pigro, un assicurato sociale che, aiutandosi con finzioni più o meno coscienti succhia dalla "cassa" occulta e lontana, un ministro effimero e irresponsabile non sono raggiunti dalla punizione che nel corso di una profonda catastrofe sociale (rovina della moneta o dello Stato, rivoluzione, ecc.), alla quale, del resto, essi possono molto bene sfuggire personalmente. Sanzioni così lontane, così aleatorie, così impersonali non saprebbero efficacemente frenare le tendenze anti-sociali degli individui. Ci vuol altro che l'oscura e lontana minaccia di un diluvio universale per mantenere l'uomo nel suo umile dovere particolare.

Sventuratamente, l'organizzazione moderna della comunità tende sempre più a non far posto che a simili sanzioni: quelle sanzioni che, in luogo di avvertire e correggere gl'individui all'atto delle loro prime infrazioni al bene generale, non possono entrare in gioco contro tali responsabili se non al termine di un irreparabile esaurimento delle risorse materiali e morali della società intera. L'odierno ingigantirsi dello statalismo, la crescente funzionarizzazione dei cittadini aggravano considerevolmente la mortale sbiettatura fra l'interesse collettivo e l'interesse immediato dell'individuo. Nel mentre che sopprimono lo "slancio vitale> in tutti i campi sociali, le istituzioni moderne tolgono alle sanzioni quel carattere prossimo e diretto che, solo, le rende operanti e salutari.

Dicendo questo, non si vuol sospettare dell'esistenza del senso del dovere nel popolo. Il popolo ha profondamente il senso del dovere, ma di un dovere limitato, carnale, identificato senza sosta in una promessa o in una minaccia immediata. Non ha il senso di un dovere astratto e universale. Un uomo del popolo che fa del suo meglio per mangiare alle spalle dello Stato quando ne ha l'occasione si mostrerà di un'onestà perfetta col suo padrone o coi suoi vicini, sarà perfino disposto a sacrificarsi per compiere un servizio all'uomo che gli sta davanti, per assicurarsi una buona reputazione fra chi gli sta attorno, ecc. Nella pratica, la legge morale non è più né una né indivisibile: ed è proprio la caratteristica dell'uomo del popolo di essere, senza fatica, morale su quel determinato piano che è al suo livello e di essere immorale senza peccato su un altro determinato piano che lo supera.

Un intellettuale imbevuto di morale astratta non saprebbe d'altronde mentalmente "realizzare" con quanta buona fede e innocenza certi uomini venuti dal popolo - particolarmente della classe contadina - possono abbandonarsi, se ne viene offerto loro il destro, ad atti socialmente disastrosi. Ci viene in mente d'aver conversato un giorno con un vecchio contadino molto onesto, il quale raccontandoci incantato le fruttuose esazioni di un magistrato dei dintorni, "Sa cavarsela, ci diceva, sa il fatto suo!-". Non è difficile scoprire la sorgente psicologica di questa lode grottesca. Per quel vecchio contadino "cavarsela", " sapere il fatto proprio" e anche, in definitiva, fare il, proprio dovere e compiere la propria missione sociale, consisteva nel ricavare dalla propria terra il massimo reddito: e in tale campo tutti i mezzi sono buoni! Ma egli assimilava al proprio campo la posizione del magistrato. Un "posto" si coltiva, e sarebbe peccato non trarne il massimo possibile, con tutti i mezzi, come da un terreno! Il male che simile gente sradicata dal proprio ambiente fa, in tal modo, al prossimo. essa non lo vede (qui il prossimo è lontano, invisibile ...) : non vede che il bene che fa a se stessa. Moralmente, è pressoché innocente.

Abbiamo scelto con intenzione questi due casi-limite: quello del contadino che coltiva la sua terra e quello del funzionario irresponsabile che coltiva la sua posizione. Il solo fatto che conseguenze sociali così opposte possano procedere, in questi due uomini, da uno stato d'animo pressoché identico, da un uguale livello di moralità, dovrebbe essere sufficiente a dimostrare la necessità assoluta di un cambiamento radicale nello spirito delle istituzioni moderne. L'egoismo e il senso del dovere non sono infatti, come un moralismo inumano uscito da Kant ce lo vorrebbe insegnare, due sentimenti fatti per opporsi ed escludersi, ma hanno la stessa radice ontologica. (all'egoismo angusto e carnale di cui abbiamo parlato più sopra corrisponde un senso del dovere angusto e carnale) e, in ogni natura sana, sono fatti per unirsi e identificarsi. E' il normale compito delle istituzioni far coincidere, nei loro risultati sociali, due sentimenti fatti per coincidere nella vita affettiva degli individui. Da cui l'urgenza di un sistema di organismi professionali e locali mediante i quali l'individuo possa essere vitalmente inquadrato e sanzionato.

Si può accusare questa concezione di essere "terra terra" e di svendere la dignità della morale. L'abbiamo detto chiaramente: un continuo conflitto fra l'egoismo e il dovere non è alla portata dell'uomo medio. Per coloro che ne sono capaci, vi saranno sempre sufficienti occasioni di essere eroici. Non è un attentare all'eroismo il fatto di non esigerlo da tutti quanti. Ma è invece un coltivare il peggiore egoismo - l'egoismo anti-umano, anti-sociale - porre l'immensa maggioranza degli uomini in condizioni in cui il semplice compimento del loro dovere esige una moralità superiore.

 

LA MORALE E LA VITA

Ogni epoca ha le sue stupidità pseudo-rivoluzionarie, le sue innovazioni nate morte, che costituiscono lo sbalordimento e la derisione dell'epoca che segue: "Come mai essi hanno potuto credere ciò?", oggi ci diciamo, per esempio, pensando alla fede nella democrazia e nel progresso dei grandi uomini del XIX secolo. Siamo assolutamente convinti che l'immoralismo dei nostri contemporanei farà sorridere allo stesso modo gli uomini futuri.

E' nell'uso coprire. di insulti o di celie la morale. Si vede in essa qualcosa di artificioso, di morto e di superficiale, adattata sull'uomo a guisa di camicia di forza o di maschera. Una delle regole del gioco letterario e psicologico del nostro tempo è quella di opporre la "morale" alla "vita". Questa dicotomia, ripetiamo, farà divertire i nostri figli...

Gli uomini "morali", in generale, non sono vivi. Da questa constatazione, senza dubbio, è partita la crociata contro la morale. Benissimo, ma che cosa oggi non si è mortificato? E cominciando proprio da ciò che si chiama la vita (il mondo degli istinti, della arbitrarietà, della "gratuità")! Questi dispregiatori della morale, questi apostoli della natura, basta solo guardarli per impadronirsi del loro vergognoso e triste segreto. Essi sono più convenzionali, nella loro rivolta, delle convenzioni che attaccano. Che di più piatto e previsto dei loro capricci, di meno fantasioso delle loro fantasie? Essi sono convenzionalmente spontanei e artificialmente naturali. La loro ultima maschera è di andare nudi. Nel caso estremo abbiamo i pazzi: il caos, il caos esangue, l'arbitrio meccanizzato, l'assenza totale di originalità e di vita, nella "emancipazione" dell'individuo...

In realtà, la meccanizzazione della morale e il farisaismo non sono che il primo stadio di una decadenza che colpisce l'uomo tutto intero (il pesce imputridisce dalla testa, dicono i musulmani). Quando la morale cessa di essere vita per diventare scorza e facciata, la "vita" è già malata.

La commedia è coerente. Atto primo: l'uomo morale (parliamo, beninteso, di un formalismo vuoto di amore) recita la scena dell'ordine. Atto secondo: l'uomo immorale recita la scena del disordine. Due maschere differenti sul medesimo vuoto interiore! - Dal momento in cui nasce il tipo "borghese", dal momento in cui ordine e virtù, divenuti artificiali, si fabbricano in placcato e in serie, il disordine e il vizio si tramutano anche loro in paccottiglia. La parodia conservatrice del borghese si prolunga e si compie nella parodia distruttrice del rivoluzionario (questo non è un vero distruttore più di quanto il primo non sia un vero conservatore). Il fariseo del vizio - supremo prodotto della decadenza - continua il fariseo della virtù. Il peccato non è più vivente quando la legge è morta.

E' un sintomo gravissimo di decadenza sentir parlare del "conflitto tra la morale e la vita". Contraddizioni simili non sono naturali: non esistono sul piano della salute o, quanto meno, non vi presentano quel carattere riflesso e dottrinale che oggi esse rivestono. Il conflitto non è fra la vera morale e la vera vita: i nostri rivoluzionari attaccano una caricatura della morale in nome di una caricatura della vita (gli istinti d'un uomo sano non si compiacciono di dir male della morale: o le obbediscono, o la violano senza scrupolo; l'istinto che discute con la morale è un istinto impotente e corrotto). A dir vero, il conflitto non è fra due entità nemiche, ma fra le due fasi della medesima malattia; non è fra due verità, ma fra la menzogna di ieri e sua figlia, la menzogna di oggi. Ancora una verifica della legge che abbiamo enunciato così: le cose che, sane, si completano, malsane si mangiano tra di loro. La vita e la morale si oppongono l'una all'altra nella misura in cui partecipano della stessa corruzione centrale dell'uomo.

Simili dualità (e Dio sa se il nostro mondo ne trabocca!) sono, nel loro fondo, terribilmente une. Esse si riconducono al più semplice, al più solitario dei peccati, al peccato unico: il rifiuto di Dio. L'unità si rompe, all'interno dell'uomo, dal momento in cui l'uomo perde contatto con l'unità divina. Separato dall'Essere che è Tutto, egli degenera progressivamente tutto quanto (seguendo una retta che discende dallo spirito verso la materia), e ogni tappa della sua decadenza vilipende la tappa anteriore.

Il rimedio? Esso non consiste nello scegliere fra le due forme di uno stesso male, consiste nello scegliere contro questo male; non nell'optare per l'elemento più "degno" - per la morale -, ma nel ritornare all'unità, l'abbandono della quale ha permesso quel dualismo patologico, nel risalire verso la sorgente comune della morale e della vita. - Solo allora si placherà il conflitto: la morale e la vita che si battevano perché avevano la stessa malattia si riconcilieranno nel riconoscere che esse partecipano dalla medesima natura. Oppure almeno, - dato che un certo stato di conflitto è essenziale alla condizione umana - la guerra. sarà agente di conservazione e di sintesi, e non più di disintegrazione e di morte. Vi sono infatti conflitti legati all'organizzazione ed altri legati alla disorganizzazione. I primi servono alla vita, e sboccano in una pace superiore, nella purificazione e liberazione dei combattenti. I secondi nascono dal disordine e aggravano il disordine, compiono l'opera di distruzione dell'essere che abitano. Si è costretti a confessare che la maggior parte dei conflitti del mondo moderno appartiene a quest'ultima specie. Nell'anima di un santo, la morale e la vita non lottano che per meglio unire in alto la loro realtà; nell'uomo traditore di Dio, non si urtano che per meglio separare in basso i loro fantasmi.

Dal momento in cui l'uomo espelle Dio da sè, tutto in lui (ogni frammento del suo essere scompaginato) è successivamente chiamato a diventare Dio. E, simultaneamente, a diventare guerra. Dove trovare un legame comune, un modus vivendi fra cose di cui ognuna vuol essere il centro o, per meglio dire, la tomba di tutte le altre? Gli idoli sono condannati a urtarsi eternamente senza compenetrarsi mai; essi non conoscono né la profondità esterna né la profondità loro propria (perché questa è amore), e sono votati a vivere solo in superficie. La pluralità degli assoluti (e crediamo che non sia mai fiorita come oggi) genera il disastro universale. Là dove è seminata, l'idolatria germina il caos. Oppure - poiché lo stesso caos non sa più essere sincero - si assiste al distendersi, sul brulichio degli idoli, di una specie di pace ipocrita, di ordine tarlato che si fonda non sull'unione vivente fra i membri dello stesso corpo o i figli dello stesso padre, ma sulle astuzie, le precauzioni e le tolleranze di dei impotenti, una specie di armonia senza fondamenti, di equilibrio acrobatico che dura un istante e prelude ordinariamente a cadute più profonde e a conflitti più irriducibili e più vani.

Quei conflitti irriducibili e vani, l'abbiamo visto, non sono naturali; non hanno luogo che fra cose che tradiscono la natura per giocare all'assoluto: sono battaglie di fantasmi.

Ma come discernere un conflitto sano da un conflitto malsano? Davanti a me un uomo si batte per la sua passione, per il suo ideale. In che cosa potrei riconoscere la falsità di questa passione o di questo ideale? Nella contraddizione (apparente, come vedremo) che è presente in essi, nella loro incredibile facilità a trasformarsi nella passione contraria o nell'ideale contrario (così il patriottismo giacobino genera l'internazionalismo, la rigida morale borghese prepara la corruzione borghese, e l'idealismo più scapigliato cede automaticamente il posto al. realismo più pedestre). Riconoscerò un idolo nel fatto che è gravido dell'idolo opposto e che lo genera morendo.

Ogni vero ideale è vergine di idolatria e di esclusivismo. Senza cessare di restar fedele a se stesso, anzi in virtù di questa fedeltà, sa armonizzarsi spontaneamente con la verità opposta (o piuttosto complementare). Un pacifista autentico rispetta la guerra, un uomo veramente morale, non getta l'anatema sui sensi e le passioni: piuttosto, egli li integra nella sua virtù. Invece il falso ideale odia ferocemente, fanaticamente il suo contrario e, nel momento stesso che lo odia di più, si trasforma in lui! E in ciò nessun paradosso: in realtà ciò che una menzogna detesta di più; non è la menzogna antagonista (che comunica con lei nell'unità della menzogna), ma è la verità che si erge contro le due menzogne e le condanna. Ciò che importa anzitutto per l'uomo schiavo di una cattiva fede e di un falso amore è sfuggire allo spartiacque di quella verità: egli raggiunge ugualmente la sua meta tanto rotolando sul declivio di destra quanto sul declivio di sinistra. Ogni "estremista" crede di odiare l'estremo che si oppone a lui, ma odia soprattutto il centro, moderatore e alimentatore degli estremi: per questo passa così facilmente, secondo che le circostanze lo portano, "da un estremo all'altro". Semplice cambiamento di scena nel medesimo dramma, di tattica nella medesima guerra...

Si usa vedere negli eccessi umani (e particolarmente nelle aberrazioni dottrinali e sociali) semplici reazioni contro eccessi anteriori e opposti. Tale modo di vedere non è erroneo, solamente è un po' corto. In fondo, due eccessi nemici che si succedono non sono che i due episodi di un'unica guerra contro I'Unità: in breve contro Dio. Gli idoli si odiano, indubbiamente, ma il loro odio reciproco non è che il riflesso del loro odio comune (per esempio, ciò che fa più orrore alla "virtù" borghese non è ciò che essa chiama il vizio, ma la vera virtù, la virtù dell'amore, e il padre che divinizza una legge morta e il figlio che la calpesta sono traditori allo stesso modo di fronte a quell'amore e a quella unità). Gli idoli non lottano tra di loro che in apparenza: nell'intimo loro, sono tutti alleati contro Dio.

Presi in se stessi, i conflitti che devastano l'umanità non meritano la nostra attenzione e il nostro dolore. Non sono che la maschera - maschera che occorre trapassare - di un'altra scissione che sola è reale e sola importa: la fuga fuori di Dio e fuori dell'attrazione del suo amore. La sventura non sta nel fatto che due menzogne si dilanino tra loro, ma che esse lottino sul corpo di una verità assassinata. I gesti coi quali due idoli si feriscono reciprocamente mi toccano ben poco: ciò che mi spaventa è il loro identico gesto di ferire Dio! La tragedia non sta nella lotta dei frammenti fra loro, ma nell'unità sgretolata. Quando due idoli si battono, Dio è fra loro e sanguina a ogni colpo! Quando vedo due fratelli snaturati farsi la guerra, la mia tristezza non si ferma a quei miserabili, ma risale al Padre comune che essi hanno dovuto rinnegare prima di battersi.

 

CENTRALIZZAZIONE E ANARCHIA

Ogni sana unità postula una diversità. Reciprocamente, ogni sana diversità riposa su una unità. L'unità del corpo umano si concepisce in funzione della diversità dei suoi organi, e gli organi sono diversi perché il corpo è uno.

In un organismo malato, l'unità degenera in centralizzazione e la pluralità in anarchia. La centralizzazione e l'anarchia si invocano a vicenda: non si può concepire l'una senza l'altra. Questa connessione patologica è stata denunciata infinite volte sul piano sociale e politico, ma si incontra in tutti i campi dell'attività umana. Nell'ordine strettamente psicologico, per esempio, osserviamo nei medesimi esseri una strana mescolanza di anarchia e di centralizzazione affettiva. Nella impossibilità di unire, si centralizza. Ogni giorno vediamo gli uomini più inconseguenti e dispersi nelle loro occupazioni e nei loro sentimenti, ricondurre la moltitudine delle loro reazioni discordanti a tre idee - stavamo per dire a due o tre riflessi - altrettanto superficiali quanto fisse. Si pensi al quegli innamorati anarchici che cambiano di amante come di abito: la loro passione - questa è la sua principale varietà - si rivolge a oggetti diversi, ma è stranamente impoverita e centralizzata sulla sua natura e nelle sue manifestazioni: si tratta sempre dei medesimi sentimenti, delle medesime parole e dei medesimi gesti, della stessa mescolanza di ozioso trasognamento e di banale erotismo. L'amore uno della più umile delle coppie fedeli è infinitamente più ricco in varietà e profondità...

Un'osservazione di sfuggita: la pseudo-unità in cui consiste la centralizzazione, generalmente si attua attorno all'elemento più corrotto. Un corpo malato è asservito alle esigenze del meno sano dei suoi organi, una nazione malata è governata dalla feccia dei suoi abitanti.

Tale declino rigorosamente correlativo della diversità e dell'unità riveste un carattere essenzialmente tragico. Mai gli uomini sono stati così somiglianti, e così stranieri gli uni agli altri. Né mai sono stati collegati fra loro da legami così artificiali e così inumani. L'umanità assomiglia a un corpo i cui organi in via di dissociazione siano tenuti assieme da ganci metallici. L'inferno, giusto il detto di Péguy, rigurgita sulla terra, I' inferno i cui abitanti il medesimo nulla, - il medesimo demonio - per sempre separa e ammassa. L'inferno è infatti il luogo in cui la centralizzazione e l'anarchia sono portate alla loro espressione suprema.

Vi è in ciò, come in ogni malattia profonda, un implacabile circolo vizioso: il male chiama un rimedio artificiale, il rimedio artificiale, a sua volta, dopo un colpo di frusta fittizio, aggrava il male. La dissoluzione anarchica cerca in un glaciale statalismo un rifugio contro se stessa: i sistemi politici assomigliano a immensi frigoriferi in cui giacciono, artificialmente radunate, le disjecta membra dell'umanità. Ma il congelamento più rigoroso non basta a rendere la vita a delle membra mutilate: esso sospende per un momento la loro decomposizione solo per meglio farla precipitare subito dopo.

Sarebbe facile scegliere, in ogni campo, una moltitudine di esempi di tale processo che tende simultaneamente verso l'indifferenziazione e l'anarchia. Ci limitiamo a una illustrazione molto evidente tolta dall'aspetto del mondo economico attuale. In questo secolo dell'uomo in serie e della fabbricazione standardizzata, in cui ogni forma di artigianato e ogni divisione organica del lavoro agonizza, si nota un brulichio senza precedenti di "specialisti" e di "specialità". Si cerca inutilmente un calzolaio in paese, ma in città si può trovare una manicura a ogni angolo di strada; ovunque si beve, invece del buon vino che ogni vecchio viticultore produceva "a modo suo", un ignobile liquido standard, ma 24.000 specialità farmaceutiche figurano sull'albo... Distinguiamo: la vera specializzazione professionale è di natura organica; essa è per conseguenza Iimitata: i mestieri vitali non sono moltiplicabili all'infinito. La falsa specializzazione, all'opposto, proviene dall'uniformità e perciò stesso, non conosce limiti: si può dividere senza fine un corpo indifferenziato! E' questa la chiave dell'apparente paradosso che fa crescere simultaneamente l'atomizzazione e l'uniformità.

La sana specializzazione professionale riposa sull'unità e diversità della vita: puntata verso la parte, resta radicata nel tutto, circonfusa di saggezza universale (si pensi ai tesori di grandezza e d'iniziativa non solo tecnica, ma umana, che un artigiano di villaggio, il quale fabbrica e vende lui la sua merce, deve spendere); così incentrata sul tutto, serve il tutto: è la specializzazione del microcosmo.

La falsa specializzazione è quella del frammento informe; essa si rivolge a fantasmi astratti; il suo oggetto non è la parte riempita del tutto, ma lo pseudo-tutto che giace nel cadavere della parte mutilata. In tal modo, separata dal tutto e incentrata su se stessa, insudicia e usucapisce l'organismo totale. Una vera sanità economica non sarà possibile finché le attività umane continueranno a differenziarsi seguendo un ritmo estraneo all'essere e ai bisogni dell'uomo, vale a dire finché la specializzazione non corrisponderà ad alcuna specificità naturale.

L'abbiamo già visto: la centralizzazione è la tomba dell'unità e l'anarchia, della originalità. La salute del tutto si nutre dell'indipendenza delle sue parti, e la salute di ogni parte nella sua sottomissione al tutto.

Il problema dei rapporti del tutto con le sue parti, dell'unità con la diversità o, se si preferisce, dell'unità con la libertà, si risolve nella nozione di gravitazione eccentrica.

Tale nozione è valida per tutti i gradi (fisico, biologico, spirituale, sociale ... ) della creazione. In termini molto generali, può formularsi così: ogni unità implica un minimo di tensione vitale fra gli elementi associati e gerarchizzati. Anche nei tipi più elementari dell'esistenza associata, si può già osservare, parallelamente all'insuperabile supremazia del centro, un certo grado di tensione fra tale centro e gli elementi che ne dipendono. Così la gravitazione di un astro attorno a un astro centrale comporta sempre un certo coefficiente di eccentricità. In tal modo vengono sinergicamente garantite l'unità dell'insieme e la vita propria di ogni parte.

Si svisano completamente le nozioni di attrazione, simpatia, ordine, unità, ecc., se non si vuol tener conto dello stato di latente conflitto implicito in tali nozioni. L'unità biologica di un essere è già fondata su molteplici antagonismi che si neutralizzano in seno a una unità superiore: tutti conoscono, per esempio, le opposizioni fra le diverse ghiandole endocrine. Psicologicamente, un'armonia assoluta e costante fra la sensibilità e lo spirito non è realizzabile, e ogni affetto fra due esseri comporta una sfumatura di avversione superata. Questo è perfettamente normale. Ogni essere creato è, nello stesso tempo, qualcosa di assolutamente irriducibile e di assolutamente insufficiente. Dalla sua originalità fondamentale sgorga la sua tendenza a costituire un centro supremo, a non dipendere che da se stesso; dalla sua insufficienza deriva il suo bisogno di gravitare attorno a qualche cosa. La sintesi di queste due inclinazioni costituisce la gravitazione eccentrica.. Ogni attrazione fra cose create - e per conseguenza ogni unità e ogni ordine terrestre - comporta questa mescolanza di rifiuto e di offerta. Anzi, è proprio la capacità di solitudine, di auto-affermazione e di eccentricità inclusa nell'essere amante, ciò che condiziona la forza e la fedeltà della sua gravitazione attorno all'essere amato. Un sistema creato da cui fosse assolutamente bandita l'eccentricità sarebbe un sistema morto. Solamente nei confronti del centro divino l'eccentricità, cessa di essere necessaria, perché ciò che una creatura possiede di più irriducibile e di più solitario si confonde precisamente con l'attrazione divina. Di fronte a Dio, l'eccentricità è carenza, nulla, peccato...

E' chiaro altresì che questa eccentricità (relativa) delle parti subordinate rafforza il dinamismo del centro. La potenza di un centro attrattivo si misura dal numero e dalla resistenza degli elementi che esso può trattenere attorno a sè. Là dove la sottomissione inerte alle influenze del centro assorbe totalmente la tendenza eccentrica dell'elemento satellite, il centro stesso si allenta e si svigorisce. Nelle società umane, la sottomissione automatica e il conformismo passivo degli organismi subordinati porta con sè l'indebolimento e la decadenza del potere centrale. Una autorità che non ha più nulla da dominare e da integrare è votata necessariamente alla sclerosi e alla morte.

Un ordine nel quale la passività dell'ingranaggio tende a sostituirsi al ritmo vitale dei muscoli tensori può dare l'impressione di un unità più perfetta, e, grazie a esso, si possono ottenere risultati più di retti e più rapidi: non resta meno per questo anti-naturale e votato, per sua essenza, ai peggiori fallimenti.

Le forme del potere umano tendono sempre più a sopprimere la gravitazione "eccentrica". La nozione di un'obbedienza che si nutra della originalità e della libertà stessa dell'elemento dipendente tende a scomparire. La più profonda e più omicida delle tirannie minaccia l'uomo. Certamente il passato ha conosciuto degli spaventosi abusi di potere, ma queste antiche tirannie rimanevano, per così dire, fisiche; inibivano la libertà nel suo esercizio esterno, non corrodevano le sue radici spirituali, non l'inquinavano nella sua sorgente. Gli uomini erano degli schiavi, ma non erano dei burattini. Oggi, le catene che un tempo stringevano il corpo dello schiavo sono diventate i fili che muovono, dall'interno, l'anima della marionetta. La scuola, la stampa, la radio, il cinema si accaniscono a realizzare la perfetta meccanizzazione dell'anima. La tirannia, nel senso classico della parola, s'arrestava alle soglie della coscienza. "Potete tutto su di me", poteva dire a un tiranno un nostro antico, "tranne di pensare quello che voglio". Troppo ottimismo ancora: i segreti della "psicotecnica" moderna (l'espressione è di P.H. Simon) non erano ancora scoperti...

Che questa corruzione dell'autorità sia richiesta - in un certo senso legittimata - dalla corruzione della libertà è quanto abbiamo già dimostrato. Ma è vano spiegare la tirannia con l'anarchia o l'anarchia con la tirannia. Nessuna di queste due corruzioni è causa prima; l'una e l'altra risultano dalla medesima corruzione centrale, dal medesimo scivolamento dell'uomo fuori dall'unità della sua natura e dalle sorgenti della sua vita, - da quel processo di disgiunzione idolatrica per il quale ogni elemento relativo, diventato per se stesso centro assoluto, non può affermarsi che escludendo tutto il resto. Così la libertà diventa rivolta, e l'autorità tirannia, e si contrappongono generandosi reciprocamente all'infinito.

Nel frattempo, la società tende a diventare un'immensa macchina, in cui - come in ogni ordine meccanico - ogni ingranaggio è condannato a una passività assoluta o a una originalità distruttrice. E' sempre meno possibile servire con la propria libertà e con la propria anima: bisogna scegliere fra l'isolamento e la schiavitù, o meglio bisogna rassegnarsi - dato che non c'è vera libertà senza comunione né vera comunione senza libertà - al doppio giogo dell'isolamento e della schiavitù. L'analogia con l'inferno - il paese degli schiavi solitari - s'impone dolorosamente.

 

L'INEGUAGLIANZA, FATTORE D'ARMONIA

La febbre egalitaria è uno dei mali più profondi e più gravi della nostra epoca. Confessata o dissimulata, essa perturba in tutti i campi l'equilibrio dell'umanità. Essa fa urtare fra loro, in una competizione senza esito, gli individui, le classi sociali e le nazioni. In ultima analisi, ciascuno finisce col trovare insopportabile di non essere l'uguale non importa di chi e non importa in che cosa. Un avventuriero aspira al potere supremo, il "proletariato" vuole spazzar via le classi dominanti, i popoli "poveri e dinamici" sentono di possedere tutti i diritti nei confronti dei loro vicini ricchi. Naturalmente, si sono inventati, per giustificare questa malattia vergognosa, dei vocaboli pieni di grandezza: il povero attacca il ricco in nome del "diritto all'esistenza", il fisiologicamente tarato che vuole sposarsi in dispregio a ogni dovere si appella al suo "diritto all'amore", le nazioni conquistatrici sbandierano la teoria dello "spazio vitale". Ma queste grosse parole non servono che a rendere più ripugnante l'egoistica realtà che nascondono.

Come tutte le aberrazioni umane, queste aspirazioni insensate possiedono tuttavia un fondamento nella realtà. L'egualitarismo - e consideriamo questa definizione come fondamentale - rappresenta la caricatura e la corruzione del senso dell'armonia e della unità sociale. Una critica seria dell'egualitarismo implica pertanto uno studio preciso delle condizioni di tale armonia e unità. Non si può definire una malattia che in funzione della salute.

Le ineguaglianze naturali e le ineguaglianze sociali.

Se gli uomini sono tutti uguali in quanto uomini, essi però incarnano, per così dire, a gradi molto diversi, l'essenza umana. Basta mettere a confronto fra di loro gli individui, i popoli e le razze per constatare una moltitudine pressoché infinita di ineguaglianze naturali. Gli uomini nascono ineguali in salute, in forza fisica, in intelligenza, in volontà, in amore, ecc.. Una tale ineguaglianza presenta un carattere di necessità assoluta: non v'è possibilità di scampo o di rimedio; se si tratta di un male, quel male è incurabile. Così quell'ineguaglianza è ammessa da tutti gli spiriti sani, non solo di fatto ma di diritto.

Vicino a queste ineguaglianze naturali fra gli uomini si può osservare l'ineguaglianza delle funzioni e dei privilegi inerenti alla gerarchia sociale. Gli uomini non hanno la stessa posizione nella società e sono inugualmente potenti, inugualmente ricchi, ecc.. E qui si impone una osservazione capitale: queste ineguaglianze sociali non sono ricalcate sulle ineguaglianze naturali; anzi, è raro che gli esseri meglio dotati dalla natura siano anche quelli che esercitano il potere o detengono la ricchezza. Questo stacco fra i doni naturali e la missione sociale è espresso in modo esatto dalla Scrittura: "Ho anche visto sotto il sole che la corsa non è degli agili, né la guerra dei valorosi, né il pane dei saggi, né la ricchezza degli intelligenti, né il favore dei sapienti, poiché tutto è legato, per essi, al tempo e alle circostanze".

Si può facilmente capire come un tale margine di contingenza fra le capacità naturali degli uomini e la loro posizione sociale abbia ispirato seri dubbi sulla legittimità di certe ineguaglianze. Nessuno può nulla contro il fatto che di due uomini l'uno sia forte e l'altro debole, l'uno intelligente e l'altro sciocco; invece si avverte istintivamente che la differenza per cui l'uno è principe e l'altro plebeo, l'uno ricco e l'altro miserabile non ha davvero nulla di fatale, e che in un buon numero di casi il rapporto potrebbe essere invertito senza danno. Ciò solleva un'altra questione.

Problema dell'ineguaglianza artificiale.

Gli spiriti semplicisti sono portati a considerare le ineguaglianze sociali come artificiali. Occorre intendersi sul senso di quest'ultima parola. Se s'intende dire con ciò che le differenze sociali non s'impongono con il peso della necessità primordiale e diretta che caratterizza le differenze naturali, e che esse son in parte l'opera dell'uomo, come una casa, un poema, un campo coltivato, ecc., siamo d'accordo. Ma se artificiale vuol significare fittizio, irreale e, per conseguenza, illegittimo e meritevole di distruzione, facciamo molte riserve. La natura umana infatti implica la vita in società e la vita in società la gerarchia e le sue differenze. L'artificiale delle ineguaglianze sociali rappresenta una forma di naturale in secondo grado: è il prodotto spontaneo della natura di un essere fatto per creare e organizzare.

Capisco benissimo, potrà controbattere l'egualitaria; e per questo non il principio delle ineguaglianze sociali intendo denunciare come artificiale, ma il fatto che tali ineguaglianze appoggino così poco sulle differenze naturali. Ciò che è ingiusto, e che bisogna distruggere, è uno stato sociale, in cui viene osservato un simile divorzio fra le capacità degli uomini da un lato e la loro missione e i loro privilegi dall'altro.

L'argomentazione non è sufficiente. Una differenza di posizione sociale o economica fra due uomini non merita di essere condannata per il solo fatto che non s'appoggia su una ineguaglianza naturale. Un cittadino dotato può sempre dirsi a ragione, di fronte agli errori di quel monarca o di quel finanziere: "Perché non io? Userei meglio di quell'uomo del potere o della fortuna". Ma la risposta è facile: Di quale mezzo disponete per entrare in possesso di quel potere o di quella fortuna? Possedete una ricetta infallibile per condurre automaticamente "i più degni" al sommo della scala sociale? Se è così, le vostre rivendicazioni sono legittime. Rousseau, segnalando non senza ragione, nel Contratto sociale, le carenze del sistema ereditario, aggiungeva che la democrazia elettiva avrebbe quasi necessariamente conferito il potere al meglio della nazione. Ahimè! basta dare uno sguardo ai nuovi padroni che ci ha largito ormai da più di un secolo quel sistema elettorale da cui si attendeva l'età d'oro, per constatare che la scissura tra le ineguaglianze umane e le ineguaglianze sociali non tende affatto a restringersi. Gli accidenti del strugle for life si sono rivelati ancor più disastrosi di quelli del sistema ereditario...

Sarebbe certamente augurabile che la gerarchia sociale si basasse sulla gerarchia naturale. Ma una simile armonia rappresenta un ideale verso il quale una società sana deve tendere incessantemente senza mai sperare di realizzarlo pienamente. Se bastasse, per respingere un sistema sociale, constatare che non conduce necessariamente i migliori ai primi posti, tutte le forme di società dovrebbero essere eliminate in blocco...

Rimane tuttavia il fatto che i diversi sistemi sociali sono inugualmente imperfetti, e, fatta giustizia delle esagerazioni egalitarie, rimane altresì il fatto che vi è molto di artificiale, nel senso peggiore del termine, nelle ineguaglianze sociali. Per cui il problema si sposta in questo senso: cos'è una ineguaglianza artificiale?

L'ineguaglianza organica e l'ineguaglianza anarchica.

Non sappiamo se l'ultimo sovrano di Bisanzio, Costantino Dragases, che si fece uccidere sugli spalti della sua città dopo una difesa eroica, fosse, tra gli innumerevoli abitanti del suo impero, il più degno del potere supremo; e non sappiamo neppure se il più ricco proprietario del nostro villaggio, che lavora lui stesso e fa lavorare numerosi operai, "meriti" in modo speciale la sua fortuna economica. Ma sappiamo bene che né l'uno né l'altro godono di privilegi artificiali: li sentiamo a posto, servono a qualche cosa: il primo faceva il suo mestiere di re, il secondo fa il suo mestiere di ricco. Se pensiamo, al contrario, a certo monarca moderno che abbandona il suo popolo dopo averlo esortato a combattere sino all'ultima goccia di sangue o a certo "fortunato" vincitore della lotteria nazionale immerso in un lusso o in piaceri imbecilli, abbiamo l'impressione nettissima che quei due uomini sono stati l'oggetto di un favore assurdo del destino: non sono a posto, non servono a nulla, non fanno il loro mestiere...

E' chiaro: l'ineguaglianza delle posizioni e dei privilegi diventa fittizia e ingiusta nella misura in cui essa non corrisponde più all'ineguaglianza delle "missioni", delle cariche e delle responsabilità. Un re che "lascia cadere" il suo popolo pensando che all'estero ci sono ancora palazzi e casinò dove la vita è piacevole, è un cattivo re; un ricco che non redime la sua fortuna economica, sia con iniziative benefiche, sia con quella distinzione e quel lusso dei sentimenti che talora l'ozio materiale favorisce, è un cattivo ricco. Allorché non sappiamo qual signore medioevale diceva, per spiegare la differenza fra un gentiluomo e un tanghero, che, posti l'uno e l'altro fra la morte e il disonore, il tanghero opta per la vita, e il gentiluomo per la morte, sommariamente definiva il principio di una sana uguaglianza: il rischio vicino al privilegio, il rischio corrispettivo del privilegio... Sventuratamente, è tendenza naturale dell'egoismo umano ricercare i privilegi senza i rischi e i pesi. Ci si vuole innalzare non già, come sarebbe legittimo, per meglio donarsi e impegnarsi, ma per meglio disimpegnarsi, per potersela cavare a buon mercato! Si fa combinare in forma paradossale la sete di emergere con il desiderio di mettersi al coperto: si vuol essere tanto più al sicuro quanto più si è in alto, il che, propriamente, è un assurdo. E le ineguaglianze create da tale atteggiamento sono anarchiche per essenza; come il piacere sessuale separato dalla funzione procreatrice, non hanno alcuna finalità collettiva; possono assomigliarsi a corpi estranei nell'organismo sociale.

Tale cuIto della falsa ineguaglianza e dell'ascesa senza merito né sacrificio, necessariamente va di pari passo con il culto del denaro. In una società sana, la sorte personale dei capi e dei potenti è legata a quella degli uomini che governano o dei beni che possiedono: il principe fa corpo col suo popolo, il padrone con la sua terra, ecc.; la felicità e la sicurezza di questi uomini dipendono in gran parte dal compimento del loro dovere sociale. Il ricco, all'opposto (in quanto detentore di moneta anonima), non è inserito in nessuna funzione precisa nella società: qualunque sia la sua abdicazione, la sua rinunzia nei confronti dei suoi doveri sociali, godrà dovunque degli stessi privilegi e della stessa sicurezza. Si pensi ai re in esilio, ai finanzieri cosmopoliti, e magari ai piccoli rentiers egoisti...

L'ineguaglianza artificiale consiste dunque anzitutto nella ineguaglianza finanziaria, senza correttivo né base funzionale. Una società si dichiara malsana nella misura in cui tende a fondare la sua gerarchia sulla diversità morta delle fortune economiche (8), a detrimento della differenza vivente delle funzioni. Tale tendenza fu, come si sa, la caratteristica indelebile della società capitalistica...

Riassumendo: perché un'ineguaglianza sociale sia legittima, non è necessario che sia ricalcata su una differenza di valore personale (l'ideale del right man in the right place, si presenta come un asintoto...), ma basta che ciascuno eserciti una funzione organica e serva meglio che può, nel suo ordine, il bene collettivo.

 

Sorgente del falso egualitarismo.

Ci sia permesso ora una breve divagazione psicologica sulle radici del terribile istinto di uguaglianza che sconvolge la società.

Il primo riflesso dell'egualitarismo è questo grido: perché io no? Da quale stato d'animo sorge? Prendiamo un uomo qualunque, che invidia la sorte di un grande personaggio e dice a sé stesso: come vorrei essere al suo posto! Che cosa invidia a quel destino privilegiato? Gli impegni, i rischi e l'austera gioia di servire (per la maggior parte del suo tempo quel tale non ci pensa neppure), o piuttosto il prestigio, la fortuna e tutte le possibilità di piacere e di agio che nel suo pensiero fanno tutt'uno con la posizione del personaggio invidiato? La risposta è troppo facile... L'istinto egalitario ha le stesse sorgenti dell'istinto edonistico, è il segno della medesima decadenza.

L'edonismo infatti nasce da un processo di disgregazione affettiva per il quale la sete della felicità, naturale in tutti gli uomini, si separa dalla sete di agire, di donarsi, di lottare, dallo slancio verso la virtù, nel senso etimologico e generale del termine. Nell'uomo sano, questi due istinti sono strettamente legati l'uno all'altro: la felicità è il coronamento dello sforzo e del dono, ingrandisce in funzione della perfezione acquistata. II decadente, all'opposto, non associa l'idea di felicità a quella di perfezione e di ascensione; non conosce altra perfezione che il godimento e la sicurezza: Dio, per lui, non è purezza, ma facilità e riposo. Così, per poco che la sua posizione sociale sia inferiore, egli è spontaneamente egualitaria: in questo ordine della felicità materiale e del rifiuto di servire, che solo esiste per lui, e di fronte a privilegi senza la missione, di privilegi che permettono la sine-cura, l'ultimo degli uomini può legittimamente ambire i posti più alti. Di fronte al denaro, soprattutto: ognuno si sente degno di essere l'eletto di questa divinità anonima, ognuno si sente capace, in definitiva, di godere e di non far nulla! D'altronde, non è effetto del caso che le epoche in cui il primato sociale è devoluto al denaro siano anche quelle in cui imperversa la peggiore febbre egualitaria.

Ma questi operai che vorrebbero per sé la vita facile di un grigio cliente di palazzo, questo vecchio contadino che la necessità costringe ancora, in cerca di benessere, a curvare la schiena sulla terra e che la vuota oziosità del piccolo pensionato suo vicino esaspera di gelosia, tutti i cuori contratti da un corrosivo: "perché io no?", che cosa invidiano, in realtà, ai loro fratelli "privilegiati"? Per quanto strano possa sembrare, essi invidiano loro il loro nulla! Diretta verso il privilegio senza doveri, verso il peccato (perché il rifiuto di servire è la definizione stessa del peccato), la volontà di uguaglianza diventa una volontà di nulla, una vertigine di autodegradazione e di morte. E in questo risiede il segreto e la logica del "comunismo". Non vi sono che due cose assolutamente comuni a tutti gli uomini: il loro nulla originale e il Dio che li ha creati. Se essi sono troppo deboli o troppo peccatori per unirsi nel culto di quel Dio, invincibilmente tendono a comunicare nel nulla.

Ma l'egualitarismo non conduce al nulla puro e semplice: l'uomo e la società hanno la vita dura. Peccato capitale contro l'armonia - che non è se non un gioco di uguaglianze fondate sulle funzioni e i doveri, - l'egualitarismo genera il caos o, per meglio dire, sostituisce al gioco delle ineguaglianze organiche un guazzabuglio di ineguaglianze assurde e divoratrici, frutto dell'intrigo e del caso - di tutto ciò che v'è di meno umano nell'uomo. E' chiaro, per esempio, al dire dei testimoni più autorevoli, che il "comunismo" sovietico, fondato di diritto sull'egualitarismo più rigido, ha dato vita, di fatto, alle ineguaglianze più rivoltanti che la storia abbia mai conosciuto.

 

Ineguaglianze e armonia.

Ascoltiamo una melodia. Ogni nota vi occupa un posto differente nella scala dei suoni, tutti gli elementi musicali (e i silenzi stessi) sono ineguali fra loro e, senza queste ineguaglianze, la melodia non esisterebbe più. Ma essa non esisterebbe lo stesso se si sopprimesse, fra i suoi diversi elementi, quella specie di uguaglianza profonda che risulta dalla comunione e dalla fusione nell'unità del medesimo tutto: non avremmo più, allora, che un caos di suoni.

Tale duplice esigenza di ineguaglianza e di uguaglianza si ritrova nella scala della società umana. Alla piatta nozione di uguaglianza, giova sostituire la nozione profonda di armonia. La sola uguaglianza reale e auspicabile fra gli uomini non può risiedere né in seno alle nature né in seno alle funzioni, non può essere che una uguaglianza di convergenza. Essa riposa sulla comunione, e la comunione non esiste senza la differenza: i grani di sabbia del deserto sono identici ed estranei gli uni agli altri...

In ogni armonia, l'interdipendenza corregge e corona l'ineguaglianza: le note di una melodia sono così ben legate le une alle altre nell'unità dell'assieme che, prese separatamente, non hanno più né anima né funzione. Così deve pure essere per la vita sociale. In mancanza dell'impossibile catastrofica comunanza di doveri e di privilegi, bisogna che esista fra gli uomini, e soprattutto fra chi dirige e chi è diretto, una specie di comunanza di destino. I veri capi sono per un popolo una testa e sono a un tempo distinti da lui e a lui uniti: la testa e il corpo vivono, soffrono e muoiono insieme... Ma i cattivi padroni - benché siano quasi tutti ardenti egalitaristi e pretendano, con una falsa e lusingatrice umiltà, di identificarsi al popolo - sono estranei a quelli che dirigono, non sono testa per nessuno, e tutta la loro abilità consiste nel far muovere dal di fuori e per il loro profitto personale i riflessi di un corpo decapitato...

E questo ci conduce a formulare la seguente legge: una istituzione è sana nella misura in cui favorisce questa salutare interdipendenza fra i membri della gerarchia sociale. Organizzazioni come il sistema feudale e il sistema corporativo sotto I'"ancien régime" servivano a tale scopo: esse non hanno dovuto soccombere a un vizio formale, ma al difetto delle persone. E' chiaro, invece, che i miti sociali che ha il XIX secolo (capitalismo, suffragio universale, funzionarizzazione dei cittadini, ecc.) sono malsani nel loro principio, perché atomizzano gli uomini. Non di qualche ritocco, ma d'una generale rifusione hanno bisogno le istituzioni moderne.

 

Missione della Francia cristiana.

Si rabbrividisce al pensiero degli abissi di miseria e di corruzione da cui i popoli verrebbero inghiottiti qualora, passata la febbre e l'emorragia guerriera, ci ritrovassimo in un clima morale e politico simile a quello che è seguito all'ultima guerra.

Esauste come sono, non è possibile che le strutture sociali di oggi resistano lungamente alla crisi che le ha scosse e che è opera loro! Tutti sono d'accordo nel prevedere e desiderare, a breve scadenza, lo schiudersi di un nuovo mondo. Se questa attesa è destinata a essere soddisfatta, siamo certi che il genio e il cuore dei Francesi vi contribuiranno potentemente.

Il popolo francese possiede infatti, in grado unico, il doppio senso dell'uguaglianza e dell'ineguaglianza. Nessun altro è altrettanto individualista, altrettanto ribelle al gregarismo: proprio in Francia è possibile constatare, in ordine alle funzioni e alle precedenze sociali, le ineguaglianze più numerose e sottili: siamo il popolo che presenta il massimo di "distinzione" (nel duplice significato del termine) e, conseguentemente, il minimo di uguaglianza. Ma siamo altresì il popolo in cui la coscienza dell'uguaglianza profonda fra gli uomini si è affermata, sana, col massimo di giustizia, e ha causato, corrotta, le più grandi rovine. Dopo il "chi t'ha fatto re?" gettato in faccia al primo capetingio da un suo suddito e il "fango comune" che Bossuet ricordava ai grandi, abbiamo avuto, ahimè, la terribile mistica egalitaria della rivoluzione francese.

Teniamo i due capi della catena: tocca a noi unire in una sintesi armoniosa lo spirito di uguaglianza e lo spirito d'ineguaglianza. Vano sarebbe abbandonarsi ora a fantasiose anticipazioni, e voler tracciare il disegno esatto della società futura. Ma con certezza si può prevedere che essa sfuggirà alla vorace marea del materialismo solo a condizione di veder rinascere degli istituti imparentati al corporativismo nell'ordine economico e allo spirito della cavalleria e del sacerdozio nell'ordine politico. Simili istituzioni e solo esse saranno in grado di frenare efficacemente l'egualitarismo, sostituendo all'inuguagIianza materiale e qualitativa una ineguaglianza orientata verso la qualità e lo spirito, o, almeno, facendo della prima non più un valore assoluto, ma semplicemente il sostegno o lo strumento della seconda. E, contemporaneamente, esse lavoreranno a ristabilire la sana uguaglianza, poiché la materia divide, e lo spirito unisce.

Il nostro ideale respinge, insieme, l'egualitarismo che vuol cancellare le differenze sociali e la falsa mentalità aristocratica che tenderebbe a indurirle in differenze di essenza (sarebbe ridicolo che il capo contraccambiasse l'amore che gli si porta, diceva già Aristotele...); consiste nel purificare e organizzare Ie ineguaglianze in vista di un'uguaglianza più profonda; più precisamente nel mettere l'ineguaglianza al servizio dell'unità.

Ma tale unità che cos'è, se non l'amore, e che cos'è l'amore, se non Dio? Attraverso le loro ineguaglianze naturali e sociali, tutti gli uomini sentono oscuramente che procedono dalla stessa origine e concorrono al medesimo fine. Il cattivo egualitarismo nasce dall'irrigidimento egoista di tale intenzione, che è vera soltanto sulla linea dell'amore: come tutte le grandi aberrazioni dell'uomo, esso deriva dal rifiuto della condizione di creatura e dall'ambizione di essere come Dio. La vera uguaglianza è il frutto di un amore comune; presuppone dunque l'oblìo e il dono di sè. Ma se ciascuno non pensa che a sè, se l'inferiore si irrigidisce nella sua invidia, e il superiore nei suoi privilegi, che nome daremo alla febbre di uguaglianza che nasce in un simile mondo? Essa non è più allora che un pretesto o un vessillo nella lotta, vecchia come il peccato, fra piccoli dei affamati che considerano come ingiustizia assoluta, ma riparabile, ogni limite alla loro volontà di godimento o di potenza, e dei quali ciascuno vuole tutto avere e per sè solo. E' infatti una legge fatale: gli uomini che si scostano daIl'amore comune sono votati all'odio reciproco. E lo spirito di uguaglianza procede necessariamente dall'una o dall'altra di queste due sorgenti. Così non v'è solida struttura sociale senza clima religioso. Un solo amore comune è capace di avvicinare efficacemente gli uomini: l'amore supremo. Tutti i miti, in nome dei quali si è preteso unire gli uomini fuori di Dio, hanno moltiplicato la separazione e l'anarchia. Chi non raccoglie con me, disperde...

La Francia ritroverà la sua missione solo ritrovando il suo Dio. Ignorando quel Dio, la rivoluzione del 1789 fece deviare verso il nulla la grande idea cristiana di uguaglianza. Il mondo attende ora una rivoluzione francese cristiana. L'egualitarismo ateo è malsano perché non ha altra risorsa che limare fino al nulla le differenze umane. Ma l'egualitarismo cristiano è sano perché è fondato sul superamento e non sull'estinzione di tali differenze: esso le prolunga fino alla loro origine e al loro fine comuni, cioè l'amore eterno. Così si compie, nell'unità di quest'amore, la sintesi dell'uguaglianza e dell'ineguaglianza.

BIOLOGIA DELLE RIVOLUZIONI

Intendiamo limitare bene il nostro tema: non vogliamo qui parlare delle rivoluzioni in generale. Sotto il nome di rivoluzione, alludiamo anzitutto alla rivolta delle masse contro l'autorità, più precisamente al sommovimento sociale di tipo democratico (come per esempio la rivoluzione francese del 1789 o la rivoluzione russa del 1917). Nell'antichità e all'inizio dei tempi moderni, conflitti simili non esistettero affatto: le rivoluzioni nascevano allora da una rivalità di capi, si svolgevano in certo modo all'interno della classe dirigente, e il popolo (la milizia) vi rivestiva un ruolo puramente strumentale. O almeno, se vi furono delle vere sollevazioni popolari (guerra degli schiavi, jacquerie, rivolta dei contadini tedeschi, ecc.), esse in generale abortirono e furono implacabilmente represse, il che rende il loro studio molto meno fecondo di insegnamenti di quello delle convulsioni più recenti che poterono, in virtù del loro trionfo, recare tutti i loro frutti. Noi viviamo, infatti, nell'età d'oro in cui i popoli, diventati maggiorenni - le "nazioni nubili", come diceva Victor Hugo - modificano, essi stessi, i propri destini (9).

Non si saprebbe meglio definire una rivoluzione che paragonandola a una malattia infettiva. Jacques Bainville ha detto, non so dove, che il popolo francese, con il commemorare la presa della Bastiglia, somigliava a un uomo che festeggi l'anniversario del giorno in cui ha preso la febbre tifoide.

La febbre tifoide, in sè, è un male. Ma può capitare che essa "purghi" e rinnovi un organismo e preluda a una fase di salute più ricca e più pura. Lo stesso per le rivoluzioni: la loro esistenza non può giustificarsi che per le reazioni salutari da esse talora provocate in una organizzazione sociale che Ie precede, Ie sopporta, e sopravvive loro. Se le rivoluzioni "fanno del bene", quel bene presuppone l'ordine e la tradizione che esse sconvolgono: si realizza in quell'ordine antico ristabilito e ringiovanito a un tempo, vale a dire solo dopo la convulsione rivoluzionaria, la quale, isolatamente considerata, resta un male. E' quanto dire che una rivoluzione porta frutti positivi solo morendo - cedendo il posto al vecchio equilibrio che è venuta a rompere - proprio come una febbre i cui effetti purificatori si fanno sentire solo dopo la morte dell'infezione e il ritorno dell'organismo al suo ritmo normale. L'espressione "benefici di una rivoluzione" implica contemporaneamente la morte di tale rivoluzione e la sopravvivenza (almeno in ciò che vi è di conforme alle esigenze essenziali della natura umana) dello stato sociale che la rivoluzione ha voIuto uccidere.

E' invece essenziale a un certo messianismo moderno credere nel primato, nell'autosufficienza, nell'assoluta bontà del!o spirito rivoluzionario. Il puro uomo di sinistra è tutto volto a cercare le basi di una politica duratura e costruttiva in ideologie che sono, per essenza, distruttive, e la cui influenza deve, sotto pena di morte, restare strettamente transitoria. L'idolatria rivoluzionaria consiste nel voler eternizzare, come conforme al bene supremo dell'uomo, un regime di purgazione e di disintegrazione, uno stato di crisi che non può giustificarsi se non per un pronto ritorno dell'organismo sociale al suo modo naturale di nutrizione e di scambio.

Le più ruinose esperienze provano che i miti che presiedono alla marcia della rivoluzione (lotta e soppressione delle classi, dittatura del proletariato, ecc.) non possiedono alcuna forza organizzatrice, alcuna virtù positiva. Se queste utopie, divoratrici per se stesse, recano talora accidentalmente buoni frutti, ciò avviene lottando e morendo esse al servizio dei loro contrari, al servizio delle verità che negano: una meglio intesa ineguaglianza fra gli uomini, il governo di una élite rigenerata, ecc.. Così la rivoluzione francese, e anche la rivoluzione russa, potranno esser chiamate feconde il giorno in cui tutte le tossine che esse hanno introdotte nell'economia sociale saranno state eliminate, e in cui lo spirito slargato e purificato dell'ancien régime sarà succeduto alla serie debilitante di quelle febbri.

Come ogni errore e ogni aberrazione, - come il male in generale, - una ventata rivoluzionaria, un salto all'estrema sinistra, possono avere una virtù purgativa. Ma non nutritiva. Il vero rivoluzionario, colui che crede nel valore costruttivo e conservatore dell'ideale egalitario e demagogico, e su tale ideale vuol fondare un ordine stabile, assomiglia a un medico che farneticasse di assicurare la salute ai suoi clienti nutrendoli unicamente... di purghe! L'ideale della "rivoluzione permanente" predicata da Lenin e dai primi bolscevichi è perfettamente conforme a una simile follia: quintessenza dell'illusione democratica, esso implica l'illusorio perseguimento di un ordine che, lungi dal succedere al disordine, ne sarebbe il consolidamento e lo sviluppo. Rinnegato da Stalin, e incensato da Gide, il mito russo della rivoluzione permanente è il degno prolungamento del mito francese degli "immortali principi". L'uno e l'altro si basano sulla confusione della febbre con la salute, e demandano a una malattia camuffata da essenza, di fornire le norme immutabili e il fondamento naturale della vita della società.

La funzione normale delle rivoluzioni (stavamo per dire la loro funzione ideale, perché quaggiù ciò che è reale non è quasi mai normale!), consiste dunque nel purgare e risanare un ordine politico più o meno debole e corrotto. Ma i loro risultati concreti e pratici tradiscono miseramente questa finalità superiore. E' storicamente acquisito che le crisi rivoluzionarie (le quali dovrebbero, per sè, provocare nella società una reazione salutare, punto di partenza per una nuova armonia) finiscono generalmente molto male e cedono il posto, morendo, a un regime più impuro di quello che hanno ucciso. Péguy parlava già, "di rivoluzioni più morte di troni".

La febbre rivoluzionaria può condurre a una saIute più perfetta. Ma a condizione di guarirne - e di guarirne completamente! Ma le società attuali guariscono male dalle rivoluzioni: dopo la crisi di anarchia acuta e il ritorno a una salute apparente, esse rimangono impregnate del virus rivoluzionario; si instaura in esse l'infezione allo stato cronico, e il loro ultimo stato è peggiore del primo. Cosi per la Rivoluzione francese. De Maistre vedeva a ragione in essa un castigo purificatore, inflitto da Dio a dei poteri legittimi, ma degenerati e pervertiti. Passata la crisi, l'ancien régime doveva risvegliarsi, ringiovanire fortificato. Solo che, questa sana ordinazione del male ha fallito allo scopo. Dopo centocinquant'anni, i miasmi del 1789 continuano a corrompere il mondo: la crisi, gravida di una resurrezione, ha partorito solo un maggior marasma...

Tale aborto è, in fondo, perfettamente logico. I frutti delle rivoluzioni non meravigliano chi conosce la radice delle rivoluzioni. Ecco un regime politico sano nei suoi principi, ma corrotto nei suoi rappresentanti al potere. In virtù della separazione delle caste e del rigore dell'ordine stabilito, tale corruzione resta in gran parte localizzata nelle classi dirigenti: essa è per il popolo una sorgente di oppressione più che di infezione. Una rivoluzione sembra necessaria per risanare il regime. Benissimo, ma non ragioniamo nelle nuvole: quale fibra segreta i capi rivoluzionari dovranno toccare e sfruttare nella coscienza dei popoli per suscitare la loro rivolta distruggitrice? L'odio generoso per la corruzione dei governanti, la sete della santa giustizia sociale? Suvvia, gli uomini capaci di distruggere con purezza sono rari come il diamante! L'eterno lievito della rivoluzione è la sete, nell'oppresso, di partecipare alla corruzione dell'oppressore, di gustare del frutto bacato che la sua invidia e la sua ignoranza colorano di delizie. La qualità dei moventi rivoluzionari si conosce, d'altronde, dai risultati delle rivoluzioni (a fructibus eorum...): queste riescono solo a propagare, nell'insieme del corpo sociale, a generalizzare una corruzione originariamente limitata in alto dalle solide barriere della gerarchia e della disciplina. Amore, giustizia, virtù, queste grandi cose non esistono qui nella loro densità, nella loro profondità e nel loro realismo; esse servono soprattutto da bandiera e da maschera. Una rivoluzione non è la virtù che si vendica, ma il vizio che sciama. Il risultato più evidente di queste "sacre collere del popolo" è la moltiplicazione dei convitati al banchetto della corruzione.

La storia dimostra abbastanza che le rivoluzioni sono sempre precedute e condizionate da una spiccata carenza e "rinuncia" delle classi dirigenti. Il male parte dall'alto e contamina il popolo. E' stato già molto sottolineato tale punto di vista: a nostro giudizio, è giusto ma insufficiente.

Non è vero che la responsabilità prima delle rivoluzioni risalga completamente ai "peccati" dell'élite. Anche sotto i governi più sani, esiste nell'animo delle masse una specie di mentalità rivoluzionaria latente. E' un semplice caso particolare della grande legge che vuole che la materia resista alla forma, l'inferiore al superiore. Come i sensi, anche nell'uomo più sano, conservano sempre un minimo d'indisciplina e di eccentricità nei confronti del governo dello spirito, allo stesso modo esiste, all'interno del corpo sociale, una certa opposizione naturale delle masse all'autorità. E questa tensione, in certo modo di ordine metafisico, si trova a essere aggravata e inasprita dalla malizia umana. La corruzione dei dirigenti intensifica e fa esplodere l'invidia e l'odio del popolo, ma non li crea di sana pianta! Pretendere, conformemente alla demolatria moderna, che le catastrofi sociali procedano unicamente dalle colpe dell'autorità e che tutto il male venga dall'alto è proclamare implicitamente che tutto ciò che sta in basso è puro per essenza, e che basta essere in basso per essere puro. Come se le masse non portassero in sè alcun disordine, e non potessero ricevere il male che dall'alto! Come se l'autorità più sana non dovesse, anch'essa, fare i conti col sospetto e con la rivolta! Senza dubbio, il fariseismo del capo stimola la rivolta del suddito. Ma, se si guarda più da vicino, si può constatare che, in fondo, il rivoluzionario ha una terribile necessità del fariseo. E' ben felice di trovare nella corruzione farisaica un pretesto per perseguitare e colpire a morte una bellezza e una grandezza che invidia senza comprenderle.

In realtà, il male viene simultaneamente dall'alto e dal basso, dai capi e dal popolo. I figli di Adamo hanno questo triste privilegio comune, di essere causa prima nel male. Tuttavia, crediamo a una responsabilità più grave delle élites. E ci spieghiamo: se in ogni unità e in ogni sintesi (biologica o sociale), l'inferiore resiste in una certa misura al superiore, è anche fondamentalmente attirato da quest'ultimo. Così per il popolo: qualunque sia la sua situazione di fronte all'élite, resta sempre soggetto alla sua attrazione. Se l'élite è sana, il magnetismo che esercita sul popolo corregge e supera, complessivamente, le tendenze anarchiche di quest'ultimo, e l'equilibrio sociale si mantiene. Ma se l'autorità è corrotta, la seduzione che ne emana guasta il popolo e, con ciò, stimola in lui l'istinto anarchico, poiché ogni corruzione é, per sua natura, una rivolta contro l'armonia e l'unità. Allora, si assiste a questo mostruoso paradosso che è come il nodo psicologico delle rivoluzioni: l'influenza del superiore sull'inferiore, che torna a rovina del tutto. Ci si trova davanti a popoli in rivolta contro il potere dei loro padroni, ma invidiosi della loro corruzione e che, aperti a tutte le malattie dell'autorità, respingono la natura dell'autorità.

Verremo forse rimproverati di cercare troppo in basso, nell'uomo, i moventi delle rivoluzioni, e di non tener conto sufficientemente dell'idealismo rivoluzionario. Quali che possano essere la potenza e le capacità di metamorfosi e di sublimazione di un sentimento come l'invidia (vi è un idealismo e un eroismo dell'invidioso), non abbiamo la pretesa che questa passione entri in gioco sola, nella genesi psicologica delle rivoluzioni. Lo spirito rivoluzionario è complesso. Quanto abbiamo detto altrove sulla mentalità del rivoluzionario e dell'uomo di sinistra in generale ci dispensa di entrare qui in dettagli più ampi.

Comunque stiano le cose, ognuno ci concederà che ogni vero rivoluzionario è un uomo tormentato dall'impazienza di distruggere. L'imperativo "bisogna cambiare tutto!" non a caso è diventato uno slogan democratico.

Il rivoluzionario crede alla possibilità di una ricostruzione di tutto. "Distruggiamo tutto questo edificio sociale malsano, grida la sua fede, dovessimo pure ricostruire partendo dal nulla". - Ahimè, Dio solo può ricominciare dal nulla. Ma non lo fa. Preferisce ricominciare ogni giorno dalla mediocrità e dal male umano. Nessuno più di Dio è lento a distruggere; Dio si piega, per salvarli, sui minimi resti di essere e di verità che permangono sotto gli scandali e le abitudini; le sue mani sono avare del fuoco celeste. Una cosa v'è a cui i cristiani non rifletteranno mai abbastanza: un Dio onnipotente, creatore di un mondo così pieno di impurità, non ha mai distrutto e ricreato quel mondo!

Ma gli uomini, tutt'altro che onnipotenti, non temono di distruggere. La parabola del loglio e del buon grano non è mai penetrata in orecchie rivoluzionarie. Le minime tare dell'autorità e dell'ordine sono, per certi amanti dell'umanità, pretesto per desiderare uno sconvolgimento universale. E' amaramente istruttivo osservarli: in nome di uno scandalo da sopprimere, di un'ingiustizia da riparare, non esitano a troncare le radici millenarie della vita sociale; provocano un cancro per guarire una graffiatura! A vederli agitarsi così contro natura, vien fatto di domandarsi se la loro pretesa di tutto ricostruire non sia semplicemente il pretesto e il passaporto di non sappiamo qual voluttà di annientamento, di una specie di odio vile e orgoglioso per la condizione umana. Quando la morte ha bisogno di uno pseudonimo sceglie la parola giustizia: la maniera specificatamente rivoluzionaria di realizzare la giustizia è di fare il vuoto nei due piatti della bilancia. - Quando George Bernanos si consola della catastrofe spagnuola facendo osservare che la natura, a misura che cresce una generazione, distrugge la generazione precedente invece di modificarla, tale assimilazione della distruzione umana alla distruzione cosmica produce in noi qualche ansietà. Abitano l'uomo demoni che non abitano la natura. Bisogna non aver mai sentito quanto l'uomo porta in sè di malizia e di follia per paragonare gli sconvolgimenti sociali ai cicli biologici. Ciò che la natura uccide è degno di morire; in essa la morte è regolata dalle esigenze della vita. Ma nelle grandi crisi umane la sete di distruggere acquista una specie di autonomia infernale e si svincola da ogni altra finalità; essa spazza via simultaneamente ciò che è sano e ciò che è caduco: la morte vuole la sua preda non più in qualità di serva della vita, ma di regina del mondo! - E poi, se le "rivoluzioni" naturali annientano gli individui, rispettano però le specie e lasciano intatte le necessità eterne della vita, mentre le rivoluzioni umane aggrediscono soprattutto, attraverso le persone e gli avvenimenti effimeri, i fondamenti essenziali dell'esistenza e dell'ordine: più che su esseri viventi esse s'accaniscono sulla vita; dietro agli uomini, esse affondano il dente nella natura dell'umanità. La distruzione cosmica è, in un fiume, un'onda che spinge l'altra; la distruzione umana è l'avvelenamento della sorgente. La natura nega il passato per assicurare l'avvenire; sparge le rovine come un fertilizzante. Ma la distruzione rivoluzionaria, credendo negare il passato, nega in realtà la miseria e i bisogni eterni dell'uomo. E, per ciò stesso, la sua guerra contro il passato, invece di nutrire l'avvenire, l'avvelena. Ciò che ferisce l'essenza umana non può servire il progresso umano.

Lo spettacolo di questa distruzione cieca e infeconda, di questa vanità nel male, è sufficiente a determinare, in ogni spirito sano, delle reazioni fortemente conservatrici. Esistono infatti - non si sottolineerà mai abbastanza questo punto - due mentalità conservatrici nettamente distinte. Una è quella degli impotenti e dei soddisfatti: questo conservatorismo dell'inerzia è largamente il più diffuso: si conserva ciò che è, perché si è perduta ogni capacità di rinnovamento e di costruzione; non possedendo la benchè minima virtù motrice, si divinizza la velocità acquisita. Ma l'altra è la saggezza conservatrice - quella di un Pascal, per esempio. Essa non misconosce le tare della tradizione e dell'ordine stabilito, sa che un buon numero di cose dovrebbe essere cambiato; semplicemente è scettica sulle possibilità creatrici dell'uomo in generale e, in particolare, sui risultati delle crisi partite dal basso. La rivolta dell'inferiore - di ciò che è fatto per essere informato e diretto dall'alto - è perfettamente in grado di distruggere il superiore, ma non di riformarlo. E' la più velenosa illusione quella di sperare in un mondo animato e ordinato dalla vittoria dell'informe, salvato dal basso. Una sola rivoluzione, partita dal basso, ha veramente trasfigurato l'umanità: il cristianesimo. Ma, allora, sotto i veli dell'essere più basso, si nascondeva precisamente l'essere supremo! Dio non è solo disceso sulIa terra, si è affondato in essa: in questo sprofondarsi dell'amore consiste la "bassezza" del cristianesimo. Ma nulla, in realtà, è più alto di questa bassezza, niente è più in opposizione alla menzogna rivoluzionaria. Se Dio si degna servirsi delle più povere cose per trasformare i nostri destini, di "ciò che non è per annientare ciò che è", non ne segue che l'inferiore, abbandonato alla sua rivolta e al suo orgoglio, sia per se stesso una fontana di miracoli. Il perfetto rivoluzionario è colui che, senza l'aiuto di Dio, pretende rinnovare le sfide di Dio alla natura.

Se non esistesse altra prova della dignità del cristianesimo che il fatto di un "movimento popolare" che ha dato al mondo una forma nuova e suprema a un tempo, questo ci basterebbe.

Quello che ci preoccupa dell'idea democratica, non è il gusto del cambiamento e del progresso (la vita non è che movimento), ma la fede in un progresso nato dal basso e guidato dal basso e, correlativamente, la rivolta contro i principi stessi della vita e dell'armonia sociale; non è che le masse desiderino cambiare i capi, esse pretendono dirigersi da sole.

Chi oserebbe negare il nero sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo di cui per tanto tempo ci si è serviti sotto un velo conservatore e "benpensante"? Le rivendicazioni sociali degli uomini di sinistra troppo spesso sono state giuste. E' un dovere desiderare (a condizione che tale giustizia sia adattata allo stato concreto di colui al quale viene resa) che il popolo, al banchetto sociale, sia meglio servito. Ma è mostruoso insegnargli a servirsi da solo, come fa l'eccitazione rivoluzionaria sotto tutte le forme. Poiché, per questo bisogna fare appello all'odio, all'invidia delle masse, a tutte le forze della dissoluzione morale. Se il popolo ottiene in questo modo certi vantaggi materiali, li acquista a prezzo della rovina delle sue più solide qualità sociali: senso della disciplina e della collaborazione organica tra le classi, amore o almeno accettazione della sua sorte, ecc.. A ogni conquista esterna corrisponde una sconfitta irreparabile nell'anima del combattente. In definitiva, si vagheggia una società in cui regnerebbe una specie di equilibrio astratto, una perfetta "giustizia" esteriore, ma in cui, all'interno, tutte le virtù sociali sarebbero morte. Una perfetta organizzazione collettiva, ma non più spirito collettivo negli individui. Qual deserto, quale inferno sarebbe tale mondo! Per spezzare il giogo che pesa sulle spalle delle masse, lo spirito rivoluzionario pervade di veleno le loro viscere...

Ancora una volta, non si tratta di negare la responsabilità delle élites nella genesi delle rivoluzioni. Ci limitiamo a constatare che queste ultime, per il fatto stesso che devono nascere dalla demoralizzazione delle masse, anziché purificare le élites, infettano l'insieme della nazione. Queste febbri annunciano fatalmente la generalizzazione del male: rassomigliano, di primo acchito, a una reazione contro l'egoismo e i privilegi di una casta o d'una classe, ma non sono in realtà che la lotta delle masse intossicate per spegnere la loro sete morbosa degli stessi privilegi, della stessa rinuncia egoista nei riguardi dei doveri sociali.

Abbiamo in orrore gli eccessi degli oppressori ma ancora più la rivalsa degli oppressi. Ma lo spettacolo di questi due abissi, come diceva Joseph de Maistre, non deve suscitare in noi una specie di disperazione politica. C'è una strada sul crinale per la quale si sfugge, dominandoli, a questi due opposti abissi. E' quella della riforma della rivoluzione, se si vuole, mossa e diretta dall'alto. Perché una rivoluzione può venire dall'alto. Una conversione è una rivoluzione non meno profonda, nel suo ordine, dell'insorgere di un cancro. Quando il potere temporale vien meno alla sua missione, occorre che sia richiamato e corretto, non dall'anarchia dei popoli, ma da una autorità distinta da lui e a lui superiore - da un'autorità spirituale. De Maistre, ora così deprecabilmente lasciato in disparte, ha precisato questo punto in modo magnifico.

Facciamo un esempio. Non ignoriamo come, applicati alla vita sociale, i confronti d'ordine biologico si rivelino insufficienti: essi restano tuttavia sempre i migliori, e non v'è dubbio che la professione medica, se colui che la esercita la assume con tutto il suo essere, rappresenta ancora la miglior scuola di saggezza politica. Si possono distinguere tre vite nell'uomo: quella dello spirito, quella dei sensi e la vita organica (vegetativa). Socialmente (ripetiamo che questa analogia non ha altra ambizione che d'illustrare un fatto), si può paragonare lo spirito al potere spirituale, la sensibilità al potere temporale, la vita organica alle masse. Ecco ora un uomo tormentato dalle passioni abusive, dagli "eccessi di potere" della sua sensualità, e che si abbandona, per esempio, ai piaceri immoderati della tavola. Quest'uomo può essere "avvertito" in due modi: sia dalla sua ragione che gli mostra nello stesso tempo la colpa che commette e i pericoli che incombono su di lui; se la sua ragione se ne sta zitta o egli non le dà retta, da una affezione gastrica. Se ascolta il primo avvertimento, conserverà la sua salute a prezzo di ben piccoli sacrifici, ma, se aspetta il secondo, finirà, anche transigendo nel modo più servile con le sue viscere in rivolta, a trascinare a lungo, forse per sempre, una miserevole esistenza.

Così in politica. Quando le classi dirigenti, sorde alla voce del dovere, sono messe sull'avviso dalla rivolta dei popoli, è perché ormai la corruzione si è infiltrata fin nelle ultime profondità dell'organismo sociale: l'avvertimento parte dal confine del nulla!

Come un dispeptico, il quale sacrifica ogni giorno la sua golosità alle dolorose esigenze del suo stomaco, così le vecchie élites decadute, ma ancora aggrappate al potere e alla fortuna, tentano di calmare e di allettare con delle concessioni una massa popolare infetta dello spirito rivoluzionario. Ma ogni concessione non può che indebolire un po' più colui che la fa e affamare ancor più colui che la ottiene. In una società gerarchizzata con criteri sani, i minimi doni dell'élite al popolo sono fecondi e cementano l'unità collettiva; in clima rivoluzionario, le concessioni più rovinose, le riforme più demagogiche non ottengono altro risultato che di allargare il fossato tra l'élite e il popolo. Infatti, più una riforma consacra la Iiberazione materiale o morale delle classi inferiori, più il potere da cui essa emana dev'essere potente e rispettato. Altrimenti, tutti i "benefici" accordati al popolo non servono che ad alimentare la sua febbre rivendicatrice. Non senza ragione si è potuto dire ai capi di ogni ordine: "Nella misura in cui la tua giustizia riconosce e concede il loro diritto ai tuoi inferiori e ai tuoi subordinati, bisogna che la tua forza possa resistere alle loro pretese. Non perdere mai di vista questo doppio dovere: ogni volta che accordi oggi ciò che è giusto, pensa che dovrai forse rifiutare domani ciò che è ingiusto. Che la tua forza sia tanto dolce da farsi amare, ma che la tua debolezza non sia mai tanto vile da farsi sfruttare...".

Tocca all'autorità spirituale gridare ai capi temporali: Date qualche cosa oggi, per non essere obbligati a tutto concedere domani, e inutilmente! - Usiamo questo termine di autorità spirituale in un senso molto esteso. Per noi, esso indica non soltanto l'autorità ecclesiastica propriamente detta, ma tutta l'élite intellettuale dei popoli. Il prete e il pensatore stanno tra Dio e i capi temporali: la loro missione consiste nell'illuminare e nel richiamare dall'alto i re e i padroni, - nel rimediare alle manchevolezze del potere senza far correre alla società il rischio spaventevole, il rischio fondamentale delle rivoluzioni. Si pensa oggi con tristezza a ciò che furono, di fronte ai popoli e ai re, uomini come i Padri della Chiesa nell'antichità, come Moro in Inghilterra, Bossuet in Francia e tutti i grandi pensatori cristiani di tutti i paesi e di tutti i tempi. Questi uomini sapevano predicare simultaneamente ai capi I' obbedienza al loro Dio, ai popoli l'obbedienza al loro capi. Essi sapevano redarguire con energia, persino con eroismo, l'autorità temporale, ma solo dall'alto, e senza la minima complicità con il disordine rivoluzionario; essi avrebbero avuto orrore di scendere a patti, sia pure per eliminare i peggiori eccessi del potere, con il rancore cieco delle masse.

Simili rischiaratori d'orizzonte raramente esistono (e più raramente ancora sono ascoltati), di modo che meno spesso avverte le élites del loro fallimento il sonare a stormo di un'autorità spirituale, del rintocco funebre della nazione in sfacelo...

E questo fatto ci porta a dilungarci un poco sul problema tanto discusso della "trahison des clercs". Per coloro che, quaggiù, rappresentano lo spirito, ci sono due modi di tradire la loro missione sociale, di spezzare la divinità unità ch'essi hanno il dovere di annunciare agli uomini e di porsi tra i capi e le masse, non più come un legame vivente, ma come un cuneo separatore. La prima è quella di coloro che si rendono schiavi delle classi dirigenti, chiudono gli occhi sui loro eccessi o li rendono legittimi confondendo così con Dio le potenze del secolo. Ma la seconda, ancor più ipocrita e perniciosa, consiste nel coltivare, sotto il pretesto dell'amore e della giustizia, l'ambizione disordinata delle folle, nel farsi un idolo delle forze che vengon dal basso, nel porre al servizio della follia di Calibano una parvenza di ragione. Se il passato dell'umanità ci offre troppo spesso lo spettacolo della collusione di una oligarchia tirannica, col pensiero, il mondo contemporaneo è segnato dal marchio fatale dell'asservimento del mondo intellettuale a una nuova tirannia che sale dal basso, della prostituzione dello spirito alla rivolta delle masse (si pensi alla fede di tanti intellettuali nella onnipotenza, nella onniscienza delle folle, alla adorante insipienza che li fa vantarsi di essere non le loro guide, ma i loro umili porta-voce). Il dovere delle forze spirituali, è quello di portare Dio ai grandi e alle masse; il loro peccato, di cercare Dio ora nei grandi, ora nelle masse. Nei due casi (ma in modo incomparabilmente più rapido e più generale nel secondo), lo spirito - che è nello stesso tempo il cemento più saldo e il solvente più attivo - lavora a disgiungere ciò che Dio lo incarica di unire.

Riassumiamo. Tutta questa critica dell'ideale rivoluzionario non tende a negare la nozione di progresso sociale. Noi non abbiamo il culto dei vecchi regimi autoritari. Ciò che rimpiangiamo di essi, è la loro sanità profonda, e non le loro imperfezioni e i loro eccessi. Quando rievochiamo, per esempio, un'epoca come il Medio Evo, siamo immediatamente colpiti dallo spettacolo di una moltitudine di mali vergognosi e scandalosi (guerre, carestie, oppressione, ecc.). Ma non abbiamo ancora visto quale ordine intimo e sostanziale si nascondeva sotto questo involucro caotico. Si può avere un corpo sano a dispetto di numerosi e violenti malesseri. E si può anche agonizzare in una specie di euforia menzognera...

Si sarebbero dovuti curare saggiamente i mali delle vecchie società. Quello che rimproveriamo a ogni "progresso" di tipo scientista o rivoluzionario (che, in fondo, è la stessa cosa), è di infettare le profondità dell'organismo sociale col pretesto di guarire una piaga superficiale. Si sopprime il male alla superficie, - in realtà lo si porta nel profondo; lo si rende invisibile (almeno per un certo tempo), ma tanto più sostanziale! Attaccati all'immediato e al parziale, privi di quella ragione superiore che fa risalire fino alle cause di un male e ridiscendere fino alle conseguenze di una riforma, e condannati per tal modo a non usare che palliativi o i rimedi più rischiosi, i promotori di un simile progresso giungono soltanto a far subire ai mali che essi attaccano, delle metastasi aggravanti.

Abbiamo sete di un progresso che non si acquisti a troppo caro prezzo, vale a dire che parta dall'alto, - da una élite sana che si assuma la ragione e l'autorità, e non dal basso, - dalle masse e dalla loro rivolta negatrice. Il pensiero va a ciò che potrebbe essere una società in cui I'autorità spirituale, illuminando e guidando un governo temporale solido e libero, aprisse la strada alle riforme, senza che le masse avessero bisogno di uscire dalla loro orbita naturale, di ribellarsi e corrompersi, senza che i piedi del corpo sociale prendessero la testa del movimento rivoluzionario. Abbiamo sete di un progresso che non si abbatta sull'uomo allo stesso modo del masso dell'orso. E deploriamo che, ormai da un secolo, proprio soltanto l'orso sembra alla testa del progresso! Le masse brandiscono contro gli eccessi relativi di un ordine sociale affetto da sclerosi, la mazza di un progresso che minaccia di schiacciare l'uomo fin nel suo centro.

Abbiamo espresso in altra parte il nostro pensiero sulla natura e i limiti del potere e dell'autonomia che debbono essere accordati al popolo. Non pretendiamo di escludere le masse dalla ricerca attiva del progresso e di fare di esse degli strumenti del tutto ciechi nelle mani dell'autorità. Affermiamo soltanto che il progresso dev'essere costituito, non dalla loro rivolta, ma dalla loro collaborazione, e che il loro ruolo senza cessare di essere attivo, deve restare subordinato. Non essere tutto non significa ancora essere nulla. La parte dell'aratro, nel lavoro d'aratura, non è trascurabile. Ma se mandiamo l'aratro dinanzi ai buoi, esso non compie la sua funzione e impedisce ai buoi di compiere la loro. Ora, tutto lo spirito rivoluzionario è animato da questa follia. E' un dogma socialista che le classi inferiori nulla debbano aspettarsi se non da loro stesse, cioè che il progresso non può partire che dal basso: "I'emancipazione dei lavoratori sarà l'opera dei lavoratori stessi". Ma la parte separata dal tutto e che cerca la salvezza nella rivolta, scindendo il tutto, si uccide da se stessa.

L'astro era senza orgoglio e il verme senza invidia, scrive Victor Hugo parlando dell'armonia edenica. Quella definizione esprime in modo meraviglioso ciò che dovrebbero essere gli scambi tra i diversi organismi sociali: l'inferiore elevato fino al superiore, non per distruggere, ma per ricevere, e il superiore piegato sull'inferiore per dare, e non per opprimere. L'identità consiste qui, non nella situazione, ma nell'aspirazione, nella tendenza. E' una identità di convergenza fondata sull'amore del medesimo Dio, e non la mostruosa identità di natura a cui tende necessariamente l'egualitarismo socialista, e che può realizzarsi solo a prezzo della rovina della natura. Del resto, il principio unificatore della società umana sta al disopra di questa, così che in clima d'ateismo, la confusione e la morte è ciò che si persegue sotto il nome di unità.

PERSONALISMO

Non più tradizioni, non più categorie: solo persone! La persona oggi è il cardine di tutto. Si sposa, per esempio, la persona che piace, senza tenerne nel minimo conto l'ambiente o la posizione; un regime politico s'incarna in un uomo e muore con lui, ecc.. Tutto questo porta lontano: al tramonto di tutte le grandi continuità sociali, all'instabilità universale. La persona umana non è un assoluto. Un tempo si amavano gli uomini attraverso le istituzioni: il matrimonio aveva maggior peso, nell'anima di una sposa del gran secolo, della persona di suo marito; si tollerava il re per rispetto alla monarchia, ecc.. Attualmente si sopportano le istituzioni solo attraverso un persona idolatrata; si considerano le categorie come cose astratte e morte. Ma non lo sono state sempre: sono divenute tali a misura che aumentava il culto della persona. Impersonale non è necessariamente sinonimo di morto e di astratto; ciò che non è una persona può essere altrettanto concreto e vivente. E anche le categorie che reggono, difendono e superano le persone possono essere amate con ardore! E poi, dietro queste categorie c'è la persona di Dio - la sola che si possa adorare senza pericolo - che garantisce e vivifica tutto...

La tendenza di certi "personalisti" moderni, che vorrebbero respingere come puramente artificiale e decorativo tutto quello che non è personale, ci lascia preoccupati. Sacrificare le persone alle categorie (qui sta il pericolo di tutti i climi forti e classici) non è un bene, sacrificare le categorie alle persone ci sembra anche peggio: da una parte si causa sterilità, dall'altra putrefazione. Ancora qualche progresso di questa religione della persona, e non avremo più "buone casate", né patria, né spirito di corpo o di casta - non avremo più radici nel tempo e nello spazio. Non andiamo troppo lontano nelle nostre rivendicazioni in favore della persona umana: essa è relativa, effimera, deludente e gonfia spesso dell'impersonale più vano. Noi non crediamo che al personalismo divino.

Il primato della persona spinto all'esagerazione porta con sè un altro pericolo capitale. Ecco dei realisti i quali non amano la monarchia che attraverso il volto di un principe che li ha sedotti, dei cattolici che legano la fede nell'autorità pontificia a una specie di culto infantile della persona del papa, popoli interi sollevati da ridicolo entusiasmo per un dittatore... Le cose più universali sono divenute "questioni di persone", "affari privati". Non si ha occhi e cuore che per gli individui. Essi portano da soli tutto il peso delle istituzioni. Queste si edificano e franano con loro. Questo personalismo stupido è una delle cause delle catastrofi rivoluzionarie dei tempi moderni: di mano in mano che il popolo si abitua a confondere la persona dei grandi con il principio eterno che essi rappresentano, il suo rancore verso di essi tende a trasformarsi in una volontà di distruzione universale. Il passato sapeva distinguere le istituzioni dalle persone: si poteva avere in dispregio un re o un papa (il Medio Evo non vi ha certo rinunciato!) senza mettere per nulla in discussione il principio della monarchia o del papato (10). Si sapeva che un'istituzione sana - una istituzione venuta da Dio - si conservava feconda anche attraverso l'uomo meno perfetto. I capi politici e religiosi erano allora come dei traits d'union tra Dio e gli uomini: si giudicava più importante ciò che essi trasmettevano di ciò che essi erano. L'altare sosteneva il prete, il trono il re. Oggi si chiede al re di sorreggere il trono, al prete di sorreggere l'altare. Le istituzioni non si giustificano agli occhi delle folle che attraverso il genio o il magnetismo di qualche individuo. Tale esigenza porta con sè due rovinose conseguenze: impone ai disgraziati "sostenitori" delle istituzioni un grado di tensione e di attività del tutto inumano, e, correlativamente, lega la sorte delle istituzioni a miserabili casi individuali. Antropocentrismo pietoso, che confonde il canale con la sorgente e che tende a fare della persona umana il sostegno assoluto di ciò che passa attraverso l'uomo e riposa in realtà su Dio solo...

OPPRESSIONE E CORRUZIONE

Il "genio" delle istituzioni sociali ha oscillato sino a oggi tra questi due poli, e si è sempre sbilanciato verso l'uno o verso l'altro. Oggi che le parole di giustizia e di libertà sono divenute semplici pretesti al servizio della corruzione dilagante, sarebbe bene che ognuno "realizzasse" nel suo pensiero la differenza che esiste tra un popolo oppresso e un popolo corrotto. Certe leggi possono essere inique, addirittura tiranniche, e per nulla corruttrici: non vediamo in che cosa, per esempio, le dure penalità medioevali applicate ai delitti di caccia dei villici potessero alterare la salute dell'anima del popolo. Altre leggi, al contrario, possono esser giuste e generose nel loro principio e mostruosamente dissolventi nelle conseguenze: oggi, questo rischia d'essere il caso delle leggi di assistenza sociale. Per quanto amaro ciò possa sembrare, è noto che molto spesso, non si strappa l'uomo all'oppressione che per darlo in preda alla corruzione.

Tutto questo non è un'apologia dei regimi oppressivi. Ci limitiamo a porre in rilievo la necessità di adattare ogni riforma sociale, non solo alla giustizia in sè, o ai desideri e alle rivendicazioni degli interessati, ma anche e soprattutto al "genio", agli habitus profondi, alle possibilità vitali del ceto sociale a cui si applica tale riforma. Avviene che le qualità più solide di una casta o di una razza sorgono, si organizzano e si stabilizzano sotto la pressione di uno stato sociale più o meno "ingiusto" e si trovano legate a esso per una specie di solidarietà simbiotica. In casi simili, una riforma brutale di tipo umanitario, "emancipatore", rischia fortemente di creare, nell'animo di quegli oppressi secolari, un vuoto organico, un risucchio che aspira e dissipa le riserve di forza e d'equilibrio interiore, - di virtù, nel senso biologico e morale della parola. L'anima dei popoli si conserva, si può dire, in clima rigido: immergerla - senza precauzione, senza transizione - in un'atmosfera più clemente, significa frustare dall'esterno il germe di decomposizione che porta in sè.

Le libertà e i diritti che le democrazie riconoscono all'uomo non possono essere inoffensivi e fecondi che in un clima sociale vitalmente cristiano. Non serve a nulla tentare di appiccicar le ali all'uomo se si è incapaci di creare in lui una natura alata, una celeste anima di uccello. La caduta d'Icaro è la conclusione di questo sogno...

Abbiamo fatto una distinzione, un po' ideale forse, fra i regimi oppressivi e i regimi corruttori. In verità, questi due eccessi non possono esistere a lungo I'uno senza l'altro. Ogni regime fondato sull'oppressione porta fatalmente con sè una certa corruzione di costumi: non è naturale per l'uomo essere oppresso (le tirannie di tipo "asiatico" avviliscono profondamente l'anima dei popoli). Ma è ancor più vero il reciproco - ed è qui che vogliamo insistere: se la tirannia non si sostiene senza una relativa corruzione, i regimi fondati sulla corruzione sfociano, essi, nella tirannia più universale, più assoluta. Sull'umanità pende la minaccia di vedersi immergere nel clima politico al tempo stesso più severo e più corruttore.

Spieghiamoci. La corruzione demagogica distrugge nell'uomo il senso sociale. Da un lato, affidando quasi soltanto allo Stato-astrazione la cura di guidare e assistere i cittadini, arresta in esso il fluire dell'iniziativa personale e insieme il bisogno del vero prossimo (soppressione dell'aiuto scambievole derivante dalla famiglia, dalla casta, dalla "Chiesa", da tutto I'ambiente immediato e organico dell'individuo) e, per tal modo, abolisce la possibilità di profonde comunioni vitali; d'altra parte, offrendo ai desideri dei proletari eventualità di assistenza indeterminate, sviluppa i peggiori istinti parassitari, coltiva e stabilizza in abitudini le reazioni anti-sociali. Niente isola tanto l'uomo quanto il dipendere unicamente dallo Stato, questo "freddo mostro". Che lo voglia o no, il socialismo attuale, per la forza stessa dello stato d'animo che deve mantenere nelle folle per vivere e trionfare, giunge a questa mostruosità: la generalizzazione dei privilegi. Tutti sfruttatori!

La conclusione s'intuisce facilmente. Quando la società si vede perduta, avviene una reazione terribilmente inumana. La tirannia più spaventosa sorge automaticamente dalla demagogia. E non a torto! Se lo Stato vuol vivere ancora, deve supplire, con la sola coercizione esteriore, all'equilibrio che risultava un tempo in parte dalla presenza di un'"anima collettiva", di un istinto sociale. Il regime ha tanto più bisogno di essere inumano quanto più ha scalzato, per stabilirsi, il senso della responsabilità personale e della rassegnazione sociale, base vivente di ogni comunità umana. Ai legami intimi e spontanei che uniscono organicamente l'uomo al suo simile, e che si sono distrutti, si sostituiscono, per assicurare l'esistenza della comunità cittadina, le catene dell'ergastolo.

La corruzione ha un bel ripararsi dietro la maschera della liberazione e dell'emancipazione dei popoli, alla fine si risolve, come si vede, in una quintessenza di schiavitù.

Non sarà mai sottolineato abbastanza questo doppio carattere negativo dei miti rivoluzionari: essi sono simultaneamente estenuatori e tossici. Succhiano il sangue delle nazioni e, al tempo stesso, secernono un veleno che guasta il sangue rimasto. Qui, il problema si allarga. In altri tempi, dei tiranni hanno potuto vampirizzare il popolo senza corromperlo profondamente: la loro oppressione provocava una rassegnazione sana o una rivolta sana. Ma la loro tirannia era la tirannia di un uomo, di un essere vivente e concreto: per quanto eccessiva potesse essere, restava nella linea degli eccessi naturali (non sopprimeva né il senso della gerarchia, né quello di una tradizione feconda, né quell'istinto, fatto di rassegnazione e di amore che lega l'uomo alla sua funzione, al suo gruppo, alla sua sorte). Un uomo vivo schiacciava degli uomini vivi: cosa certamente atroce, ma di un'atrocità umana! Mentre i miti moderni (mito capitalista della cifra: sfruttamento selvaggio degli uomini a vantaggio di conti e di bilanci, o mito socialista dell'uguaglianza) non si limitano a succhiare i popoli meglio di qualunque tiranno: essi corrompono, introducendo nell'anima delle masse rivolte e appetiti extra-naturali, le riserve di salute sociale che dormono in tale anima. Il mito dell'uomo collettivo - questo ideale di uno stato totalitario in cui il funzionario riassorbirebbe il cittadino e di cui certe istituzioni attuali (leggi di assistenza sociale, nazionalizzazione delIe industrie, ecc.) si adoperano a preparare l'avvento - rovina certo materialmente lo Stato. Ma, ciò che è più grave, esso toglie agli uomini, con la ricchezza materiale, il senso interiore, il senso spirituale della vita sociale: mentre cava il sangue, falsa il ritmo del cuore, - strappa al popolo il pane di bocca e nello stesso tempo gli corrompe il gusto. Si può concepire questa mostruosità, questa suprema maledizione sociale: un vampiro velenoso?

L'oppressione e lo sfruttamento degli uomini assumono in realtà varie forme molto differenti in qualità e gravità.

Fino a che un uomo non sfrutta i suoi simili che per procurarsi dei beni umani, dei beni reali (agi, lusso nell'alimentazione e nell'alloggio, ecc.), lo sfruttamento, salvo qualche rara eccezione, resta limitato in durezza e in estensione: tale fu il caso della schiavitù nella società ateniese o nella Roma repubblicana, del servaggio nel feudalismo francese, ecc.. Chiamiamo questo l'eccesso naturale: ci sono dei limiti al logoramento di un individuo, e d'altronde, il lusso dei privilegi costituisce una fonte di lavoro e di benessere per una parte della moltitudine. Il quadro si oscura quando l'uomo sfrutta il suo simile, non più soltanto per soddisfare i suoi appetiti individuali, ma a profitto di miti, di cose astratte. E non parlo qui di miti viventi e sani (ideali di potenza feudale, nazionale o religiosa con le guerre e i sacrifici che essi portano dietro), perché questi miti nutrono, uniscono, riscaldano gli uomini e rendono loro in ricchezze interiori i beni materiali che loro rapiscono. Lo sfruttamento malsano, mostruoso, comincia allorché l'uomo sfrutta l'uomo a profitto di una cosa irreale, di un segno morto, di un fantasma al quale aderiscono la sua avarizia e il suo orgoglio snaturato. Simili astrazioni hanno degli stomachi illimitati. Lo si è visto nell'età d'oro del capitalismo: l'uomo immolante l'uomo - e masse spaventose d'uomini, perché un'astrazione, ripetiamo, non è mai sazia - non più al denaro - substrato organico degli scambi e del benessere o corollario di una potenza sana, ma al denaro-cifra, al denaro-segno, al denaro-fantasma. Lo si vede soprattutto nella Germania hitleriana e nella Russia marxista, dove l'irrealismo disanimante del capitalismo raggiunge, sotto il nome di socialismo, il suo massimo di nocività, e dove un'immagine irrealizzabile dell'uomo inaridisce e scardina, economicamente e moralmente, la folla vivente degli uomini...

La rivolta malsana delle masse nasce allorché le élites cessano di rappresentare nella società un ruolo organico, e di restituire alle anime, col loro appoggio e il loro prestigio concreto, l'equivalente (o anche di più) di ciò che prendono ai corpi in beni materiali (sull'esempio del prete, del signore, del monarca...), - quando il popolo si sente parassitato senza compensazione, immolato a un mostro senza interiora. E' stato riconosciuto in ciò il capitalismo liberale del XIX secolo. Soltanto, questa mostruosità di un profitto senz'anima, senza responsabilità profonda, insomma di un profitto facile e accessibile a tutti, esercita sullo spirito degli sfruttati, una seduzione dissolvente. E la rivolta di questi ultimi è malsana perché (in virtù dell'eterna legge che vuole che le masse ricalchino il loro stato d'animo su quello delle classi dirigenti) è orientata sostanzialmente - quali che siano le maschere delle quali si fa schermo - non verso la soppressione, ma verso la generalizzazione del parassitismo. Gli elementi parassitati del corpo sociale non odiano il loro parassita che nella misura in cui lo invidiano. Al termine di questa rivoluzione (o piuttosto di questa evoluzione), si ha il collettivismo statalistico, in cui il parassitismo capitalista trova, in apparenza, la sua rovina, di fatto la sua più alta espressione: l'uomo è divorato anima e corpo da un fantasma estraneo alla natura umana e, appunto per questo, insaziabile di sangue umano.

Si realizza così la sintesi dell'oppressione e della corruzione; la vita è dura e nello stesso tempo malsana. Per fare la rivoluzione, si è inaridita la salute spirituale del popolo, e nulla compensa più ormai il rigore materiale dell'esistenza. Giogo all'esterno, veleno all'interno. Il riflesso e il principio dell'inferno sulla terra...

LA MORALE E I COSTUMI

Non v'è spettacolo più angoscioso di quello della disgiunzione crescente fra la moralità e i costumi degli uomini.

Dobbiamo intenderci anzitutto sul senso delle parole. Chiamiamo costumi tutto ciò che nella condotta dell'uomo ha a che fare con la necessità incosciente, in altre parole tutto ciò che si fa per istinto, per tradizione, per adattamento spontaneo all'ambiente sociale, ecc. Chiamiamo moralità ciò che riguarda I'affettività specificatamente cosciente. Non è necessario essere coscientemente partecipi di un ideale per avere dei costumi; lo è invece per avere una morale. Si può parlare di costumi per gli animali, ma non si può parlare di moralità che per gli uomini.

Prendiamo due casi estremi. Ecco un vecchio contadino avaro e furbo, sempre pronto a imbrogliare i suoi simili in un acquisto o in una vendita, ma nello stesso tempo attaccato al suolo avito e padre di una numerosa famiglia che alleva con devozione. Quest'uomo "non ha morale", ma ha buoni costumi. Ecco invece un piccolo borghese di vitalità impoverita, scrupolosissimo e degnissimo nella sua condotta, nobile nel suo ideale di giustizia universale, e che per debolezza, per codardia incosciente e spontanea davanti alla vita, si astiene volontariamente dall'avere figli. La morale di quest'uomo può essere più pura di quella del primo; i suoi costumi non sono men per questo corrotti.

In ogni azione umana vi è un lato fisico (usiamo questa parola nel senso larghissimo di "ontologico" e un lato morale. Un atto moralmente cattivo può essere fisicamente buono, in altri termini, può riposare su sane basi vitali, essere l'espressione di una purità e di una spontaneità naturale, ecc.. Così quel determinato illecito uso della sessualità, quel determinato atto di violenza - culminante in un assassinio, ecc., possono procedere da facoltà perfettamente sane nel loro ordine: il disordine risiede qui solamente nella illegittimità morale e sociale di tali atti. Inversamente, un atto moralmente puro può essere fisicamente impuro. L'uomo povero di vitalità di cui abbiamo parlato più sopra può, per ragioni morali, decidersi ad avere figli: la sua condotta sarà allora nobilissima, forse eroica: essa mancherà ugualmente di basi naturali, non avrà vere radici nella necessità.

Questa distinzione fra la moralità e i costumi ci permetterà di fare un confronto esatto fra lo stato presente e quello passato dell'umanità. Quando i conservatori, i laudatores temporis acti, gemono sulla decadenza morale degli uomini, i partigiani del "progresso" non mancano di ricordare loro le ombre terribili del passato, quel lungo corteggio di crudeltà, di concussioni, di turpitudini che si snoda attraverso i secoli defunti. Conclusione: torna conto vivere oggi, gli uomini sono più giusti e più dolci. Distinguiamo: se confrontiamo epoche come il Medioevo con il periodo attuale, arriviamo a questa conclusione: dal punto di vista dei costumi l'umanità è in piena decadenza; dal punto di vista della moralità (almeno in quanto disposizione emotiva e ideale universale), è certamente in progresso.

I nostri antenati avevano meno morale di noi, ma avevano più costumi; noi abbiamo più morale e meno costumi. Non è necessario d'altra parte risalire fino al Medioevo per stabilire tale confronto. I contadini di cento anni fa erano nel complesso più duri, più astuti, più meschini e più cavillosi dei contadini di oggi, erano meno aperti alla morale e all'amore che ne è la base. I loro nipoti hanno il cuore più sensibile e lo spirito più largo; le dispute, i processi, gli imbrogli sono più rari nei villaggi. Ma quei vecchi contadini possedevano, malgrado la strettezza quasi "immorale" della loro anima, un profondo capitale di tradizioni religiose e familiari e di saggezza istintiva: i loro figli hanno dilapidato quel capitale. Essi si incorporavano, personalmente ed ereditariamente, con la terra che coltivavano, e coprivano una funzione organica nella società: i loro figli, non più attaccati al suolo natale, non aspirano che a diventare funzionari anonimi e parassiti. Essi erano talora brutali coi loro figli, ma ne avevano: i loro figli circondano i propri di maggior tenerezza e maggiori cure, ma non ne hanno quasi più. Ancor peggio - e questo permette di misurare l'ampiezza mostruosa del divorzio fra la sensibilità morale e i costumi profondi - precisamente in questa Francia ove la maggior parte della gente è diventata così dolce, così umana e, in particolare, così tenera per i figli e così incapace di vederli soffrire, si contano, a dir poco, 500.000 aborti all'anno, vale a dire 500.000 bimbi assassinati! Da una parte, si viziano i bambini, dall'altra si uccidono: la stessa mano massacra gli innocenti e li guasta di carezze. E' necessario che gli uni muoiano perché gli altri siano più coccolati e adorati: si fanno sacrifici umani a questi piccoli dei! Abbiamo conosciuto una persona che aveva ucciso quattro bambini nel proprio seno (non per malizia, ma per debolezza, per mancanza di istinti solidi e di cardini sociali) e che trovava mostruoso che si potesse battere un bambino per correggerlo... La distanza fra il bambino assassinato e il bambino viziato ci offre la misura dello stacco fra la sensibilità e i costumi profondi.

Per non essere incarnata in sani costumi, quella moralità resta essenzialmente affetta da impotenza. Fatta di intellettualismo astratto e di emotività superficiale (non è Rousseau che aveva voluto gettare le basi di una morale sensitiva?), essa non va al di là della sensazione immediata o dell'ideale inaccessibile. E', nello stesso tempo, terribilmente presbite e terribilmente miope: con un occhio guarda una stella chimerica che non scenderà mai sulla terra, con l'altro - con quello che dirige l'azione concreta - non vede altro che il frutto che si può cogliere oggi. Gli uomini possedevano un tempo profondi istinti biologici e collettivi che li ponevano al servizio, a loro insaputa, del bene della specie e della società; vedevano lontano senza averne coscienza, e il loro umile sforzo personale, attratto da una finalità superiore, alla quale si adattava spontaneamente, contribuiva alla armoniosa edificazione della società e dell'avvenire. Il grande beneficio che proviene da costumi sani è che essi rendono facili e naturali cose molto difficili per la moralità pura dell'individuo isolato. Orbene, la decadenza ha isolato e atomizzato l'individuo. Bisognerebbe oggi che ciascun uomo supplisse, con la sua volontà traballante e con la sua labile sensibilità, ai soffi profondi che gli provenivano dall'anima animale e dall'anima collettiva. Ciò non è possibile che a qualche grande anima. Le altre versano fatalmente nel culto esclusivo dell'interesse o dell'amore sensibile e immediato. L'uomo atomizzato ha ripugnanza per tutto ciò che è penoso e soprattutto per tutto ciò che è lontano. Non si hanno bambini: il possibile che si uccide non si sente, mentre si sente bene la tranquillità che ci si procura; non si correggono quelli che si hanno: il bene che così si farebbe loro è troppo lontano, non è sensibile, mentre le loro lacrime e le loro carezze lo sono... I giovani contadini si rovesciano in massa verso il funzionarismo: come potrebbe la visione di un lontano disastro collettivo controbilanciare in essi l'attrattiva di una sicurezza immediata? Erano gli istinti e le istituzioni, oppure la "coscienza" degli individui a mantener fedeli i loro antenati alla terra?

Questa religione della facilità, originata dalla debilitazione dei costumi, ha dato anche risultati positivi. Ha fatto sviluppare delle virtù le quali, quantunque nutrite di debolezza, non si confondono con la debolezza. Gli uomini sono troppo "sensibilizzati", hanno troppo bisogno dell'aiuto e della stima, dei loro simili (11) per non ripudiare spontaneamente gli atti di egoismo o di odio che esigono un dispendio troppo grande di forze. Nelle nostre campagne, per esempio, i processi non esistono quasi più. Non si processano più vendette a lunga scadenza, e le persone che si odiano e si calunniano più che mai, non litigano più di fronte. Anche nel male, non si sa più rischiare e assumersi la propria responsabilità.

Dal punto di vista strettamente morale, la decadenza dei costumi non rende gli uomini né migliori né peggiori: essa tende solamente a sopprimere le manifestazioni lontane e difficili dell'egoismo e dell'amore.

Ciò che qui chiamiamo costume (i costumi di cui denunciamo la regressione) è, insomma, la morale vissuta piuttosto che rappresentata, la morale fondata sulla necessità fisica; è, nell'ordine del sentimento e dell'azione un "dono" altrettanto gratuito e naturale quanto la salute nell'ordine del corpo e come una specie di prolungamento di quest'ultima (si concepisce come tale salute, riferendosi a dei comportamenti assai semplici, con finalità generalmente extra-personali ed essendo diretta ad assicurare la continuità familiare e sociale, possa far posto, nell'ordine delle sovrastrutture, a molte immoralità: così si spiegano i "peccati" di tanta gente biologicamente e socialmente sana). Ciò che chiamiamo morale (la morale di cui segnaliamo i progressi), è la morale rappresentata e sentita più che vissuta e realizzata, la morale sorgente di emozione e di ideale più che d'azione (si capisce come tale morale possa coesistere con la profonda decomposizione delle sottostrutture affettive). Il carattere di Jean-Jacques Rousseau ci offre un esempio magnifico di questa mescolanza di moralismo esasperato e di costumi degenerati. Alla nascita di ciascuno dei suoi figli egli ripassa nel suo pensiero e nel suo cuore "le leggi della natura, della giustizia e della ragione, e quelle della religione, pura, santa, eterna come il suo autore", ecc., e questa orgia di alta morale si conclude con l'abbandono di ognuno dei suoi figli! Un uomo normale non pensa a nulla di tutto questo, e alleva i propri...

L'unione, nello stesso individuo, di un forte ideale morale e di costumi decadenti rappresenta un terribile pericolo sociale. L'assenza di sanità nei costumi profondi e nei riflessi vitali conferisce all'ideale morale un non so che di irreale e di morbido che lo rende offensivo per la natura dell'uomo. I peccati d'idealismo, di angelismo, che sono alla base delle grandi convulsioni culturali e politiche dei tempi moderni, provengono in gran parte di là. Unita a costumi sani, l'alta moralità fa i santi; legata a costumi in sfacelo, produce utopisti e rivoluzionari. Rousseau e Robespierre furono esseri costantemente frementi di emozione morale: la predicazione della virtù era in essi come una specie di grido di agonia, di canto del cigno dei costumi! La virtù, che non è equilibrata e resa umana da buoni costumi, è sempre sotto la minaccia di divenire la preda di un ideale chimerico e, per ciò, distruttore. Non ultimo beneficio della sanità dei costumi è il poter impedire alla morale di vaneggiare.

Un altro pericolo (d'altronde strettamente vicino a quelli che abbiamo già segnalati) della moralità senza costumi, è di finire, successivamente o simultaneamente, in una indignazione impura contro il male e in un consentimento impuro al male.

La "morale senza costumi", abbiamo detto, non è incarnata. Il decadente ha spesso fame di virtù, ma questa fame non trova nutrimento all'interno di lui stesso. Allora Ia cerca al di fuori... Uomini come Rousseau hanno un ideale, ma questo ideale non è mai sceso più in giù del loro cervello: esso non trova, nel loro intimo essere, nella loro natura profonda, di che mangiare e prendere corpo. Ma da quella parte non insistono: finirebbero troppo lontano. Di questa virtù, di cui non portano in sè che la fame, reclamano la sostanza dal mondo esteriore. Chiedono ad esso di incarnare il loro ideale; pretendono dalla società che fornisca un alibi alla loro impotenza; hanno bisogno di vedersi attorno ininterrottamente ciò che sono incapaci di vivere in loro. E quando il mondo esteriore vien meno a questa missione, quale indignato rancore, quali grida isteriche contro il male! GIi esseri profondamente virtuosi - quelli che realizzano interiormente il loro ideale - sono molto meno sensibili - intendiamo di questa sensibilità gonfia di amarezza e d'irritazione - alla menzogna e all'ingiustizia del mondo. Essi sentono, nella loro anima e nel Dio che vi abita, forza e verità eterne bastevoli per sopportare, con cuore afflitto ma calmo, il male che rode il mondo. Essi sanno, con vivente sapienza, che la giustizia avrà l'ultima parola, e questo rende vani molti scandali. Ma coloro che invocano, con simili contrazioni di impazienza, il trionfo del loro Dio, mostrano così facendo che non sono poi del tutto sicuri di questo trionfo. Schiavi, ancor più degli altri, del mondo e del secolo, hanno bisogno, per non disperare del loro ideale, di vederlo aver successo in questo mondo e in questo secolo, e il loro zelo è tanto più amaro e febbrile quanto più il loro vuoto interiore è profondo. Così Rousseau, padre indegno, assegna ricompense alle donne che alIattano i figlioli e soffoca gli educatori di consigli inattuabili. Egli chiede agli altri l'impossibile nella misura in cui egli non ha alzato neppure il mignolo: così si crea una media! Le utopie morali e sociali più divoranti sono nate da tali decadenti, che uniscono, secondo il detto di Montaigne, "opinioni ultracelesti a costumi sotterranei...".

Ma questo dualismo acuto tra la morale e i costumi, questo stato di febbre e di tensione, inerente alle virtù male incarnate non riuscirebbe a reggersi per molto tempo. L'unità spezzata tenta di ristabilirsi con la confusione. Quando l'ideale è incapace di incarnarsi, si idealizza la carne, e si vede sorgere un nuovo tipo di decadenza: quello degli esseri corrotti che divinizzano la loro propria corruzione. Si crea una nuova "morale", che giustifica teoricamente l'amoralismo ingenito dei costumi malati: Icaro deluso gusta il riposo nel fango promesso a tutti coloro che sono stati stati tentati dall'impossibile. La decadenza dei costumi produce, nel primo stadio, un moralismo rigido ed esaltato, nel secondo, un immoralismo elevato a dogma; genera sempre, presto o tardi, la morale peggiore.

Questo dualismo e questa confusione coesistono d'altronde, in generale, negli stessi uomini e nelle stesse dottrine. E' il marchio di tutte le morali di tipo manicheo questa mescolanza di purismo e di lassismo. Un Rousseau, un Gide censurano, con sovrumani raffinamenti di purità, certi mali quasi inerenti alla condizione umana e, nello steso tempo, accolgono e glorificano i peggiori disordini. Essi rivolgono simultaneamente lo sguardo più in alto dell'uomo e più in basso dell'animale: la loro morale è fatta di inutile rivolta contro la necessità e di piatta abdicazione davanti al disordine; essa è specificata dall'attrazione combinata dell'impossibile e del fango.

L'uomo, per vivere da uomo, ha bisogno di armonia tra la morale e i costumi. I costumi sono fatti per essere coronati dalla morale, la morale è fatta per incarnarsi nei costumi. Il precetto morale, dapprima scelto liberamente, s'infiltra presto o tardi nei costumi, e li corrompe: assistiamo, dal Rinascimento, a questa discesa del peccato nella necessità, a questa lenta degradazione del male morale in male fisico. Reciprocamente, il crollo dei costumi si riflette sulla morale: la virtù che non si appoggia più sulla sanità degli istinti e su quella delle istituzioni devia dal suo solco naturale; essa cade, come i nervi mal nutriti, nella debolezza irritabile...

La crisi morale che tutti oggi accusano a gara è soprattutto una crisi dei costumi. Il peccato emigra sempre più fuori del luogo suo proprio (la coscienza e la libertà individuale) per installarsi, da una parte nel dominio della vita collettiva (regimi politici e climi sociali malsani), e dall'altra in quello della vita incosciente e quasi organica (nervi scossi, istinti pervertiti, ecc.). La zona del male propriamente morale rimpicciolisce sempre più, di modo che il moralista non sa più bene dove finisca il suo compito e dove cominci quello dell'uomo di Stato o del medico. Non ignoriamo che una simile deviazione dei costumi costituisce un clima ideale per il sorgere delle vocazioni eroiche; essa fa nascere per reazione degli esseri la cui purità morale risale la corrente dei costumi e crea una nuova salute tutta fondata sulla coscienza e sull'amore, tutta spinta verso la vetta dello spirito. Si pensi per esempio in quali condizioni biologiche e in quale atmosfera sociale venga oggi a trovarsi il dovere elementare della procreazione e quali tragici ostacoli debba talvolta superare. Ma uno stato di cose che tende, per così dire, ad appendere la sanità alla santità, non procede mai senza pericoli (abbiamo già visto quali); in ogni caso, esige una forza e una grandezza d'animo che non sono nelle possibilità dell'umanità media. Ogni sistema sociale che contribuisce a rendere necessarie, per la maggioranza degli uomini e nella condotta ordinaria della loro vita, virtù essenzialmente aristocratiche, si rivela appunto per questo malsano. Quanto alla pseudo-democrazia nata dallo spirito dell'89, essa aggiunge alla malvagità l'assurdità: fondata teoricamente sulla giustizia e sull'amore verso le masse, finisce per imporre praticamente agli individui di queste povere masse, se vogliono compiere il loro umile dovere, un eroismo che sarebbe appena ragionevole chiedere a non sappiamo quale pusillus grex evangelico. Se si cerca la ragione segreta della spaventosa temerità con cui gli spiriti rivoluzionari sconvolgono tradizioni e costumi che hanno fatto buona prova, la si trova in questa illusione "angelica" che la moralità può e deve bastare a sostituire i costumi distrutti. Ma non v'è peggior misfatto sociale che forzare le masse sulle orme della santità...

Collocato al centro di una disfatta dei costumi ancora inedita nella storia, il moralista deve diffidare più che mai delle costruzioni ideali, dei sistemi universali e dell'ebbrezza delle parole e dei sogni. L'eretismo morale è stato abbastanza a lungo coltivato: noi oggi abbiamo bisogno soprattutto di una morale motrice. Dopo tanti sterili eccessi intellettuali e affettivi, è tempo di insegnare agli uomini a far passare nelle loro mani l'ideale del loro spirito e l'emozione del loro cuore. Si tratta di incarnare umilmente, pazientemente, la verità umana, di darle un corpo e una realtà nella vita di ognuno e nella vita di tutti. Il più nobile ideale non ha senso che nella misura in cui genera questo povero sforzo carnale e sanguinante. Le basi più elementari della natura umana sono scosse: l'uomo è da ricostruire interamente. Per questo, non basta predicare, a tutti e a nessuno, dalla cima dell'edificio pericolante; bisogna discendere e ripararne, pietra su pietra, le fondamenta minacciate.

Il compito più urgente della morale consiste dunque oggi nella restaurazione dei costumi. Non basta predicare alle anime la sanità morale, se non si è in grado di individuare il clima che le fa ammalare. E ciò pone dei problemi biologici, economici e politici che non si ha il diritto di eludere. Il moralista non può più isolarsi nella sua scienza... Ciò significa forse che la morale è divenuta inutile, come un falso realismo vorrebbe insinuarci? Essa ha bisogno al contrario di essere tanto più pura, più profonda e più delicata per il fatto che posa su basi meno salde. In altri tempi, il moralista e l'apostolo potevano prendersi il lusso di occuparsi esclusivamente dello spirito e della libertà: allora non c'era da preoccuparsi delle basi fisiche dello slancio morale né di un clima sociale che, per essere talvolta molto rude, non restava per questo meno salubre nella sua essenza. Oggi, la morale più alta deve imparare a piegarsi sulle più umili realtà, bisogna che segua il male fino al punto estremo della sua incarnazione nei costumi, poiché di là deve partire il rimedio.

Tutti i trattamenti locali - siano essi sermoni morali, sistemi politici o piani economici - si rivelano, presi separatamente, più deficienti che mai. La guarigione dell'umanità esige una scienza totale e un amore totale dell'umanità.

 

NOTE

(1) Scritto nel 1939 (Nota dell'Editore francese).

(2) Il lusso vero ha qualcosa di ascetico. Esso non è possibile che negli ambienti in cui gli uomini sono formati da una forte riserva ereditaria e personale. E' significativo constatare che la scomparsa del vero lusso e della libertà segue ovunque la scomparsa delle aristocrazie.

(3) Queste righe sono state scritte nel 1937.

(4) Non vogliamo negare, con ciò, che un miglioramento delle condizioni più materiali dell'esistenza del lavoratore non possa e non debba, in molti casi, essere perseguito parallelamente a tale umanizzazione del lavoro. Dicendo "anzitutto" vogliamo semplicemente mettere l'accento sul punto più importante: pensiamo a una priorità di natura più che a una priorità di tempo.

(5) Teniamo a sottolineare che il liberalismo che qui attacchiamo non ha niente in comune con il neo-Iiberalismo economico: quello, per esempio, di un W. Lippmann.

(6) Ciò che importa prima di tutto per l'uomo nemico della sua unità - del suo Dio - non è l'essere a profitto del quale l'equilibrio viene rotto, ma la stessa rottura dell'equilibrio, non è l'idolo ma l'idolatria. In tutto ciò che noi amiamo in maniera disordinata amiamo soprattutto il disordine.

(7) In definitiva, lo spirito di destra perviene alla negazione dell'ideale, quello di sinistra alla sua prostituzione. Del resto, la sorgente di questa perpetua confusione dei valori che caratterizza una certa mentalità di sinistra, risiede nell'anarchia interiore degli individui. Questi sono dei decadenti, nei quali le facoltà e i sentimenti sono incompiuti e affetti da una pericolosa indifferenziazione. In loro nessuna cosa è al suo posto, e manca una gerarchia interna. Lo spirito, l'amore non possono manifestarsi nella loro purezza: essi sono saturi di richiami inferiori. E la carne, l'egoismo sono pure troppo deboli, troppo inibiti per dispiegarsi apertamente e chiamano l'ideale al proprio soccorso e si fanno strada coperti da una maschera di generosità. Il decadente non sa disgiungere la sua bassezza dalla sua altezza: in lui tutto è confuso e irriconoscibile. Se ha dei vizi, li chiama amore, se è ambizioso, pretende servire la giustizia, e il peggio consiste in questo, che è sincero! La sua bassezza è altresì infinitamente più pericolosa di quella dell'uomo di destra, perché è portata sulle ali dell'idea. Confrontate un innamorato romantico con un uomo agitato da un bisogno sessuale normale, un tribuno socialista con un politico realista: i primi sembrano più grandi e più nobili, esercitano più seduzione. E ciò è comprensibile: hanno messo in gioco ciò che v'è di più alto! L'uomo normale può essere ipocrita, ma sa allora ciò che fa. L'ipocrisia per lui consiste solo nel dissimulare la sua miseria. Quella del decadente invece consiste nell'idealizzarla. Il primo mente servendosi di ciò che ha di peggio e porta una maschera esterna. Il secondo mente servendosi di ciò che ha di meglio, e porta una maschera interna; il suo viso stesso è maschera. L'uomo di destra può essere mentitore, ma l'uomo di sinistra, in definitiva. è menzogna.

Del resto la destra e la sinistra, in ciò che esse hanno di estremo e di perverso, sono collegate da profonde affinità. Si passa con estrema facilità dall'una all'altra (cfr. il capitolo sulla morale e la vita), e queste pseudo conversioni producono generalmente risultati catastrofici. Nulla è più terribile (l'osservazione è già stata fatta da J. Maritain in un senso diverso) di un uomo che, con temperamento di sinistra, si fa, in materia politica o religiosa, il difensore dell'idea di destra. Per reazione contro la propria confusione interiore, diventa ferocemente angusto e mutilatore, ha sempre qualche cosa di nuovo da troncare o comprimere: è una specie di Argo che non la finisce mai di strappar il suo occhio che lo scandalizza. Reciprocamente, uno spirito di destra lanciato in un movimento di sinistra finisce mettendo la sua unità e la sua continuità interiore al servizio del disordine e dell'utopia, col portare questi mali alla loro ultima espressione. I peggiori rappresentanti di ogni campo sono i transfuga dal campo opposto.

(8) Queste osservazioni sono valide, non solo per la società capitalistica, ma anche per la società statalistica: un funzionario pinguemente retribuito e senza vere responsabilità, gode di privilegi altrettanto artificiali di quelli di un proprietario di capitali anonimi. Aggiungiamo poi che i beneficiari di una falsa ineguaglianza non sono necessariamente coloro che occupano i gradi elevati della gerarchia sociale: può capitare che i profittatori della disarmonia collettiva siano i "proletari ".

(9) Sappiamo che questa autarchia dei popoli non è che un'illusione, e che, anche nel caso in cui la rivoluzione sembra sgorgare di più dalla coscienza popolare, l'uomo della folla resta, fra le mani di certi caporioni, uno strumento cieco quanto il legionario romano che si batteva per stabilire la dittatura di Silla o di Cesare. Vi è, tuttavia, questa differenza: mentre un Cesare si limitava a comandare di sostenere la propria rivolta, un demagogo persuade le folle di rivoltarsi per il loro bene, per la loro salvezza, e finge di non essere che il loro interprete e il loro servitore: la sua arte consiste nel dar loro l'illusione di guidare il gioco rivoluzionario, di essere causa prima là dove non sono che strumento servile.

(10) Le invettive di una Caterina da Siena contro il clero della sua epoca oggi non sarebbero più tollerabili: comprometterebbero nelle anime la fede nella Chiesa. Per quanto doloroso ciò possa sembrare, la cura delle istituzioni impone oggi di aver riguardo alle persone e di soffocare gli scandali.

(11) Non è un paradosso: essi hanno bisogno dei loro simili nella misura in cui ne sono effettivamente separati. E porta in sè la più profonda riserva "di anima collettiva" colui che è più capace di vivere scostato dai suoi simili e di lottare contro di essi. I nostri antenati erano meglio attrezzati di noi dalla natura ad una certa profondità e una certa tenacia nel male specificamente morale.

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