“La sua economia
si regge sulla droga. La sua violenza dipende dalla droga. La sua democrazia
è minacciata dalla droga”. Per la stampa italiana la Colombia significa
droga. Pochi si sottraggono allo stereotipo, riproposto con un terminologia
composta da narcostato, narcobomba, narcoguerriglia e così via.
Un esempio tra i tanti. La monografia sull’America Latina de L’Internazionale,
l’unica rivista che si occupi di quello che succede nel mondo con la ripubblicazione
di articoli usciti in altri paesi, ha dedicato alla Colombia un solo articolo,
tratto dal quotidiano El Espectador . Il suo titolo: “Come si diventa narcotrafficanti”.
L’associazione della
Colombia con la droga non nasce solo per la superficialità
e la pigrizia di chi semplifica tutto quello che non ha tempo di capire
e spazio per raccontare. Nonostante faccia finta di lamentarsi per la cattiva
immagine del paese che ne consegue, questa associazione conviene anche
allo stato colombiano, che ha sempre usato la droga e la guerra alla
droga come maschere per nascondere e attuare la guerra sporca contro gli
esponenti dell’opposizione politica e sociale.
Che la droga non sia
nè l’unica, né la principale causa dei mali della Colombia
lo dimostra la sua storia. Il fenomeno-droga non esisteva, ad esempio,
durante la Violencia, quando trecentomila colombiani si ammazzarono,
alla fine degli anni Quaranta, sotto le bandiere dei conservatori e dei
liberali. E anche quando esplose, ai tempi di Pablo Escobar, la percentuale
degli omicidi legati più o meno direttamente al narcotraffico non
superò mai il 6% del totale.
Sicuramente, però,
la droga rende più terribili .i mali colombiani. Innanzitutto
con la sua capacità di corruzione
Il finanziamento da
parte del cartello di Cali della campagna elettorale di Ernesto Samper
è soltanto l’episodio più clamoroso degli ultimi anni. L’elenco
di politici, deputati e senatori, alti funzionari statali, industriali
e generali vincolati al narcotraffico sarebbe tanto lungo da riempire lo
spazio di quest’articolo. Prima della dichiarazione della “Guerra alla
droga”, scatenata dieci anni fa da Bush, i banchetti alle tavolate dei
mafiosi erano spudoratamente pubblici. Una volta i soldi passano più
di mano in mano, magari in un tripudio di folla nel feudo dei mafioso,
come successe ad esempio a Pacho, tra Rodriguez Gacha, detto “El Mexicano”
e il candidato presidenziale Belisario Betancur nell’82. Adesso si cura
di più la forma. I finanziamenti utilizzano conti esteri e mediatori
destinati all’occorrenza a fare da capri espiatori, com’è successo
a Santiago Medina, il tesoriere di Samper. Quando il presidente affermò
di essere all’oscuro dei finanziamenti mafiosi, l’unica istituzione che
finse di credergli -e l’assolse- fu il Parlamento, composto in maggioranza
da uomini del suo partito. E’ normale che tutte le corporazioni si difendano.
I primi a farlo in Colombia sono i militari che si sono garantiti l’impunità
con la pantomima dei loro tribunali.
Mentre l’arcivescovo
di Bogotà, Pedro Rubiano, ironizzò allora sul presidente
(“Se ti mettono un elefante in casa, come minimo, dovresti vederlo”),
il gesuita Javier Giraldo, direttore di Justicia y Paz, sostiene
che il fenomeno investe l’intera classe politica: “in Colombia la
presidenza della Repubblica è una merce come un’altra, che viene
comprata da chi ha più soldi. Cioè, dalla fine degli anni
Settanta, dai narcos, sicuramente gli uomini più ricchi del paese”.
Nessuna categoria
può ritenersi al riparo dai soldi della droga. Neppure quella dei
giudici. Nella recente e sanguinosa storia colombiana, accanto a molti
magistrati che hanno subito i ricatti dei narcos, ce ne sono altri che
hanno pagato con la vita la loro onestà e altri ancora la cui uccisione
è stata attribuita ai narcos per comodo, per occultare la responsabilità
dei killer di stato o dei paramilitari, loro alleati. Un giudice che indaga
sulle attività dei mafiosi rischia molto meno di un collega che
indaga sugli episodi della guerra sporca. Il terrore é così
forte che ormai in molte regioni, i funzionari giudiziari si rifiutano
perfino di fare i dovuti sopralluoghi sui luoghi dei delitti e di assistere
alla rimozione dei cadaveri.
In un modo o nell’altro,
tutti i soggetti della violenza colombiana si sporcano le mani con la droga.
Se all’estero è nota soprattutto la narcoguerriglia è solo
perchè l’informazione internazionale si basa sulle fonti ufficiali
dei nemici della guerriglia- governo, polizia e esercito.
Il termine narcoguerriglia
venne utilizzato la prima volta, durante una conferenza stampa del 1984,
dall’ambasciatore statunitense a Bogotà, Lewis Tambs. che annunciò
l’apparizione del nuovo nemico dell’Occidente, un mostro con la testa di
un comunista e il corpo (e le finanze) di un mafioso. Alcuni giorni prima
era stato scoperto un immenso laboratorio per la raffinazione della coca
a Tranquilandia, lungo il fiume Yarì, che i militari sostennero
fosse vigilato da presunti guerriglieri. Alcuni giornali sospettarono una
montatura. Il settimanale governativo Semana intitolò la sua inchiesta
sull’episodio: “Narcoguerriglia, Altro imbroglio? Dopo i fatti di Yarì,
tante accuse e nessuna prova”. Questi dubbi furono presto abbandonati,
in Colombia e all’estero. Era comodo sostenere che fossero passate al soldo
dalla mafia quelle stesse guerriglie latinoamericane, che fino ad
allora erano state accusate di sopravvivere grazie agli aiuti da Mosca
e Pechino.
E’ interessante ricordare
cosa successe a Lewis Tambs. Nel 1985 venne trasferito in Costarica, con
la carica di ambasciatore straordinario plenipotenziario. Nel 1989 il governo
costaricense lo dichiarò “persona non gradita” perchè proprio
lui, l’integerrimo accusatore della narcoguerriglia, era la pedina locale
del traffico d’armi e di droga del cosiddetto “Contrasgate”, organizzato
dal trio Reagan-Poindexter-North.
Nelle storie losche,
dove i soldi s’intrecciano con la politica, la realtà è nascosta
dai fumi della propaganda. Bisognerebbe verificare di persona. Ma quanti
giornalisti si sono azzardati ad andare nelle vastissime zone di coltivazione
della coca, del papavero per eroina o della marjiuana, per verificare l’esistenza
di laboratori della guerriglia o per scoprire le colonne di guerriglieri
che fanno da spalloni dei mafiosi? Sarebbe più pericoloso, ma anche
più utile, che intervistare il solito generale che racconta, come
ha fatto per anni il comandante delle Forze Armate colombiane, Harold Bedoya,
che “le Farc sono il più grande cartello mondiale della droga”.
Bugie comprensibili. Bedoya doveva pur giustificare l’incapacità
-o l’impossibilità- di sconfiggerle militarmente, nonostante gli
investimenti in soldi e uomini e nonostante l’attuazione della più
selvaggia guerra sporca?
Dove non arrivano
gli occhi dovrebbe arrivare almeno il cervello.
Per essere tale, un
cartello deve controllare anche e soprattutto le fasi più redditizie
del ciclo della droga, quelle del trasporto nei paesi consumatori e dello
smercio. Quelle che hanno fatto le fortune dei capi dei grandi cartelli
di Medellin e Cali, come Escobar, i fratelli Ochoa e i fratelli Rodriguez
Orejuela, e che arricchiscono i nuovi anonimi narcos colombiani. Neppure
i creativi generali hanno però inventato qualcosa che dimostri l’attività
del vecchio Tirofijo o del “cura Perez” tra i grattacieli e le banche di
Panama, New York o di Miami.
Se la guerriglia colombiana
non è un cartello della droga, si finanzia indubbiamente con la
droga, così come si finanzia con i sequestri di persona o con le
tangenti sulle compagnie petrolifere (senza per questo essere definita
petroguerriglia).
Per anni i suoi capi
hanno risposto alla favola della narcoguerriglia con la favola della purezza
rivoluzionaria, che descriveva i guerriglieri come angioletti incontaminati
dalle ricchezze della droga. Se per l’ELN la cosa era forse più
credibile, visto che agisce soprattutto nelle regioni petrolifere ai confini
col Venezuela, lo è sempre stato decisamente meno per la FARC, che
ha decine di fronti nel Caquetà, nel Putumayo e in tutta la fascia
preamazzonica meridionale, dove sono concentrate le coltivazioni delle
foglie di coca. Negli ultimi anni, i vertici della FARC hanno ammesso di
attuare il gramaje, una tassa applicata su ogni movimento di droga, che
va, a seconda delle zone, dal 10 al 15% del valore del carico. “I soldi
del narcotraffico finiscono ai mafiosi che finanziano i paramilitari, che
noi combattiamo. Prendere una parte di questi soldi è il minimo
che possiamo fare” spiega Olga Lucia Marin, la responsabile in Europa delle
FARC, che nega però che alcuni fronti forniscano anche un servizio
di sorveglianza ai laboratori o ai movimenti di droga. E’ l’opinione anche
del sociologo Alfredo Molano, probabilmente l’unico giornalista colombiano
che si complica la vita visitando spesso le aree calde del paese (ed è
per questo ormai da anni nella lista degli squadroni della morte). “La
funzione basica della guerriglia consiste nell’estorcere i commercianti
di coca. Questo ruolo rende superflue altre funzioni come la vigilanza
o la produzione... La guerriglia ha il monopolio delle armi e garantisce
l’ordine sociale in cambio del gramaje. Un ordine sociale peraltro complessissimo
per la varietà dei protagonisti, per la quantità di soldi
che si muovono e per le guerre a morte che caratterizzano il mondo della
droga. Un ordine sociale che non ho dubbi a qualificare conservatore” scrive
Molano in un’inchiesta nella zona del Guaviare, apparsa sul settimanale
Cambio-16.
“L’unica cosa che
facciamo è appoggiare le richieste dei contadini che coltivano le
piantagioni, perchè rimanga loro una parte meno irrisoria del negocio”
continua Marin, che nega che la guerriglia abbia generato i movimenti di
protesta dell’estate scorsa contro la fumigazione, voluta dagli Usa ed
attuata spargendo diserbanti velenosi su decine di migliaia di ettari
del sud preamazzonico del paese: “Quel movimento, pacifico e di massa,
è nato spontaneamente. La popolazione non ha altro modo di vivere.
Invece di mandare l’esercito a sparare sulla gente, un governo democratico
dovrebbe offrire delle alternative di vita possibili”.
Nelle regioni cocalere
la droga è l’unica ricchezza esistente. Sempre Molano ha calcolato
che nel dipartimento del Guaviare le entrate del narcotraffico sono state
6O volte superiori agli investimenti fatti dallo stato.
Tutti ci convivono.
Chi sopravvive appena
come i braccianti, chi guadagna abbastanza come i contadini e chi parecchio,
come i commercianti, i gestori di bordelli, i padroni di fuoristrada e
barche, i venditori di benzina, cemento e permanganato di potassio, le
materie base della raffinazione. E soprattutto i boss della mafia. E coloro
che dovrebbe combatterli, per ideologia o per legge. La guerriglia quindi,
ma anche la polizia e l’esercito. Il trasferimento in queste regioni isolate,
per un agente e ancora di più per un ufficiale, non è considerato
una punizione, ma una promozione, una opportunità di guadagno. Così
come lo è per un secondino lavorare in un padiglione dov’è
recluso un grande mafioso: una sua mancia può valere anni di stipendio.
Militari e guerriglieri
beneficiano dell’economia della droga, senza per questo avere rapporti
con i boss mafiosi, che non si fanno mai vedere nelle zone di produzione
e che sono rappresentati dagli emissari regionali, chiamati los propios,
che a loro volta mandano i cosiddetti chichipatos a comprare la pasta base
o direttamente la cocaina dai contadini.
Fino allo scoppio
della “Guerra alla droga” scatenata da George Bush, che costrinse lo Stato
a lottare contro il cartello di Medellin, tra la mafia e la guerriglia
infuriava invece la guerra. Per gli sgarri compiuti da una parte e dall’altra,
come il sequestro di un mafioso, la rivolta a una tangente troppo esosa
o, semplicemente, per il controllo del territorio: personaggi come Escobar
o Rodriguez Gacha non tolleravano di dover scendere a patti con nessuno.
Poi, soprattutto dopo la scomparsa di quest’ultimi, prevalse un modus vivendi,
soddisfacente per gli uni e gli altri. Operante però solo nelle
regioni di coltivazione e non nel resto del paese dove i narcos investono,
“ripulendosi” e trasformandosi in industriali, commercianti e soprattutto
proprietari terrieri (secondo dati della polizia, possiedono il 42% delle
terre coltivabili del paese).
Nel complicato scacchiere
colombiano prevale comunque la contraddizione politica e di classe. I mafiosi
e i narcos - in quanto segmento del potere economico- non possono
che essere nemici di chi, come la guerriglia, rivendica la riforma agraria,
sostiene l’organizzazione dei lavoratori e dei braccianti in particolare
e soprattutto minaccia continuamente di sequestrarli.
Generali, poliziotti,
boss e sicari possono anche combattersi e uccidersi. Ma quando e
dove devono unirsi contro il nemico comune, la guerriglia comunista ed
in generale l’opposizione, armata o legale, politica e sociale, lo fanno
senza tanti pregiudizi.
Lo dimostra la storia
colombiana degli ultimi decenni, la guerra sporca e soprattutto il fenomeno
del paramilitarismo.
E lo dimostra l’attualità.
Questa unione spuria è evidente in questi ultimi mesi nel sud cocalero.
I massacri dei parà di Mapiripan e di Puerto Asis, così come
gli attacchi dell’esercito (che ai primi di marzo si sono risolte in una
catastrofe militare, con 80 Rambo uccisi e 43 caduti prigionieri, nelle
foreste del Caquetà) hanno l’obiettivo di allontanare la guerriglia
da un’importante zona di influenza e di finanziamento. “I cruenti combattimenti
non derivano da una disputa ideologica, ma dalla nostra volontà
nel distruggere l’impero del narcotraffico” ha dichiarato il ministro della
Difesa, Gilberto Echeverri.
C’è da dubitarne.
Se questa offensiva riuscisse, ne guadagnerebbero tutti. Lo stato perchè
indebolisce il suo nemico, ma anche la mafia che fa volentieri a meno di
pagare il sovrapprezzo della droga dovuto al gramaje.
La macchina della
droga continuerebbe andare avanti a tutto vapore, come è successo
nel nord “liberato” nei primi anni Novanta dalla guerriglia e dalla
sinistra grazie all’azione congiunta dell’esercito e dei parà (Narcomafie,
n.10 1997). Nelle regioni di Cordoba e Urabà, sono stati sterminati
tutti gli esponenti della Uniòn Patriotica e i sindacalisti, i fronti
guerriglieri sono ridotti a bande isolate, nelle piantagioni di banane
sono tornati illegali gli scioperi e dai porti di Turbo e Acandì
i carichi di droga vengono tranquillamente imbarcati tra le casse di frutta.
Insomma, è
tornata la più classica pax colombiana.
IN PRINCIPIO FURONO I
NARCOS
di Guido Piccoli
In America Latina non
è più tempo di generali al potere, golpe e sbarchi di marines.
Ad eccezione di Cuba, la democrazia parlamentare ha trionfato dappertutto.
Si vota, e anche spesso, in ogni paese. Nella US Army School of the Americas
di Panama, in via di smantellamento, invece dei corsi di tortura, si tengono
lezioni sui diritti umani. La dottrina della sicurezza nazionale e la strategia
della guerra di bassa intensità sembrano passate di moda.
In questo panorama
rassicurante c’è però un problema. Dai tempi del Che sono
anche raddoppiate le differenze tra ricchi e poveri e triplicati i miserabili
al di sotto della soglia di sopravvivenza: decine di milioni di persone,
che invece di rallegrarsi della diminuzione di debito estero, deficit
e inflazione, protestano, tentano di organizzarsi e in alcuni paesi appoggiano
perfino i sopravvissuti gruppi armati.
Cosa possono usare
gli stati democratici per neutralizzare questa massa di pezzenti anti-sistema,
senza utilizzare l’armamentario del passato, adeguandosi al mondo cambiato,
che rispetta certe regole e soprattutto la forma?
La risposta viene
ancora una volta dalla privatizzazione, la soluzione per tutti i problemi
degli anni Novanta. Perché non privatizzare anche la repressione?
Come per i servizi, vengono assicurati risparmio ed efficienza. Il settore
privato va al sodo, non è imbrigliato dai laccioli della leggi.
Nazionali e internazionali, tipo le convenzioni sui diritti umani.
L’idea non è
nuova. I gruppi di giustizia privata funzionano da anni, soprattutto in
America Latina per attuare la limpieza social contro l’immondizia umana
desechable: la stessa parola che si trova sulle bottiglie di plastica di
Coca Cola da buttare. Così come da anni funzionano i famigerati
“squadroni della morte”, gruppi misti di militari e sicari, occupati ad
eliminare gli oppositori politici.
Ma le contraddizioni
di questi tempi esigono un salto di qualità. Non bastano le iniziative
dal basso e neppure il classico terrorismo di stato. Ecco allora
una scelta strategica di sistema, chiara anche se ovviamente non rivendicabile
da nessun governo, per ovvie esigenze di immagine: il paramilitarismo,
Il 22 dicembre scorso
il mondo ha potuto assistere al suo collaudo clamoroso ad Acteal nel Chiapas.
Ma è indubbio che questo modello contro-rivoluzionario venga attuato
da più di 15 anni in maniera costante e inavvertita - dalla comunità
internazionale- in Colombia.
La sua sperimentazione
cominciò a metà degli anni ottanta nella regione centrale
del Magdalena Medio. La lucha anticomunista ruotava intorno ai narcos,
che mettevano i soldi ricevendo in cambio l’ok per i loro traffici da parte
dello stato e in particolare modo dei militari. Quel tipo di unione, che
nel corso di tre anni ripulì la regione ammazzando una persona su
trenta, durò fino a che gli USA non imposero la priorità
della Guerra alla droga. Fu solo allora che vennero combattuti sul serio
i mafiosi come Escobar e Rodriguez Gacha, diventati pericolosamente autonomi
dal potere statale che li aveva fino ad allora tollerati e usati.
Il paramilitarismo
risorse nel 1992, quando il presidente Cesar Gaviria lanciò la “Operaciòn
Retorno” nell’Urabà, una regione “rossa” con i sindaci dell’Uniòn
Patriotica e la guerriglia che imponeva le sue leggi alle compagnie bananiere.
Quell’offensiva produsse
il primo nucleo della Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), meno condizionata
dai narcos e più politica della precedente esperienza paramilitare,
di cui era comunque la continuità: il suo leader è Carlos
Castaño, fratello del più noto Fidel, accusato di molteplici
stragi ed attentati insieme ai capi del cartello di Medellin. Da
allora militari e paramilitari agiscono in perfetta sintonia: un alto ufficiale
che ha denunciato il connubio, il colonnello Carlos Alfonso Velasquez,
comandante di battaglione proprio nell’Urabà, si è dovuto
ritirare dopo essere stato accusato di fare “il gioco della guerriglia”.
Tra esercito e AUC
c’è una divisione dei compiti, che si rifa’ ai principi di Mao.
Al primo il compito difficile di combattere il pesce. Ai paramilitari quello
facile di togliergli l’acqua, ammazzando in maniera sistematica tutti i
collaboratori e presunti tali. Dopo avere ripulito le regioni di Cordoba
e Urabà, i parà si muovono per il paese come una volante
nera, sotto protezione dei militari, come è avvenuto nel luglio
scorso a Mapiripan (Narcomafie, n. 9- 1997). L‘alleanza tra i soldati e
i paramilitari non è clandestina. Tutti, dalla gente comune fino
agli osservatori internazionali, possono vederli spalla a spalla fare i
posti di blocco e i pattugliamenti sulle strade delle regioni sotto controllo.
E’ un’alleanza tanto sfacciata da indignare persino il Dipartimento di
Stato degli USA. Nel suo rapporto sulla situazione dei diritti umani nel
mondo (altra novità di un mondo cambiato) si sostiene che i più
recenti massacri in Colombia siano stati realizzati “con la complicità
delle unità militari o con la conoscenza e l’approvazione tacita
degli alti ufficiali”. Nello stesso documento si sottolinea però
“una costante e sostanziale diminuzione” degli abusi da parte dello Stato,
che passano dal 54% del totale degli omicidi extra-giudiziali del 1993
al 7,5% del 1997. A quest’improvvisa redenzione fa riscontro il parallelo
aumento degli omicidi paramilitari che sfiorano il 70% del totale. Dati
che non hanno bisogno di interpretazioni.
Ovviamente tutti i
generali negano sdegnati l’esistenza di questa alleanza. Però non
sanno spiegare come nella recente storia non ci sia, ad esempio, notizia
di una sola battaglia tra esercito e parà. Eppure questi, secondo
quanto riportato dalla stampa, sono ormai 4-5mila e agiscono nelle zone
calde del paese;
Certamente, ogni tanto
viene arrestato qualche grande finanziatore dei parà, come è
successo il 25 febbraio scorso al famoso smeraldero, Victor Carranza. O
viene ucciso qualche paramilitare, che non si ferma ad un posto di blocco,
com’é capitato qualche giorno prima all’ex luogotenente di
Castaño, Jaime Matiz Benítez, conosciuto como “El 120”. Ma
sono casi isolati, per lo più voluti dai giudici e funzionari della
Fiscalia General, che pagano con massacri e attentati il loro ardire ed
anche il loro isolamento: Matiz era stato accusato, ad esempio, di essere
l’autore di un massacro di 11 membri di una commissione della Fiscalia
avvenuto il 3 ottobre scorso nel dipartimento del Meta.
Lo Stato non solo
tollera e aiuta nei fatti l’attività di sterminio dei parà,
ma durante la presidenza Samper ha promosso (e difeso a spada tratta anche
contro le denunce dei rappresentanti dell’ONU) la costituzione di centinaia
di cooperative Convivir, che dovrebbero aiutare le forza pubblica nel controllo
del territorio e che sono un altro esercito armato che svolge lo stesso
compito dei parà, pur non avendo le loro risorse e la loro capacità
di movimento per il paese. “Le Convivir aiutano la popolazione a difendersi
dai violenti” ha dichiarato Samper. Questo però accade solo nel
caso di un attacco guerrigliero e non dei paramilitari, aiutati dai membri
di quelle che vengono ormai chiamate Conmorir ad eliminare gli esponenti
di sinistra.
Il paramilitarismo
non solo agisce indisturbato e cresce grazie ai finanziamenti dei latifondisti
e dei narcos, indisturbati nelle regioni strategiche per i loro traffici
nelle regioni atlantiche del paese. Ma ha ormai ottenuto la legittimazione
completa della classe politica e dell’informazione. Nonostante sulla sua
testa ci sia una taglia di un milione di dollari, Carlos Castaño
riceve tranquillamente nelle sue tenute tutti gli uomini più importanti
della Colombia, dai candidati presidenziali ai vescovi in “missione umanitaria”.
E si fa intervistare al pari di una star. Maria Cristina Caballero, la
stessa giornalista che ha raccontato il massacro di Mapiripan su Narcomafie
e ha svelato coraggiosamente la collaborazione dell’esercito, che ha fatto
atterrare gli aerei dei parà nella base militare di San José
del Guaviare, l’ha intervistato (o dovuto farlo?) per il settimanale
Cambio-16. Un’intervista-fiume, pubblicata a puntate, nella quale Castaño
ha rivendicato tranquillamente quel massacro, realizzato con decapitazioni
e squartamenti: “Di Mapiripan non mi pento affatto, perché non è
morto un solo innocente. Per Dio! Il tipo di persone che sono state eliminate
non può proprio commuovere nessuno”.
Con un movimento come
quello paramilitare, lo Stato non solo può evitare di occuparsi
della guerra sucia , ma può mostrarsi come mediatore innocente.
“La guerra atroce che stiamo soffrendo non è quella che credevamo,
tra guerriglia e governo, ma quella a morte tra guerriglieri e paramilitari...
una tremenda guerra civile tra civili, che ha finito per prevalere su quella
col governo e l’esercito...” scrive la direttrice di Cambio -16, Patricia
Lara, nell’editoriale che cerca di spiegare e giustificare l’intervista
a Castaño. La teoria degli “opposti estremismi” in versione Macondo.
2) “La sua economia
si regge sulla droga. La sua violenza dipende dalla droga. La sua democrazia
è minacciata dalla droga”. Per la stampa italiana la Colombia significa
droga. Pochi si sottraggono allo stereotipo, riproposto con un terminologia
composta da narcostato, narcobomba, narcoguerriglia e così via.
Un esempio tra i tanti. La monografia sull’America Latina de L’Internazionale,
l’unica rivista che si occupi di quello che succede nel mondo con la ripubblicazione
di articoli usciti in altri paesi, ha dedicato alla Colombia un solo articolo,
tratto dal quotidiano El Espectador . Il suo titolo: “Come si diventa narcotrafficanti”.
L’associazione della
Colombia con la droga non nasce solo per la superficialità
e la pigrizia di chi semplifica tutto quello che non ha tempo di capire
e spazio per raccontare. Nonostante faccia finta di lamentarsi per la cattiva
immagine del paese che ne consegue, questa associazione conviene anche
allo stato colombiano, che ha sempre usato la droga e la guerra alla
droga come maschere per nascondere e attuare la guerra sporca contro gli
esponenti dell’opposizione politica e sociale.
Che la droga non sia
nè l’unica, né la principale causa dei mali della Colombia
lo dimostra la sua storia. Il fenomeno-droga non esisteva, ad esempio,
durante la Violencia, quando trecentomila colombiani si ammazzarono,
alla fine degli anni Quaranta, sotto le bandiere dei conservatori e dei
liberali. E anche quando esplose, ai tempi di Pablo Escobar, la percentuale
degli omicidi legati più o meno direttamente al narcotraffico non
superò mai il 6% del totale.
Sicuramente, però,
la droga rende più terribili .i mali colombiani.
Innanzitutto con la
sua capacità di corruzione
Il finanziamento da
parte del cartello di Cali della campagna elettorale di Ernesto Samper
è soltanto l’episodio più clamoroso degli ultimi anni. L’elenco
di politici, deputati e senatori, alti funzionari statali, industriali
e generali vincolati al narcotraffico sarebbe tanto lungo da riempire lo
spazio di quest’articolo. Prima della dichiarazione della “Guerra alla
droga”, scatenata dieci anni fa da Bush, i banchetti alle tavolate dei
mafiosi erano spudoratamente pubblici. Una volta i soldi passano più
di mano in mano, magari in un tripudio di folla nel feudo dei mafioso,
come successe ad esempio a Pacho, tra Rodriguez Gacha, detto “El Mexicano”
e il candidato presidenziale Belisario Betancur nell’82. Adesso si cura
di più la forma. I finanziamenti utilizzano conti esteri e mediatori
destinati all’occorrenza a fare da capri espiatori, com’è successo
a Santiago Medina, il tesoriere di Samper. Quando il presidente affermò
di essere all’oscuro dei finanziamenti mafiosi, l’unica istituzione che
finse di credergli -e l’assolse- fu il Parlamento, composto in maggioranza
da uomini del suo partito. E’ normale che tutte le corporazioni si difendano.
I primi a farlo in Colombia sono i militari che si sono garantiti l’impunità
con la pantomima dei loro tribunali.
Mentre l’arcivescovo
di Bogotà, Pedro Rubiano, ironizzò allora sul presidente
(“Se ti mettono un elefante in casa, come minimo, dovresti vederlo”),
il gesuita Javier Giraldo, direttore di Justicia y Paz, sostiene
che il fenomeno investe l’intera classe politica: “in Colombia la
presidenza della Repubblica è una merce come un’altra, che viene
comprata da chi ha più soldi. Cioè, dalla fine degli anni
Settanta, dai narcos, sicuramente gli uomini più ricchi del paese”.
Nessuna categoria
può ritenersi al riparo dai soldi della droga. Neppure quella dei
giudici. Nella recente e sanguinosa storia colombiana, accanto a molti
magistrati che hanno subito i ricatti dei narcos, ce ne sono altri che
hanno pagato con la vita la loro onestà e altri ancora la cui uccisione
è stata attribuita ai narcos per comodo, per occultare la responsabilità
dei killer di stato o dei paramilitari, loro alleati. Un giudice che indaga
sulle attività dei mafiosi rischia molto meno di un collega che
indaga sugli episodi della guerra sporca. Il terrore é così
forte che ormai in molte regioni, i funzionari giudiziari si rifiutano
perfino di fare i dovuti sopralluoghi sui luoghi dei delitti e di assistere
alla rimozione dei cadaveri.
In un modo o nell’altro,
tutti i soggetti della violenza colombiana si sporcano le mani con la droga.
Se all’estero è nota soprattutto la narcoguerriglia è solo
perchè l’informazione internazionale si basa sulle fonti ufficiali
dei nemici della guerriglia- governo, polizia e esercito.
Il termine narcoguerriglia
venne utilizzato la prima volta, durante una conferenza stampa del 1984,
dall’ambasciatore statunitense a Bogotà, Lewis Tambs. che annunciò
l’apparizione del nuovo nemico dell’Occidente, un mostro con la testa di
un comunista e il corpo (e le finanze) di un mafioso. Alcuni giorni prima
era stato scoperto un immenso laboratorio per la raffinazione della coca
a Tranquilandia, lungo il fiume Yarì, che i militari sostennero
fosse vigilato da presunti guerriglieri. Alcuni giornali sospettarono una
montatura. Il settimanale governativo Semana intitolò la sua inchiesta
sull’episodio: “Narcoguerriglia, Altro imbroglio? Dopo i fatti di Yarì,
tante accuse e nessuna prova”. Questi dubbi furono presto abbandonati,
in Colombia e all’estero. Era comodo sostenere che fossero passate al soldo
dalla mafia quelle stesse guerriglie latinoamericane, che fino ad
allora erano state accusate di sopravvivere grazie agli aiuti da Mosca
e Pechino.
E’ interessante ricordare
cosa successe a Lewis Tambs. Nel 1985 venne trasferito in Costarica, con
la carica di ambasciatore straordinario plenipotenziario. Nel 1989 il governo
costaricense lo dichiarò “persona non gradita” perchè proprio
lui, l’integerrimo accusatore della narcoguerriglia, era la pedina locale
del traffico d’armi e di droga del cosiddetto “Contrasgate”, organizzato
dal trio Reagan-Poindexter-North.
Nelle storie losche,
dove i soldi s’intrecciano con la politica, la realtà è nascosta
dai fumi della propaganda. Bisognerebbe verificare di persona. Ma quanti
giornalisti si sono azzardati ad andare nelle vastissime zone di coltivazione
della coca, del papavero per eroina o della marjiuana, per verificare l’esistenza
di laboratori della guerriglia o per scoprire le colonne di guerriglieri
che fanno da spalloni dei mafiosi? Sarebbe più pericoloso, ma anche
più utile, che intervistare il solito generale che racconta, come
ha fatto per anni il comandante delle Forze Armate colombiane, Harold Bedoya,
che “le Farc sono il più grande cartello mondiale della droga”.
Bugie comprensibili. Bedoya doveva pur giustificare l’incapacità
-o l’impossibilità- di sconfiggerle militarmente, nonostante gli
investimenti in soldi e uomini e nonostante l’attuazione della più
selvaggia guerra sporca?
Dove non arrivano
gli occhi dovrebbe arrivare almeno il cervello.
Per essere tale, un
cartello deve controllare anche e soprattutto le fasi più redditizie
del ciclo della droga, quelle del trasporto nei paesi consumatori e dello
smercio. Quelle che hanno fatto le fortune dei capi dei grandi cartelli
di Medellin e Cali, come Escobar, i fratelli Ochoa e i fratelli Rodriguez
Orejuela, e che arricchiscono i nuovi anonimi narcos colombiani. Neppure
i creativi generali hanno però inventato qualcosa che dimostri l’attività
del vecchio Tirofijo o del “cura Perez” tra i grattacieli e le banche di
Panama, New York o di Miami.
Se la guerriglia colombiana
non è un cartello della droga, si finanzia indubbiamente con la
droga, così come si finanzia con i sequestri di persona o con le
tangenti sulle compagnie petrolifere (senza per questo essere definita
petroguerriglia).
Per anni i suoi capi
hanno risposto alla favola della narcoguerriglia con la favola della purezza
rivoluzionaria, che descriveva i guerriglieri come angioletti incontaminati
dalle ricchezze della droga. Se per l’ELN la cosa era forse più
credibile, visto che agisce soprattutto nelle regioni petrolifere ai confini
col Venezuela, lo è sempre stato decisamente meno per la FARC, che
ha decine di fronti nel Caquetà, nel Putumayo e in tutta la fascia
preamazzonica meridionale, dove sono concentrate le coltivazioni delle
foglie di coca. Negli ultimi anni, i vertici della FARC hanno ammesso di
attuare il gramaje, una tassa applicata su ogni movimento di droga, che
va, a seconda delle zone, dal 10 al 15% del valore del carico. “I soldi
del narcotraffico finiscono ai mafiosi che finanziano i paramilitari, che
noi combattiamo. Prendere una parte di questi soldi è il minimo
che possiamo fare” spiega Olga Lucia Marin, la responsabile in Europa delle
FARC, che nega però che alcuni fronti forniscano anche un servizio
di sorveglianza ai laboratori o ai movimenti di droga. E’ l’opinione anche
del sociologo Alfredo Molano, probabilmente l’unico giornalista colombiano
che si complica la vita visitando spesso le aree calde del paese (ed è
per questo ormai da anni nella lista degli squadroni della morte). “La
funzione basica della guerriglia consiste nell’estorcere i commercianti
di coca. Questo ruolo rende superflue altre funzioni come la vigilanza
o la produzione... La guerriglia ha il monopolio delle armi e garantisce
l’ordine sociale in cambio del gramaje. Un ordine sociale peraltro complessissimo
per la varietà dei protagonisti, per la quantità di soldi
che si muovono e per le guerre a morte che caratterizzano il mondo della
droga. Un ordine sociale che non ho dubbi a qualificare conservatore” scrive
Molano in un’inchiesta nella zona del Guaviare, apparsa sul settimanale
Cambio-16.
“L’unica cosa che
facciamo è appoggiare le richieste dei contadini che coltivano le
piantagioni, perchè rimanga loro una parte meno irrisoria del negocio”
continua Marin, che nega che la guerriglia abbia generato i movimenti di
protesta dell’estate scorsa contro la fumigazione, voluta dagli Usa ed
attuata spargendo diserbanti velenosi su decine di migliaia di ettari
del sud preamazzonico del paese: “Quel movimento, pacifico e di massa,
è nato spontaneamente. La popolazione non ha altro modo di vivere.
Invece di mandare l’esercito a sparare sulla gente, un governo democratico
dovrebbe offrire delle alternative di vita possibili”.
Nelle regioni cocalere
la droga è l’unica ricchezza esistente. Sempre Molano ha calcolato
che nel dipartimento del Guaviare le entrate del narcotraffico sono state
6O volte superiori agli investimenti fatti dallo stato.
Tutti ci convivono.
Chi sopravvive appena
come i braccianti, chi guadagna abbastanza come i contadini e chi parecchio,
come i commercianti, i gestori di bordelli, i padroni di fuoristrada e
barche, i venditori di benzina, cemento e permanganato di potassio, le
materie base della raffinazione. E soprattutto i boss della mafia. E coloro
che dovrebbe combatterli, per ideologia o per legge. La guerriglia quindi,
ma anche la polizia e l’esercito. Il trasferimento in queste regioni isolate,
per un agente e ancora di più per un ufficiale, non è considerato
una punizione, ma una promozione, una opportunità di guadagno. Così
come lo è per un secondino lavorare in un padiglione dov’è
recluso un grande mafioso: una sua mancia può valere anni di stipendio.
Militari e guerriglieri
beneficiano dell’economia della droga, senza per questo avere rapporti
con i boss mafiosi, che non si fanno mai vedere nelle zone di produzione
e che sono rappresentati dagli emissari regionali, chiamati los propios,
che a loro volta mandano i cosiddetti chichipatos a comprare la pasta base
o direttamente la cocaina dai contadini.
Fino allo scoppio
della “Guerra alla droga” scatenata da George Bush, che costrinse lo Stato
a lottare contro il cartello di Medellin, tra la mafia e la guerriglia
infuriava invece la guerra. Per gli sgarri compiuti da una parte e dall’altra,
come il sequestro di un mafioso, la rivolta a una tangente troppo esosa
o, semplicemente, per il controllo del territorio: personaggi come Escobar
o Rodriguez Gacha non tolleravano di dover scendere a patti con nessuno.
Poi, soprattutto dopo la scomparsa di quest’ultimi, prevalse un modus vivendi,
soddisfacente per gli uni e gli altri. Operante però solo nelle
regioni di coltivazione e non nel resto del paese dove i narcos investono,
“ripulendosi” e trasformandosi in industriali, commercianti e soprattutto
proprietari terrieri (secondo dati della polizia, possiedono il 42% delle
terre coltivabili del paese).
Nel complicato scacchiere
colombiano prevale comunque la contraddizione politica e di classe. I mafiosi
e i narcos - in quanto segmento del potere economico- non possono
che essere nemici di chi, come la guerriglia, rivendica la riforma agraria,
sostiene l’organizzazione dei lavoratori e dei braccianti in particolare
e soprattutto minaccia continuamente di sequestrarli.
Generali, poliziotti,
boss e sicari possono anche combattersi e uccidersi. Ma quando e
dove devono unirsi contro il nemico comune, la guerriglia comunista ed
in generale l’opposizione, armata o legale, politica e sociale, lo fanno
senza tanti pregiudizi.
Lo dimostra la storia
colombiana degli ultimi decenni, la guerra sporca e soprattutto il fenomeno
del paramilitarismo.
E lo dimostra l’attualità.
Questa unione spuria è evidente in questi ultimi mesi nel sud cocalero.
I massacri dei parà di Mapiripan e di Puerto Asis, così come
gli attacchi dell’esercito (che ai primi di marzo si sono risolte in una
catastrofe militare, con 80 Rambo uccisi e 43 caduti prigionieri, nelle
foreste del Caquetà) hanno l’obiettivo di allontanare la guerriglia
da un’importante zona di influenza e di finanziamento. “I cruenti combattimenti
non derivano da una disputa ideologica, ma dalla nostra volontà
nel distruggere l’impero del narcotraffico” ha dichiarato il ministro della
Difesa, Gilberto Echeverri.
C’è da dubitarne.
Se questa offensiva riuscisse, ne guadagnerebbero tutti. Lo stato perchè
indebolisce il suo nemico, ma anche la mafia che fa volentieri a meno di
pagare il sovrapprezzo della droga dovuto al gramaje.
La macchina della
droga continuerebbe andare avanti a tutto vapore, come è successo
nel nord “liberato” nei primi anni Novanta dalla guerriglia e dalla
sinistra grazie all’azione congiunta dell’esercito e dei parà (Narcomafie,
n.10 1997). Nelle regioni di Cordoba e Urabà, sono stati sterminati
tutti gli esponenti della Uniòn Patriotica e i sindacalisti, i fronti
guerriglieri sono ridotti a bande isolate, nelle piantagioni di banane
sono tornati illegali gli scioperi e dai porti di Turbo e Acandì
i carichi di droga vengono tranquillamente imbarcati tra le casse di frutta.
Insomma, è
tornata la più classica pax colombiana.