VIVERE IN GUERRA

 

 

Come viveva la popolazione civile durante la guerra:

 

la vita quotidiana

 

la paura dei bombardamenti

 

la paura del nemico

 

le preoccupazioni per i soldati al fronte

 

la vita nei rifugi e lo sfollamento

 

la fame, il mercato nero e l’economia di guerra

 

 Premetto dicendo che potrei scrivere un libro su quello che mi è capitato in quegli anni, ma un fatto che mi ha spaventata è stata una battaglia tra americani e tedeschi.

Gli americani erano riusciti ad arrivare fino alla Chiusa di Verona, i tedeschi si erano insediati ad Avio e bombardavano gli americani, questi bombardavano a loro volta i tedeschi. Le contraeree tedesche erano a Sabbionara, ma una si trovava proprio vicino a casa mia. Gli americani lanciavano bombe incendiarie al fosforo e i bombardieri venivano sempre da sud-est, accompagnati da alcuni picchiatelli, cioè da piccoli aerei che scortavano i bombardieri. La notte veniva un altro piccolo aereo, il Pippo, che lanciava una bomba dove vedeva la luce.

Una notte un vecchietto stava morendo in una casa a 100 metri dalla mia e aveva un fuoco acceso. Il Pippo lo vide e lanciò una bomba che, invece di centrare la casa, cadde nel bosco sopra le nostre abitazioni. Lo spostamento d’aria sfondò la vecchia porta di casa mia: da allora... tutti a dormire in cantina!

 

testimone: Rosetta Cavedine

anno di nascita: 1923

provenienza: Avio

professione: aiuto farmacista

autore dell’intervista: Marco Chiusole

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Era il marzo 1943 e mio padre, andando a trovare suo figlio militare, prese la broncopolmonite. Era tempo di guerra, c’erano pochi medicinali per curare certe malattie e allora bisognava cercarli altrove. Così assieme ad uno zio, con il carro ed il mulo, andammo ad Ala a prendere delle bombole d’ossigeno perché mio padre stava molto male. Quando arrivammo vicino alla chiesetta di S. Pietro in Bosco scorgemmo una formazione militare di aeroplani bombardieri che scendevano dal Monte Lavacchio cercando di mirare la ferrovia. Allora legammo il mulo ad un pilastro della chiesetta cercando il riparo più vicino che c’era. Le bombe non caddero tanto lontane e, passato il pericolo più grande, ci guardammo in faccia.

Ricordo che lo zio mi disse: "Grazie a Dio siamo ancora salvi!"

Continuammo il viaggio pulendoci il terriccio che avevamo addosso. Trovate le bombole d’ossigeno, ritornammo finalmente a casa, ma servirono solo per poco tempo perché la malattia di mio padre era avanzata e morì nel giro di pochi giorni.

 

Nel settembre 1944 i tedeschi fecero un rastrellamento per reperire soldati buoni a far la guerra e a lavorare per loro (dai 15 ai 60 anni). Mio fratello, Gino, doveva partire, ma io e la mia famiglia non volevamo, così lo nascondemmo in soffitta, in una specie di "casetta" fatta di balle di fieno, con un respiro verso la finestra. I soldati tedeschi, non trovandolo in casa, mi portarono in caserma e mi fecero firmare per farmi assumere tutte le responsabilità, in quanto avevo dichiarato che Gino non c’era. Poi due carabinieri e una SS mi accompagnarono nella Valle dei Mulini, fino alla casa che oggi ha il numero 17, dove c’era un raduno di soldati che mi costrinsero a togliere i pidocchi dalle loro divise tutto il giorno, fino a sera. Nell’officina sotto quella casa c’era la bottega di un fabbro che fu avvertito di quello che stava accadendomi da un vecchietto di Avio, che era passato di là nel tardo pomeriggio. Il fabbro, che mi conosceva, salì su pieno di fuliggine con una scure, una roncola e un mazzo di chiavi in mano. Parlava bene il tedesco e disse ai soldati che ero sua figlia e che dovevano liberarmi subito. Così fecero i tedeschi e mi accompagnarono di nuovo fino in piazza. Infine tornai a casa...da sola!

 

testimone: Maria Assunta Masserini

anno di nascita: 1925

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Marco Chiusole, Francesco Giuliani

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Quello che mi ricordo di quel brutto periodo è quando arrivavano gli aerei e noi dovevamo andare a nasconderci nei rifugi sopra il paese, in case disperse che avevano delle profonde e grandi cantine. E poi ricordo i giorni della ritirata dei tedeschi, quando a Sabbionara vennero bruciate cinque o sei case nella parte alta del paese, con delle bombe gettate dagli aerei.

 

 

 

testimone: Giovanni Campostrini

anno di nascita: 1935

provenienza: Sabbionara

autore dell’intervista: Moira Borghetti

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

A Sabbionara i bombardamenti erano frequenti perché le formazioni aeree nemiche volevano colpire alcuni punti strategici: la ferrovia e la contraerea. Quando le campane davano l’allarme, bisognava scappare e nascondersi nelle stalle fatte a volta perché si diceva fossero più resistenti delle altre. Un giorno non facemmo in tempo a scappare e, mentre eravamo per strada, una bomba cadde dietro casa nostra; per lo spostamento d’aria, mia sorella andò a sbattere addosso al muro di casa e fu ferita al volto dai vetri rotti che erano caduti dalla finestra.

Finiti i bombardamenti tornammo a casa e la trovammo piena di calcinacci staccatisi dal soffitto per la grande scossa, ma in un angolo, su di una mensola, era come se non fosse successo niente: la statua del Sacro Cuore era ancora in piedi, integra.

 

Qui da noi c’erano la contraerea e la stazione, per questo i bombardamenti erano frequenti. Gli aerei arrivavano dal Monte "Lavac" e facevano cadere la maggior parte delle bombe su Sabbionara. Tutti scappavano via, molti fuggivano anche ad Avio che, essendo proprio sotto il "Lavac", era difficile da bombardare. Noi eravamo ospiti di una zia, ma la mia mamma soffriva un po' di cuore. Devono essere stati troppo pesanti per lei gli spaventi e le paure dei bombardamenti. Un giorno si sentì male e morì. Nemmeno il funerale le fecero: c’era la paura delle bombe.

 

testimone: Tosca Secchi

anno di nascita: 1922

provenienza: Sabbionara

professione: casalinga

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Durante il bombardamento di bombe al fosforo del febbraio 1945 una ragazza venne colpita da delle schegge che le incendiarono i vestiti. Presa dal panico si buttò nella fontana che era nei paraggi. Ma la reazione del fosforo con l’ossigeno dell’acqua causò una grande vampata che la carbonizzò. Aveva 18 anni.

 

testimoni: paesani di Sabbionara

autore dell’intervista: Lorenzo Campostrini

 

 Il primo bombardamento che è avvenuto nella zona di Borghetto è stato ai primi di novembre del 1944. A quei tempi si andava a lavare all’Adige, e proprio quando ci fu questo bombardamento c’era una signora al fiume; per colpa di una bomba caduta nelle vicinanze le piombò un sasso sulla schiena, ferendola gravemente. Dopo qualche giorno la giovane donna morì.

La stessa cosa accadde il medesimo giorno ad un’altra signora che, andando per legna, si era fermata a riposare dietro alla ferrovia: improvvisamente la colpì un sasso e la poveretta morì all’istante.

Io e la mia famiglia eravamo in casa a fare la polenta e quando sentimmo gli aerei lasciammo tutto ed andammo a rifugiarci in campagna, per paura che cadesse una bomba sulla casa. Quando cessarono, io e la mia mamma ritornammo a casa a prendere il pranzo per portarlo in campagna, ma nemmeno se l’avessero fatto per dispetto, gli aerei ricominciarono a bombardare e fummo costrette a rifugiarci in un fosso.

Una bomba cadde anche sulla cantina, si sentì un tonfo e tutto il vino finì nell’Adige, facendolo diventare rosso.

Una mia cugina, per proteggersi dai bombardamenti, andò sotto ad un terrazzo, ma questo cadde e lei s’infortunò ad un polpaccio, che le fu tagliato subito.

Quando le persone impaurite fuggivano dalle loro case, altra gente meno paurosa andava a rubare le poche cose che trovavano dentro a quegli edifici temporaneamente abbandonati, rendendo così le persone ancora più povere di quello che erano.

Quando facevamo scambio di prodotti, io prendevo quelli degli americani, molto buoni e di qualità. Alcune persone li vendevano e si guadagnavano il pane per vivere.

Comunque, piuttosto di fare un’altra guerra del genere, mangerei pane e cipolla per tutta la vita.

 

Dovemmo andar via da Borghetto, a causa dei bombardamenti, e ci stabilimmo a Mama d’Avio, nei rifugi nel bosco.

Stavo andando verso un rifugio, avevo ancora la bambina molto piccola, di circa un anno. Oggi quella bambina è la mamma della vostra compagna Virginia Rudari. La stavo portando avvolta in una coperta. Ad un certo punto sentii gli aeroplani avvicinarsi. Avevo paura, non c’era nemmeno un albero dietro cui nascondersi, in quel tratto c’erano solo piante piccole, che ai miei tempi servivano per costruire le scope.

Allora mi affrettai ed arrivai al rifugio, dove mi diedero qualcosa per calmarmi, dato che non riuscivo più a respirare. Per fortuna quel brutto momento era passato e mi tranquillizzai.

Era trascorso un giorno e la piccola popolazione di Borghetto sentì avvicinarsi ancora gli aeroplani. I paesani erano in chiesa, era domenica. Quel giorno i bombardieri abbatterono la stazione di Borghetto, provocando un morto.

Le persone che erano in chiesa avevano molta paura che crollasse anche questa, così si rifugiarono in sacrestia. Con loro c’ero anch’io. Poi andammo a dormire in una stalla, ma mia figlia, essendo molto piccola, si ammalò di broncopolmonite e stava quasi per morire. Medicine non ce n’erano, così il nostro dottore mi disse di darle del latte, perché quella era l’unica medicina. Quando eravamo ancora nella stalla sentimmo boati fortissimi. Le bombe, le cosiddette bombe a farfalla, scendevano come fiocchi di neve.

Dovevo anche lavare i panni della mia bambina, così scioglievo la neve accanto ad un fornello perché avevo paura di andare a Mama, dove c’era l’acqua: qualche bomba avrebbe potuto colpirmi.

Un giorno ci trovavamo nel rifugio e un uomo decise di travasare il vino da una damigiana nelle bottiglie. Ma passò un aereo vicino e l’uomo, per la paura, lasciò andare la damigiana che rotolò fuori dal rifugio. Un altro paesano, il nonno del vostro compagno Ivan Benvenuti, andò a riprenderla con il rischio di essere colpito dalle bombe, ma riuscì a recuperarla e fu salvo.

Mio marito e mio fratello erano in guerra e dovevano arrivare con le navi. Ma quella su cui era mio fratello fu bombardata e lui non fece più ritorno, quella su cui era mio marito, per fortuna, ce la fece e lui tornò sano e salvo.

Per me la fine della guerra non è stata una vera fine perché ho perso mio fratello. Ricordo che tutti stavano festeggiando, mentre io e mia madre piangevamo disperate.

 

testimone: Elena Lorenzi

anno di nascita: 1911

provenienza: Borghetto

professione: casalinga

autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Moira Borghetti, Elisa Fracchetti, Michela Fracchetti, Virginia Rudari

data dell’intervista: febbraio 1998

  Ero in campagna e falciavo l’erba per le mucche. Ad un tratto vidi in cielo, in lontananza, degli uccelli colore nero: dopo un po' sentii un frastuono tremendo. Salii su un albero e vidi un nuvolone di polvere sul paese di Borghetto. Con le mucche feci ritorno a casa e vidi una scena incredibile: le rotaie della ferrovia divelte e finite sui tetti delle case, sulla strada, ovunque. I primi bombardamenti centrarono il ponte di Borghetto e alcune case.

Ricordo dei soldati tedeschi che arrivarono in carrozza e che furono colpiti in pieno da una bomba lanciata da un aereo. E poi un altro bombardamento che colpì la cantina del vino di Borghetto: il vino era sparso dappertutto.

La gente diceva che quando si vedeva un aereo bombardiere non bisognava fuggire, ma andargli incontro, perché era più facile sfuggire alle bombe.

 

testimone: Paolo Zocca

anno di nascita: 1929

provenienza: Borghetto

professione: contadino\allevatore

autore dell’intervista: Ivan Benvenuti

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

 

Il tempo di guerra è stato un periodo di grande carestia quasi per tutti. Ma c’era della gente che faceva il mercato nero e poteva guadagnare anche molto. Gran parte della gioventù fu richiamata alle armi. Fra i civili di varia età ci furono anche dei partigiani che vivevano alla macchia e combattevano i soldati tedeschi. Nella nostra valle ci furono oltre duecento incursioni aeree: le forze alleate cercavano di colpire la stazione ferroviaria e le strade più importanti.

Nella storia di un paese la guerra è la cosa più triste che può succedere e la pace è il massimo bene che auguro a tutti.

 

testimone: Alice Perotti

anno di nascita: 1920

provenienza: Avio

professione: impiegata

autore dell’intervista: Tiziano Libera

data dell’intervista: marzo 1998

  Nel 1944 Ala fu bombardata. Gli abitanti credettero di vedere dei biglietti volanti, invece erano bombe e pesavano più di 400 chili l’una. Le prime bombe furono lanciate su obiettivi molto speciali, come la ferrovia.

Il giorno di Natale gli abitanti di Ala lo passarono nei rifugi; prima mangiarono in compagnia, poi fumarono dei mozziconi di sigarette. Quella notte molti aerei transitarono sopra la città, lanciando delle bombe incendiarie che bruciarono case e boschi. Gli abitanti così dormivano nelle stalle o nei rifugi, su paglia o foglie per ripararsi dall’umidità della notte.

 

testimone: Italia Toccolini

anno di nascita: 1909

provenienza: Ala

professione: casalinga

autore dell’intervista: Tiziano Libera

data dell’intervista: marzo 1998

 

Ogni tanto andavo a trovare la nonna, mi incamminavo e, da Erbezzo, giungevo a Sabbionara in poco più di tre ore. Quella volta mi ero fermato a dormire, ma la mattina dovevo partire subito e ritornare a casa. Appena giunto a Vo’ sentii l’allarme. Non sapevo se ripararmi e continuai per la mia strada. Un uomo mi chiamò per farmi entrare nella sua casa, gli aerei erano già sopra di me, non ne valeva la pena scappare. Fortunatamente le bombe caddero poco più in là e non mi successe niente.

 

testimone: Aleandro Ronconi

anno di nascita: 1915

provenienza: Erbezzo (VR)

professione: contadino

autore dell’intervista: Sara Campostrini

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Erano le 2:30 della notte dopo l’8 settembre 1943 ed ero operaio alla Lancia di Bolzano. Nella baracca dove dormivo entrarono dei soldati italiani che volevano scappare perché temevano di essere catturati e mandati nel campo di concentramento di Bolzano. Ci chiesero in prestito dei documenti. Io prestai ad uno di loro la mia carta d’identità, però non mi fu più restituita. In seguito a questo fatto temetti di passare dei guai, ma per fortuna non successe nulla.

 

Era la primavera del 1944. Ero sul tetto della mia casa a Isera e, da ragazzo inconsapevole di ciò che avveniva, mi divertivo ad osservare quei grandi aerei da guerra passare. Vidi cadere una grossa granata a Rovereto e proprio mentre gli aerei si avvicinavano arrivò la mamma che mi trascinò dentro. Giusto in tempo perché una scheggia non mi colpisse.

 

La paura era sicuramente tanta. Ricordo bene quella volta, sempre durante i bombardamenti del 1944, quando un aereo alleato stava precipitando, colpito dalla contraerea tedesca. Gli uomini si buttarono da esso con il paracadute, ma i tedeschi spararono anche a loro. Li osservai precipitare privi di vita.

 

testimone: Giuseppe Chiusole

anno di nascita: 1925

provenienza: Isera

professione: operaio

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

All’imbrunire, verso le ore 19:00, passava un aereo detto Pippo che, quando vedeva una luce accesa, bombardava. Ad Ala alzavano i ponti mobili ogni volta che passavano gli aerei perché questi non li distruggessero con le bombe. Tutta la gente spaventata andava "en Ala", una galleria dove ci si poteva rifugiare, e bisognava starci quasi tutto il giorno perché gli aerei alleati continuavano a girare. Così ogni mattina ci alzavamo presto e mangiavamo panini col salame, poi ritornavamo "en Ala". La sera andavamo a dormire nelle cantine. L’argomento di cui si parlava maggiormente era proprio il Pippo che passava ogni ora nella notte. Gli anziani erano quelli che avevano più paura e per loro era veramente un inferno. Le donne per passare il tempo facevano le calze e gli uomini che non erano andati in guerra giocavano a carte o fumavano.

 

testimone: Iolanda Zomer Cavedine

anno di nascita: 1925

provenienza: Muravalle di Ala

professione: cameriera

autore dell’intervista: Daniele Cavedine

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Nel 1939 avevo 14 anni e mi ricordo ancora quanta tristezza ho provato quando giunse la notizia che la Germania era entrata in guerra con la Francia e l’Inghilterra. Nel 1940 alla Germania di Hitler si unì anche l’Italia. I nostri uomini furono chiamati sotto le armi e mandati al fronte a combattere.

Le condizioni di vita anche ad Avio erano dure, c’erano le tessere alimentari e la crisi era spaventosa. La vita quotidiana era altrettanto dura: si correva nei rifugi per ripararsi dai continui bombardamenti. Ci nascondevamo in cantina o nei locali dove c’erano gli archi fatti a volta. Gli aerei passavano due volte al giorno: al mattino e di notte. Ricordo i picchiatelli, aerei da combattimento piccoli, ma molto precisi, che ogni mattina uscivano dal Monte Piagù o dal Monte Lavacchio per cercare di bombardare il ponte del Vo’ e la ferrovia del Brennero. Alla sera, quando faceva buio, passava il Pippo, il terrore di tutti, che non voleva vedere la minima luce. Così eravamo costretti, oltre che a chiudere le imposte, a mettervi sopra dei teli scuri.

Ricordo che il 30 novembre 1944 stavamo facendo il funerale alla mia maestra di lavoro, quando uscirono i picchiatelli e tutta la gente rimase terrorizzata. Ho sempre avuto una grande paura; quando colpirono il ponte del Vo’ sembrava che fosse la fine del mondo, le donne intorno a me pregavano e piangevano.

Un giorno, mentre portavo il cibo a mio padre che lavorava in campagna, vidi in via Campagnola, ad Avio, un’enorme nuvola di polvere che veniva sollevata da una fila interminabile di camion. Ci spaventammo perché non capivamo di che cosa si trattasse, ma poi si seppe che quelli erano i camion dei tedeschi in ritirata.

 

testimone: Maria Assunta Battistoni

anno di nascita: 1925

provenienza: Avio

professione: casalinga

autore dell’intervista: Andrea Pavana

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

Quando di giorno gli aeroplani nemici sorvolavano il paese, suonava la sirena e tutti uscivano dalle loro case e correvano, assaliti dal panico, nel bosco dove ora ci sono le scuole medie, in una specie di galleria nel terreno. C’era una gran folla, chi pregava, chi era sicuro di morire, chi era più ottimista. Io non facevo parte di nessuno di questi gruppi, mi limitavo a guardare, ad ascoltare, a percepire qualsiasi tipo di rumore. Non riuscivo a pensare alla morte, la vedevo lontana, anche perché avevo poco più di vent’anni.

La notte, però, quando volava il Pippo, avevo molta paura e continuavo a ripetere ad ogni mio familiare di non muoversi, di non parlare, di non accendere neanche un fiammifero. Forse li innervosivo tutti, ma mi sentivo più sicura.

In una notte del 1944, vicino a casa mia, una famiglia si era dimenticata la luce accesa e fu immediatamente bombardata, ma la bomba, per fortuna, cadde nell’orto. Noi in quel momento eravamo relegati in cantina, in quanto eravamo stati costretti a cedere le nostre camere ai tedeschi che, qualche giorno prima, ci avevano sequestrato l’appartamento. Anche da quel luogo fresco e umido sentimmo ovviamente il forte scoppio e, pochi minuti dopo, salii velocemente le ripide scale che portavano al primo piano. Tutti i vetri delle nostre finestre erano frantumati a terra, i tedeschi si muovevano in continuazione e parlavano parlavano. Non conoscevo quella lingua, ma secondo me avevano paura pure loro. M’informai subito, per fortuna anche tra loro non c’erano stati né morti né feriti. Da quella volta, la notte era ancora più odiosa e continuavo, probabilmente anche durante il sonno, ad implorare di non accendere alcuna luce.

 

testimone: Daniela Pavana

anno di nascita: 1923

provenienza: Avio

professione: magliaia

autore dell’intervista: Alessandra Redolfi

data dell’intervista: dicembre 1997

  Io ed una mia amica, un giorno, eravamo andate a prendere il pane a Mori, perché durante la guerra non lo portavano più nelle piccole frazioni. Nel ritorno, giunte alla località Crona, vedemmo arrivare uno stormo di aerei. Allora ci rifugiammo in un cunicolo nella montagna. C’erano anche degli operai che stavano ricostruendo alcuni pezzi della ferrovia distrutti dai bombardamenti e ci nascondemmo con loro in alcuni cunicoli sotterranei chiamati "tombini". Stranamente, con noi si rifugiarono anche alcuni uccelli. Gli aerei bombardarono e se ne andarono. Uscimmo allo scoperto tutti e noi due tornammo a casa impaurite, ma contente di aver scampato il pericolo.

 

Ricordo l’episodio di due uomini che stavano attraversando l’Adige in barca da Serravalle verso Chizzola: dovevano portare là una damigiana di vino che sarebbe stata inviata a Bolzano. Appena scesi dall’imbarcazione videro uno stormo di aerei alleati che si stava avvicinando. Impauriti si nascosero. Dopo il passaggio dell’ultimo aereo uscirono allo scoperto credendo di essere salvi, ma l’ultimo pilota si accorse di loro, si girò e li colpì. Furono ritrovati qualche ora dopo dai soldati tedeschi. Erano sulle rive dell’Adige, uno con il ventre maciullato e l’altro colpito alla testa. Ormai, per i due, non c’era più niente da fare.

 

testimone: Maria Cipriani

anno di nascita: 1920

provenienza: Chizzola

professione: operaia

autore dell’intervista: Fabiano Giuliani

data dell’intervista: dicembre 1997

  Avevo 18 anni, ero la maggiore di nove fratelli, e ricordo che una mattina del 1940 suonarono le campane, io ero nell’orto e guardavo un funerale che passava, molta gente era andata in piazza a sentire il podestà che annunciava l’entrata in guerra dell’Italia. Restammo male al pensiero che avrebbero chiamato tutti i nostri giovani a fare il soldato in guerra.

Le notizie sia cattive che buone, comprese le sconfitte dell’esercito italiano, si venivano a sapere dopo molto tempo attraverso qualche vecchia radio che qualcuno possedeva.

Ho tanti ricordi della seconda guerra mondiale, anche perché casa mia era senza portone, così era un punto strategico dove si poteva entrare senza chiedere niente.

Una volta arrivarono dei tedeschi che volevano portarci via tutte le galline, ma mia sorella Maria Assunta si mise davanti al pollaio e, anche se i soldati erano armati, impedì loro di farlo. Poi portammo il mulo in cantina giù per le scale e mettemmo il carro davanti alla porta, costruendo una specie di barricata per non lasciarci prendere anche quella bestia.

Una volta io stavo in cortile con la macchina da cucire a mano, quando arrivarono dei soldati mongoli che cominciarono a farmi scherzi; poiché avevo paura, gettai loro addosso la macchina, corsi nell’orto ed andai a rifugiarmi dai custodi della Pieve. I soldati mi rincorsero per un po', ma poi andarono via.

 

Poi mi ricordo che mio fratello Gino andava a lavorare obbligatoriamente sotto le SS in località Brustoloti, dove facevano delle gallerie per metterci dei cannoni; i tedeschi pensavano così di fermare gli americani che potevano salire per la Valle dell’Adige. Un giorno noi eravamo senza legna, mio padre era morto e Gino, che era l’uomo più grande, andò nei boschi a procurarsela e non si presentò al lavoro. Così, quando si accorsero della sua mancanza, i soldati tedeschi vennero a casa e presero mia sorella Vittoria, allora dodicenne, come ostaggio, e la portarono alla casa del Mai, che era il loro quartier generale. Allora io andai incontro a Gino e gli dissi che avevano portato via Vittoria; lui corse al Mai e la fece rilasciare, ma trattennero lui e lo portarono in caserma. La sera questi soldati vennero a casa mia, ma a Gino non fecero nulla e lo lasciarono andare. Per fortuna Vittoria aveva imparato il tedesco da un soldato della Wehrmacht e così quella volta riuscì a farsi intendere.

 

Una volta i tedeschi arrivarono in cortile con un carro armato e lo coprirono con delle fascine di legna per nasconderlo alla vista dell’aereo detto Pippo; nel carro armato vi erano circa 20 soldati che presero dal solaio delle balle di paglia e le stesero in cucina per dormirci. Poi fecero bollire in una pentola bevande alcoliche e si ubriacarono. Io, mia madre e i miei otto fratelli eravamo tutti in una stanza con una paura tremenda, mio fratello Gino non c’era perché era stato chiamato a lavorare anche di notte, allora calammo dalla finestra nostra sorella Maria Assunta e la mandammo a chiamare il nostro vicino Vincenzo che venne a farci compagnia per quella notte.

Un’altra notte tornarono i soldati tedeschi, io e mia madre eravamo ancora sveglie, mentre gli altri dormivano perché erano piccoli. Cacciarono i bambini dal letto, si misero loro a dormire e, mentre noi eravamo in cortile al freddo, si fecero la barba in cucina. Noi dovemmo anche preparare a quei soldati la colazione, con una paura tremenda perché in un angolo della cucina c’erano ammucchiati tutti i loro mitragliatori.

Durante la guerra c’era molta paura e mi ricordo che avevamo inventato una specie di preghiera che faceva così:

Ave Maria, grazia plena,

fa che non suoni la sirena,

fa che non tornino gli aeroplani

fammi dormire fino a domani

e se le bombe buttano giù

Santa Maria, salvaci tu.

Santa Maria, fa che gli inglesi

perdano la via.

  Ricordo che durante la seconda guerra mondiale i generi alimentari erano tesserati, in pratica erano distribuiti dal negoziante solo quelli indicati sulla tessera e questa si poteva adoperare una sola volta in un solo negozio.

Il pane che ci davano veniva fatto con una farina scura: "pane nero", era chiamato.

A casa mia, per fortuna, lo facevo bianco ogni giorno perché alcuni nostri amici, col rischio di venire arrestati, andavano a prendere la farina al mercato nero, così ne avevamo acquistato un bel po’, e il pane non ci mancava.

Si doveva però misurare tutto: i condimenti, la pasta, anch’essa scura, lo zucchero, il caffè d’orzo, che tostavamo noi, il sale, al tempo molto scarso, e la carne, che si mangiava una volta la settimana.

Nel 1943 mio padre si ammalò, così doveva mangiare solo un po’ di brodo, io andavo a comperare la carne ad Ala - al mercato nero - e si pagava a caro prezzo.

Mio fratello maggiore, che faceva il soldato a Como, fu mandato a combattere in Jugoslavia, da dove scappò l’8 settembre del 1943 e, nascondendosi di giorno e viaggiando la notte, per paura che lo prendessero, finalmente arrivò a casa, ma venne catturato poi dalle SS che lo mandarono a lavorare per loro.

Il mio fidanzato, divenuto in seguito mio marito, il 25 luglio del 1943 fu fatto prigioniero dagli americani, i cosiddetti Alleati, che lo portarono ad Orano, in Africa, dove poi fu imbarcato per l’America.

Rimase in prigionia fino al novembre del 1945, fu il solo del nostro paese ad andare in America, ma molti dei nostri soldati di Avio furono fatti prigionieri dai tedeschi e portati in Germania, dove subirono disumani trattamenti.

 

testimone: Nerina Masserini

anno di nascita: 1922

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Moira Borghetti, Elisa Fracchetti , Michela Fracchetti, Virginia Rudari

data dell’intervista: marzo 1998

  Per procurarci il cibo dovevamo fare lunghe code, ci davano "il bollino" e con questo potevamo prendere un sacchetto di farina o un po' di pane o qualcos’altro, ma poca roba, dato che non c’era mai da mangiare per tutti. Ma le persone più ricche avevano anche due bollini...

 

testimone: Angelina Tomasetti

anno di nascita: 1926

provenienza: Avio

professione: casalinga

autore dell’intervista: Elisa Fracchetti

data dell’intervista: dicembre 1997

  La guerra era iniziata da qualche anno, ma io, ancora bambina, non la sentii particolarmente fino a quell’8 settembre 1943.

Abitavo con la mia famiglia al Brennero e il pomeriggio di quel giorno stavo giocando nel cortile come al solito, quando mia madre mi chiamò in casa. Era successo qualche cosa. Il mio papà aveva sentito alla radio che i tedeschi erano diventati nostri nemici ed il confine era a due passi.

Per essere un po' più al sicuro ci rifugiammo in cantina, dando ospitalità anche a dei nostri vicini.

Se i soldati italiani delle caserme vicine avessero fatto resistenza, ci saremmo trovati proprio nel mezzo del conflitto. Per fortuna non fu così e la notte passò tra pochi spari isolati e qualche grido in lingua tedesca. Il giorno dopo cominciarono a passare lungo la strada lunghe file di soldati italiani, a piedi e disarmati, che i tedeschi deportavano in Germania.

Non si poteva uscire, c'era il coprifuoco.

Pochi giorni dopo potemmo lasciare il Brennero; preso il treno, arrivammo ad Avio, il paese della mia mamma, convinti che, lontani dal confine, si potesse essere più al sicuro. Mio padre, dopo averci accompagnati, ritornò al Brennero dove lavorava come ferroviere.

Ma la guerra non tardò a farsi sentire anche ad Avio. Ricordo ancora il rumore cupo delle formazioni aeree che, passando, bombardavano e distruggevano i ponti, le strade e la ferrovia.

La notte un aereo chiamato Pippo passava in ricognizione. A volte lanciava i bengala che illuminavano a giorno il paese; altre volte, movimenti insoliti o qualche luce diventavano il bersaglio delle sue bombe.

Papà qualche volta veniva a trovarci in treno, ma il suo viaggio, oltre che pericoloso per i bombardamenti, era anche molto faticoso: infatti, a tratti la ferrovia era interrotta e lui doveva proseguire a piedi.

Noi avevamo sempre molta paura, ma la mamma faceva di tutto per tranquillizzarci e, anche se con difficoltà, si adoperava per non farci mancare il necessario.

Passarono in questo modo i giorni ed i mesi, poi finalmente giunse la notizia che la guerra era finita.

Sembrava impossibile, passavano gli aerei e non c'era più d'avere paura!

Quell'angoscia era finita: mi sentivo leggera, finalmente quel grande peso che mi opprimeva era sparito. E la nostra famiglia ha potuto nuovamente riunirsi.

 

testimone: Adriana Formenti Mabboni

anno di nascita: 1931

provenienza: Brennero

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

Il paese di Avio era in una posizione al sicuro dalle bombe perché lontano da ponti e stazioni; inoltre, si trova proprio sotto le montagne che fanno da barriera. Ricordo che quando passavano gli aerei bombardieri mi sporgevo dalla finestra per ammirarli: mi piacevano molto e mi affascinavano. Una notte il mio vicino di casa si sentì male e, per necessità, accese una candela ed uscì di casa. L'aereo Pippo vide la fiammella e sganciò tre bombe. Le schegge saltarono dappertutto rovinando il tetto di casa mia ed una scheggia mi arrivò in cucina.

Ricordo anche che per sei o sette mesi ospitammo alcuni soldati dell'esercito tedesco.

Due miei fratelli erano in guerra: uno è ritornato, dopo le campagne di Francia e Grecia, mentre l'altro, purtroppo, risulta ancora disperso in Russia.

 

testimone: Ida Bazzanella

anno di nascita: 1926

provenienza: Avio

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Allora abitavo a Sabbionara.

Durante un bombardamento è stata distrutta la casa adiacente alla mia ed è morta una ragazza. Lo spavento è stato così forte che abbiamo deciso di cambiare abitazione, anche perché la nostra era danneggiata. Ciò è stato possibile grazie al signor Venturi, presso cui lavorava mio marito, che ci ha concesso di usare una casa di sua proprietà in località Ulivi, bella ma parecchio distante dal paese.

Ogni giorno, verso le ore nove, ospitavamo una decina di donne di Sabbionara che fuggivano dalle loro case perché verso quell'ora era facile che il paese fosse bombardato. Così avevo compagnia.

Dopo poche settimane che abitavo in quella casa siamo stati costretti ad ospitare dei soldati cecoslovacchi, a cedere loro le nostre camere e noi a dormire ammassati in una sola stanza in sei persone. Erano però bravi ragazzi, giocavano addirittura con la mia bambina di otto mesi; ogni volta che si avvicinavano al suo seggiolone, in un italiano stentato le ripetevano: "Bambina, sorridi sempre, non piangere mai!"

Poco tempo dopo la loro partenza abbiamo dovuto ripetere la stessa esperienza con dei soldati mongoli, prima catturati e poi arruolati dai tedeschi. Erano persone sporche, brutte e perfide. Tutti i giorni mi portavano patate e pancetta che io dovevo cucinare per loro. In cuor mio mi ritenevo fortunata al pensiero che non avevano trovato le mie scorte di patate; quando se ne sono andati mi sono invece accorta che avevo sempre cucinato le mie patate e che le scorte erano finite.

Ancora oggi l'odore della pancetta arrostita mi provoca una forte nausea.

 

testimone: Maria Eccheli Fumanelli

anno di nascita: 1911

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

I miei ricordi dell'ultima guerra sono legati al periodo dei bombardamenti da parte degli americani. Questi cercavano di distruggere la linea ferroviaria, i ponti e le strade per impedire i rifornimenti all'esercito tedesco che provenivano dal Brennero.

Tutti i giorni suonava l'allarme e le donne con i bambini si dirigevano verso la Valle dell'Aviana per essere più al sicuro.

In casa nostra, in quel periodo, stanziava un comando delle SS. I nonni con tutti i bambini ed una ragazza che li accudiva decisero di trasferirsi nella casa di Madonna della Neve. I viveri erano portati a dorso di un mulo e lassù, nella stalla, avevamo due mucche; con il latte si faceva il burro ed il formaggio. I vitellini nati nell'inverno del 1944 sono stati uccisi e la carne conservata sotto la neve, che fungeva da frigorifero naturale.

La notte si sentiva volare l'aereo Pippo; ricordo una volta, quando sganciò una bomba, ma senza provocare vittime.

Sulle nostre montagne c'erano sia soldati tedeschi sia partigiani che, spesso, passavano da casa nostra in cerca di cibo, attirati dall'unico camino fumante che vedevano in zona.

Fortunatamente la guerra finì e ritornammo ad Avio.

 

testimone: Pia Cristoforetti Pavana

anno di nascita: 1912

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Ai tempi della guerra avevo circa vent'anni. Vivevo in una famiglia numerosa e, quando arrivavano i bombardieri, ci rifugiavamo tutti in cantina terrorizzati e ci tappavamo le orecchie per non sentire le esplosioni.

Abitavo vicino alla scuola elementare, occupata dai tedeschi che, quando gli Alleati bombardavano, scappavano come noi nelle cantine delle case vicine.

Tutti i giorni due o tre tedeschi venivano in casa a bere il caffè.

Lavoravo presso la Famiglia Cooperativa di Avio. Non potevamo vendere quotidianamente generi alimentari, ma solamente nei giorni previsti per la distribuzione. La gente arrivava in massa esibendo la tessera annonaria.

I tedeschi consegnavano ad ogni abitante, una volta al mese, un certo numero di bollini: un bollino era grande all'incirca in centimetro quadrato e dava diritto ad una razione di cibo. La tessera era consegnata alle famiglie dal messo comunale.

A volte, purtroppo, il dover attendere il giorno di distribuzione e la mancanza di celle frigorifero provocava il deterioramento di alcuni cibi come il burro.

Avevo quattro fratelli in guerra, arruolati dai tedeschi. Gli uomini di famiglia più anziani lavoravano nella TODT (genio civile) o nella TREK, che si occupava del bestiame.

Bisognava denunciare il possesso di bestie da carne e da latte. I contadini se la cavavano anche bene, gli impiegati, invece, a volte pativano la fame.

La notte c'era il coprifuoco, ma noi ragazzine uscivamo ugualmente per andare dalle suore a lezione di canto. Le strade erano buie e deserte e l'unico rumore era quello dei nostri passi. Avevamo una paura terribile. Quando passava un aereo ci nascondevamo dentro i portoni delle case.

Ricordo un fatto che oggi mi fa sorridere: la figlia di una mia vicina riceveva la Prima Comunione e sua madre aveva preparato un buon pranzetto. Mentre la festeggiata e gli invitati si accomodavano a tavola, fu sganciata una bomba sulla ferrovia e lo spostamento d'aria investì la casa provocando lo scrostamento del soffitto ed un fuggi fuggi generale nella cantina. Quando gli ospiti ritornarono a tavola ebbero un'amara sorpresa: i piatti erano vuoti, ma i gatti sulle finestre si leccavano ancora i baffi.

 

testimone: Giuseppina Libera Sega

anno di nascita: 1921

provenienza: Avio

professione: commessa

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

 

 

  Sono nata nel 1938, quindi al tempo della guerra ero molto piccola.

Quello che più ricordo sono i bombardamenti degli aerei, anche perché mia madre ne aveva molta paura: quando avvenivano andavamo di solito a nasconderci nei boschi sopra a S. Antonio e ad Avio.

Poi però mio padre ci ha portati a S. Felice, in Val di Gresta, dove gli aerei non hanno mai bombardato e dove siamo restati fino alla fine del conflitto.

In quegli anni si mangiava poco e male, c’era il pane nero che a me non piaceva.

Ricordo anche che quando la guerra è finita le campane hanno suonato per tutto il giorno. Poi è ritornato a casa un nostro amico soldato: siamo andati tutti alla stazione di Vo' ad accoglierlo.

 

testimone: Luigina Menolli

anno di nascita: 1938

provenienza: Sabbionara

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

 

Al tempo della guerra avevo 18 anni.

In giro c’erano tanti tedeschi e spesso passavano gli aerei alleati a bombardare.

Gli anziani erano tutti scappati ad Avio che, essendo sotto la montagna, era più riparata dai bombardamenti. Noi giovani eravamo rimasti a Sabbionara, ma la paura era tanta.

Mia sorella era nella TODT, un’organizzazione che occupava la gente dei paesi e i prigionieri in lavori utili per i tedeschi.

Il campo prigionieri era situato nell’area dell’attuale parco giochi di Sabbionara.

Mi ricordo che una sera, saranno state le 18:30, è arrivato Pippo e, con il suo mitragliatore, ha colpito al sedere un ragazzo che stava lavorando in località Campèi, facendolo morire dissanguato.

Presso le scuole elementari di Avio c’erano le SS e, dove oggi sorge il magazzino comunale e la caserma dei vigili del fuoco, c’era la sede della Gestapo.

Non dimenticherò il giorno in cui le formazioni alleate, che volevano bombardare la contraerea, hanno mancato il bersaglio e hanno distrutto le case vicine.

 

I tedeschi entravano spesso nelle case portando via tutto quello che trovavano: capre, biciclette - piuttosto rare - carri e persino le ragazze. Una volta hanno sequestrato anche me e, portata nelle cucine, mi hanno mostrato come fare a tagliare la carne; poi, puntandomi la canna del fucile al petto, mi hanno gridato: "Capito?"

Ho preparato loro da mangiare e, quando avevano mangiato ma, soprattutto bevuto, sono riuscita a scappare.

Per procurarsi il cibo bisognava avere la tessera, ma ugualmente si mangiava poco, perciò spesso si era costretti a ricorrere al contrabbando.

La notte i partigiani scendevano dalle montagne per prendere provviste di cibo e coperte: non tutte le notti però, perché i tedeschi continuavano ad ispezionare le case per catturarli. Uno di loro è stato preso e portato nel campo di concentramento di Mauthausen, dove è morto.

 

testimone: Maria Emanuelli Creazzi

anno di nascita: 1922

provenienza: Sabbionara

professione: casalinga

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Abitavo in località Fondo Campagna, una zona molto bombardata perché situata fra due ponti (quello del canale Biffis e quello dell'Adige) e nelle vicinanze della stazione ferroviaria di Vo' Sinistro.

In casa mia venivano molti soldati tedeschi, ai quali dovevamo prestare ospitalità. Nella casa vicina si trovavano i loro uffici, il calzolaio, il sarto, ecc.

Una sera arrivarono i tedeschi con un carro armato rotto e lo sistemarono nel mio cortile per aggiustarlo. Lo coprirono con una specie di tettoia di legno per nascondere all'aereo Pippo le luci accese, indispensabili per la riparazione del mezzo bellico.

Anche quella sera il Pippo sorvolò le nostre case e noi, per paura, ci rifugiammo in una stalla di Foss, località ai piedi del castello, mentre i tedeschi usavano le nostre mucche per il traino del carro armato.

Tornati a casa al mattino, trovammo tutti gli scuri a terra e ci riferirono che là vicino era esplosa una bomba.

 

Un altro fatto che ricordo chiaramente fu quando un soldato ubriaco entrò nella nostra stalla con la pretesa di liberare le mucche; tentai di dissuaderlo, ma non ci fu niente da fare. Volevano arrestarmi, ma corsi nell'ufficio adiacente dove c'era Saverio, un mio conoscente che sapeva molto bene il tedesco e che riuscì a convincere i soldati a lasciarmi andare.

Le condizioni di vita erano pessime: andavamo ad attingere l'acqua potabile in piazza ad Avio mentre, per le altre necessità, prendevamo l'acqua dal canale Biffis.

I tedeschi erano molto sporchi, molti avevano i pidocchi e le mie due figlie ne furono contagiate. Avevano un tremendo prurito in testa ed una sera, preoccupata per i loro continui lamenti, le lavai con aceto e naftalina; la notte però furono colpite da tremendi dolori di testa tanto che mio marito mi minacciò dicendo: "Se me more le fiole te copo anca ti!"

Eh, voi siete fortunati, non sapete nemmeno com'è la coda di un pidocchio!

Un giorno bombardarono la pesa di Vo' Sinistro ed alcune schegge arrivarono fino a casa mia.

Un'altra volta un soldato ubriaco entrò in casa chiedendo del cibo: eravamo così poveri che non ne avevamo nemmeno per i nostri figli, ma lui lo pretendeva a tutti i costi. Mi minacciò allora di morte ed io mi salvai rifugiandomi nel solito ufficio di Saverio.

Non ricordo più nulla, però…ne ho fatti di salti!

I comandeva lori!

 

testimone: Corina Salvetti

anno di nascita: 1911

provenienza: Sabbionara

professione: casalinga

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

 

Verso la fine del 1944 da Vo’ passava la tradotta militare diretta in Germania, con a bordo gli Alleati prigionieri che venivano portati nei campi di concentramento. La tradotta era un treno merci che trasportava i prigionieri. Due delle persone a bordo, uno della Rodesia e uno inglese, essendosi accorti che il treno nei pressi di Vo’ rallentava, scesero con un salto, attraversarono l’Adige a nuoto e raggiunsero l’altra riva. Di notte camminarono nascosti perché ad Avio c’erano tanti tedeschi. Arrivarono fino ad una casa, i cui abitanti, vedendo uno dei due ferito - saltando dal treno si era fratturato un piede - li accolsero e li curarono. Se per caso i soldati tedeschi fossero venuti a conoscenza dell’episodio, prima avrebbero fucilato i due fuggitivi, e poi anche la famiglia che li aveva ospitati. In casa a quel tempo non era permesso dare alloggio a gente o soldati che erano contro i tedeschi. Così dopo tre giorni, per la paura, quei paesani nascosero i due uomini in una grotta chiamata "Cavrera", situata sopra gli ulivi. Tutte le sere, per almeno sette-dieci giorni, andarono alla grotta per portare alle due persone, perché sopravvivessero, vestiti, coperte, cibo. Quando il soldato ferito al piede guarì, i due se ne andarono per le montagne e arrivarono a Riva del Garda, in un convento che li ospitò. Poi raggiunsero la Svizzera a piedi e ognuno tornò a casa propria.

Finita la guerra, l’inglese scrisse cartoline e lettere a quella famiglia per ringraziarla, mentre il rodesiano andò addirittura a trovare di persona i suoi salvatori.

 

testimone: Nellie Bertagnolli

anno di nascita: 1931

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

 

Sono nata in Val di Sole, mi sono sposata là e sono arrivata ad Avio in seguito, per lavoro. Ho 72 anni e, per quel che riguarda la guerra del ’40, posso dire che non sono mai stata colpita dai bombardamenti. I paesi nella mia valle erano popolati solo da donne, vecchi e bambini.

Il mio ricordo più vivo però è la partenza di mio fratello, che non aveva nemmeno 20 anni, per la campagna in Russia. Da là scrisse poche lettere precisando che era autunno, ed era già molto freddo e, con le scarpe di cotone che aveva, non sapeva come passare l’inverno; dopo tre mesi non ricevemmo più nessuna notizia, solo il comunicato che era disperso. Il mio più grande desiderio sarebbe avere un pugno di terra di quell’ansa del Don dove credo sia sepolto mio fratello; questo era anche il desiderio dei miei genitori che sono morti straziati per il dolore di averlo perso, ricevendo in cambio una medaglia di ferro ed una misera pensione.

 

L’8 settembre 1943, finita la guerra, i soldati scappavano ed un altro mio fratello, che era soldato a Massa Carrara, ritornò a casa a piedi perché in treno sarebbe stato molto pericoloso, ma arrivò con i piedi tutti rovinati. Vederlo per noi fu una grande consolazione, durata poco però, perché doveva presentarsi al comando del paese; lui ed altri compagni non si presentarono per paura dei lager e scapparono sui monti, ma ad un segnale convenuto sarebbero ritornati. Una domenica in chiesa arrivarono i carabinieri che, non trovando i ragazzi, presero i loro padri. Fu dato allora il segnale d’allarme e i ragazzi scesero dalla montagna, si consegnarono ai carabinieri e vennero trattati come delinquenti. Furono portati a Trento e destinati al campo di concentramento di Auschwitz. Non so se per fortuna o per miracolo, il treno non partì e dopo un po’ di tempo ritornarono a casa.

La guerra non fa bene proprio a nessuno. A voi ragazzi dico di star lontani dai guai, dalla droga, ecc., perché con la salute e la buona volontà si riesce ad avere tutte le conquiste che la nostra vita merita.

 

testimone: Giuseppina Casarotti

anno di nascita: 1926

provenienza: Val di Sole

autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Il 4 novembre 1944 mi trovavo in ufficio ad Avio presso il municipio, dove lavoravo come impiegata. Verso le ore 11:00 sentimmo degli aerei bombardieri americani, che in formazione sorvolavano la valle. Sopra Borghetto, infatti, sganciarono un numero imprecisato di bombe che colpirono il paese e la ferrovia. Cominciò l’evacuazione, ricordo la lunga fila di carri sulla strada, verso Mama d’Avio, colmi di masserizie e di persone impaurite, bambini che piangevano vicino a qualcuno che li aveva recuperati. La gente in quell’occasione si era riversata a Mama, ad Avio ed in qualche località della montagna vicina, per essere più sicura e protetta nel caso di ulteriori bombardamenti. La posizione di Borghetto era d’importanza strategica perché al confine tra la provincia di Trento e Verona; inoltre, strade, ferrovie e fiume correvano paralleli e vicini.

Avrò sempre molta riconoscenza nei confronti degli abitanti di Avio che ospitarono me e la mia famiglia, così potemmo constatare la solidarietà di persone generose.

 

testimone: Bianca Sarti

anno di nascita: 1923

provenienza: Avio

professione: impiegata

autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Ricordo che nell'orto di casa mia c'era una vasca per la raccolta dell'acqua piovana. Era stata coperta con delle travi e con dei legni perché fosse mimetizzata e, quando gli aerei bombardavano la ferrovia, si scendeva in questa vasca per ripararci da eventuali schegge.

Io abitavo a Vigo, in cima al paese; era un posto abbastanza riparato e tutti i giorni arriva la signora Orsi, di famiglia signorile, con i figli perché nel centro del paese dove abitavano non si sentivano sicuri. Da noi era ospite anche la famiglia Bandera, che abitava al Vo’, ma era sfollata.

All'arrivo degli aerei ci riparavamo tutti nella vasca oppure nella stalla con il soffitto a volta reale. La sera c'era sempre il coprifuoco, le luci dovevano essere tutte spente. Una sera, vicino a casa mia, una signora lasciò la luce accesa in cucina e la finestra aperta, in quel momento passò Pippo, un aereo alleato, e sganciò una bomba colpendo il pullman della ditta Peterlini, parcheggiato nel cortile della casa. Questo per noi fu il momento peggiore perché sembrava crollasse tutto.

 

testimone: Gianna Tessaro

anno di nascita: 1930

provenienza: Avio

autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Ricordo il bombardamento sul paese di Marco del 5 novembre 1944.

Gli abitanti avevano costruito tanti rifugi antischegge: erano grosse buche scavate nel terreno, in cui si potevano rifugiare sette-dieci persone. Di solito si trattava di una famiglia intera. Poi le buche erano coperte con delle assi di legno e queste, a loro volta, venivano nascoste da frasche e fogliame. Il nostro rifugio lo aveva costruito il mio nonno Giovanni e, quanto la sirena della Montecatini suonava l’allarme, tutti scappavamo dalle case e andavamo nei rifugi, perché gli aerei alleati ci potevano bombardare. Passato il pericolo, la Montecatini suonava il cessato allarme, la sirena aveva un suono diverso, e allora tornavamo nelle nostre case. Un rifugio, tuttavia, ci poteva difendere dalle schegge delle bombe, ma se una di queste lo avesse centrato non sarebbe stato possibile salvarsi.

Il paese di Marco veniva preso di mira perché era situato lungo la ferrovia del Brennero e vicino ad una polveriera, quindi era considerato zona d’importanza strategico-militare. Nei pressi della polveriera c’era un grosso masso, sotto il quale era stato scavato un rifugio antischegge, dove quel 5 novembre si rifugiarono due mamme, una con due figlie e l’altra con una, e quattro carabinieri. Ma l’aereo bombardò la zona intorno alla polveriera e una bomba centrò quel rifugio, uccidendo le donne, le loro bambine e i militari. Nel paese si parlò molto di questo fatto.

Le cinque donne e tre dei carabinieri uccisi sono attualmente sepolti nel cimitero di Marco, mentre l’altro carabiniere si trova nel cimitero del paese d’origine.

 

testimone: Vilma Battisti

anno di nascita: 1933

provenienza: Marco di Rovereto

autore dell’intervista: Vincenzo Lupoli

data dell’intervista: dicembre 1997

 

 

 

  Durante la guerra nel paese di Sabbionara furono distrutte diverse case a causa dei bombardamenti. Dove ora c’è il cimitero, allora c’era la base tedesca. Ogni sera passava il Pippo che se vedeva una luce bombardava. Durante la guerra ci nascondevamo nei boschi dove c’erano i rifugi, per sfuggire agli aerei tedeschi. Un giorno, mentre scappavo da un bombardamento, salii nel bosco vicino al castello, là c’era il mio rifugio, ma vidi che era stato colpito e distrutto, così fuggii più forte che potevo e mi nascosi sotto casa mia.

 

testimone: Bruna Sega

anno di nascita: 1926

provenienza: Sabbionara

professione: contadina

autore dell’intervista: Dario Fumanelli

data dell’intervista: marzo 1998

 

Io sinceramente non avevo molta paura, mia sorella invece era terrorizzata.

Di notte veniva il Pippo, allora dormivamo in cantina, quello sì che mi faceva paura! Ma non c’era niente da fare, la guerra è guerra.

 

testimone: Delia Perotti

anno di nascita: 1920

provenienza: Avio

professione: casalinga

autori dell’intervista: Karin D’Alessandro, Monica Emanuelli, Vincenzo Lupoli

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Nel 1942, all'età di quindici anni, lavoravo nell'azienda agricola del signor Aldo Tomasoni, ma dovetti interrompere il mio lavoro quando mio fratello Albino partì militare.

Avio costituiva in quel periodo un'importante retrovia dell'esercito italo-tedesco, impegnato sui altri fronti. C'erano diversi ufficiali e soldati tedeschi che si occupavano di organizzare la sussistenza delle truppe, a cominciare dalle persone inserite nella TODT (una specie di genio civile) ad altre che coordinavano i trasporti e la fornitura del bestiame.

Dove oggi si trova il parco giochi di Sabbionara, c'era un campo di prigionia di grosse dimensioni, dove c’erano uomini, quasi tutti di origine slava, alloggiati in lunghe baracche di legno. I soldati tedeschi avevano invece occupato le case dei residenti, comprese stalle e cantine.

La popolazione era in quel periodo composta da donne, bambini, adolescenti e uomini al di sopra dei cinquant’anni, tutti gli altri erano in guerra.

I prigionieri fisicamente validi erano impiegati nei lavori di ultimazione del canale Biffis, nel tratto Sabbionara-Mama, e partivano dal campo in squadre di duecento-duecentocinquanta uomini, ogni squadra scortata da alcuni militari armati.

 

 

Un ufficiale tedesco mi offrì l'opportunità di lavorare. Dovevo portare il pranzo ai prigionieri impegnati nei lavori al canale: ogni giorno, con il carro trainato da un cavallo, mi recavo al campo, entravo nelle cucine e caricavo i viveri che distribuivo lungo il percorso (ognuno era dotato della propria gavetta). Guadagnavo cinquanta lire al giorno che, allora, erano una bella sommetta.

Nel gennaio del 1944 fui reclutato nella TODT. Ci rimasi per circa due mesi, il tempo necessario per ottenere l'esonero tramite il signor Tomasoni, che mi prese nuovamente alle sue dipendenze.

Il fatto che più mi ha impaurito è stato quando, un pomeriggio dell'autunno del 1944, il signor Tomasoni mi mandò in bicicletta ad Ala, al Caffè Commercio, a consegnare un campione di vino: stavo nel bar con la proprietaria, quando entrarono due tedeschi delle SS armati di mitra che mi chiesero i documenti. Li avevo lasciati a casa, unitamente al foglio di esonero. Mi gridarono: "Tu partigiano! In prigione!"

Pensai che era finita. Lungo la strada che portava alla loro caserma incontrai un mio cugino che lavorava ad Ala in ferrovia ed ebbi il tempo di chiedergli di avvertire la mia famiglia. Mi sbatterono in una cella, dove c'era già un altro prigioniero, che disse di essere contento di avere compagnia nel viaggio in Germania, previsto per il giorno seguente.

Due ore dopo suonò il campanello della caserma e udii la voce di un ufficiale tedesco che abitava dal signor Tomasoni: aveva portato il foglio di esonero. Fui rilasciato.

Non posso spiegare a parole la gioia che provai: saltai sulla bicicletta e mi diressi verso Avio a gran velocità, con la nuova paura di non arrivare a casa prima del coprifuoco. Tutto finì bene, ma dovete sapere che quel viaggio fu proprio un calvario, perché a Sdruzzinà forai una ruota e fui costretto a percorrere, sempre di corsa, ma a piedi, una gran parte di strada.

A parte questo episodio, posso dire che i tedeschi mi hanno sempre trattato bene e se volevano qualche cosa la chiedevano per piacere: noi trentini eravamo ben considerati. Qui la gente viveva abbastanza bene e in genere c'era il necessario per tirare avanti.

 

Ricordo l'intensa attività degli aerei alleati:

Ricordo la bomba sganciata una notte da Pippo sulla piazza della chiesa di Avio che uccise un soldato tedesco di guardia.

Un altro fatto che mise in pericolo la mia vita fu quando, con un mio amico, andai a pescare nell'Adige. Il mio amico lavorava per le SS nella costruzione di bunker e aveva portato a casa un po’ dell'esplosivo che usava normalmente nel suo lavoro. Lo fece scoppiare in acqua, provocando una gran moria di pesci. Mentre noi raccoglievamo le trote - una pesava almeno quattro chili - sentimmo il rombo degli aerei: erano due caccia americani, che chiamavamo picchiatelli, e ci stavano puntando. Ci sdraiammo immediatamente a ridosso del muro che delimitava l'argine, appena in tempo per sentire i proiettili che ci sfioravano; ciò si ripeté in due ulteriori passaggi a bassissima quota, prima che i piloti desistessero.

Pensando al pericolo corso, quelle trote ci sembrarono veramente squisite, anche se l'incoscienza della nostra età aveva messo in grave pericolo le nostre vite.

 

Ora concludo con il ricordo del giorno della liberazione. C'era una gran confusione: le campane suonavano a festa, i tedeschi scappavano, la gente felice festeggiava.

Un solo americano entrò in paese: si diceva che avesse sbagliato strada perché si era allontanato dalla sua divisione che dal lago di Garda saliva verso Trento. Ricordo la sua prestanza fisica e la sua bellissima divisa. Faceva provare a tutti il suo fucile, le munizioni finirono in fretta e, dopo qualche giorno di grandi sbornie, sparì dalla circolazione.

 

testimone: Luigino Cristoforetti

anno di nascita: 1927

provenienza: Avio

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Mi ricordo i picchiatelli: venivano da Bes, verso le 10:00 la mattina, passavano da Brentonico e poi da Castione. Volavano sopra il Monte Giovo e poi scendevano in picchiata per bombardare la fabbrica Montecatini - che produceva alluminio per la Germania - il ponte sull’Adige o la stazione dei treni di Marco. Erano tre o quattro aerei alleati.

Io quasi tutte le mattine andavo con le mie sorelle per legna nei boschi, ma dovevamo rientrare entro le ore 10:00 perché sapevamo che arrivavano i picchiatelli. Altrimenti andavamo in un rifugio, in un "coel" - una specie di grotta - ci sedevamo sulla paglia aspettando che passassero i bombardamenti.

Ricordo un giorno... era il 4 dicembre 1944. Nel bombardare la fabbrica Montecatini, gli aerei colpirono Besagno e distrussero la casa dei Dalrì. Rimase intatto solo un quadro della Sacra Famiglia, ancora oggi conservato da privati.

La notte non dormivamo nelle nostre camere, per paura del Pippo, allora andavamo in cantina, sui letti fatti con foglie di pannocchie. La cantina aveva il soffitto fatto a volta e le mura spesse e robuste.

Una volta mio padre era stato trattenuto dai tedeschi a lavorare alla Montecatini per otto-dieci giorni di seguito, ricordo che mia madre aveva paura che non tornasse più. Una di quelle notti noi eravamo in cantina e una mia cuginetta piangeva e non si addormentava. Bussarono alla porta tre tedeschi, noi sentimmo le loro voci che dicevano frasi incomprensibili e avevamo paura. Mio zio aprì la porta e spiegò che ci trovavamo in cantina per paura dei bombardamenti e che la bambina piangeva per la fame. Allora i tre se ne andarono e noi tirammo un sospiro di sollievo.

Sopra Castione, a tre o quattro chilometri, in località Bordina, i tedeschi avevano un campo e tutti i giorni scendevano in paese a lavarsi e a prendere l’acqua alla fontana in piazza. Ma non erano cattivi. Erano solo molto affamati, come del resto lo eravamo noi. Delle volte qualche paesano dava loro polenta e latte.

Nel 1943, a Brentonico, in località Castello Dos Maggiore, c’era un gruppo di ragazzi che pascolava le capre. Trovarono un ordigno e cominciarono a giocarci; poi due di loro tornarono a casa con il mulo, gli altri decisero invece di ricavare il ferro dall’ordigno, per poi venderlo allo "strazer". Ma l’oggetto esplose e uno dei ragazzi morì sul colpo.

 

testimone: Nora Piazza

anno di nascita: 1929

provenienza: Castione di Brentonico

professione: contadina

autore dell’intervista: Ivan Benvenuti

data dell’intervista: maggio 1998

 

 

 

Ricordo che avevamo i vetri pitturati di blu, per oscurare meglio gli appartamenti e proteggerci dai bombardamenti. Ero sul fior fiore della mia gioventù, a quel tempo, non ho brutti ricordi. Prendevo un po' tutto alla leggera, non avevo paura. Quando passava il picchiatello andavo fuori a guardare, come "‘na sema", ma non scappavo mai. Mio padre aveva fatto un rifugio sotto terra.

Ricordo una notte, quando il fuoco del ponte bombardato bruciava...

Si dormiva nelle stalle perché mia madre aveva paura del Pippo e voleva proteggere noi, i suoi figli; allora la sera portavamo giù i materassi. L’aereo buttava i bengala, per vedere se c’era qualcuno.

In bottega non si poteva acquistare quello che si voleva; ci davano una tessera con i bollini e potevamo andare a comprare un etto di zucchero, un etto di pane...tutto con i bollini. Allora facevamo mercato nero: se avevamo tanto zucchero lo davamo ad un’altra famiglia e questa ci dava, ad esempio, la pasta. Non stavamo male. Noi contadini avevamo tanta roba in campagna: patate, fagioli, farine e ci arrangiavamo. Ma lo zucchero, l’olio e altri prodotti dovevamo acquistarli. Il pane lo facevamo in casa, con la farina di nostra produzione. Finiti i bollini non potevamo comprare altro, ma ci si arrangiava ugualmente barattando con le persone.

La guerra è brutta per tutti.

C’era la TODT, una volta sono venuti a casa mia a prelevare mio fratello che si era nascosto, l’hanno preso a calci, portato ad Ala e messo in prigione. Noi siamo andati a portargli da mangiare, poi l’hanno rilasciato e mandato a lavorare. Guai se qualcuno stava a casa dal lavoro, sotto i "todeschi"! Dopo la S. Messa, all’uscita della chiesa, caricavano sui camion uomini e donne e li portavano a lavorare, ad aggiustare le strade bombardate, ecc.

Ricordo che una volta avevo portato le mucche a bere alle fontane e sono arrivati i tedeschi a prelevare la gente; ho abbandonato le bestie e sono andata a nascondermi dietro un portone. Quei soldati hanno incontrato una mia sorella che teneva in braccio un fratellino più piccolo e le hanno chiesto: "Dove sono i tuoi?"

"Son mi sola!" ha risposto lei e l’hanno lasciata andare.

Quella è stata l’unica volta in cui ho avuto un po' di paura.

 

testimone: Ida Francesconi

anno di nascita: 1928

provenienza: Avio

professione: contadina

autore dell’intervista: Vincenzo Lupoli

data dell’intervista: maggio 1998

Una volta stavo andando alla Cassa Malati di Trento per un controllo. Ad un certo punto ho sentito arrivare gli aerei, i picchiatelli. Hanno cominciato a bombardare. Mi sono rifugiata in una chiesetta e poco dopo è cascata giù una bomba, ma non mi ha colpita, per fortuna. Sono arrivati i soccorsi alla cassa Malati, dato che c’erano state molte vittime. Così i miei genitori credevano che fossi morta anch’io...

Senza poterli rassicurare, sono partita da Trento a piedi, assieme ad altre due donne, eravamo scalze e dal mal di piedi non potevamo mettere le scarpe. Abbiamo incontrato un vecchietto con un carretto che ci ha chiesto: "En do né bele putele?"

"Nem a casa" abbiamo risposto.

"En do abité?" ha fatto lui.

"A Roveredo."

"Porete! Ve porto en toc," ha detto "però fin a Roveredo no vegno."

Così ci ha portare per un pezzo. Finalmente sono arrivata al mio paese, ma temevo che ai miei, vedendomi, venisse un colpo, dato che mi credevano morta. Allora è andato il parroco ad avvertirli che ero viva e che stavo arrivando. Ricordo mia madre, ah, se la ricordo!

Durante l’occupazione tedesca sono stata alla Mendola, alla mensa ufficiali, dove servivo ai tavoli. Ricordo quei poveri soldati italiani: quanta fame avevano! Erano malvestiti e stracciati.

Una sera io, mia sorella e la cognata di mia sorella siamo uscite dalla camera perché sentivamo dei rumori: erano due tedeschi che volevano entrare in camera nostra.

"Ah, no," ho detto "voi no vegnì en camera!"

Abbiamo chiuso la porta e messo il letto davanti; poi mi sono messa in piedi sulla finestra ad urlare aiuto, mentre le mie compagne tenevano il letto. Ci hanno ricoverate all’ospedale militare per lo spavento preso. E’ venuto su il capitano, abbiamo aperto la porta e gli abbiamo spiegato che quei due tentavano di entrare in camera, ma loro negavano. La mattina dopo quel capitano ed altri ufficiali ci hanno chiesto che cosa ci avevano fatto i due soldati e noi abbiamo spiegato che non era successo niente. Ma ho detto che se fossero entrati nella nostra camera mi sarei buttata dalla finestra. Allora li hanno presi e mandati in prima linea. Dopo abbiamo saputo che erano sposati, ma sono morti tutti e due in guerra.

"Perché ha fatto questo?" abbiamo chiesto al capitano. Ci ha risposto che non poteva perdonare il loro comportamento, altrimenti altri avrebbero tentato di fare la stessa cosa.

Ah, ne abbiamo passate in guerra! I bombardamenti...ma io non sono mai scappata, mia madre sì, perché aveva paura.

Ho lavorato presso i tedeschi a Torbole; partivamo da Riva, dove c’era mia sorella...una mattina sono caduta lunga distesa per terra perché correvamo, io e la cognata di mia sorella, dato che eravamo in ritardo. C’erano i sassolini in terra allora, non l’asfalto, e mi sono rasata tutta una gamba, così mi hanno portata in infermeria, dove mi hanno medicata e fasciata. La mattina seguente un soldato tedesco mi ha chiesto: "Oh, cosa avere fatto, Vali?"

"Eh, caro, mi sono fatta male alla gamba!" ho risposto "E tasi!"

testimone: Valeria Corradi

anno di nascita: 1921

provenienza: Avio

professione: operaia

autore dell’intervista: Vincenzo Lupoli

data dell’intervista: maggio 1998

 

Un episodio della guerra che ricordo è quello dello scoppio di un treno. Nel mese di aprile o maggio del 1944 partì un treno merci dalla Germania diretto a La Spezia; era carico di bombe, mortai, obici della marina ed altri esplosivi, ed era scortato da soldati della Decima Mas, "specialità" della Repubblica di Salò che era stata costituita dopo l’8 settembre 1943.

Il convoglio viaggiava regolarmente ma, verso Rovereto, purtroppo un ceppo del treno cominciò a stringere, a surriscaldarsi, emise prima delle scintille, poi delle fiamme che incendiarono la base di un vagone. Quando transitò da Avio, il capostazione vide le fiamme e, sapendo che il mezzo portava un carico speciale, telefonò alla stazione di Borghetto perché lo fermasse per eventuali controlli. Ma all’altezza del paese cominciarono ad esplodere delle bombe, facenti parte del carico. Il macchinista, visto l’andamento del viaggio, tirò il freno, praticamente nello spazio che oggi si trova tra l’albergo Monte Baldo e lo stabilimento PAF. In quel momento cominciarono a scoppiare i vagoni pieni di esplosivo e ci fu un fuggi fuggi della scorta, del macchinista, ecc. Qualche pezzo di vagone fu trovato in seguito nei pressi di Belluno Veronese, oltre l’Adige, tanto per rendersi conto di quanto era stata potente l’esplosione. Tutti scappavano verso la zona Dos de Palui, chiamata così per una piccola palude che c’è nelle campagne di Borghetto. Gli scoppi furono tremendi perché coinvolsero interi vagoni pieni di esplosivo. Nel frattempo il comandante della scorta, un giovane sottotenente della Repubblica di Salò, di corsa raggiunse i macchinisti e puntò contro di loro la pistola, obbligandoli a tornare ai propri posti; il perché lo sapeva solo lui. Tornarono indietro, salirono sulla locomotiva e lui, strisciando sotto il treno, staccò dagli altri i due vagoni vicini alla locomotiva. Salì sopra questa e fece andare avanti il treno fino a Peri, dove spiegò che i due vagoni abbandonati contenevano dei siluri, i quali, se fossero scoppiati, avrebbero potuto mandare all’aria i paesi di Belluno, Mama, Borghetto, S. Leonardo ed altri. Quel giovane sottotenente fu premiato e decorato con una medaglia d’argento per il suo valoroso intervento. Pensate che di esplosivo se n’è trovato fino a dieci-venti anni dopo la guerra giù nella palude, nei campi, perfino su per i boschi.

 

Dopo il 4 novembre 1943, quando venne bombardata per la prima volta la zona di Ala e Borghetto, cambiò completamente il modo di vivere. Tutti scappavano dai paesi vicini alla ferrovia e si rifugiavano in luoghi più distanti, come dentro la valle di Avio oppure su per le montagne della Lessinia. Tutti cercavano rifugio, tranne quelli che dovevano lavorare, come me, per l’organizzazione TODT. Questa organizzazione era un ente paramilitare tedesco che incorporava tutti gli anziani non più abili per la guerra, bensì per il lavoro, e i ragazzotti come me di 15-16 anni, che ancora dovevano andare a fare il militare e aspettavano la cartolina precetto con l’ordine di partire.

Fra Sdruzzinà e Ala, dove c’è adesso la trattoria Campagnola, c’era la prima fossa anticarro: era larga circa 4 metri, fatta di cemento armato, e fonda altri 3-4 metri, sui due argini erano incementati dei pezzi di lamiera, tipo binari delle ferrovie, per ostacolare il cammino dei carri armati. Altre fosse c’erano tra S. Pietro e S. Martino, all’inizio della Val di Ronchi; a Marani erano state piantate delle postazioni per cannoni fissi di 88 mm. Poi c’erano i Tobruch, che erano di forma esagonale e racchiudevano un nido di mitragliatrici, inoltre c’erano postazioni per pezzi d’artiglieria e bunker. Questi ultimi erano delle botti di circa 2 metri di larghezza e 8-10 di lunghezza, interrate 7-8 metri, coperte 2 metri di cemento armato, avevano un portello di entrata e due di uscita in caso di emergenza ed erano collegati tra di loro con i fili del telefono. Dentro questi bunker c’erano i posti comando e perfino brandine per far dormire cinque o sei fra specialisti, comandanti, ecc.

Allora gli americani venivano qui a bombardare con i Thunderbold. Erano degli apparecchi con carlinga rossa, venivano giù in picchiata, mitragliavano e bombardavano.

Nella zona di Ala nel 1944-1945 ci furono circa 170 incursioni aeree, ma io riuscii sempre a portar fuori la pelle. Così la vita sotto i bombardamenti continuò fino all’aprile 1945.

 

Il 25 aprile 1945 andammo ad Ala, ma non c’era il camion che ci aspettava nel piazzale per portarci al lavoro, e di tedeschi non se ne vedevano. Andammo in piazza S. Giovanni, dove c’era il centro di comando della TODT. Là c’era un bolzanino, un certo Christian, che ci diede i quattro soldi che ci aspettavano e disse di andarcene a casa perché la guerra era finita. Noi contenti e felici ritornammo a casa, sperando di vedere qualcosa che cambiava, invece non riuscivamo ad avere notizie precise perché non avevamo radio, telefoni, ecc.

Tutti si affrettavano a riparare i tetti delle case, alcuni si rubavano le tegole l’uno con l’altro perché non si trovavano o utilizzavano anche semplici pezzi di cartone.

Passarono i giorni e finalmente il 2 o 3 maggio passò una camionetta americana con a bordo dei militari, i quali dicevano che era finita la guerra, ma non potevano proseguire perché le vie di comunicazione erano state distrutte. Dopo il 4 maggio cominciammo a vedere le prime ruspe spianare la strada e questo ci fece capire che la guerra era finita veramente, era finita con la "F" maiuscola.

Era stato inventato un proverbio per i bombardamenti che diceva: "Magna, bevi e godi ma sta lontam dal pont dei Vodi."

Il ponte dei Vodi era a Trento, di giorno veniva bombardato e di notte aggiustato, così poteva passare qualche treno fino al mattino presto perché poi il ponte veniva preso di mira.

Anche di notte però c’erano problemi perché passava il Pippo a rompere le scatole, lanciando le bombe di medio calibro dove capitava, di grosso calibro sulla ferrovia. Alcuni giorni lanciavano le cosiddette bombe a farfalla, alcune volte anche dei bidoni pieni di queste ultime e bastava toccarle per andare in pezzi. Un mio amico purtroppo è rimasto senza mano per spostare una di queste bombe dal tetto di una casa. Noi ci divertivamo a farle scoppiare lanciando i sassi su di loro.

 

testimone: Sergio Girelli

anno di nascita: 1925

provenienza: Borghetto

professione: poliziotto

autore dell’intervista: Ivan Benvenuti

data dell’intervista: aprile 1998

 

  In località Vegron, corrispondente all’attuale parco giochi di Sabbionara, c’era il campo prigionia 113. A causa della mancanza della forza lavoro, in quanto i nostri soldati erano sui vari fronti, i prigionieri erano impiegati nello scavo e nella costruzione del canale Biffis.

 Il 4 aprile 1942 giunsero al campo dei prigionieri russi e, alcuni giorni dopo, precisamente il 19 dello stesso mese, giunsero i fanti italiani al comando del maggiore Giordani a fare la guardia ai prigionieri. Il 6 giugno arrivarono duecento prigionieri jugoslavi e il 5 settembre altri settanta prigionieri australiani e neozelandesi.

Il 21 aprile 1943 giunsero al campo dei prigionieri inglesi che furono mandati a lavorare alla fabbrica Montecatini di Mori.

Dopo l’8 settembre, precisamente il 9, i tedeschi presero il controllo del campo; alcuni prigionieri delle forze alleate riuscirono a scappare, ma altri furono deportati nei lager in Germania. Ricordo che ad Avio erano stanziati lavoratori, alcuni anche con le famiglie, provenienti da altre parti d’Italia; questi non dissero niente della loro origine non trentina, altrimenti sarebbero stati deportati dai tedeschi.

Una volta ho partecipato al funerale di un certo Michele Cavagna, morto sotto i bombardamenti del Pippo, proprio mentre, di notte, stava lavorando per ordine dei tedeschi, assieme ad altri paesani, al ripristino della ferrovia danneggiata dalle bombe. In quell’occasione suonò la marcia funebre una banda cecoslovacca; ricordo un musicista molto bravo che suonava il genis, cioè un flicorno contralto...era veramente eccezionale.

I componenti della banda - credo fossero prigionieri cecoslovacchi - abitavano in alcune case del paese e facevano vari concerti nelle piazze, molto apprezzati dai paesani.

Ricordo che i ragazzini di 10-12 anni osservavano i punti di sganciamento delle bombe degli aerei e capivano se quelle avrebbero colpito o meno la ferrovia.

 

Nella chiesa della Madonna della Pieve era stato messo un quadro che recava le foto di molti dei nostri soldati impegnati in guerra: i loro familiari speravano in questo modo che fossero protetti dalla Vergine e che potessero così ritornare alle loro case sani e salvi. Ma una mamma fece di più...riuscì a inserire una piccola foto del figlio alpino dentro una fessura del piedistallo fatto di assi di legno che sosteneva la statua. Non mi spiego come abbia fatto, in quanto la Madonna si trovava in una nicchia posta sopra l’altare. Sul retro della foto c’erano scritte le seguenti parole: "Proteggi questo mio figlio" e seguivano il nome e cognome della donna.

Ho ritrovato casualmente quella foto nel 1975, quando la statua è stata prelevata, per timore che venisse rubata, dalla commissione dei lavori in occasione del restauro di un pilastro e portata a casa mia, dove l’ho devotamente custodita. Precedentemente, infatti, dei ladri avevano portato via due tele, una raffigurava S. Giovanni Battista e l’altra S. Pietro e Paolo.

Tramite un conoscente, in questi ultimi tempi, sono riuscito ad individuare il soldato della foto, che è di Chizzola; con gioia ho potuto constatare che è tornato sano e salvo dalla guerra e che è ancora vivo.

 

testimone: Dario Righetti

anno di nascita: 1924

provenienza: Avio

professione: aiuto calzolaio\studente

autore dell’intervista: Vincenzo Lupoli

data dell’intervista: maggio 1998

 

Nel 1943 ad Avio è arrivato segretamente un ufficiale angloamericano che parlava bene sia l’italiano che il tedesco ed aveva la funzione di trasmettere ai comandi alleati i dati relativi ai movimenti delle truppe, ai bombardamenti e alle operazioni militari in generale. E’ stato in paese dal dicembre 1943 fino alla fine della guerra. Noi non potevamo parlare, eravamo sotto giuramento, pena la morte. Non conosco il suo nome e non posso dire dove alloggiava, per paura che ci possano essere delle ripercussioni negative in seguito ad una tale rivelazione.

 

Nell’autunno-inverno 1944 è venuta qui ad Avio la banda cecoslovacca. Già c’erano tanti cecoslovacchi che abitavano in alcune case del paese, perché loro erano mobilitati sotto i tedeschi, però senza armi, e facevano servizio di trasporto vivande e munizioni. Anche la banda era militarizzata, ma senza armi, era di Praga, apparteneva all’esercito cecoslovacco, teneva concerti e partecipava a feste, quando non c’erano i bombardamenti. Le prove venivano fatte nella Pieve, laddove c’era stato, durante la prima guerra mondiale, un lazzaretto per gli affetti da malattie infettive. Quel luogo era lontano dalla ferrovia e dalle strade. Io andavo sempre a trovarli ed una sera, uno degli ultimi giorni della guerra, i musicisti mi hanno invitato ad una festa. Sotto i portici della Pieve c’erano dei soldati tedeschi con una batteria di cannoni; quel pomeriggio avevano sparato tutte le munizioni su per la montagna per finirle e non lasciarle agli americani. La sera in cui la banda ha fatto quel festino qualcuno ha portato via le armi ai tedeschi, allora questi sono scappati con i cannoni e nessuno li ha più visti. Invece i cecoslovacchi sono stati là ancora qualche giorno, fino alla fine della guerra.

 

Ottone Bonfante, della classe 1923, abitava al Vo’ e l’8 settembre è scappato dal servizio di leva, ma non so dove faceva il militare. Dal Vo’ passavano le tradotte di volontari prigionieri italiani. Su un treno, pieno di soldati, c’erano i militari della Divisione Monte Rosa, portavano il cappello da alpino ed erano armati. Ottone ha detto loro che ormai la guerra era finita, che era meglio andassero a casa, allora un ufficiale italiano l’ha preso e con altri l’ha martoriato fino alla morte. Ha tentato di soccorrerlo anche suo cognato, tenente medico, ma non c’è stato niente da fare perché ormai lo sfortunato era privo di vita.

 

testimone: Gino Masserini

anno di nascita: 1923

provenienza: Avio

professione: contadino

autore dell’intervista: Michela Fracchetti

data dell’intervista: giugno 1998

 

 

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