RICORDI DI UNA GIOVANE SFOLLATA
Intervista a Serena Tiella
autrice del libro "Perché vi amo"
Sono qui per rispondere, come da vostro invito, alle vostre domande. Spero di farlo adeguatamente perché io ho una certa età, forse anche troppa, e quindi c’è una notevole distanza generazionale tra me e voi. Nel presentare uno scritto che racconta l’esperienza di quando io avevo più o meno la vostra età, mi rendo conto che sono passati tanti anni e che i ragazzi di adesso non sono quelli di allora. Però, poiché mi è capitato in altre occasioni di incontrarmi con ragazzi delle medie, addirittura in Val di Fiemme, con i bambini delle elementari, devo dire che mi sono trovata molto bene. Spero che sia così anche ad Avio e, soprattutto, che sia così per voi e che questo incontro vi serva a qualche cosa.
Come mai ho scritto questo libretto? Io non sono una scrittrice di professione, sono una sindacalista. Sono stata anche un’insegnante ed ho avuto degli ottimi allievi che provenivano da Avio e che ricordo con particolare simpatia.
Perché si scrive un libro? Ci sono tanti motivi, ma io l’ho scritto su richiesta. Questo libretto di memorie mi è stato chiesto dagli abitanti di Zaffoni, il paesino dove io ero sfollata.
Chi sono gli sfollati? Sono le persone che in un periodo di pericolo abbandonano il luogo dove normalmente vivono e si rifugiano in posti ritenuti più sicuri. Nel 1943 molti abitanti di Rovereto, specie quelli che abitavano vicino alla ferrovia - uno degli obiettivi principali dei bombardamenti - compresa la mia famiglia, decisero di andar via e di cercare rifugio in luoghi periferici. Il che non ha significato affatto stare in pace per quanto riguarda i bombardamenti perché bombe ne cadevano da tutte le parti. Noi, in particolare, eravamo in un posto che era sulla direttrice della contraerea, cioè delle grosse mitragliatrici che sparavano contro gli aeroplani nemici, e questi per non essere visti lanciavano bombe che facevano molto fumo. Inoltre buttavano giù anche altre cose, degli oggetti che deviavano i sistemi di puntamento. Quindi, non eravamo tranquilli da nessuna parte; anche noi sfollati siamo rimasti vittime di vari bombardamenti.
Quasi tutti i trentini si ricordano con orrore il bombardiere notturno Pippo, che girava nella notte e che veramente seminava il terrore. Era la cosa peggiore che potesse capitare, in quanto non aveva regole; mentre si poteva presumere che gli altri aeroplani bombardassero soprattutto la ferrovia o punti d’interesse militare, questo andava a cercare qualsiasi luce o lumicino. C’è gente che per avere acceso un cerino è morta.
Quindi noi siamo andati via da Rovereto e abbiamo cercato rifugio nei paesi sopra la città. Rovereto non è mai stata una grande città, tuttavia chi ci abitava era considerato un cittadino, perché aveva abitudini urbane. Per me, che amavo moltissimo la campagna e i suoi abitanti, la vita di sfollata è stata un’esperienza importantissima.
Soprattutto si viveva "veramente" nella campagna. Nessun pezzo di terra era abbandonato, la gente coltivava di tutto: frumento, patate, fagioli, mais, barbabietole, cibo sia per gli uomini che per gli animali. Oggi la nostra campagna è coltivata essenzialmente a vigne, però, e lo capite anche voi, che se si dovesse vivere solo con i prodotti delle viti non si potrebbe sopravvivere. Per fortuna durante la guerra si coltivava di tutto e noi abbiamo potuto avere qualcosa da mangiare.
Naturalmente i prodotti erano di chi coltivava la terra e i contadini erano veramente restii a tirar fuori qualcosa da mangiare per quella gente che veniva dalla città, che non aveva il campo, che non poteva produrre da sé patate, latte, farina o altro. Si facevano pagare bene i loro prodotti e non dimostravano certo solidarietà, anzi una specie di spirito di rivalsa nei confronti delle persone di città che, in tempi normali, avevano un posto di lavoro e un salario. La durezza di questo comportamento creava una certa situazione di scontro. Oggi tutto questo non è neanche immaginabile perché la situazione di un abitante di paese è molto simile a quella di un abitante della città.
Cinquant’anni dopo la fine della guerra gli abitanti di Noriglio, sollecitati dalla loro Circoscrizione, mi hanno chiesto di scrivere quel che mi ricordavo di loro. Quindi questo libretto è nato su richiesta degli abitanti dei paesetti dove ero sfollata, e che attualmente non costituiscono nemmeno un comune, in quanto fanno parte del comune di Rovereto. E’ per questo motivo che il mio libretto è pieno di nomi. Sono i nomi di persone vere ed a loro è stato dedicato, anche se molte ormai sono morte. Gli abitanti di allora sono nominati quasi uno per uno.
Nel suo libro dice che la vita senza guerra è più dura. Perché?
Questa è una frase che fa un po' effetto, perché uno si aspetta esattamente il contrario. A me è sembrato che, appena finita la guerra, la vita fosse diventata ancora più dura. Che cos’è che la guerra rende più facile? La guerra rende difficilissimo tutto: non c’è da mangiare, si può morire da un momento all’altro, si vive nella paura, ecc., ma semplifica enormemente i problemi. Con ciò, ovviamente, non voglio dire che bisogna far la guerra per essere felici, ma che i problemi comuni ai singoli, alle famiglie, ai gruppi e al paese intero, in una guerra così vasta, che coinvolge milioni e milioni di persone, sono ridotti all’osso.
In una guerra di tali proporzioni, il problema principale è riuscire a sopravvivere o dover morire, in quanto il pericolo di morte è continuamente presente; ma ciò semplifica enormemente gli altri problemi, li elimina perfino. Ricordo che noi la mattina dicevamo: "Stanotte ci è andata bene!"
Durante il giorno si andava nei rifugi, ma ci correvano dietro con le mitragliatrici anche lungo la strada. Esser vivi era una conquista di ogni giorno.
L’altra questione, per niente scontata, era: "Ci sarà o no da mangiare?"
E’ chiaro che ora il problema da noi non c’è , semmai esiste quello inverso, perché c’è troppo da mangiare. Noi vivevamo con la quasi assoluta certezza che non ci sarebbe stato il pane perché c’erano i bombardamenti, così molto spesso non arrivava, poi mancava la corrente elettrica e i forni non funzionavano.
"Ghe sarà el pan oppur nol ghe sarà?" si diceva. Avevo un calendario, che purtroppo ho buttato via, dove scrivevo: "Oggi pane/oggi no pane". Poi non c’era qualcosa di sostitutivo, come cracker, grissini, ecc., non c’era proprio nient’altro. Non esisteva niente di companatico, il prosciutto non ricordavo più che cosa fosse; a volte si trovava un unico tipo di formaggio fatto con dei residuati, perché le cose meno peggio andavano ai militari. Nei paesi, dove non si moriva di fame, c’era qualche volta un po' di carne, qualche coniglio o gallina. L’unica cosa che mi ricordo avevamo in abbondanza, durante gli ultimi anni di guerra, erano le patate; soprattutto l’ultimo anno c’era stata una buona annata e i contadini le davano, in cambio di qualcosa d’altro.
Quindi voi capite che se "il problema" ogni mattina è quello di andare a cercare da mangiare, tutto il resto è molto semplificato: rapporti interpersonali, questioni legate a dispiaceri dovuti all’amica o all’amico del cuore, non esistevano. Certo, i sentimenti esistono sempre, però alzarsi la mattina, ringraziare il cielo di essere ancora in piedi, andare a cercare da mangiare, andare a far legna nel bosco, rendevano la vita - e con essa i suoi problemi - ridotta ai livelli di sopravvivenza.
E’ chiaro che non voglio dire che sotto le bombe si è felici, ma che l’esperienza di guerra semplifica i problemi, li riduce all’essenziale.
Chi ha fatto questa esperienza si porta dietro tutta la vita la consapevolezza che ci sono dei problemi enormi ed essenziali, e che il resto può anche essere meno importante.
L’esperienza peggiore e più drammatica che si può fare nella situazione di guerra è quella della paura, del terrore di qualcuno che tu non vedi e che ti arriva dal cielo: una bomba, un aereo che ti mitraglia. Ho presente soprattutto l’angoscia notturna del Pippo, una paura che non abbandona più e rimane come una ferita che non si rimargina. Noi abbiamo avuto soprattutto paura dei bombardamenti; in altre zone d’Italia (non particolarmente in Trentino) c’era chi aveva anche paura che il vicino potesse sparargli, soprattutto durante lo scontro che ha lacerato famiglie e paesi interi tra repubblichini di Salò e partigiani .
Infine, se ricordate, il libretto comincia con un elenco di morti. Cioè, appena finita la guerra, nella mia famiglia sono apparse tutta una serie di disgrazie che mi hanno fatto dire che la vita senza guerra non è poi meglio di quella con la guerra.
Cosa provava lei, che veniva da una città, quando faceva lavori in campagna?
Mi sentivo grande. Il lavoro della campagna è un lavoro bellissimo perché tu fai qualcosa di cui vedi il risultato. Non c’è niente di più bello, secondo me. Dei lavori intellettuali non si vede il risultato. Gli aerei bombardavano, ma i contadini mettevano giù i semi e le piante crescevano anche sotto le bombe. Poi c’è anche un altro aspetto: andando ad aiutare mi davano qualcosa e portavo a casa da mangiare. Si aveva anche la ricompensa che in quel momento era la più adatta, quella che soddisfaceva dei bisogni assoluti.
Che differenza c’è tra un cittadino che svolge lavori in campagna e un contadino vero e proprio?
Una differenza di fondo. Un conto è che uno abbia la terra sua, di proprietà, un conto è avere un rapporto positivo e appassionante con la terra che nutre. Io non ho mai avuto il senso della proprietà e mai l’avrò. Il senso della proprietà non ce lo si toglie mai di dosso e si eredita.
Questa è la grande differenza, che però non impedisce di volersi bene ugualmente.
Chi non ha "la roba" non bega. Io forse li ho potuti amare perché come sfollata non avevo nessun motivo per litigare. Mentre tra di loro, anche se poverissimi, c’erano beghe per le proprietà e per i confini. C’erano comunque tra loro momenti importanti di solidarietà, ad esempio quando bruciava una casa.
Che sensazione provava ogni volta che sentiva cadere le bombe?
Di liberazione, perché se non ci resti sotto o non vieni ferito, la bomba caduta è la fine del pericolo. Noi, come del resto oggi tutti i bambini della ex Jugoslavia hanno imparato, riuscivamo a valutare la traiettoria delle bombe, poi non tutte le bombe scoppiano immediatamente, il terreno deve essere duro, bisogna che il percussore picchi contro qualcosa di consistente. C’erano bravissime persone che senza essere pagate andavano a far esplodere lontano le bombe inesplose...lo scoppio della bomba, una volta superato, era qualcosa di passato.
"Questa volta ce la siamo cavata, siamo vivi" dicevamo.
Vuoi sapere cosa si vede fisicamente? Si vede una gran luce, un po' come il lampo, e poi si sente il rumore, come il tuono. Essendo molto vicini, i due momenti sono quasi coincidenti: prima si vede una gran luce, poi si sente il rumore e si avverte lo spostamento d’aria. Se uno è in un’abitazione ha una sensazione simile a quella provocata dal terremoto. Il terremoto è forse anche peggio, perché é imperscrutabile, mentre la bomba si sa cos’è.
Come vi organizzavate prima dei bombardamenti?
Noi siamo stati bombardati dagli anglo-americani, i tedeschi erano qui come occupanti e non ci hanno ovviamente bombardati mai, non potevano autobombardarsi. Noi abbiamo avuto come nemici i cosiddetti Alleati, cioè i vincitori della guerra. Nemici nel senso che ci bombardavano; singoli o gruppi di persone erano certamente favorevoli a che questi vincessero la guerra, comunque chi ci bombardava erano gli anglo-americani.
Tranne il Pippo notturno, gli aerei del giorno avevano un certo orario. C’era il bombardamento della mattina, diretto soprattutto contro un grandissimo ponte che c’è a Lavis, in cui venivano adoperati cacciabombardieri leggeri che scendevano in picchiata, i picchiatelli, e si dirigevano sull’obbiettivo. Se io voglio colpire un obiettivo posso agire in diversi modi: dall’aria scendendo in picchiata sull’obiettivo o da alta quota calcolando la traiettoria delle bombe e sganciandole. Quest’ultimo sistema è meno preciso, nonostante gli strumenti tecnici avanzati. I picchiatelli venivano la mattina, verso le 10:00-11:00, quindi si cercava di non essere per strada. Poi, nelle prime ore del pomeriggio, venivano i bombardieri.
Per evitare di rimanere vittime, dato che la frequenza dei bombardamenti era diventata quotidiana, la mattina ci si alzava, si faceva da mangiare, si pranzava verso le ore 10:00 - la scuola era nel pomeriggio - poi si andava nei rifugi. Questi per noi erano delle caverne scavate dai soldati della prima guerra mondiale, e là si stava finché non era passato il bombardamento del primo pomeriggio. Quando ci si sentiva tranquilli si tornava a casa, anche se io prima andavo a scuola a Rovereto. Si cenava a base di patate e infine si andava a dormire.
Ma il Pippo negli ultimi periodi era proprio diventato insopportabile: buttava giù bombe a casaccio, c’erano stati molti danni e molta paura. Quindi andavamo a dormire nelle caverne, portando con noi le coperte: sotto mettevamo fascine di legna, sopra la paglia e sopra...noi, tutti insieme.
Si è mai divertita in tempo di guerra? Ha ancora giocattoli di quel tempo?
Certamente, i bambini si divertono sempre e comunque, anche con le bombe. Anzi, noi eravamo diventati degli esperti di bombe. Fra bambini si giocava, non esistono situazioni in cui i bambini non cerchino di giocare.
Ora non ho più il mio caricatore... credo che i miei genitori l’abbiano seppellito da qualche parte per toglierlo di circolazione. Di bellico avevo anche un elmo tedesco, una baionetta e un fucile che non sparava. Ero un po' bellicosa da bambina...
Come faceva a studiare e ad aver voglia di studiare durante la guerra?
Se c’era una cosa a cui io ero attaccatissima era proprio la scuola. Prima di tutto, in quel nostro mondo in grave crisi - non c’era neanche più da mangiare - la scuola c’era sempre ed è durata fino agli ultimi giorni della guerra.
Il 24 aprile 1945 a Rovereto c’è stato un bombardamento spaventoso, in cui non è stato risparmiato neppure l’ospedale, ci sono stati molti morti - anche se tante persone erano fuggite - ed inutili distruzioni. Ma io, anche quel giorno, sono andata a scuola. La scuola era sempre aperta.
Quando ero piccola mi trovavo in mezzo a generazioni cresciute ai tempi della dominazione austriaca, che nei confronti della scuola aveva dimostrato una certa serietà, anche se in alcuni casi poca elasticità, una rigidità "alla todesca", nel bene e nel male.
Noi eravamo dei bambini che andavano a scuola in condizioni drammatiche, la sera eravamo senza luce, ma facevamo ugualmente i compiti col lumino, tenendo il quaderno - quando questo c’era - sulle ginocchia. Bisognava andare a scuola perché questa era un dovere da non discutere.
Io questo dovere l’ho vissuto in senso buono, per me la scuola trasmetteva dei valori, ci parlava un linguaggio positivo. Io nel 1944-45 facevo la quarta ginnasio: il greco, il latino...ma non era forse un bene conoscere queste lingue di migliaia di anni prima che ci parlavano ancora? C’erano dei testi belli, scritti da persone vissute nell’antichità, che ancora ci trasmettevano messaggi, valori. Per me era una gioia andare a scuola e studiare, e quella sensazione la provavano anche i miei compagni.
Credo che la scuola sia sempre sede di valori e, quindi, io l‘amo anche adesso.
Com’è cambiata l’opinione pubblica nel momento in cui Mussolini è stato deposto e poi messo di nuovo al potere?
L’opinione dei giornali era unica: era quella del regime. Certo che quando Mussolini è stato deposto la gran parte della popolazione ha tirato un sospiro di sollievo. Bisogna comunque mettersi nei panni dei trentini, che non avevano mai fatto proprio il fascismo. Qui non c’è mai stata molta aderenza al tipo di ideale che il fascismo portava avanti, anche per merito, oserei dire, della vecchia influenza asburgica. Questo però non ha impedito a molti trentini di voler più bene ai tedeschi che forse erano "più cattivi" degli stessi fascisti. Quando Mussolini è stato ripristinato noi trentini eravamo stati occupati dall’esercito germanico e annessi alla Germania. Nel settembre del 1943 siamo diventati un pezzo di Germania, che arrivava fino ad Avio e Borghetto.
Noi, e questa la considero una gran fortuna, non abbiamo avuto la Repubblica Sociale. Perché considero ciò una gran fortuna? Gli italiani erano convinti di essersene liberati, ma il duce - anche se fragilmente - era stato rimesso in piedi, l’Italia era occupata dagli Alleati e dai tedeschi, il governo di Salò era considerato dai tedeschi un governo fantoccio. In questa situazione, la RSI è veramente riuscita a portare la guerra fra le famiglie, nei paesi, perché c’erano quelli che "stavano col duce" e quelli che avevano scelto la guerra partigiana. E le truppe di quel fragilissimo stato erano molto dure; nel Trentino meridionale c’erano squadre di ragazzi e uomini (TODT) che lavoravano per l’esercito tedesco ed erano comandate da soldati che erano stati reclutati nella Repubblica Sociale. Può darsi che qualcuno dei vostri parenti abbia fatto delle esperienze con questi repubblichini, ma per il resto, qui da noi, non ce n’erano. Noi eravamo tutti annessi ai tedeschi e non c’era quella divisione terribile che ha insanguinato la popolazione di altre parti d’Italia.
A lei piaceva come personaggio Mussolini?
Mussolini? Non mi è mai piaciuto. Per niente, neppure il suo aspetto fisico. Quando parlava, con quel suo modo, mi sembrava un po' sbruffone. Questi personaggi non sono degli stupidi, ma ricordatevi che quando qualcuno prende il potere bisogna sempre averne paura. Il potere è qualcosa di terribile.
Quale fatto ricorda di più della seconda guerra mondiale?
Ricordo un po' tutto. Il momento più brutto per me è stato forse l’8 settembre, perché non l’avevo capito. Gli italiani avevano distrutto l’alleanza con la Germania e a me questo sembrava un grosso tradimento. Solo a distanza di anni capisco che è stato un grande atto di saggezza, anche se assai male gestito.
Qualche bisnonno vostro ha considerato a suo tempo un tradimento il fatto che l’Italia, nel 1915, è entrata in guerra contro l’Austria. Traditore per eccellenza era considerato ad esempio chi, come Cesare Battisti, si era schierato contro gli austriaci.
Quindi io l’8 settembre l’ho vissuto come un tradimento.
Perché si era schierata con i tedeschi?
I miei nonni ricordavano e ammiravano la vecchia Austria, tutti se la ricordavano...poi avevo anche dei parenti austriaci. Da una parte c’era l’idea che i tedeschi fossero in gamba - idea che c’è ancora e che non è del tutto ingiustificata - dall’altra su di me, come su altri, aveva peso quel tipo di educazione sociale e scolastica che riteneva che i governi avessero sempre ragione e che l’alleanza con i tedeschi fosse positiva. La Germania vinceva dappertutto ed io mi ero fatta coinvolgere, forse perché avevo anche una vecchia simpatia austriacante di famiglia. Ero diventata, diciamolo pure, una fanatica della vittoria tedesca. Lo dico senza paura. Non è che andavo in giro gridando "viva Hitler", ma nutrivo simpatia per i tedeschi.
Nella zona dove lei era sfollata c’erano gruppi partigiani? Lei personalmente come ha visto il movimento partigiano?
C’era un gruppetto di ragazzi, nascosti sul monte Finonchio, che facevano una piccola guerra partigiana. Di loro posso raccontare un episodio.
Un giorno sono venuti a casa nostra a Zaffoni ed hanno chiesto a mio padre, che era un antifascista, come si poteva fare ad assaltare un gruppetto di tedeschi che stavano in un paese vicino, in servizio presso un osservatorio per contraerea. Bisogna dire che quei tedeschi erano delle persone assolutamente innocue, erano stanchi della guerra più di noi, avevano da mangiare e ne davano alla gente. Non erano per niente feroci. Però, se fossero stati stuzzicati, Dio sa cosa avrebbero fatto! Erano armati.
Ricordo che mio padre ha sconsigliato a quei ragazzi di andare ad assaltare dei tedeschi che non davano fastidio e che, anzi, erano utili perché controllavano gli aerei nemici. Un’operazione di quel tipo avrebbe scatenato una controffensiva e rappresaglie inutili, con la conseguente distruzione di paesi e la morte di persone. Quindi, mio padre ha veramente sconsigliato di fare un’azione contro quei tedeschi, tanto più che la popolazione dei paesi circostanti ci andava d’accordo; così i giovani partigiani hanno seguito il suo consiglio. Questo è un episodio di cui io sono stata testimone e che racconto qui.
C’è stato un episodio nel 1944 che a Rovereto ha suscitato antipatie nei confronti dei partigiani, ed è stato quando alcuni di loro hanno fatto saltare il ponte di San Colombano, danneggiando l’acquedotto. Di conseguenza, in piena estate, Rovereto è rimasta senz’acqua.
Questo è quanto ho visto io, qui in Trentino. Voglio aggiungere che alla fine della guerra molti hanno sostenuto di essere stati partigiani, anche se non era vero. Alcuni, che fino al giorno prima avrebbero combattuto a fianco dei tedeschi, erano diventati improvvisamente filopartigiani! Succede...
A distanza di tempo posso fare altre considerazioni. Qui in Trentino c’era una situazione particolare perché la regione era stata occupata dai tedeschi. Inoltre sussisteva il ricordo del vecchio impero austro-ungarico: la gente faceva confusione tra l’esercito germanico, le SS e la vecchia Austria, ritenuta più vicina allo spirito dei trentini che non il governo italiano fascista. Quindi non c’erano motivi perché ci fosse odio contro i tedeschi, e in effetti nella nostra regione c’è stata poca guerra partigiana.
Ma un conto è quel che è successo qui, un conto è quanto è accaduto nel resto d’Italia,: fuori dal Trentino potevamo assistere ad uno scontro aperto tra i filotedeschi e chi considerava l’esercito germanico come l’esercito usurpatore di un paese nemico che aveva scatenato una guerra.
Come inoltre sapete, da un lato c’erano le formazioni partigiane e, dall’altro, avanzavano gli anglo-americani; questi ultimi, che sarebbero stati i "vincitori veri" della guerra, hanno cercato di ridurre l’importanza di quelle formazioni popolari. Ma l’apporto partigiano alla soluzione della seconda guerra mondiale è stato molto importante perché l’Italia alla fine potesse essere più autogovernata e meno succube dei vincitori.
Lei ha offerto delle mele ai prigionieri italiani in partenza per la Germania. E’ stata scoperta dai tedeschi che sorvegliavano il treno?
Sì, ero là davanti a loro, ma sono stati imperturbabili, sembravano delle statue. Erano piazzati con le armi in pugno. Non hanno battuto ciglio.
L’unica cosa che non avrebbero tollerato sarebbe stato che qualcuno avesse aperto i vagoni e fatto fuggire i prigionieri. Questi erano poveri soldati - chissà quanti ne sono morti - che dopo l’8 settembre erano stati catturati e raccolti dai tedeschi, messi sui treni e portati in condizioni disumane in Germania a lavorare. Non li volevano ammazzare, ma poiché in Germania mancava manodopera perché gli uomini erano al fronte e ne morivano a milioni, c’era bisogno di persone che lavoravano, quindi hanno
sfruttato i soldati italiani. Non li hanno portati nei campi di sterminio, ma in campi di lavoro, perché lavorassero, se pur in condizioni drammatiche.
Vedevo quei soldati stipati e ammassati sui vagoni, dove c’era pochissima aria. Stavano veramente male. Ricordo che mi passavano dei biglietti con sopra l’indirizzo dei loro parenti. Non sapevano dove sarebbero andati a finire e non avevano potuto avvertire nessuno della loro partenza verso l’ignoto.
Ha mai pensato al suicidio?
No, nel senso di togliermi la vita. Ma l’idea che si possa morire per mano altrui e l’idea che si dedica la vita ad una causa superiore ce le avevano inculcate fin da piccoli.
Il concetto che i soldati morivano per amor di patria era stato esaltato enormemente, basta vedere le epigrafi sulla prima guerra mondiale. Tutti ne eravamo stati convinti. Anch’io non ero proprio estranea a questa idea. Nei momenti in cui mi sembrava di morire pensavo: "Muoio, ma speriamo di vincere la guerra!"
L’idea di trasformare la possibilità di morte in qualche cosa di eroico aveva un po' contagiato tutti, anche se questo atteggiamento è sicuramente deleterio. Non prendetelo ad esempio. Di fronte a una guerra o ad una strage bisogna dire: "No, io voglio vivere!"
Bisogna vivere e cercare di costruire un mondo meno peggiore.
Che cosa ha provato alla fine della guerra tornando in quei luoghi?
Nostalgia. Mi è molto piaciuto quel periodo, sia perché si viveva in modo essenziale, sia perché ho potuto vivere in campagna, cosa che era nei miei lontani desideri.
Tornavo in quei luoghi continuamente perché volevo prolungare il contatto con la terra e con le persone che avevo molto amato. D’altra parte, il mio libro s’intitola "Perché vi amo" ed è dedicato a quella gente.
Le ha dato soddisfazione scrivere questo libro?
L’ho scritto di getto, come scrivere una lettera, una vera e propria dichiarazione d’amore. Ma non ci tenevo a scrivere un libro. Devo dire però che è stato da loro molto apprezzato e questo mi ha dato una grande soddisfazione.
Ha pianto qualche volta quando ha scritto il libro?
Beh, non ho pianto mentre scrivevo, però qualche volta, nel rileggere qualche pagina, mi è venuto da piangere.
Al tempo della guerra teneva un diario?
Purtroppo no. Avevo delle importanti testimonianze in un quaderno dei temi che poi è stato perso. Ed è stato buttato via anche quel calendario dove segnavo: "oggi pane, oggi non c’è niente, oggi bombe".
Gli eventi narrati nel mio libro sono scritti con lucidità e precisione perché sono esperienze che non dimenticherò mai più.
Lei è cresciuta anzitempo. Le è dispiaciuto?
Sì. La spensieratezza è una gran cosa. Riuscire a vivere un po' spensierati, nel senso di non aver troppe preoccupazioni, sarà una ricchezza per tutta la vita. Quando è scoppiata la guerra, con tutto quello che ha comportato, la spensieratezza è mancata a me e a tutti i miei coetanei.
Mio fratello diceva sempre: "Varda, che tra quei che i se ricorda la guerra e quei che no i se la ricorda, gh’è na grande diferenza!"
La guerra è un’esperienza che contrassegna tutta la vita. La guerra passa lasciando una traccia incancellabile.
testimone: Serena Tiella
data di nascita: 31.12.1931
provenienza: Rovereto
autori dell’intervista: le classi terze, dopo aver letto il libro "Perché vi amo", di Serena Tiella, hanno incontrato a scuola l’autrice, come testimone del nostro tempo. L’intervista è stata registrata e successivamente trascritta dagli alunni della III A.
data dell’intervista: 24 aprile 1998
zzz