Famiglia e unioni di fatto.
A seguito delle proposte di istituzione del
"registro delle unioni civili":
considerazioni antropologiche e etiche
a cura del Card. DIONIGI TETTAMANZI
Sulle famiglie di fatto si è accesa, in quest'ultimo periodo di tempo, una discussione non poco vivace. A provocarla è stato il fatto che alcuni Consigli comunali hanno deliberato l'istituzione del "registro delle unioni civili".
Ma sul problema si devono rilevare, insieme alla discussione, anche reazioni di diverso genere, che meritano di essere segnalate. La maggioranza delle persone è rimasta, così pare, piuttosto indifferente; altre hanno preferito scegliere il silenzio; altre ancora hanno manifestato una specie di "fastidio" di fronte ad una questione che rischia di aggravare tensioni e contrapposizioni che già appesantiscono il clima sociale e politico di oggi.
In realtà, la prima reazione legittima e doverosa per tutti è quella di lasciarsi interrogare da questo problema e, pertanto, di affrontarlo da persone che non possono abdicare alla loro razionalità e responsabilità, quindi in spirito di grande saggezza e di vera libertà.
In tale prospettiva, raccolgo e offro, cercando di ordinarli, alcuni spunti di riflessione.
1. Un problema insieme soggettivo e oggettivo
Di fronte al fenomeno delle unioni di fatto non si può tralasciare la considerazione dell'aspetto soggettivo: siamo di fronte a singole persone, alla loro visione della vita, alle loro intenzionalità, in una parola alla loro "storia". In tal senso, noi possiamo, anzi dobbiamo, anche prendere atto e rispettare la libertà individuale di scelta di queste stesse persone.
Ma nelle unioni di fatto che chiedono il riconoscimento pubblico non è in questione soltanto la libertà privata (ciascuno è libero di comportarsi privatamente come meglio o peggio gli aggrada); è in questione anche e specificatamente il riconoscimento pubblico di questa scelta privata.
Si rende necessario, allora, un approccio propriamente sociale al problema: l'individuo, infatti, è persona ed è persona perché è un essere relazionale, che sta in relazione con gli altri. Ciò esige che ci sia un "terreno comune", nel quale le persone si possono ritrovare, confrontarsi, dialogare a partire e in riferimento a un qualcosa di "condiviso", ossia a valori e ad esigenze accettati da tutti.
Questo terreno comune equivale a un criterio oggettivo, a una verità che è al di sopra di tutti e, insieme, è per il bene di tutti.
Stare a questo criterio, a questa verità, è condizione sia per l'autentica libertà e maturità della persona sia per lo sviluppo di una convivenza sociale ordinata e feconda.
Un'attenzione esclusiva al soggetto e alle sue intenzioni e scelte, senza un adeguato riferimento alla dimensione sociale e quindi al dato oggettivo, è frutto di un individualismo arbitrario inaccettabile, anzi controproducente per la dignità della persona e per l'ordine della società.
2. Un problema non confessionale ma "laico"
La discussione sulle famiglie di fatto ha manifestato, ancora una volta, come sia forte la tendenza a ideologicizzare, anzi a "confessionalizzare" ogni problema, ossia a ritenere che la sua soluzione non possa avere se non risposte diverse e contrapposte, a seconda della fede professata, se cattolica o laica.
Certamente il cristiano ha una visione del matrimonio e della famiglia che discende dalla parola di Dio e dall'insegnamento della Chiesa e che lo porta a riconoscere nel matrimonio dei battezzati un sacramento, un segno e un luogo della salvezza di Gesù Cristo. Ma il cristiano, sempre alla luce della parola di Dio e dell'insegnamento della Chiesa, sa che il sacramento non è una realtà successiva ed estrinseca al dato naturale, ma è questo stesso dato naturale che viene assunto a segno e mezzo di salvezza. Su questo dato naturale, e quindi profondamente umano, il credente interviene con la luce e con la forza della sua ragione. Il problema delle unioni di fatto, dunque, può e deve essere affrontato con la ragione: non è questione di fede cristiana, ma di razionalità.
È inaccettabile questa tendenza, così diffusa e radicata, quasi istintiva, a contrapporre cattolici e laici! Quanto dice l'Enciclica Evangelium vitae circa il problema dell'aborto può dirsi analogamente per il nostro problema: "Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani…" (n. 101).
Che debba avvenire anche in questo campo quanto è avvenuto e avviene in altri campi, che sia cioè la Chiesa a difendere la validità della ragione e l'umanità dell'uomo?
3. Un problema di grande serietà
Un altro rischio - comune e diffuso - va denunciato: quello di banalizzare la portata del problema in gioco. Si dice, infatti, che non ci sarebbe da preoccuparsi eccessivamente, considerato il numero relativamente ridotto delle coppie di fatto rispetto alla quasi totalità del popolo italiano che è per la famiglia fondata sul matrimonio. In realtà, il problema non è tanto quantitativo, quanto qualitativo: riguarda la verità e la giustizia, ossia i valori e le esigenze che vi sono coinvolti. Piuttosto la scarsa rilevanza numerica del problema dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla stessa opportunità di adoperarsi per interventi amministrativo-legislativi riguardanti le coppie di fatto, mentre non sempre pare di poter registrare un adeguato impegno per la promozione di autentiche politiche familiari.
Una forma ancora più inquietante e deleteria di banalizzazione del problema sta nell'esaltazione (apparente e falsa) della libertà di scelta degli individui. Ma è proprio questa impostazione del tutto privatistica del matrimonio e della famiglia che esige di essere considerata con estrema serietà. Non siamo di fronte a un qualsiasi tipo di rapporto di vita tra le persone, ma a un tipo di rapporto che ha una dimensione sociale unica rispetto a tutte le altre; è unica quella della famiglia per la sua natura di nucleo sociale di base, in quanto con la procreazione si pone come seminarium civitatis (come principio "genetico" della società) e con l'educazione si configura come luogo primario di trasmissione e coltivazione dei valori e, quindi, come principio di cultura.
Per le ragioni ora dette si deve concludere che il "modello" di matrimonio e di famiglia non è affatto qualcosa di secondario o di marginale per la configurazione strutturale della società, è qualcosa di determinante e qualificante la società stessa: quale è la famiglia, tale è la società!
4. Per una valutazione veramente razionale
Come per ogni altro problema umano, così anche per quello delle unioni di fatto, si deve intervenire con la ragione, più precisamente con la "retta ragione".
Con questa classica precisazione terminologica, si intende fare riferimento alla lettura e al giudizio di una ragione che sa essere oggettiva, libera quindi dai più diversi condizionamenti, come l'emotività o la facile compassione per singole situazioni penose, gli eventuali pregiudizi ideologici, la pressione sociale e culturale, i rigidi schieramenti delle forze e dei partiti politici.
In particolare, la "retta ragione" deve difendersi da talune spinte culturali, di stampo radicale, che hanno come obiettivo più o meno palese la distruzione dell'istituto familiare. Il Santo Padre è stato oltremodo chiaro al riguardo nel suo discorso al Forum delle Associazioni familiari cattoliche d'Italia: "Ancora più preoccupante è l'attacco diretto all'istituto familiare che si sta sviluppando sia a livello culturale che nell'ambito politico, legislativo e amministrativo... È chiara infatti la tendenza ad equiparare alla famiglia altre e ben diverse forme di convivenza, prescindendo da fondamentali considerazioni di ordine etico e antropologico" (27 giugno 1998, n. 2).
Sono queste fondamentali considerazioni di ordine etico e antropologico l'oggetto specifico proprio di una retta riflessione razionale. E questa, secondo un ideale cammino logico, procede anzitutto a definire l'identità propria della famiglia fondata sul matrimonio e l'identità propria delle altre forme di convivenza, per operare poi un confronto tra le due identità e poter concludere, così, sulla possibile o impossibile "equiparazione" tra famiglia e unioni di fatto.
Prioritaria, pertanto, si pone la definizione dell'identità propria della famiglia in se stessa e in rapporto alla società. A questa identità appartiene, oltre a quanto già detto, il valore e l'esigenza della stabilità del rapporto matrimoniale tra l'uomo e la donna: è una stabilità che trova espressione e conferma nel rapporto di procreazione dei figli e che si pone al loro servizio educativo-culturale e, in tal senso, diviene anche un fattore di ulteriori rapporti del tessuto sociale nel segno della coesione.
Si deve, inoltre, precisare che la stabilità propriamente matrimoniale e familiare non è affidata esclusivamente all'intenzione e alla buona volontà delle singole persone coinvolte, ma riveste un carattere istituzionale, in seguito alla pubblicizzazione, ossia al riconoscimento giuridico da parte dello Stato della scelta di vita coniugale. Una simile stabilità è sì nell'interesse di tutti, ma torna a particolare vantaggio dei più deboli, cioè dei figli. In tal senso non può non colpire il pratico silenzio che sul problema dei figli che nascono nelle coppie di fatto caratterizza l'attuale dibattito sull'equiparazione tra famiglia e unioni di fatto.
Se ora, dall'identità della famiglia passiamo a quella delle altre forme di convivenza, dobbiamo immediatamente rilevare la forte eterogeneità delle unioni di fatto: si pensi anche solo alla diversità tra quelle eterosessuali e quelle omosessuali. Una simile eterogeneità rende più articolato e diversificato il confronto tra la famiglia e queste convivenze. Da tale confronto emerge come e sin dove queste ultime si allontanino, anzi finiscano per alterare radicalmente il "modello" naturale della famiglia fondata sul matrimonio. Non prendiamo in considerazione qui, per ragioni di spazio, la problematica delle coppie omosessuali, che evidentemente solleva interrogativi più inquietanti, anche se il rifiuto all'equiparazione, in tale caso, è ancora più categorico.
Una pretesa equiparazione tra famiglia e unioni di fatto da parte della società e della legge civile deve dirsi falsa e falsificante, perché va contro la verità delle cose, annullando delle differenze sostanziali, introducendo "modelli" di famiglia per nulla confrontabili tra di loro e che si risolvono, in ogni caso, in uno screditamento ingiusto di quell'unica famiglia che la storia dell'umanità di tutti i tempi ha sempre visto non come una generica relazione, ma come realtà originata da un matrimonio, ovvero dal patto, variamente stipulato e manifestato, tra persone di sesso diverso, operato a partire da una reciproca e libera scelta e comprendente, almeno come progetto, una relazione generativa.
5. L'intervento della società e della legge civile
È legittimo, anzi necessario, l'intervento della società e della legge civile nell'ambito della famiglia e anche delle unioni di fatto: la ragione sta nell'essenziale dimensione sociale del matrimonio, che si esprime nel rapporto reciproco che va dal matrimonio alla società e dalla società al matrimonio.
Ma come intervenire? Nel rispetto della verità e della giustizia.
Ciò significa che va osservata, anzitutto, la vigente Costituzione repubblicana del nostro Paese, oltremodo chiara sia nella lettera sia nello spirito. Questa "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" (art. 29) e, dunque, - mentre solo a "questa" famiglia riserva e assicura una specifica tutela e una via preferenziale agli interventi sociali e di solidarietà - propone "questa" famiglia come "unico" modello adatto ad assicurare nel tessuto sociale la certezza del diritto e l'adempimento dei compiti previsti dalla legge.
Ora, la certezza del diritto viene compromessa dalle unioni di fatto che, per definizione, rifuggono da ogni forma di regolamentazione sociale. Così pure l'adempimento dei compiti viene lasciato alla totale arbitrarietà dei conviventi. Ciò nonostante, con l'istituzione del "registro delle unioni civili", si riconosce uno speciale status giuridico di famiglia a persone che liberamente hanno rifiutato e rifiutano proprio lo status di famiglia, con tutti i correlativi diritti e doveri: in tal modo è lo stesso soggetto pubblico (il Comune) a cadere in una palese e intollerabile contraddizione. Si aggiunga poi che il soggetto pubblico pone un atto giuridico a senso unico: mentre si assume delle obbligazioni nei confronti dei conviventi, questi non si assumono nessuna obbligazione. In tale prospettiva, è paradossale che sia lo stesso soggetto pubblico a farsi responsabile del rifiuto della dimensione sociale della convivenza familiare e del riconoscimento dell'individualismo più marcato: con
l'equiparazione famiglia-unioni di fatto, il soggetto pubblico accetta un'ingiusta e deleteria "dissociazione" tra diritti e doveri: ai conviventi riconosce i diritti, ma da essi non esige i doveri.
Come si vede, l'equiparazione - mediante l'iscrizione a registro - delle unioni di fatto alla famiglia è contraria a ogni coerente articolazione dei rapporti tra diritti e doveri e, proprio per questo, sovverte alla radice il vivere sociale, oltre ad essere un vero e proprio vulnus alla Costituzione vigente. In tal senso, dobbiamo chiederci quale possa essere la "legittimità" di simili deliberazioni dei Comuni, dal momento che a questi non sono attribuite competenze propriamente legislative (almeno in questo campo), ma, al più, compiti solo amministrativi; per questo si deve almeno dubitare della rilevanza giuridica di questi pronunciamenti comunali.
A sostegno di una legge civile di riconoscimento delle unioni di fatto si invoca la distinzione tra legge morale e legge civile. Certamente tra le due c'è distinzione, ma la distinzione non è sinonimo né di separazione né, tanto meno, di contraddizione. È
noto, al riguardo, il limpido insegnamento di san Tommaso, per il quale "ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge ma corruzione della legge" (Summa Theologiae I-II, 95, 2).
Nel caso specifico del riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, essendo in questione un modello di famiglia che contraddice alla legge naturale e per di più con forti conseguenze negative sul tessuto sociale, la legge civile non può essere difforme dalla legge naturale. Se lo pretendesse, perderebbe la sua identità di legge, come scrive sant'Agostino; "Non videtur esse lex, quae iusta non fuerit" (De libero arbitrio I, 5, 11).
Si deve ricordare, inoltre, un compito ineliminabile della stessa legge civile: quello educativo. Certamente la legge non ha il compito di fare santi tutti i cittadini, e in tal senso può e deve prendere atto di certe situazioni esistenti nella società, giungendo persino a forme di tolleranza: "secus deteriora mala prorumperent", direbbe san Tommaso. Ma non può neppure limitarsi a registrare le situazioni in atto e a consacrarle col crisma della legalità. Ha pur sempre un compito educativo-culturale. Non può essere indifferente ai valori culturali ed etici e deve - certo contrastando forti correnti che lo vorrebbero azzerare - assolvere a un compito pedagogico e assumere un ruolo di promozione morale e culturale.
6. Un'organica politica familiare
Se la responsabilità nei riguardi della famiglia, attesa la sua tipica valenza sociale, è di tutti i membri della società, questa responsabilità vede come soggetto privilegiato quanti sono impegnati in politica.
Costoro, per primi, devono essere coscienti della serietà del problema dell'equiparazione delle unioni di fatto alla famiglia: banalizzarlo significherebbe non riconoscere il peso sociale, unico e determinante, che il modello di famiglia fondata sul matrimonio ha nei riguardi di alcuni fondamentali valori per la convivenza umana, quali la vita, l'educazione, la stabilità dei rapporti affettivi, e così via.
Se anche per i politici parliamo, in relazione al nostro problema, del rischio della banalizzazione, non è certo per una minore stima nei loro confronti, ma perché comunemente e ripetutamente l'azione politica tende a seguire la linea del pragmatismo e del cosiddetto "equilibrio". Interessano le cose concrete e interessa non rompere, solo per questioni di principio, l'assetto armonico delle forze politiche o le già precarie alleanze o coalizioni tra le stesse. Ma non è forse da un pragmatismo non supportato da una lungimirante e robusta progettualità (che per sua natura esige un non piccolo impegno a riflettere sui grandi valori antropologici ed etici che decidono di una cultura - di un costume e di una mentalità e, quindi, di una serie di decisioni, scelte, azioni, istituzioni - veramente rispettosa e promotrice della dignità personale di tutti e di ciascun uomo), che derivano i non pochi mali di cui soffre la politica del nostro Paese? Non sono forse questi valori le cose più concrete di cui la società ha bisogno? E l'equilibrio delle forze politiche - con l'eventuale stabilità di governo - non dev'essere forse costruito e mantenuto su basi di chiarezza e di fedeltà ai valori?
Ci sono ancora tanti passi da compiere per una politica che non tema di pensare e di "pensare in grande" e, quindi, per una politica che non tema di rifiutare l'indifferenza e il relativismo nei riguardi della verità e dei valori, indifferenza e relativismo spesso visti come sinonimi di libertà e di democrazia. È vero piuttosto il contrario, come ricorda il Papa nell'enciclica Centesimus annus, riproponendoci l'ammonizione che viene dalla stessa storia: "Se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo come dimostra la storia" (n. 46).
Si sa che rientra nella responsabilità politica il compito legislativo: in tale senso, spetta al politici vigilare - in sede non solo di principio, ma anche di applicazione - sul giusto rapporto tra legge morale e legge civile e difendere la valenza educativo-culturale dell'ordinamento giuridico.
Rileviamo, ancora, che il modo più vero ed efficace di non cedere all'equiparazione tra famiglia e unioni di fatto, e insieme di "contenere" il diffondersi di queste ultime, è di promuovere con energia e sistematicità un'organica politica familiare, intesa per
altro come centro e motore di tutte le politiche sociali. Questa prospettiva, ad alcuni, potrebbe sembrare esagerata. In realtà, corrisponde alla verità del fondamentale, originale e insostituibile rapporto tra famiglia e società. La sua applicazione coerente
conduce a interventi ben precisi che coprono l'intero arco dei "diritti" della famiglia come tale e che si riferiscono, tra l'altro, alla casa, al lavoro, alla scuola, alla sanità, al fisco. Senza dire che, con simili interventi, la politica risponde a un elementare
senso di giustizia, riconoscendo con i fatti che la famiglia nel nostro Paese si configura come primo, più diffuso e più efficace "ammortizzatore sociale": sono le famiglie che cercano di ovviare alle inadempienze e alle incapacità dello Stato, che si vorrebbe "sociale", ma che troppo spesso riesce solo a essere "assistenziale".
Nel promuovere con maggiore impegno un'organica politica familiare, sarà pure necessario rispettare un prerequisito essenziale e irrinunciabile, che consiste nel riconoscere, tutelare, valorizzare e promuovere l'identità della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, tracciando una linea di demarcazione il più possibile netta tra la famiglia propriamente intesa e le altre convivenze, che della famiglia, per loro natura, non possono meritare né il nome né lo statuto. Nel fare ciò, i cristiani che si impegnano in politica, a qualunque forza appartengano, dovranno essere coraggiosamente capaci di trovare - tra di loro e con quanti, pur di fede diversa, sono seriamente preoccupati del bene comune - linee comuni e convergenti di intervento e di azione.
Nello stesso tempo, non si dovrà temere di affrontare le problematiche che riguardano altre forme di convivenza, quali le unioni di fatto. Anche tali problematiche, infatti, dovranno essere prese in considerazione, soprattutto se vanno assumendo una reale rilevanza a livello sociale. Ma ciò deve avvenire facendo riferimento ad altri criteri che, ultimamente, hanno a che fare con i diritti e i doveri delle persone e di altre particolari tipologie sociali, ma non con i diritti e doveri della famiglia in quanto tale.
7. L'azione pastorale della comunità cristiana
Anche la comunità cristiana deve lasciarsi interrogare dal fenomeno delle unioni di fatto e, in particolare, dai tentativi in atto per la loro equiparazione giuridica alla famiglia: lasciarsi interrogare nel senso di mettere in atto la sua missione specifica, che discende dalla sua natura di Ecclesia Mater et Magistra e dunque in rapporto al suo compito di evangelizzazione e di testimonianza di carità.
I cristiani, non solo per la luce della ragione ma anche per quello "splendore della verità" che viene loro donato dalla fede, sono impegnati a chiamare le cose col proprio nome: il bene bene e il male male. In un contesto culturale fortemente relativistico, disposto ad annullare tutte le differenze - anche quelle sostanziali - tra famiglia e unioni di fatto, occorrono una più lucida saggezza e una libertà più coraggiosa per non prestarsi né all'equivoco né al compromesso, nella convinzione che la "crisi più pericolosa che può affliggere l'uomo" è "la confusione del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l'ordine morale dei singoli e delle comunità" (Veritatis splendor, n. 93). L'enciclica ora citata riporta la parola dell'antico profeta: "Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro" (Is 5, 20).
È legittima, anzi doverosa, la comprensione - e, a volte, la compassione per determinate situazioni difficili e penose - nei riguardi delle persone che vivono in una unione di fatto. Ma la comprensione non equivale alla giustificazione. Si deve piuttosto rilevare che la verità costituisce un bene essenziale della persona e della sua autentica libertà, sicché non è motivo di offesa ma di aiuto reale alle persone l'affermazione della verità.
Significative al riguardo sono le parole di Paolo VI: "Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime" (Humanae vitae, n. 29).
Lo stesso Paolo VI prosegue mettendo in luce l'altro fondamentale aspetto dell'azione pastorale della Chiesa: "Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l'esempio nel trattare con gli uomini".
Ciò significa che i cristiani sono chiamati a cercare di capire le molteplici ragioni personali, sociali e culturali del diffondersi delle unioni di fatto. Anche le persone che si trovano in queste situazioni devono rientrare nella cura pastorale ordinaria della comunità ecclesiale, una cura che comporta vicinanza, attenzione ai problemi e alle difficoltà, dialogo paziente, aiuto concreto specialmente in riferimento ai figli e ai loro diritti etico-sociali e patrimoniali. Una pastorale intelligente e discreta può, alcune volte, favorire il ricupero di queste unioni alla necessaria "pubblicizzazione".
Anche in questo campo, l'impegno pastorale prioritario consiste nella prevenzione, che comporta un servizio sistematico e capillare ai giovani e alla loro preparazione al matrimonio. E con la prevenzione, l'impegno a promuovere un'abituale e costante
pastorale familiare, destinata a fare delle famiglie le protagoniste di un'azione rivolta alla crescita umana e cristiana delle famiglie stesse. In questo ambito, rientra, non certo come secondaria, la testimonianza di vita che le famiglie cristiane devono dare sulla bellezza di un'unione stabile, anzi indissolubile.
È, ancora, compito della comunità cristiana sollecitare e, nello stesso tempo, collaborare perché si realizzi nella comunità civile una vera politica familiare. Ciò comporterà, tra altro, che, nell'ottica del progetto culturale che vede coinvolta la Chiesa in Italia, ci si abbia a impegnare in una complessiva e profonda azione culturale, volta alla promozione di una mentalità e di un costume nei quali, con buone ragioni ed esempi trainanti, si sia convinti dell'importanza della famiglia fondata sul matrimonio per l'intera collettività. Nello stesso tempo, seguendo le indicazioni del Direttorio di pastorale familiare (n. 113): a) nelle diverse e molteplici iniziative di formazione dei cristiani all'impegno sociale e politico, si dovrà presentare la famiglia come prima realtà da promuovere per la realizzazione del bene comune; b) non ci si dovrà stancare di richiamare a tutti gli operatori sociali e politici la necessità e l'urgenza di un'adeguata politica familiare; c) si dovranno sollecitare e aiutare le stesse famiglie cristiane a riappropriarsi responsabilmente della propria soggettività sociale, fino a vivere forme più dirette di partecipazione sociale e politica, capaci anche di rivendicare quella tutela e promozione che la Costituzione italiana riserva alla sola famiglia fondata sul matrimonio.
Tratto da L'OSSERVATORE ROMANO, 5 settembre 1998