SEMANA, MARZO, 9, 1993
Antonio Caballero
LA LETTERA RUBATA
Parecchi in Colombia volevano vedere morto Carlos Pizarro, compresi
alcuni che adesso dicono di piangere la sua morte. La notizia della sua
uccisione deve avere provocato un gran sfregamento di mani: sulle montagne
della guerriglia, nei salotti dei club sociali, nelle sedi politiche, nelle
caserme dell’Esercito. E anche, suppongo, in qualche ambasciata. Ma un
conto è la voglia di veder morto il capo e il candidato presidenziale
di M-19 e un altro le possibilità di ammazzarlo, i motivi e gli
obiettivi.
Sono state prese in considerazione tutte le piste possibili. Le autorità
militari, più caute stavolta di quanto lo furono un mese fa dopo
l’omicidio di Benardo Jaramillo, hanno impiegato 24 ore (invece di 4) per
segnalare come colpevoli quelli che ultimamente sono colpevoli di tutto:
i narcotrafficanti. Questi hanno negato la loro responsabilità.
Chiaro che non bisogna credergli per forza. Ma non si vede neppure perchè
bisogna dare più credito alle autorità militari, che da anni
e da decenni raccontano frottole. D’altronde, non è verosimile che
Carlos Pizarro sia stato ucciso dai narcos. Hanno i mezzi, su questo non
c’è dubbio, e forse avevano anche la voglia. Ma non i motivi: Pizarro
e il suo gruppo si opponevano all’estradizione ed erano partitari del dialogo
con in narcos. E questo crimine non poteva rientrare negli obiettivi dei
narcos, che non consistono nel provocare il caos politico ma, al contrario,
nell’avere un interlocutore nel governo. Debole sì, ma solo nei
loro confronti, e non un governo che ha perso il controllo del paese.
La stampa si è inventata una gamma variegata di possibili colpevoli:
le FARC, l’ELN, il paramilitare Fidel Castaño, fino agli orfani
dei giudici ammazzati nell’eccidio del Palazzo di Giustizia. E’ vero che
Pizarro potrebbe essere stato ammazzato da un sacco di gente, perché
in Colombia c’è un sacco di gente che ammazza e sempre impunemente.
Ma per tabù, per un sentimento di pudore o per quella curiosa
cecità psicologica segnalata da Poe nel suo racconto poliziesco
“La lettera rubata”, che fa che non si cerchino le cose nei posti più
ovvi (la lettera rubata stava sul camino, alla vista di tutti, e nessuno
la vedeva nè guardava lì), a nessuno è venuto in mente
di segnalare come possibile colpevole il colpevole più probabile:
la ultradestra militare. (E non dico paramilitare: dico militare).
Avevano i mezzi. Avevano vecchissimi motivi di risentimento e avevano
la voglia: Pizarro aveva partecipato nella burla del furto delle armi del
Cantòn Norte, aveva umiliato militarmente l’Esercito nella battaglia
di Yarumales, era un nemico da sempre e per sempre. Anche se stavolta non
ha protestato pubblicamente come lo fece ai tempi del generale Landazabal,
la destra militare non ha mai approvato il perdono o l’oblìo per
i guerriglieri attivi o per quelli ritirati e ancora meno la possibilità
che raggiungano qualche grado di potere politico. Il suo obiettivo politico
esplicito consiste nella distruzione della sovversione e Pizarro, con o
senza armi, continuava a rappresentare la sovversione. E’ quanto impone
la “Dottrina di sicurezza nazionale”, la linea ufficiale (anche se non
riconosciuta pubblicamente) degli eserciti di tutto il continente
ribadita due anni fa nella riunione di Mar de La Plata con la firma dell’attuale
ministro della Difesa, generale Oscar Botero.
C’è bisogno di aggiungere altro? A chi si pensava quando, prima
dell’omicidio, si prevedeva con cinica sicurezza, nei salotti, sulle montagne,
nelle sedi politiche, nelle caserme, che Carlos Pizarro e i suoi
compagni che hanno deposto le armi sarebbero stati ammazzati?
Io non so se sia possibile indagare le trame nere e sanguinarie -
e politiche- della destra militare, né se ci sia nel seno dello
Stato colombiano qualcuno che vorrà o abbia il coraggio di farlo.
Se non dovesse succedere, in Colombia continuereremo ad avere molti crimini
lasciati alla vista di tutti, sopra il camino.
EL ESPECTADOR, 29 APRILE 1990