STORIE DI SOLDATI
Le mille traversie dei giovani trentini in guerra:
i luoghi
i combattimenti
il nemico
i sentimenti
la prigionia
il ritorno a casa
la morte
Ricordi sospesi
E’ notte:
gli occhi grandi di bambino
cercano inquieti l’immagine della madre.
Buio, silenzio.
Uno sparo lontano,
un urlo straziante più vicino:
la paura.
E’ l’alba:
il fucile stretto tra le mani
con la rabbia di un giovane ribelle.
Gli occhi socchiusi,
una lacrima...
un ricordo sospeso.
La nostalgia
di volti, sguardi amici,
parole incoraggianti per quel futuro
che ora è presente,
immagini scolpite, lontane.
Poi, un sorriso di madre,
smorzato per sempre in una notte
di paura:
la morte.
Sara Campostrini
Eriona Isufi
Alessandra Redolfi
Marzo 1998
Il ricordo della guerra più brutto che ho è quello della partenza di mio fratello, nel 1942, per la campagna in Russia.
E’ partito dalla stazione il 6 dicembre con la tradotta e dalla Russia, dopo un po’ di tempo, ha scritto di andare alla Madonna della Pieve per ringraziarla di averlo salvato. Ma il 30 dicembre è morto. E’ arrivato l’avviso del parroco di allora, don Degara e, poco tempo dopo, la notizia è stata confermata dal comune. È stato seppellito in Russia e solo recentemente i suoi resti sono stati trasportati con altri nel sacrario di Redipuglia.
Noi eravamo già orfani di mamma, vivevamo soli con il papà, tre sorelle e quell’unico fratello. La partenza e poi la morte di mio fratello per noi è stato il fatto più grave che potesse capitarci.
testimone: Elsa Emanuelli
anno di nascita: 1923
provenienza: Avio
professione: casalinga
autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani
data dell’intervista: aprile 1998
Era il 1943. Mi ricordo tante mani che uscivano dalle inferriate dei vagoni ferroviari, alla stazione di Mezzolombardo. Non c’era da mangiare. Le crocerossine davano delle pagnotte ai soldati in partenza per la Russia, ma purtroppo non ce n’erano per tutti ed alcuni, quella volta, non riuscirono a mangiare.
testimone: Alma Branz
anno di nascita: 1922
provenienza: San Zeno (Val di Non)
professione: casalinga
autore dell’intervista: Elisa Fracchetti
data dell’intervista: dicembre 1997
Non voglio ricordare molto di questa guerra, ho preferito dimenticare, vivere il mio presente senza ripensare a quel doloroso passato. In ogni modo, visto che me lo domandi, ti racconterò un fatto che ancora oggi mi tormenta. Mio fratello Saverio, nato nel 1921, di professione contadino, aveva 21 anni quando nel 1942 stava facendo il servizio di leva a Merano. Ci aveva riferito che tutto il suo battaglione doveva essere trasferito a combattere in Grecia. Mia madre e mio padre erano molto preoccupati, ma decisi a fare il possibile per non farlo partire. Così chiesero consiglio al suo capitano, che era originario di Avio, il quale disse loro di presentare immediatamente in municipio la domanda di licenza agricola. S’interessarono a ciò e, infatti, pochi giorni dopo la licenza era pronta e così fu spedita a Mestre dove si trovava il suo reparto in attesa della partenza. Eravamo quasi sicuri che sarebbe tornato a casa, viste la rapidità e la facilità con cui avevamo ottenuto la licenza. Purtroppo la licenza arrivò a Mestre poche ore dopo la partenza di Saverio per la Grecia. C’era grande amarezza e tristezza
in famiglia, e si aspettavano con impazienza sue notizie. Mio fratello arrivò a Cefalonia poco tempo dopo e da là non ha più fatto ritorno. Forse era destino, un destino crudele: per un disguido di poche ore, non ho mai più potuto riabbracciare mio fratello e ancora oggi mi domando se un giorno potrò almeno sapere dove riposano i suoi resti.
testimone: Rosaria Pavana
anno di nascita: 1925
provenienza: Avio
professione: casalinga
autore dell’intervista: Alessandra Redolfi
data dell’intervista: dicembre 1997
Il paese di Avio era sottomesso ai tedeschi, perciò nell’aprile 1944 sono stato chiamato a fare il soldato nella CST (Corpo Sicurezza Trentino) e sono stato due mesi a Trento per l’addestramento. Il primo spostamento è stato in Vallarsa, assieme ai carabinieri.
Ricordo un fatto. A 3 o 4 metri dalla caserma c’era un gruppo di ladri, noi siamo andati a scovarli, ma loro si sono rintanati in una porcilaia. Un compagno di Pergine si è offerto volontario per prenderli, ma i malviventi l’hanno scoperto da una finestrella, così gli hanno sparato e lo hanno ferito mortalmente. A sua volta il tenente, estraendo il mitra, ha risposto al fuoco uccidendo un paio di malviventi, mentre gli altri sono riusciti a scappare.
Nel 1944, dopo essere stato chiamato ad arruolarmi con i tedeschi, ho trascorso tre mesi in una compagnia di centottanta uomini a Trento. Una mattina ci hanno messi in riga ed hanno scelto trentacinque di noi, tra i quali c’ero anch’io, dicendoci che saremo andati a Predazzo per fare un corso per sciatori; invece era tutta una bugia: ci hanno fatto passare quaranta giorni di addestramento sotto le SS tedesche e ci impegnavano otto-dieci ore al giorno anche se pioveva e, talvolta, pure di notte. Quando suonava il campanello per l’adunata, in un minuto bisognava essere in cortile e l’ultimo che arrivava prendeva una punizione.
Dopo i quaranta giorni di addestramento ci hanno trasferiti nella provincia di Verona, a Selva di Progno. Per due giorni ci hanno concesso di recarci presso le nostre famiglie, poi ci siamo ritrovati tutti alla stazione di Vo’ Destro per continuare il viaggio verso Selva. Ma in quel momento hanno bombardato la linea ferroviaria e siamo arrivati a destinazione con un giorno di ritardo. Poi tra quei trentacinque uomini ne hanno scelti venti, tra i quali c’ero anch’io, e ci hanno mandati a S. Bortolo (VR), dove si stava meglio. La settimana prima di Natale abbiamo pensato di uccidere una gallina a testa per fare festa. Quindi abbiamo preso le galline dai pollai delle famiglie che vivevano nei paraggi, poi quattro ragazze che conoscevamo ci hanno aiutati ad ucciderle, a spennarle e a pulirle. Come ricompensa abbiamo dato loro i colli, le zampe e le frattaglie degli animali. Così abbiamo festeggiato quel Natale.
testimone: Albino Cristoforetti
anno di nascita: 1925
provenienza: Avio
professione: operaio
autori dell’intervista: Marco Chiusole, Francesco Giuliani
data dell’intervista: dicembre 1997
Nel 1941 sono andato in guerra in Russia; eravamo vestiti con poco e come scarpe avevamo dei cartoni. Mi ricordo che avevo freddo, mi sentivo congelato, non riuscivo a camminare e una signora russa mi ospitò e mi dette da riscaldarmi i piedi tutta la notte. Sapevo che se i russi mi avessero scoperto mi avrebbero catturato e portato nei campi di concentramento, ma anche la donna sarebbe stata uccisa perché aveva aiutato un nemico. Per fortuna andò tutto bene.
testimone: Almerigo Biasio
anno di nascita: 1920
provenienza: S. Zeno (Val di Non)
professione: calzolaio\parrucchiere
autore dell’intervista: Elisa Fracchetti
data dell’intervista: aprile 1998
Partimmo da Livorno l’8 gennaio 1943 sulla nave "Francesco Crispi", per andare in Corsica. Io avevo 35 anni e, prima di salire a bordo, chiesi al capitano dov’era il pericolo. Lui mi rispose che vicino ad uno scoglio, prima di arrivare sull’isola, c’erano gli inglesi con i sottomarini. Allora salii sulla coperta della nave, mi tolsi le scarpe e mi misi un gilet di "subro", cioè di sughero, perché con questo si restava a galla e non si annegava. Partimmo con due cacciatorpediniere, scortati da tre aeroplani. Cinque chilometri prima di arrivare in Corsica c’era un aeroplano nemico distante 50 metri dalla mia nave e buttò giù tre bombe abbastanza grandi. Ma il mio capitano, per evitare che la prima bomba toccasse l’acqua, fece girare la nave, che aveva cinquanta sirene che fischiavano l’allarme, e scappammo. Le due cacciatorpediniere spararono contro gli aerei di sicuro almeno cento colpi. Sentivamo scoppiare le bombe nel mare e la nostra nave si muoveva, ma ci salvammo. Quando arrivammo in Corsica c’erano tutti i mandorli fioriti, i fiori sbocciati nei prati e le mucche che pascolavano, nonostante fosse gennaio.
Dopo quindici giorni da Livorno partì un’altra nave verso la Corsica, ma proprio là, dove eravamo stati attaccati noi, venne fuori un sottomarino inglese che lanciò tre siluri: la nave si aprì a metà. A bordo c’erano 1300 soldati, ma se ne salvarono solo 100-150.
L’8 settembre ci fu il cambio di guardia: Mussolini fu destituito dal potere e al suo posto fu insediato il generale Badoglio. Io e la mia compagnia di soldati eravamo in Corsica, che era controllata da molti partigiani. I tedeschi che erano là con noi fuggirono in Italia senza sparare un colpo. Ritornarono dopo un po' di tempo con tre aeroplani e lanciarono dello zolfo che, per la siccità - era da aprile che non pioveva - prese fuoco, incendiando i boschi e facendo scoppiare le polveriere.
Noi dopo partimmo per la Sardegna, ma i nostri pezzi di artiglieria li lasciammo in Corsica perché erano francesi, e l’isola apparteneva alla Francia.
testimone: Bernardino Cristoforetti
anno di nascita: 1909
provenienza: Avio
professione: contadino
autore dell’intervista: Michela Fracchetti
data dell’intervista: dicembre 1997
Nel 1943 sono andato in Germania come soldato di leva. L’8 settembre è stato firmato l’armistizio e sono stato fermato là due anni come prigioniero, con altri miei compagni. Tutti i giorni c’erano bombardamenti e bisognava continuamente lavorare. La cosa che mi ricorderò per sempre è la scarsità del cibo, così sono diventato molto magro perché non si mangiava più di una volta al giorno. Siamo stati liberati il 12 maggio 1945.
testimone: Fiorenzo Cavedine
anno di nascita: 1924
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana
data dell’intervista: marzo 1998
Sono andato in guerra in Albania e in particolare mi ricordo due momenti. Pativamo la fame, ma là era usanza portare delle cose da mangiare ai morti dopo che erano stati sepolti; così io con alcuni miei amici soldati andavo a rubare quei cibi e li mangiavamo.
Ricordo inoltre che dovevamo fumare per tenere lontane le zanzare ed altri insetti.
testimone: Domenico Fracchetti
anno di nascita: 1920
provenienza: Avio
professione: contadino
autore dell’intervista: Elisa Fracchetti
data dell’intervista: dicembre 1997
Nel 1945 mi trovavo in una FLAC (contraerea). Presi tre giorni di permesso e venni a casa a trovare i miei genitori per aiutarli a pascolare il gregge. Scaduti i tre giorni mi misi d'accordo con un medico che conoscevo di fingere di aver bisogno urgentemente di un’operazione. Questo dottore, che lavorava all’ospedale di Rovereto, disse al primario che il sottoscritto Maffei Silvio doveva essere operato dall'appendicite il più presto possibile.
All'ospedale di Rovereto due infermiere, sicure invece che mi avrebbero spedito al fronte, mi prepararono la borsa per il viaggio, ma non partii. Con un calcio gettai la borsa sotto il letto perché non volevo andare in guerra. Il giorno seguente il dottore che mi aveva aiutato mi riferì di andare all'ospedale di Noriglio perché era là che curavano l'appendicite. Partii da Rovereto all'imbrunire della stessa sera, verso le 19:30, a piedi. Strada facendo incontrai un uomo che lavorava in manifattura tabacchi a Borgo Sacco. Mi chiese: "Dove vai, soldato?"
Risposi: "Vado a curarmi l'appendicite a Noriglio" e aggiunsi che non avevo nulla e che quello era soltanto un sotterfugio per scappare dalla guerra. Egli decise di venire con me.
Arrivati a Noriglio andai a depositare i bagagli all'ospedale. La sera stessa quel mio amico mi disse: "Silvio, nem a bever en bicer!"
Mentre stavamo andando al bar incontrai degli amici che non vedevo più da un sacco di tempo e bevemmo e cantammo per ore ed ore. Si era fatto molto tardi ed io dovevo rientrare in ospedale. Durante il cammino m’imbattei in una suora che mi chiese: "Perché corri tanto?"
Ed io risposi: "Sorella, ho dovuto riposare molte volte sulla salita!"
Questo non era vero, ma riuscii ad entrare nell'ospedale.
Il giorno seguente fecero finta di operarmi, ma non mi fecero nulla. A Noriglio e all'ospedale di Rovereto passai diverso tempo. Un giorno il mio amico dottore mi convocò nel suo ufficio e mi disse che avevano dei dubbi sul fatto che fossi stato operato: sospettavano si trattasse di una scusa per non essere chiamato di leva.
Quel giorno tornai a casa. Il giorno seguente ci fu il bombardamento della fabbrica Capfler e del rifugio accanto, dove si trovavano i miei compagni. Anch'io dovevo trovarmi là, ma ero rimasto a casa di uno zio, quindi mi salvai e ringrazio il Signore di questa grazia.
La guerra era alla fine ed io restai a casa con i miei genitori.
testimone: Silvio Maffei
anno di nascita: 1924
provenienza: Sasso Noarna
professione: contadino
autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana
data dell’intervista: marzo 1998
Partii nel marzo 1941 per la Jugoslavia, facevo servizio nel genio ferrovieri come delegato. La Bosnia e la Erzegovina erano controllate dalle camicie nere. Nel periodo in cui rimasi in Jugoslavia con la mia compagnia, scortavamo i treni fino in Italia perché c’erano i partigiani che mettevano bombe lungo il tragitto della ferrovia e tagliavano le rotaie. Restai là per tre anni e ricevetti due medaglie al valor militare.
Nel 1944, con l’arrivo dei tedeschi, venni fatto prigioniero e portato in Germania per due anni nel campo prigionieri di Amburgo.
Nel 1945, dopo l’arrivo degli inglesi e degli americani, che sconfissero i tedeschi, fui liberato il 2 agosto e poi finalmente ritornai a casa.
testimone: Italo Calliari
anno di nascita: 1918
provenienza: Mori
professione: ferroviere
autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana
data dell’intervista: marzo 1998
Sono partito per il servizio di leva nel gennaio del 1937. Finito il militare, sono stato di stanza a Bolzano, poi sono stato richiamato per andare a Zara e sono rimasto per tre anni in Croazia, dal 1940 al 1943.
Nel 1943 i tedeschi mi hanno preso prigioniero e mi hanno portato nella Prussia Orientale, in un campo di concentramento, dove c’erano miseria, fame ed eravamo obbligati a lavorare. Ma sono stato fortunato perché mi hanno mandato in una fabbrica molto grossa; là dovevamo filare diritti, però almeno ricevevamo un pasto quasi tutti i giorni. Con noi c’erano polacchi, francesi, belgi, russi ed italiani, i quali erano visti in modo negativo da tutti, eravamo considerati come internati militari e non avevamo diritto ai pacchi (viveri, sigarette…).
Noi i pacchi li prendevamo solo dai nostri familiari: c’erano solo cinque chili di pane, cioccolata, sigarette e qualche indumento; del cibo che ci veniva spedito non riuscivamo ad avanzare niente e mangiavamo tutto in una sola volta, perché la fame era troppa.
Quei due anni come prigioniero dei tedeschi sono stati faticosi; nel 1945 il fronte russo è avanzato, e siamo stati per ben due volte prigionieri dei russi.
Siamo stati con i russi sei-sette mesi, là non lavoravamo, ma c’era miseria, a volte mangiavamo, altre no; c’era caos, i russi erano molto disorganizzati. Poi finalmente la guerra è finita, il 14 settembre del 1945 sono arrivate le tradotte e gli italiani sono potuti tornare a casa. Tutti volevano salire sul treno per giungere a casa in fretta, io sono partito con la quarta tradotta da Kisinev, in Moldavia.
Eravamo cinquanta per vagone, tutti ammucchiati, certe volte si fermavano per farci mangiare, ma erano molto poche quelle volte!
Una volta il treno si è fermato per tre giorni e tre notti, sembrava che le ore non passassero più, mentre quando viaggiava sentivamo d’essere più vicini a casa. Io ho combattuto in Croazia, sulla costa dalmata, dove eravamo sempre a caccia di partigiani e di ribelli. Poi nell’ottobre del 1945 sono ritornato a casa, per fortuna sano e salvo.
testimone: Mario Libera
anno di nascita: 1916
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Moira Borghetti, Elisa Fracchetti, Michela Fracchetti, Virginia Rudari
data dell’intervista: marzo 1998
Ho frequentato la scuola per marinaio antiaereo a Pola (Croazia). Ogni marinaio aveva un compito ben preciso: chi sganciava i siluri, chi bombardava le navi e chi gli aerei.
In seguito sono stato inviato a Taranto e imbarcato sulla corazzata Italia, di ben 47.000 tonnellate. Sparava bombe di 10 quintali a 54 chilometri di distanza. La Marina Italiana non era dotata di radar, mentre gli inglesi li avevano, erano perciò i nemici più potenti.
Più di una volta ci siamo salvati grazie alla gettata più lunga delle bombe nemiche.
Ho combattuto in tutto il Mediterraneo, ho attraversato lo Stretto di Suez, tutto il Mar Rosso e ho circumnavigato l'Africa, ritornando nel Mediterraneo attraverso lo Stretto di Gibilterra.
Il 12 novembre 1940, alle ore 23:30, è suonato l'allarme. Siamo andati a metterci le tute di combattimento, siamo partiti - eravamo a Taranto - e siamo riusciti ad affondare due cacciatorpediniere. Terminata questa operazione, l'ammiraglio ha mandato indietro le nostre cacciatorpediniere e la mia nave è rimasta da sola sotto le bombe aeree nemiche, ed è stato un miracolo se ci siamo salvati. Ad un certo punto mi sono preso a pizzicotti e a schiaffi per vedere se ero vivo.
Un giorno gli inglesi hanno affondato una corazzata italiana di 70.000 tonnellate con dodici cannoni antiaerei, nove cannoni antinavali, dodici cannoni antisiluranti e centoquaranta mitraglie a quattro canne. I siluri inglesi hanno provocato degli squarci di 18 metri e i nostri marinai sono morti tutti. Io ed altri siamo andati a recuperare i corpi dei nostri poveri soldati.
Dopo cinque mesi da questo fatto eravamo in navigazione verso il golfo di Sirte (Libia), abbiamo avvistato una nave inglese e l'abbiamo bombardata. Quindi, questa nave è stata rimorchiata da due rimorchiatori presso il porto più vicino, quello di Bengasi, attorno al quale c'erano delle reti metalliche che andavano in profondità e servivano a non fare entrare i siluri. Quando i rimorchiatori e la nave stavano avvicinandosi, sono state abbassate le reti e loro sono entrati, ma noi eravamo riusciti a mettere delle mine sotto i rimorchiatori, così queste sono scoppiate proprio nel porto.
Un giorno ero di stanza ad Ancona, sono andato con la mia corazzata a proteggere la nave della Croce Rossa Italiana che era stata chiamata per salvare i marinai italiani di una nave, verso Trieste, che era appena stata bombardata dagli inglesi.
Dopo parecchio tempo mi trovavo verso lo Stretto di Gibilterra e abbiamo avvistato tre piroscafi - che non sono navi da guerra - con a bordo soldati inglesi. A quel punto abbiamo fatto quello che loro avevano fatto alla nostra nave italiana: abbiamo colpito le imbarcazioni, abbiamo prima salvato e poi fatto prigionieri gli uomini dell’equipaggio, infine abbiamo chiamato la Croce Rossa Inglese.
Come si faceva a riconoscere gli aerei nemici? Dopo aver suonato l'allarme si sparava indistintamente a tutti gli aerei che c'erano in cielo.
testimone: Giovanni Orben
anno di nascita: 1917
provenienza: Ala
professione: marinaio\operaio
autore dell’intervista: Elisa Fracchetti
data dell’intervista: marzo 1998
Nel marzo del 1943 siamo partiti da Como in cinquecento uomini per destinazione ignota. Quando siamo stati a Fiume ci hanno divisi in gruppi di centocinquanta soldati, siamo saliti su una nave e sbarcati al confine con l’Albania, gli altri sono andati con il treno in fondo alla Jugoslavia e poi a piedi fino in Bosnia (Mostar e Sarajevo), per dare il cambio ad altri militari. La guerriglia in quei paesi era tremenda, tra attentati e contrattacchi, ho visto morire molti compagni d’arme.
Questi episodi sono durati fino all'8 settembre; di 180 soldati che eravamo, siamo rimasti in 50, gli altri sono morti, si sono ammalati o sono stati fatti prigionieri.
Un giorno in un rastrellamento il comandante della compagnia ha ordinato un attacco ad un paese dove si trovavano i partigiani. C'era l'ordine di far evacuare tutti i civili; arrivati in una casa abbiamo visto una madre con dei bambini attaccati attorno a lei che piangevano, da parte mia c’è stato un momento di compassione, li ho lasciati stare, dicendo loro di nascondersi. Sono tornato a piedi dalla Croazia, e dopo venti giorni di cammino, in mezzo a mille difficoltà, finalmente...sono arrivato a casa!
testimone: Gino Masserini
anno di nascita: 1923
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Ivan Benvenuti, Francesco Giuliani
Si stava avvicinando il Natale del 1940 e andai a combattere in Grecia. I greci erano forti e riuscirono a respingere l’esercito italiano, ma questo non voleva farsi sconfiggere ed oppose resistenza.
Un primo scontro in cui fummo coinvolti provocò cinque perdite tra i nostri soldati.
Il giorno dopo il capitano dell’esercito italiano ordinò di raccogliere i morti e portarli via da quel sentiero, dove si doveva passare per combattere.Mentre stavamo eseguendo l’ordine, arrivò una forte granata, ed i morti causati dallo scontro tra i due eserciti furono ridotti in poltiglia. Per colpa della granata restarono uccisi altri due uomini che stavano aiutando a portare via i cadaveri. Subito dopo ne arrivò un’altra e provocò altri morti.
I soldati restanti rimasero a combattere in Grecia, ma dopo tre giorni dovettero ritirarsi perché i greci erano troppo forti. Scapparono.
Ricordo il colonnello, il maggiore ed il maggiore d’artiglieria: il primo fu ferito e quando fu portato in Italia morì, ma gli ultimi due restarono uccisi immediatamente per lo scoppio di una granata.
Poi, nell’autunno del 1942, fui mandato sul fronte russo con un esercito che dava il cambio a quello precedente.
Ricordo che un giorno passarono gli aeroplani che fecero svolazzare dei piccoli manifesti con scritto: "Italiani arrendetevi, è arrivato il Generale Inverno."
I russi ne approfittarono per sconfiggerci, l’esercito italiano si ritirò e la ritirata fu veramente brutta.
Il freddo e la fame erano i nostri nemici. Trovavamo del cibo, ma non sempre, nelle case. Arrivai con i miei compagni a Gams alla fine di febbraio.
Il 19 marzo 1943 eravamo al Brennero, ma in pochi. Non esisteva più comando perché c’era una grande confusione nella ritirata. Non si riusciva a vedere nessuno della propria compagnia, il cibo non si trovava.
Poi, sempre al Brennero, ci divisero e con un mio amico andai a Laivez. Là restammo per quindici giorni e controllarono che non avessimo alcuna malattia contagiosa.
Ritornai a casa per un mese ma, finito questo, fui inviato di nuovo a combattere, questa volta in Jugoslavia.
L’8 settembre scappai e ritornai a casa a piedi, assieme ad un amico. Arrivammo fino a Treviso, poi prendemmo il treno fino a Povo, in Trentino. Per fortuna che sul treno c’era un vecchietto, che ci disse di non andare a Trento, perché c’erano i tedeschi che ci avrebbero catturati. Così scendemmo a Povo e attraverso le montagne giungemmo a Mori. Riuscimmo finalmente a tornare a casa.
Sapevo che c’erano i tedeschi, così rimasi nascosto per un bel po’. Questi poi vennero a saperlo e mi portarono a sparare agli aeroplani ad Innsbruck. Ero addetto a caricare i cannoni e i tedeschi continuavano a dirmi: "Grouppen, fahren, grouppen, fahren!"
Io ed i miei compagni, naturalmente, a questo ordine dovevamo ubbidire.
Alla vigilia di Natale ad Innsbruck furono distrutti ventiquattro cannoni: ad ogni cannone erano addetti quattro o cinque uomini, e morirono pure loro.
Con un soldato di Trento fuggii e mi rifugiai in una trincea. Siamo stati fortunati, perché la nostra postazione, pochi secondi dopo la nostra fuga, fu distrutta da una bomba e fummo sommersi dalla terra nella trincea, dove ci eravamo riparati.
testimone: Vittorio Azzetti
anno di nascita: 1916
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Karin D’Alessandro, Monica Emanuelli, Vincenzo Lupoli
data dell’intervista: marzo 1998
Ero nel battaglione Feltre e nel 1939 sono partito per l’Albania, dopo essermi imbarcato a Brindisi. Sono stato ferito sul Monte Tomorit, ad oltre 2000 metri di altitudine, quindi ho fatto un mese di ospedale. Oltre alla ferita, mi è venuto un inizio di congelamento ai piedi, perché sono stato molte ore nella neve. Quindi ho fatto un mese di ospedale a Berati. Successivamente ho partecipato ad altre battaglie in Albania, molto sanguinose. Poi sono stato in Montenegro, Bosnia Erzegovina, Serbia. Avevamo solo 20 anni, non stavamo tanto a guardare, uccidevamo perché così ci era stato ordinato. Ho partecipato in Montenegro alla battaglia di Pljevlja e poi a quella di Prijepolje (a 50 chilometri da Pljevlja). E’ stata una battaglia bestiale, con circa 3000 morti tra le forze del nemico.
Avevo sempre paura di non riuscire a tornare a casa. La guerra è guerra; ho visto tanti di quei morti... I battaglioni d’assalto avevano l’ordine di bruciare case e tutto ciò che ostacolava l’avanzata.
Soffrivamo la fame, il pasto più buono erano le tartarughe e se potessi le mangerei anche adesso. Ho in casa il guscio di una tartaruga sopra il quale ho scritto: "Dopo averla mangiata l’ho portata a casa."
Tornati dall’Albania e dalla Serbia siamo andati in Francia a presidiare, per circa un mese. Là mi è capitato anche di fare il cameriere all’aeroporto di Marsiglia e mi sono divertito molto, almeno non combattevo in guerra.
Poi è arrivato l’ordine di ritiro perché dovevano farci partire per la Russia, ma sono scappato, ci ho messo diciannove giorni a tornare a casa, altri però non ce l’hanno fatta.
Tornato qui ad Avio, dove c’erano i tedeschi, sono stato mobilitato nella TODT. A palazzo Brasavola c’era il comando generale. Ho lavorato come cameriere presso l’attuale trattoria Cavazzani, dato che i tedeschi mangiavano là.
testimone: Angelo Perotti
anno di nascita: 1918
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Karin D’Alessandro, Monica Emanuelli, Vincenzo Lupoli
data dell’intervista: marzo 1998
Quirino Zarpellon nacque a Cittadella (PD) il 30 marzo 1913. A 15 anni venne in Trentino, più precisamente a Borghetto, per lavorare nei campi con i genitori ed il fratello.
Quando fu il momento, andò a fare i diciotto mesi di permanenza in Alto Adige, finiti i quali pensava di ritornare a casa, invece gli mandarono l’annuncio che doveva partire per l’Africa. La notizia arrivò nel 1935. Quirino la prese molto male perché dopo quei lunghi mesi pensava di ritornare a casa per sempre.
In Africa ne passò di tutti i colori, non c’erano né cibo né acqua. Infatti, da tanta sete che aveva, si urinò nelle mani e bevve la sua urina al posto dell’acqua.
Quando fu ritornato a casa dall’Africa, Quirino ripartì subito per la Germania dove andò a lavorare, perché avrebbe voluto sposarsi con me, Elena Lorenzi. Questo sogno però non si realizzò perché in guerra morì Silvio, mio fratello. Così il nostro matrimonio fu rinviato.
In seguito Quirino ripartì ancora ed andò in Piemonte a combattere.
Là patì molta fame e una volta uccise un asino, inventando al comandante che la bestia era morta improvvisamente, poi di nascosto la mangiò assieme ad alcuni suoi compagni.
Successivamente andò in Albania, poi da là partì con l’aereo per la Grecia nel 1941.
Finita la guerra in Grecia, nel 1942 fu inviato a Tarcento, in provincia di Udine.
Dopo un po’ di tempo ritornò a casa per quindici giorni ma, scaduto il tempo, prima tornò ad Udine, poi gli arrivò l’avviso che doveva ripartire: questa volta per la Russia. Così non poté nemmeno venire a casa a salutarci. Infine, ritornò a casa dalla Russia il 15 marzo del 1943.
Dopo tante brutte esperienze, Quirino restò a casa da quella micidiale guerra e riuscì finalmente a sposarsi con me.
testimone: Elena Lorenzi
anno di nascita: 1911
provenienza: Borghetto
professione: casalinga
autori dell’intervista: Moira Borghetti, Elisa Fracchetti, Michela Fracchetti, Virginia Rudari
data dell’intervista: marzo 1998
Sono partito da Chizzola il 24.01.1942 e sono andato prima a Trento, poi a Verona nel contingente della sanità. Là, dopo quattro o cinque mesi di scuola, ho raggiunto l’ospedale da campo di Torino. Dopo circa un mese sono stato mandato in Francia con le truppe d’occupazione. L’8 settembre 1943 sono stato deportato in Germania al confine con la Francia, sulla linea Maginot, poi dopo un mese a Kassel, nell’Assia. La città è stata bombardata e sono morte 60.000 persone. Noi dovevamo sgomberare le strade dalle macerie ed estrarre dalle cantine i morti. Dopo ho cominciato a lavorare in un'impresa di costruzioni e la notte dormivamo in una scuola. Al mattino prendevamo una tazza di caffè e mangiavamo una pagnotta in cinque, alla sera il minestrone e la solita pagnotta divisa ancora in cinque parti. Per pranzo, invece, dovevamo arrangiarci: qualche volta trovavamo nei campi delle patate e così le cuocevamo in secchi o bidoni che erano sul posto. Lavoravamo dal lunedì al sabato mattina. Il sabato e la domenica io e altri quattro compagni andavamo dai contadini a lavorare i campi e così prendevamo qualcosa da mangiare.
Il 25 aprile 1945 sono arrivati gli americani per liberarci, ma non siamo riusciti a partire prima d'agosto. Durante il tragitto per arrivare a casa abbiamo attraversato l’Austria e la Svizzera. Siamo giunti a Verona e poi con un camion sono tornato a casa. Ero quasi irriconoscibile da quanto ero magro!
testimone: Antonio Cipriani
anno di nascita: 1922
provenienza: Chizzola
professione: contadino
autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana
data dell’intervista: marzo 1998
Il 4 settembre del 1942 avevo 19 anni. Sono andato militare a Trento con i tedeschi, e il giorno dopo l'arruolamento sono stato trasferito a Brunico, dove mi sono fermato tre mesi per il corso addestramento reclute. C'erano di stanza tre battaglioni. Allo scadere del periodo sono stato inviato, insieme con altri dieci o dodici compagni per battaglione, a Corvara in Val Badia, per un corso di sci. Il resto delle reclute è stato trasferito a Pergine Valsugana. Mi sono ricongiunto ai miei compagni del C.A.R. il 1° gennaio 1943, al termine del corso sciatori.
Sono rimasto a Pergine fino all'aprile successivo e poi mi hanno mandato a combattere in Francia.
Dapprima siamo arrivati a Gap e poi a Grenoble, dove ci siamo fermati tre mesi. Infine siamo stati portati a Le Havre in Normandia, dove siamo rimasti fino allo sbarco degli americani. Infatti, la Normandia era sotto il controllo tedesco, mentre al di là della Manica c'era l'Inghilterra, schierata con gli Alleati americani e francesi.
L'esercito nemico è sbarcato a Le Havre i primi di giugno del 1944: la costa era alta e rocciosa ed i tedeschi avevano scavato dei bunker dove erano stati piazzati i cannoni. Durante l'attacco, le nostre postazioni difensive sono state però continuamente bombardate dall'aviazione nemica e questo ha permesso agli Alleati di percorrere a piedi il tratto di spiaggia che separava il mare dall’interno. Poi sono saliti sulla costa rocciosa, usando delle scale, facendo fuggire l'esercito tedesco, inseguito fino al confine con la Germania. Sono riusciti a scappare solo i tedeschi che avevano superato la Linea Maginot.
Al momento dello sbarco, per fortuna, noi eravamo a 10-15 chilometri dalla costa: è stato un inferno, a mezzanotte sembrava di essere in pieno giorno tante erano le esplosioni di bombe, e i morti non si contavano.
Nella confusione generale successiva all'attacco degli Alleati, io e tre compagni, miei compaesani, siamo riusciti a fuggire e ad unirci agli americani.
Questi ci hanno portati nelle vicinanze di Parigi. Qui vivevamo in una baracca e lavoravamo come taglialegna nella foresta di Fontainebleau, guadagnandoci il necessario per mangiare.
Siamo rimasti là dal settembre del 1944 fino ai primi di maggio del 1945, cioè fino a quando abbiamo sentito che la guerra era finita.
Gli americani ci hanno portati allora a Parigi dove siamo rimasti una decina di giorni. Ci hanno poi caricati sul treno e, attraverso la Svizzera, siamo arrivati a Novara. Qui siamo stati trattenuti ancora qualche giorno per sostenere un controllo medico. Ci hanno dato dei vestiti borghesi e fatti salire sul treno per Verona: al nostro arrivo, abbiamo trovato la stazione distrutta e non abbiamo quindi potuto proseguire immediatamente. Abbiamo dormito in città, in un edificio semidiroccato che poteva essere stato una caserma o una scuola: eravamo assieme agli americani che, ricordo, erano tutti neri. Il giorno seguente ci hanno fatti salire sulle loro camionette e condotti fino a Vo’ Sinistro. Anche qui era passata la guerra, il ponte sull'Adige e la stazione dei treni erano distrutti. Per attraversare il fiume siamo saliti su una barca e, finalmente, sono arrivato a casa.
Era il 16 agosto 1945, il mio viaggio era durato tre anni.
testimone: Emo Campostrini
anno di nascita: 1923
provenienza: Sabbionara
professione: contadino
autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi
data dell’intervista: marzo 1998
Sono partito militare il 1 aprile 1939 e a settembre sono andato in Piemonte. Si dormiva sotto le tende in previsione della guerra contro la Francia e ci si esercitava facendo continue marce; nel frattempo la Germania, passando dal Belgio, entrava in Francia, attaccando i francesi alle spalle. Così ci hanno dato l’ordine di avanzare: eravamo in Val di Susa e siamo andati sul grande Moncenisio, abbiamo fatto una tappa al Pian della Maddalena e siamo arrivati in Francia.
I soldati saliti prima di noi avevano abbandonato gli zaini per correre più veloci, ma erano stati colpiti, alcuni a morte. Noi siamo stati fortunati, siamo arrivati in cima, dove il 20-24 giugno c’erano 40 centimetri di neve.
Lassù non c’erano le trincee; una notte ci hanno fatti appostare su un versante e di fronte si vedevano i forti francesi. Al mattino siamo scesi a valle perché altrimenti il nemico poteva facilmente colpirci. Era il giorno in cui gli italiani erano entrati in Francia. Le armi che avevamo in dotazione erano le mitragliatrici, delle più moderne, con le quali bastava sparare in continuazione, non quelle a raffreddamento ad acqua che esistevano prima.
Dal Piemonte dovevano portarci in Albania, ma in seguito ad un contrordine ci hanno portati in treno in Valsassina e da là, in manovra, dovevamo arrivare a Bressanone, a piedi. Facevamo in media 50-60 chilometri al giorno. Si dormiva nelle tende, se era caldo bastava sdraiarsi, perché eravamo stanchissimi. In montagna, invece, in mezzo alla neve, mettevo lo zaino sotto la testa e l’elmetto sotto il sedere, per rimanere sollevato e non bagnarmi. Si mangiava cibi in scatolette e gallette, queste erano secchissime, bisognava inzupparle nell’acqua, altrimenti erano immangiabili.
Mentre i miei compagni arrivavano a Bressanone, per poi ripartire per l’Albania, io marcavo visita perché, a forza di dormire con l’elmo sotto il sedere, mi era venuto un fortissimo dolore alla schiena ed il medico militare, pensando fosse pleurite, mi ha mandato a fare una visita specialistica a Milano.
Così assieme a sei commilitoni sono arrivato a Milano, dove dovevamo presentarci in una caserma ma, dato che non avevamo mai visitato quella città, invece di presentarci al mattino ci siamo presentati la sera. Così il giorno dopo ci ha visitati il medico di guardia, il quale ci ha detto che non eravamo proprio sani, però per punizione, dato che non ci eravamo presentati subito, ci ha rispediti al Corpo, che in quel momento era a Trento. Contento di ritornare vicino al mio paese, sono salito sul treno e sono ripartito; visto il certificato medico rilasciato dal medico milanese, in caserma mi hanno concesso una licenza di sette giorni. Intanto il mio reggimento stava combattendo in Albania. Una volta a casa, il medico curante di famiglia mi ha prescritto un ulteriore mese di malattia.
Quando è venuta l’ora delle vendemmie, ho chiesto il permesso al comandante di tornare a casa ad aiutare mio padre, perché ero l’unico a poterlo fare. Ma una volta ritornato in caserma mi hanno accolto come un disertore e mi hanno ordinato di partire per l’Africa. Il giorno dopo ho preso il treno, ma durante il viaggio ho ricevuto il contrordine di andare in Albania, anziché in Africa. Allora, sempre con la tradotta militare, siamo arrivati a L’Aquila, dove c’era un metro di neve, ma ci hanno lasciati fuori dalla caserma perché non c’era più posto. Dopo alcune ore non ne potevamo proprio più e ci hanno ricoverati in una chiesa sconsacrata. Qualche giorno dopo siamo ripartiti per Bari, per poi imbarcarci per l’Albania.
Arrivati a Bari molti miei compagni sono scappati e quindi siamo rimasti solo in sessantasette, troppo pochi per formare un battaglione; allora i nostri superiori hanno deciso di mandare un altro battaglione in Albania e noi siamo rimasti a Bari, lavoravamo al porto, facevamo servizio di carico e scarico.
Per una serie di circostanze fortunate sono riuscito a non andare al fronte. Alla fine della guerra, dopo sette anni da quel lontano 1 aprile 1939, potevo finalmente tornare a casa.
testimone: Tullio Pavana
anno di nascita: 1919
provenienza: Avio
professione: contadino
autore dell’intervista: Andrea Pavana
data dell’intervista: marzo 1998
Non avevo un lavoro, avevo solo 18 anni, ero apprendista falegname. Fui chiamato alle armi nel marzo del 1939.
Quando seppi che dovevo andare in guerra erano le ore 15:00 del giugno del 1940 ed ero sul fronte occidentale, a Sestriere. Allora partimmo per occupare la Francia, ma non avevamo i mezzi perché il fronte era di rocce e la valle, la Valle del Chisone, era stretta.
Il 10 giugno 1940 il duce ci fece un discorso per segnalarci l’importanza dell’attacco contro i francesi. Quella notte tagliammo i reticolati per potere avanzare, però sull’altro fronte c’era l’esercito francese con i soldati marocchini e tunisini che sparavano ad ogni persona che vedevano e occupavano le cime davanti a noi. Così ripiegammo perché dalle montagne piovevano bombe e sassi. Ci rifugiammo nei fortini e da là non ci muovemmo perché i nemici ci avrebbero uccisi.
Il 28 giugno 1940 alcune autorità di Roma vennero a ispezionare il fronte, per verificare la situazione. Nella nostra posizione c’era un forte italiano molto importante tatticamente ma, dopo poche ore, quasi tutti i cannoni vennero messi fuori uso perché le postazioni francesi erano più forti. Sopra di noi c’era una collinetta dove i nostri piazzarono le "casematte" con dei pali del telefono disposti in modo da far credere che fossero cannoni. Ma si capiva che era una burla, infatti i francesi là non hanno bombardato.
Ci restammo fino al 25 luglio 1940.
Poi ci fu l’armistizio con la Francia, così non ci muovemmo per tutta l’estate e verso luglio tornammo in zona francese. In seguito ci trasferimmo nel comune svizzero tra Lecco e Como, in attesa di ordini. Noi facevamo lavori sulle strade, dormivamo nelle tende, avevamo due bidoni di benzina tagliati a metà e con quelli cucinavamo il rancio; si mangiava brodo, carne e a volte anche pastasciutta, se non c’era cibo mangiavamo topi o rane.
Da Lecco ci trasferimmo a Verona pronti a partire per il fronte greco. Ma invece di partire per la Grecia, dato che ero stato colpito da una mina, mi mandarono all’ospedale. Dopo un mese tornai un’altra volta nella compagnia complementi. La sera facevo servizio di guardia ed esercitazioni per l’uso delle bombe a mano.
Mussolini nei suoi discorsi diceva: "Il nemico ti ascolta, non parlare di guerra" e quando davano i bollettini di guerra alla radio bisognava alzarsi in piedi per ascoltare, se non ti alzavi ti arrestavano. Era una regola.
Tutte le lettere venivano censurate, c’era il segreto militare, non si poteva dire ai familiari dove si era. In guerra non si poteva essere nella stessa compagnia del proprio fratello perché se uno dei due si feriva l’altro sarebbe stato tentato di soccorrerlo, cosa che non si poteva fare.
Nel 1941-42, quando spedivano i materiali bellici, i treni dovevano essere scortati e si partiva per andare al fronte a consegnare. Ogni tanto c’erano partigiani che facevano sabotaggi, allora dovevamo ucciderli tutti per proseguire. Mi dispiaceva veder ammazzare la gente, ma io credo di non averlo mai fatto. Pensavo che non sarei mai riuscito a tornare a casa.
Prima dell’8 settembre del 1943 mobilitarono tutti i militari disponibili per il fronte russo, ma in un discorso il principe Umberto, in piazza Bra a Verona, ci disse: "Siete destinati a un fronte che non raggiungerete."
Noi restammo meravigliati, ma poi capimmo che il fronte era sfondato e che non ci avrebbero più spediti là. Ci ritirarono tutte le armi e il vestiario predisposti per il fronte russo e ci mandarono a presidiare in Francia, dove rimanemmo fino al settembre del 1943. Rimpatriati dalla Francia ci portarono a Bolzano.
Erano le ore 17:00 dell’8 settembre 1943. Il maresciallo Pietro Badoglio annunciò che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati. Rimanevano ancora molte forze tedesche che combattevano in Sicilia. L’ordine di Badoglio era quello di difendersi da chiunque. Dopo la mezzanotte i tedeschi cominciarono a bombardare le nostre caserme di Bolzano, ci disarmarono e ci portarono nel greto del fiume Talvera. Alcuni giorni dopo ci caricarono sui vagoni ferroviari - sessanta uomini in ogni vagone - e ci portarono nei campi di concentramento in Germania, dove io restai per ben due anni. Ci facevano fare un sacco di lavori faticosi, eravamo affamati, pesavamo al massimo 53 chili e ogni giorno vedevo morire di fame e di freddo alcuni dei miei compagni. Il 13 gennaio 1945 mi trovavo a Varsavia quando le forze russe che stavano per entrare nella città ci liberarono tutti.
Ritornammo a piedi, affamati e sporchi, sotto i bombardamenti americani. Molti di noi morirono di fame, stenti e malattie. Così il 20 settembre del 1945 riuscii finalmente a tornare a casa.
testimone: Fulvio Emanuelli
anno di nascita: 1919
provenienza: Sabbionara
professione: apprendista falegname
autore dell’intervista: Monica Emanuelli
data dell’intervista: marzo 1998
C’era tanta fame
Nel maggio del 1943 sono andato in marina a Forte dei Marmi. Ero ancora un ragazzo. Quando sono andato a fare il soldato c'era il fascismo, ma quando Mussolini è caduto dal potere ricordo che sono uscite tutte le squadre con le mitragliatrici e hanno fatto posti di blocco a tutti gli incroci.
Quando l'8 settembre hanno annunciato per radio l'armistizio, io stavo insegnando ad un veneto ed ad un siciliano l'italiano perché volevano fare un corso di cucina o di qualcos'altro, però non conoscevano la lingua perché loro non erano andati a scuola e dunque non la sapevano parlare. Mi ricordo che alla sera insegnavo l'ABC e ad un certo momento abbiamo sentito un urlo, ma non si capiva cosa era successo. Poi è arrivato uno che gridava: "E' finita la guerra!"
Ci sono stati certi che sono scappati subito, difatti quelli non li ho più rivisti; il veneto è stato il primo a partire e l'altro era preoccupato perché il fronte era giù nel meridione e perciò quelli che abitavano in Sicilia avevano più difficoltà di noi trentini.
Allora il nostro comandante, l'ex comandante della corazzata "San Giorgio" - che si è autoaffondata a Tobruch per non cadere in mano agli inglesi - ci ha radunati tutti nel piazzale, eravamo circa tremila. Eravamo giovani ed esperienza ne avevamo poca, a quel tempo c'era la radio, ma non sapevamo cos'era la televisione. Ci ha raccontato che il generale Badoglio aveva firmato l'armistizio e ci ha parlato dei tradimenti che gli italiani avevano fatto in Africa... praticamente partivano delle navi cisterna cariche di benzina, ma invece di andare a Tobruch a rifornire le nostre truppe, andavano direttamente ad Alessandria e là fornivano la benzina agli Alleati. Poi dovevano esserci le batterie da 105 mm. di diametro, però mandavano quelle di 88 mm., cioè le munizioni che arrivavano ai soldati erano sbagliate. Infine, al posto di munizioni e di armi una volta erano arrivati camion di macchine da cucire. Sentendo questo racconto noi ci siamo rimasti un po’ male perché pensavamo che i nostri capi fossero gentiluomini, invece alcuni di loro erano dei delinquenti.
Poi il comandante ci ha detto: "Sentite, ragazzi, io vado al comando a La Spezia. Non muovetevi, mi faccio fare un permesso perché possiate circolare liberamente e andare alle vostre case."
Abbiamo aspettato un paio di giorni; avevamo mitragliatrici ed altre armi e abbiamo buttato gli otturatori in un pozzo, su ordine del comandante, per non lasciare materiale bellico in mano ai tedeschi. Il giorno dopo è venuto il comandante e ci ha dato a tutti il permesso, così noi credevamo che a quel punto potessimo tornare a casa tranquilli...
Io ed altri compagni - dieci bolzanini più io della provincia di Trento - ci siamo organizzati e abbiamo preso un po’ di cibo che era rimasto: una galletta, del formaggio e tonno in scatola. Ci siamo messi d'accordo sul percorso da fare: Genova, Tortona, Milano, Verona, ecc. Siamo andati a prendere il treno a Querceta, facendo 10 chilometri a piedi. Eravamo sul treno merci e alle 2:00 di notte i tedeschi ci hanno fermati alla stazione di Tortona: bisognava scendere. Ci hanno presi, portati nella caserma della divisione Ravenna e ci hanno lasciati nel piazzale del cortile interno dove, dopo un paio d'ore, abbiamo steso il materassino e ci siamo messi a dormire. Ad un certo punto ho sentito un calcio di dietro: bisognava alzarsi perché non ci si stava più là dentro, infatti continuavano a portare gente. Hanno piazzato due mitragliatrici, una in un angolo e una nel retro e sparavano a quelli che uscivano dalle righe, così ci sono stati due morti. Alla mattina sono venuti due tedeschi che cercavano due interpreti per parlare all’altoparlante e con loro sono andati due bolzanini.
Dopo un'ora sono venuti a chiamarci, c'era anche un milanese e ci ha detto: "Voglio andare a casa anch'io, ditegli che sono un trentino o un bolzanino perché ho capito che così posso andare via!"
Ha stracciato la sua carta d’identità ed è venuto con noi, ma poi ci siamo persi di vista. I tedeschi ci hanno fatti andare sotto ai portici, là siamo stati fermi perché dovevamo aspettare il tenente che era austriaco. Quando questo è arrivato ci ha fatti cambiare e ci siamo vestiti in borghese. Dopo essere venuti fuori dalla caserma ci hanno fatto fare un’ora di strada; ricordo che fuori c'erano tante persone che volevano sapere perché noi eravamo usciti e gli altri erano ancora dentro, solo che noi non sapevamo niente. Siamo saltati sul treno merci e finalmente partiti. Ricordo che i macchinisti italiani per non far prendere prigionieri i nostri soldati rallentavano di fronte ai blocchi tedeschi, ma poi ripartivano subito. Ad un certo punto ci siamo fermati ad una stazione, i tedeschi sono venuti e ci hanno chiesto chi eravamo; noi avevamo un bolzanino che parlava in tedesco, allora gli abbiamo fatto dire che avevamo l’ordine di tornare a casa. E così quella volta siamo riusciti a scappare.
Alla stazione successiva in cui si è fermato il treno i tedeschi non c'erano, e noi ci siamo messi in due su ogni vagone. Mi ricordo che siamo arrivati a Milano e là ho perso tutti quelli del gruppo; c’era tanta gente con la divisa da pompiere e mi sono domandato: "Come mai sono tutti vestiti da pompiere?"
Poi mi hanno detto che le persone vestite in quel modo le lasciavano andare a casa. Mi sono avvicinato ed ho sentito un uomo parlare trentino, allora gli ho domandato: "Di dove sei?"
Non mi ricordo cosa mi ha risposto, ma mi ha chiesto: "E tu di dove sei?"
"Sono di Avio" ho detto io. Nel gruppo ho riconosciuto Giacomo Giuliani, il nonno del vostro compagno Fabiano. E’ arrivato il treno e siamo saltati su, io e Giacomo eravamo vicini, ma c’era tanta gente e sono rimasto in piedi fino a Brescia, dove è scesa la maggior parte dei passeggeri. C’era chi vestiva da prete o da frate, c’erano giovani con le zappe in spalla...tutta gente che si travestiva e scappava dai tedeschi. Siamo arrivati a Verona di notte ed abbiamo saputo che il primo treno che partiva per Avio era alle 6:30 di mattina. Così, finalmente, siamo arrivati ad Avio. Mi hanno detto che verso le 9:00 i tedeschi hanno fatto una retata a Verona e hanno portato via tutti quelli che erano rimasti là.
Queste sono state le conseguenze dell'8 settembre.
Quando siamo arrivati ad Avio ci siamo presentati al comando tedesco perché per prima cosa si doveva mangiare e, quindi, era necessario prendere la tessera annonaria. Ci sono stati alcuni che sono riusciti a scappare, avevano la possibilità perché i genitori facevano i contadini e così si sono nascosti fino alla fine della guerra. Però è stato pericoloso perché se i tedeschi si accorgevano andavano a stanarli.
Io, come tanti altri, i primi giorni del mio arrivo andavo ad Ala quasi quotidianamente a firmare la presenza per avere le carte annonarie per poter mangiare. Ma in seguito alla costituzione dell’Alpenvorland, comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno, i tedeschi hanno incominciato a mobilitare chi era nella polizia trentina, poi una parte della classe 1925 e qualche volontario, tutta gente giovane, di circa 18-19 anni; il mese successivo hanno chiamato la classe del 1926, il resto del 1925, poi non ne avevano abbastanza ed hanno richiamato anche quella del 1924, in cui ero compreso anch'io.
Praticamente io che non avevo ancora vent'anni ero uno dei più vecchi del battaglione.
Siamo andati a Trento per 15 giorni e poi ci hanno mandati chi da una parte, chi dall'altra, sempre sui confini. Io sono stato al confine con Brescia nella Valle delle Giudicarie, a Lodrone e Bagolino. Là ne abbiamo viste di cotte e di crude, però i nostri superiori ci volevano bene; avevamo un tenente tedesco che era una brava persona, poi c'erano due o tre sergenti tedeschi, uno dei quali non mi sopportava perché quando dovevamo partire per un'esercitazione facevo finta di essere malato. Mi nascondevo e andavo via con il sergente addetto alla cucina, andavo a far spese e questo voleva dire che potevo mangiare un panino con dentro lo speck gratis e bere un bicchiere di vino; allora io tiravo il carretto della spesa volentieri perché si mangiava qualcosa di buono.
Una volta hanno preso i sei "più lavativi", fra i quali c'erano un sergente di Pergine, un Pinter e un Giovanazzi di Rovereto, c’ero io, insomma...eravamo in sei. Ci hanno mandati a Predazzo sotto le SS dicendo che si trattava di un corso speciale.
Pensa, invece di andare a Predazzo, il primo giorno siamo andati a casa e il secondo siamo andati a Pergine; da là dovevamo andare a Trento a cercare il camion che ci portasse fino ad Ora, per poi prendere il trenino per Predazzo, fatto sta che ci abbiamo impiegato tre giorni ad arrivare a destinazione. Noi siamo arrivati tre giorni dopo gli altri.
Ci siamo fermati prima a Cavalese. Avevamo molta fame. Cosa potevamo mangiare? C'era la fame! Ci siamo fermati in un albergo a domandare qualcosa da mettere sotto i denti, ma non avevamo soldi. Per noi non c’era da mangiare perché eravamo soldati e le persone non sapevano come comportarsi. Siamo andati in un altro albergo, ma niente da fare. Allora abbiamo escogitato un piano. Il sergente di Pergine sembrava un mongolo, era stato in Russia e conosceva un po' di russo, allora ci ha proposto: "Nel prossimo albergo in cui entriamo diciamo che io sono un sergente russo, di origine mongola...però ci vuole qualcuno che faccia da interprete. Chi sa il russo?"
Nessuno lo sapeva, ma ho replicato che avrei fatto io da interprete.
Abbiamo suonato ad un albergo, è venuta fuori una ragazza ed io le ho chiesto se aveva qualcosa da mangiare. Lei ha risposto: "No, qui non abbiamo niente!"
Allora io ho detto: "Porco cane! Guardi, signorina, se questo russo si arrabbia diventa matto! Questo qui impazzisce. Ha qualcosa da mangiare?"
"Beh, allora avrei qualcosina, un po' di polenta, un coniglio..." ha risposto lei intimorita. Per far vedere che facevamo sul serio ho borbottato quattro parole al "russo", non so neanch'io cosa gli ho detto, e lui mi ha risposto: "Da, da!"
Non sapevo cosa voleva dire, ma siamo andati a mangiare.
Abbiamo pranzato, abbiamo bevuto, poi c’era da pagare ed ero preoccupato. Nel gruppo c’era il Pinter di Rovereto che era un bel ragazzo, sembrava un attore del cinema, piaceva alla ragazza e si sono messi a chiacchierare.
Alla fine del pranzo le ho chiesto: "Le piace questo russo?" ed ho indicato il nostro sergente.
"Ma," ha risposto lei "mica tanto!"
Poi la ragazza gli ha domandato se aveva la foto di sua moglie da mostrarle. Allora ho finto di tradurre in russo...non so neppure io che cosa ho detto, e l’uomo ha tirato fuori la fotografia.
"Mamma, che brutta che è!" ha esclamato la ragazza, ma lui, pur capendo, è restato serio ed impassibile.
Beh, siamo andati via ridendo così tanto da spanciarci. Soprattutto, non abbiamo pagato e siamo riusciti a mangiare.
Quella signorina andava a trovare il Pinter due volte la settimana e ha saputo la storia del "russo" il giorno in cui siamo rientrati alla nostra compagnia dislocata a Pieve di Bono.
Poi siamo giunti a destinazione, alla caserma della finanza di Predazzo. Abbiamo tribolato tanto lassù, avevamo da saltare. Io me la cavavo, perché dicevo che avevo mal di pancia. Quando dovevamo correre, ad un certo punto mi buttavo per terra e dicevo che era l’appendice infiammata. Con noi i tedeschi erano molto severi e le esercitazioni erano estremamente dure.
Successivamente siamo andati a Pieve di Bono. Un giorno siamo partiti a piedi verso la Valle dei Signori, siamo stati due giorni e due notti senza mangiare e ci sono morti molti cavalli, addetti al traino dei carri.
Dovevamo fare questo percorso: Valli Giudicarie, Val d’Ampola, Val di Ledro, Riva, Val di Loppio, Rovereto e poi su, verso Pian delle Fugazze.
I tedeschi volevano che entrassimo a Riva marciando, ma noi avevamo fame e ci siamo ribellati: ci siamo seduti dicendo che non saremo più andati avanti. Allora ci hanno promesso un pasto una volta arrivati a Riva, ma giunti a destinazione ci siamo seduti e ci siamo addormentati tutti perché eravamo troppo stanchi. Solo più tardi abbiamo mangiato.
Il giorno seguente stavamo marciando al bivio di Lizzana, quando è venuta fuori una vecchietta che ha dato un pezzo di pane a un soldato. Quella donna sarebbe in seguito divenuta mia suocera, e quel soldato sarebbe diventato mio cognato, perché ho sposato sua sorella. Quella scena me la ricordo come fosse oggi.
Poi ci siamo fermati a Rovereto, dove è passato un bombardamento ed infine siamo partiti per la Valle dei Signori, verso Pian delle Fugazze. Ma io, per non fare la strada a piedi, sono saltato su uno dei due camion che erano venuti a caricare la roba. Mi ha visto il mio sergente delle SS, una vera bestia, faceva sempre a pugni anche con noi trentini, ma ormai non poteva più fermarmi. Così quella volta ho risparmiato la strada.
Ma quel sergente non l’ho più rivisto. Anni fa ho chiesto a mio cognato: "Ma el Kramer, endelo na’ a finir?"
E lui mi ha risposto: "Ah, l’Uxa e il Tomasi, l’altro sergente da Trent, i l’ha fat fora, i l’ha copà e i l’ha buttà zo dal pont de San Colomban. "
L’Uxa si trovava nel nostro gruppo ed era il campione triveneto dei pesi massimi. Ah, era proprio dura! Ah, se raccontassi tutte le storie!
Poi hanno scelto tre della mia compagnia per andare alla FLAC di Rovereto, e tra questi c’ero anch’io. Ci siamo trovati a Rovereto, per tre mesi, dieci trentini e dieci della polizia bolzanina, avevamo tre mitraglieri da 20 mm. Tutti i giorni era sempre la stessa storia: bombardavano i picchiatelli, ce li vedevamo venire contro e non era mica tanto simpatico. Alla FLAC, l’antiaerea, ogni quindici giorni cambiavano le persone perché c’erano molti morti, ma noi siamo stati là tre mesi. Sono passati di là anche dei soldati di Avio, come l’Ezio Turini e il Beppino Zanoni: erano molto affamati e ricordo che ho dato loro una pagnotta, l’unica disponibile, aveva su due dita di muffa, ma hanno mangiato muffa e tutto.
Io mi lamentavo sempre del male al ginocchio e del mal di pancia. A prendere da mangiare per noi addetti alle mitragliere si andava sempre al liceo, in corso Bettini, sotto c’erano le cucine. Andavo con la "gamela" per tutti e venti, più i due comandanti, e portavamo su la razione per tutto il giorno: una fetta di pane, un pezzettino di marmellata e uno di burro. Ma mi facevo sempre dare qualcosa in più, anche per me, naturalmente. In questo modo me la cavavo, ma altri dovevano star su ed erano sempre sotto i bombardamenti. Ne ho visti di morti! Ma al nostro gruppo è andata bene.
Il primo giorno che eravamo alla FLAC un trentino è stato ferito ad una gamba. Io mi stavo facendo la barba, sono giunti i picchiatelli e ci hanno bombardati. Mi sono trovato con un altro dalla parte opposta della cucina, per lo spostamento d’aria.
Ricordo che noi sentivamo gli apparecchi arrivare prima ancora che dessero l’allarme. Un giorno io ed un certo Olivieri ci siamo rifugiati in un fosso dove si nascondevano i carrelli dei cannoni. E’ passata la prima ondata di bombardieri, prima della seconda ondata siamo scappati e ci siamo nascosti a Villa Botta, che era poco distante. Dopo abbiamo potuto verificare che il primo luogo dove ci eravamo rifugiati era stato distrutto. In quell’occasione, altri tre miei compagni si erano riparati nel letamaio, una bomba c’è caduta dentro, ma nella parte opposta e loro si sono potuti salvare.
Sparavamo davanti a noi, ma contro le piante, non ho mai ucciso nessuno. Anzi, sapete chi ho ucciso una volta? Una gallina. La vedevo sempre in cima al sentiero che portava alla FLAC. Mi faceva gola perché avevo fame. Venti anni, capite bene? Ho preso con me la pistola ma, da tiratore di quelli giusti che ero, per ucciderla ho sparato quattro colpi e mi trovavo a 50 "schei" di distanza. La guardavo: aveva qualcosa di umano, mi faceva pena, ma la mia fame mi faceva ancora più pena. Sono andato su con la gallina, c’era il mio maresciallo, un buon uomo, era di Vienna. guardandolo mi pareva di vedere don Degara. L’hanno spennata e pulita. Ad un certo punto l’Ezio Turini mi ha proposto di tornare a casa per quella sera.
"Nar a casa o zontarghe la gallina? " mi sono chiesto "Perché se vago a casa, la gallina ghe la zonto!"
Abbiamo deciso di andare a casa, siamo andati ad aspettare i camion, ma non ne è passato neppure uno. Fatto sta che quella volta ho dovuto rinunciare ad andare a casa, ma anche a mangiare la gallina, perché quando siamo tornati al comando era già nella pancia degli altri.
Ho ucciso anche pidocchi! Ah, ce n’erano tanti, eravamo tutti pieni di "pioci".
Un’altra volta ho ucciso una pecora. Eravamo su Bellamonte, sopra Predazzo, a fare le manovre e abbiamo tirato fuori un puntatore di mortaio per fare le prove. Ci dicevano di tirare avanti e basta, ma c’era un gregge che pascolava tranquillo su un prato. Io per caso ho colpito una pecora e l’ho uccisa. Il pastore è scappato terrorizzato e sono fuggite anche le pecore. Ma la pecora uccisa se la sono mangiata i capi!
testimone: Dario Righetti
anno di nascita: 1924
provenienza: Avio
professione: aiuto calzolaio\studente
autore dell’intervista: Vincenzo Lupoli
data dell’intervista: aprile 1998
Lasseme chi, lasseme chi!
Som partì militar, som na via dal paes l’11/03/1940. I m’ha tegnù a Trent e mi no saevo gnente, no saevo gnanca de esser al mondo. Quando som montà sul treno la prima volta, perché de macchine no ghe n’era, gh’aeva 19 anni . Qualchedum che gh’aeva en soldo, el gh’aeva na bicicletta.
Dopo do mesi sem nai sul fronte francese; l’era de giugno, 20-21 giugno, erem su a 3000/3500 metri, con tanta nef così; su e zo per ste montagne per nar contro al fronte. Per fortuna gh’era la nebbia che no l’aeva mai vista nessum e te sentivi le cannonae che neva, le te passeva sora la testa. Gh’era de quelle che le pareva che le rugolese, gh’era envece de quelle che le fifoleva. Dopo quella not lì, che em dormì en tra i boschi nella nef, gh’era l’assalto del front, gh’era i battaglioni de alpini, tutta la divisiom, tutta la batteria, i era sei battaglioni: Trento, Bolzano, Bassano, Feltre, Cadore e Belluno. Gh’era l’undicesimo e el settimo alpim e dopo gh’era anca altri, altri soldai.
Aspetteven per nar su la mattina, ma a mezzanotte el portaordini l’ha dit che la Francia l’ha ceduto le armi perché l’ha chiesto l’armistizio. Allora em girà en poc le montagne e dopo sem capitai a Brunico.
Dopo, quando l’è sta novembre, i ultimi de novembre, sem partii e sem nai sul fronte dell’Albania. Sem nai a Brindisi, sem montai sulla nave e sem nai. Là ghe som sta sol do mesi, do mesi e mez, per fortuna me som congelà i pei e i m’ha parà en drio. Ghe n’era tanti congelai perché gh’era le scarpe rotte, erem vestii de tela, en mez alla nef, no te gh’avevi gnanca en par da metterte ados: gnente, rangete! I te mette lì en mez al bosc e tutti fermi a empiantar na tenda en qualche maniera, col fango da per tut. Erem tutti sporchi, mama che sporchi! No podé gnanca immaginarve le miserie che se proveva.
El prim dì che sem arrivai en Albania, entant che aspetteven i comandi,erem tutti fermi, tutti bagnai - l’era tutta la notte che erem sotto l’acqua - e quei da l’altra i ha tacà a sbarar: se vede che quei de la compagnia che gh’era de là i sa ritirai e per fortuna che i è rimasti senza muniziom, se no l’era en massacro. Erem tutti destendui fora per el bosc, tutti boscati così pici, i fus stai boschi grandi, no i te vedeva no, ma se de là gh’era n’om i lo vedeva.
I ha tirà con la mitraglia, i avrà sbarà dese minuti e dopo, se vede che i ha finì i colpi, i deva colpi de mortaio, ma quando cioca quei, varda che i fa su en disastro e se te ghe sei lì, i te taia da mez; imsomma, gh’è sta otto morti, fra i quali gh’era el comandante della compagnia, l’era en tenente, l’era en piemontes, l’è mort anca quel. Otto i è morti e na trentina i è stai ferii, i avem lassai lì perché gh’avevem da ritirarne, i l’avrà tirai su i preti.
Sem nai sulla montagna e i n’ha sbarà addos, per fortuna che el maggiore l’ha capì e l’ha tirà su i brazzi, piam, allora i ha capì che sem taliani e i na lassà nar. Finia la guerra sem vegnui a saer che i era quei del battagliom Vicenza che i n’ha sbarà addos perché i credeva che fussem greci.
Le condiziom del soldà le era miserabili, miserabilissime...Gh’era la fam, la sé, i pioci, erem sbregai su, co la divisa de tela de na volta, co le braghe de tela, se le arriva a descosirse, dopo le se descosiva dalla cima al fond; ghe n’era certi che pareva che i gh’aves le veste. En par de mudande vecie, sporchi come i porchi, me fevo schifo a vederme! Sem nai tre mesi senza mai cambiarse la roba, coi calzetti tuti consumai. E d’inverno erem al fred e famai.
I n’ha mandai al fronte, en cima a na collina, gh’era la compagnia de S. Teresa, che la vegniva a darne el cambio e, quella not lì, gh’era na tormenta, en fred, en vent, con tanta de nef; gh’avevem da empiantar la tenda per poder magnar, erem sei per sei, sentai en cuciolom sora i zaini con la nef sotto, e sem stai tutta la notte lì così en tenda. Gh’era for de guardia el Gigi Battisti, che l’è mort, de là gh’era boscati e gh’era tanti bastonzei pici così che en mez alla nef i pareva omeneti, ma no i se moveva. I ha tacà l’allarme e l’è vegnua fora tutta la compagnia a sbarar, ma no i se moveva. Ne sem ciapai do scarpae nel cul dal sergente. L’è sta lì che me som engiazzà i pei. A tanti ghe vegniva fastidi per la tormenta, allora a mi i m’ha portà zo enseme a quei. Zo gh’era el comando de reggimento dove gh’era i medici. Così de not, alle dese, sem partii zo per el bosc, no te vedevi gnente, senza senteri, senza gnente, zo così con tanta de nef. "Lasseme chi, lasseme chi!" l’ha dit uno "Che crepa e che la sia finia!"
Ma no te podevi lassarlo lì.
Quando sem arrivai zo, alle una de not, gh’era le do guardie de piantom. "Gh’è chi cinque omeni che g’ha bisogn de esser visitai," l’ha dit "en do’ podei nar a dormin?"
"Ah!" el dis "Se ne’ de là, en quella carola gh’è dentro tutte balle de paja. Ne’ là, l’unico rimedio l’è quello."
Basteva bem, star nelle balle della paja! L’era lusso! Allora sem nai dentro, em destendù tre balle en terra, dall’altra gh’era en fogolar... l’era en casot.
Em empizzà el foc. Quei malai i s’è messi en mez alla paja: gh’era paja de sotto, paja de sora; mi me som cavà le scarpe per scaldarme i pei. Dopo mezzora che ghe provevo, no ero pù bom de nar dentro en le scarpe. L’era en principio de congelamento. Allora la mattina i ha portà via ‘sti cinque che gh’era da visitar e, dopo che i l’ha visitai, el capitano el me indicheva e l’ha dit: "El ghe varda i so pei."
I era bianchi, enfiai, el m’ha dit: "Eh, te poi nar ancora su!"
E mi ho urlà: "No vago su, no. Se mi me porta su qualchedum ghe vago, se no mi da chi no me movo!"
Ma l’ho dit forte, m’è vegnù el nervoso!
"Allora, visto che te insisti, te darò quindese dì de ospedal da campo!"
No i saeva pù en do metterme! Tra ferii e congelai, no i saeva pù en do’ buttarli. Allora alla mattina è vegnù i camion, na fila de camion, i ciameva a nomi, e i n’ha portà en drio ancora. Sem nai n’en campo de aviaziom, gh’era i capannoni e i n’ha mettui lì. Gh’era le querte che se moveva dai pioci, madre, se te avessi vist che roba! Madre, che schifezza!
Erem famai come i ladri, i ne deva en goz de rancio, niente en tut. Da vint’anni, con la fam che te gh’avevem! Dopo pochi dì, i ha binà su tutti i barberi che gh’era e i ha taià barba e cavei a tutti. Gh’era la macchinetta che no la neva, che dentro l’era piena de pacieca seca! No te podevi gnanca lavarte. Appena montai sui vagoni, i n’ha portai n’en porto de mar, che l’era Varona. E là i era organizzai, gh’era la Croce Rossa. Tutti sulle barelle i n’ha portai sulla nave, là ne pareva de rinascer. Tut bel, tut net, pareva n’altro mondo. Quella not lì i n’ha trovai doi de morti, vecim a mi. Ero sfinì anca mi. Tutti vintidò, vintitré, vintizinque ani. Tutti quell’età lì.
Som vegnù a casa la vigilia de S. Pero del ‘45. Som desmontà al Vo’ dal camion e gh’era i todeschi che porteva i militari taliani presoneri zo per tutta Italia. Mi som montà su con quei da Verona perché da Avi ero resta l’unico. Ma quando sem stai al Vo’ g’ho dit all’autista: "Fermete!"
El s’ha fermà, som saltà zo e som vegnù a ca.
testimone: Francesco Francesconi
anno di nascita: 1919 -
= 1995provenienza: Avio
professione: contadino
Questa registrazione, eseguita prima della morte del testimone, è stata gentilmente concessa da Deborah Francesconi a Vincenzo Lupoli nel febbraio 1998.
Le lunghe marce del caporale Santo
Servizio militare:
19a batteria, gruppo Vicenza,
2° reggimento artiglieria alpina, 2a divisione alpina Tridentina
Il 20 aprile 1936 partenza per il militare con destinazione Alto Adige e svolgimento della leva in varie caserme della zona: Vipiteno, Prati di Vizze, Gais, arruolato nella 19a batteria del gruppo Vicenza, 2° reggimento artiglieria alpina, 2a divisione alpina Pusteria.
L’estate venne trascorsa al cosiddetto campo estivo, lungo tutta la Valle Aurina, con marce forzate e trasporto a spalla delle componenti dell’obice da 75/13, pesanti fino a 116 chili, con raggiungimento di alte cime, tra le quali la Vetta d’Italia.
Richiamo alle armi:
75a batteria, gruppo Val d’Adige,
2° reggimento artiglieria alpina, 2a divisione alpina Tridentina
Nel settembre del 1939 venne richiamato alle armi, presso il Centro di Mobilitazione di Rovereto, sede del gruppo di artiglieria alpina Val d’Adige, costituito per mobilitazione nell’agosto dello stesso anno.
Assegnato alla 75a batteria, partecipò ad un corso per radiotelegrafisti, che durò fino a febbraio del 1940, presso il 1° reggimento genio ferrovieri con sede a Torino.
Terminato il corso, fece ritorno alla batteria di provenienza e, abilitato all’uso della radio da campo, con altri tre commilitoni costituì la squadra telegrafisti della 75a batteria.
Fronte occidentale:
radiotelegrafista, squadra comando, 75a batteria, gruppo Val d’Adige,
4° gruppo alpini valle
La dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Gran Bretagna del 10 giugno 1940 fece sì che i numerosi reparti da mesi schierati sul confine italo-francese iniziassero l’offensiva contro la Francia.
Il gruppo Val d’Adige, che operava con il 4° gruppo alpini valle, oltrepassò la frontiera attraverso il Passo del Piccolo San Bernardo.
L’avanzata avvenne sotto il costante bombardamento a tappeto dell’artiglieria francese e con numerose difficoltà: a causa di un sabotaggio le radio non poterono funzionare per la mancanza delle batterie e spie francesi infiltrate riuscirono a ottenere preziose informazioni.
Il gruppo riuscì comunque ad avanzare scendendo lungo la Valle dell’Isère fino a raggiungere l’abitato di Bourg-St. Maurice in fondovalle.
In pochi giorni la Francia chiese l’armistizio, la guerra ebbe termine e i reparti tornarono alle loro sedi.
In ottobre vennero sciolti i gruppi valle costituiti per mobilitazione e gli uomini vennero in parte congedati e in parte suddivisi fra i reparti permanenti.
Il Bademer fu quindi mandato a Brunico alla 16a batteria del gruppo Lanzo, 5° reggimento artiglieria alpina, 5a divisione alpina Pusteria.
Fronte greco-albanese, Montenegro, Provenza:
rediotelegrafista, squadra comando, 16a batteria, gruppo Lanzo,
5° reggimento artiglieria alpina, 5a divisione alpina Pusteria
Il 28 ottobre 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Grecia, attaccandola dall’Albania con truppe da tempo già stanziate sul territorio.
Inizialmente l’avanzata riuscì, poiché i greci arretrarono apposta per poi chiudere in una sacca e disfare l’intera divisione Julia che, penetrata di molto oltre il confine, si era ritrovata sola, sprovvista di rifornimenti e di rinforzi. Le nostre truppe furono quindi obbligate alla ritirata.
Dall’Italia si inviavano nuove divisioni, tra le quali la Pusteria. Il Bademer partì da Brunico in novembre e con la tradotta giunse fino a Brindisi, dove i reparti vennero imbarcati sulla nave "Argentina", che li portò di là dal mare, a Valona. Dopo pochi giorni, riordinati i reparti, si partì per il fronte, marciando giorno e notte su mulattiere impraticabili, piene di fango, nel quale si sprofondava fino alle ginocchia, e sulle spalle uno zaino che pesava 40 chili. Si cambiava continuamente postazione, secondo le oscillazioni del fronte.
Gli ordini di spostamento giungevano a qualunque ora, anche nel pieno della notte, con qualunque tempo: era la stagione delle piogge, e spesso si viaggiava di notte, sotto rovesci torrenziali, con temperature che raggiungevano parecchi gradi sotto lo zero, e con un abbigliamento tutt’altro che adatto a quei climi.
Il mortaio greco era veramente micidiale e in un’occasione centrò in pieno, distruggendola, la radio del Bademer, che per fortuna rimase illeso.
E tutto questo fino all’intervento dei tedeschi attraverso la Jugoslavia nell’aprile 1941, che ebbe come risultato la richiesta d’armistizio da parte della Grecia, il 23 aprile.
La Pusteria sarebbe dovuta rimpatriare per andare a riposo e poi essere inviata sul fronte russo ma, lo scoppio della rivolta partigiana in Montenegro, assoggettato all’Italia, dirottò i reparti in quella direzione.
Qui si combatteva non una guerra con un fronte delineato e un nemico conosciuto, ma una guerriglia contro partigiani pratici dei luoghi, che tendevano continuamente imboscate e sabotaggi, con uno stillicidio continuo di morti.
La 16a batteria subì diversi attacchi da parte dei ribelli comunisti, i più importanti dei quali a Pljevlja, dove i partigiani attaccanti erano circa 7000 contro 2000 nostri soldati e a Foca, durante i rastrellamenti della primavera del 1942.
La batteria in rastrellamento aveva il compito di setacciare il territorio e scovare i partigiani che venivano immediatamente fucilati sul posto.
Nell’agosto del 1942 la Pusteria, sostituita dalla Taurinense, poté finalmente rientrare in Italia per osservare il periodo di quarantena a Postumia, potendo anche visitare le allora Grotte Reali.
In autunno si partì con la tradotta per il Piemonte da dove si marciava verso la Francia, occupando i vari presidi di Chambéry, Grenoble, Valence, Montélimar e infine Gap.
L’8 settembre il Bademer, dalla radio a cui era addetto, raccolse il messaggio di Badoglio con il quale si annunciava l’avvenuto armistizio con gli Alleati.
A questo punto i tedeschi diventarono da alleati feroci nemici: immediatamente fecero prigionieri tutti i soldati italiani che riuscirono a catturare e li inviarono nei campi di concentramento in Germania, stipati su carri bestiame.
La 21a batteria seguì questa strada, mentre quasi tutti gli uomini della 16a riuscirono a fuggire.
A pagamento, con l’aiuto di un contrabbandiere francese, il Bademer e diversi compagni raggiunsero il confine.
Appena in Italia, grazie ad alcune famiglie cambiarono la divisa militare con abiti civili e gettarono tutte le armi, moschetto, baionetta e bombe a mano per sfuggire ai tedeschi.
A piedi e attraverso boschi e montagne arrivarono fino a Brescia, presero una corriera sicura e giunsero a Tione, paese di uno di loro. Il giorno seguente lui e un compagno di Sdruzzinà scesero fino ad Arco. Per continuare era necessario passare l’unico ponte sul Sarca, vigilato però da una sentinella tedesca.
Il Bademer allora, fatto un fascio di granturco in un campo vicino, se lo mise in spalla, mentre il compagno si nascose in un carro che stava passando.
Con questi accorgimenti riuscirono ad arrivare al di là senza che la sentinella si accorgesse di niente.
Arrivati a Nago salirono in montagna camminando lungo tutta la cresta del Baldo per poi scendere a valle a Mama, arrivando finalmente a casa.
Successivamente venne reclutato dalla Wehrmacht nella TODT, un’organizzazione lavorativa tedesca, che si occupava della costruzione di fortini, rifugi, manutenzione di strade, ponti, ferrovie e gallerie che venivano danneggiati dai bombardamenti, fino all’aprile del 1945.
Marco e Roberto Bademer, sulla base di documenti dell’archivio familiare, ricostruiscono la storia del nonno Santo Bademer (1915-1989), residente a Mama d’Avio al tempo della guerra, di professione contadino.
C’è verde solamente i olivi...
Non dimenticherò mai la triste storia di Silvio, mio fratello, morto in guerra. Silvio era in Grecia e doveva tornare a casa per sposarsi. Doveva prendere l’aereo, ma arrivò un contrordine e fu obbligato a partire con la nave, assieme a tutti i suoi compagni di guerra.
Il 27 marzo 1942 compì ventinove anni ed il giorno dopo, alle 19:00, lui e i suoi compagni partirono dalla Grecia per ritornare a casa, ma purtroppo alle 23:00 del 28 marzo furono bombardati a Corfù.
C’erano cinque navi e colpirono proprio quella dove si trovava mio fratello. La nave si chiamava "Galilea". Su 1700 soldati che c’erano a bordo, se ne salvarono circa 200.
Mio marito Quirino, che vide questo tragico episodio, dopo qualche giorno tornò a casa, lo salutai e gli domandai dove fosse mio fratello. Lui mi assicurò che sarebbe arrivato qualche giorno dopo ed io gli credetti.
Mia madre ed io gli avevano già comperato i mobili per la casa, poiché si sarebbe dovuto sposare.
La "commedia" non poteva durare tanto, perché la fidanzata di Silvio aveva sentito chiacchiere sulla nave che era affondata. Le dissi di non preoccuparsi, perché se fosse successo qualcosa di negativo Quirino me lo avrebbe detto sicuramente.
La verità venne a galla e le supposizioni diventarono realtà. Le parole che mio marito pronunciò furono: "Silvio non lo rivedremo mai più."
Di Silvio oggi restano solo delle lettere, indirizzate alla mamma, alla sorella, al fratello, scritte da varie località: Istunia, Atene, Corinto. Leggendole, traspare la grande sensibilità e la notevole umanità del ragazzo. Forte in lui è l’interesse per ciò che accade a casa, per la vita dei campi, per le vigne, per gli animali. Forte è la nostalgia dei boschi e del taglio della legna:
Mi dicevi nell’ultima che Bruno e Paolo avevano incominciato a tagliare, dove l’hanno fatto quest’anno il fienile? Il bue è venuto grosso e pure il maiale?...
Qui non ha ancora piovuto e fa molto caldo.
(dalla lettera alla sorella del 09.09.1941)
Sento che andate nei boschi tutti tre dal lunedì al sabato, peccato non potessi essere anch’io, ma accontentiamoci così e diciamo che finora siamo stati fortunati.
(dalla lettera al fratello del 13.12.1941)
Si preoccupa per la salute della madre, che soffre di dolori alle gambe, ma lui dice sempre che sta bene. Sarà la verità o piuttosto la paura d’impensierire i familiari a casa? Oppure la censura militare?
Dalle date sulle lettere e da quanto afferma si comprende che la posta dei suoi cari è da lui tanto attesa e risponde loro il giorno stesso in cui la riceve o, al massimo, quello successivo.
Attende con pazienza quelle licenze promesse che non arrivano mai e che vengono puntualmente rinviate:
Cara mamma da alcuni giorni non ricevo vostre notizie, spero che starete tutti bene che di cuore vi auguro. Ho sentito per mezzo da Rino che avevate i dolori alle gambe come l’anno scorso e voialtri a me non mi avete mai detto nulla. Speriamo sia roba da poco. Cara mamma credevo di poter venire in licenza per i primi di febbraio ma ho paura che verrà pure marzo se va così.
(dalla lettera alla madre del 17.01.41)
Speriamo che la licenza ce la diano lostesso però se va così non partono nessuno per la licenza premio è già due mesi che non va nessuno.
(dalla lettera alla madre del 22.01.1941)
Per venire in Italia non si sente più a dir niente. Speriamo sempre in bene.
(dalla lettera alla sorella del 24.05.1941)
Termino salutandoti assieme alla famiglia e parenti e con un filo di speranza di venire a bere quel nuovo se non a vendemmia. Però non badiamo alle chiacchiere...
(dalla lettera alla sorella del 16.09.1941)
Forte resta in Silvio il desiderio di sposarsi e di farsi una famiglia:
Guarda che ieri mi è venuta dal com. Reggimento l’autorizzazione di sposarmi. Dunque oggi sono andato in un paese vicino ove il nostro cappellano si trova ammalato in un ospedale per farmi le carte, ma siccome si trovava sprovvisto di stampati, allora torno domani mattina con il suo attendente e me le fa.
Queste poi andranno ad Atene e in seguito a Roma dall’ordinariato militare ove le spedirà al parroco del paese ove viene fatte le pubblicazioni...dunque andrà via 20 giorni prima che ci arrivano queste carte e poi se mi scrivi subito in altri 15 potrei venire a casa.
(dalla lettera alla sorella del 29.01.42)
Non manca di raccontare quello che avviene nella sua compagnia, evitando però sempre d’impensierire i familiari sulla sua sorte:
Qui dovete sapere che c’è una tremenda disciplina e Rino andava tutti i giorni in un paese vicino a prendere la spesa. Quel giorno lì era andato anche un caporale da S. Margherita. Siccome che a tutti due ci piacciono a bere un po' di vino così erano in un’osteria quando alcuni alpini di un’altra Btg erano andati via senza pagare mezzo litro di vino. Allora i padroni dell’osteria sono andati a chiamare i carabinieri quando sono venuti questi hanno trovato lì loro due ove gli hanno preso giù il nome e poi volevano che pagassero il vino loro, hanno questionato con i carabinieri perché quello da S. Margherita quando è bevuto ha la lingua lunga, perciò hanno mandato il biglietto di punizione qui al comando. Allora siccome qui che è successo un paio di casi di furto sempre nella nostra compagnia e i comandanti sono ancora più avvelenati, li hanno castigati subito cambiandoci compagnia.
(dalla lettera alla madre del 22.01.1941)
Silvio non è insensibile a ciò che gli sta attorno: evidenzia la bellezza dei luoghi, ma anche la siccità dell’estate:
L’altro giorno abbiamo fatto una sfilata in camion anche per Atene. Se vedessi che razza di città non credevo che fosse così, dopo tanto tempo che ero qui non avevo mai visto niente di bello. Ora ci troviamo qui a Corinto. Anche adesso siamo giusto ritornati dal bagno, però c’è un caldo che anche star in mutandine si suda come le bestie. Sarebbe una bella posizione perché è spiaggia, ma c’è una siccità che c’è verde solamente i olivi.
(dalla lettera alla madre, senza data)
Sulla base della testimonianza fornita da Elena Lorenzi e di documenti dell’archivio familiare, Moira Borghetti, Elisa Fracchetti, Michela Fracchetti, Virginia Rudari ricostruiscono la storia di Silvio Lorenzi (fratello di Elena), nato a Borghetto nel 1913 e morto in guerra nel 1942.
Dal fronte francese all’Albania
Servizio militare:
battaglione Feltre, 7° reggimento alpini, 5a divisione alpina Pusteria
Nel marzo del 1939 venni chiamato a compiere il servizio militare. Recatomi al Distretto Militare di Trento, qui mi assegnarono al 7° reggimento alpini. Con il treno della Valsugana partii così da Trento alla volta di Belluno, dove vi arrivai a mezzanotte.
Ricordo che la prima notte dormimmo in tre in un’unica branda. A Belluno vi rimasi per due o tre mesi fino al compimento del C.A.R. In questo periodo feci la conoscenza del tenente Fiorini originario del Vo’, che sarebbe morto poi a Rivoli Torinese durante un bombardamento. Fiorini mi fece destinare al battaglione Feltre, anziché al Cadore, essendo la naia del Cadore ritenuta più dura.
Durante la permanenza a Feltre, fino al maggio 1940, si fece addestramento: conoscenza ed uso delle armi (tra l’altro, smontaggio e rimontaggio delle famose mitragliatrici Breda, anche ad occhi bendati: e non si tornava in caserma prima di essere riusciti a rimontarle), esercitazioni con maschere antigas (ci chiudevano in locali saturi di gas, e poi ci scostavano un poco la maschera dal viso, per farci sentire quanto bruciasse), marce forzate con zaino affardellato completo di tutto l’equipaggiamento personale.
Fronte occidentale:
65a compagnia, battaglione Feltre
7° reggimento alpini, 5a divisione alpina Pusteria
Nel maggio 1940 pervenne l’ordine di partenza per la frontiera francese, ovvero fronte occidentale.
Con la 65a compagnia, caricati sulla tradotta, arrivammo fino alla fine della ferrovia, mi sembra di ricordare a Mondovì. Da qui si proseguì a piedi per circa due settimane, riposando a giorni alterni, fino al fronte francese.
Il 23 giugno 1940, alle ore 4:30, la Pusteria entrò in azione all’offensiva. Ci fu la partenza del 7° reggimento alpini dal Passo di Goretta, con il Feltre che mosse dal Pas de Lauzianer, dove rimase in riserva il Pieve di Cadore. Si arrivò quindi sulla dorsale di Le Lauzianer dopo aver costeggiato il laghetto omonimo, continuamente battuto dall’artiglieria nemica. Vicino al laghetto sorgeva una chiesetta, dove si erano rifugiati sette nostri soldati feriti, tra i quali un paesano di Avio colpito ad una gamba da una scheggia. La chiesa non veniva mai presa di mira dai francesi che conoscevano molto bene il loro territorio. Superato il laghetto si proseguì per circa due ore, nella neve e sotto la neve, verso le postazioni nemiche, su ordine del maggiore: "Il Feltre avanzi verso i fortini francesi."
Giunti a circa 400 metri in linea d’aria dalle postazioni francesi, per fortuna coperti da una fitta nebbia, il capitano di compagnia, vista la scarsissima visibilità, ritenne impossibile poter avanzare ancora e sferrare l’attacco previsto, e dette così l’ordine di ripiegare sulle precedenti posizioni, trascinando indietro con il telo tenda anche 6 morti congelati.
Per paura dei congelamenti, infatti, durante questa avanzata non ci facevano riposare per più di cinque minuti. Durante la ritirata, lungo il percorso, la nostra compagnia, la 65a, fu bersagliata da qualche colpo di fucile, che ci si accorse poi provenire dalla 64a compagnia dello stesso battaglione Feltre. Ci riconoscemmo poi a vicenda tramite la bandiera lampo. L’episodio fortunatamente non provocò alcun ferito, ma dopo questo fatto d’arme il nostro capitano ordinò di ripararsi sotto un’ampia roccia sporgente.
Alcuni uomini, essendo ormai avanzati nella discesa, sentendo l’ordine del capitano di ritornare, faticarono molto nella risalita e, pur essendo battuti dal fuoco nemico, riuscirono a raggiungerci al riparo.
Il nostro assalto ai forti francesi si concluse con la ritirata dovuta alla fitta nebbia, senza aver sparato nemmeno un colpo, solo l’artiglieria fece qualche tiro. I francesi dal canto loro, rintanati nelle loro postazioni, continuarono incessantemente il fuoco fino all’ora dell’armistizio: 1:30 del 25 giugno 1940.
Il giorno 24 il Pieve di Cadore, che ci seguiva nella marcia come riserva, nel tentativo di oltrepassare una forcella veniva falciato dal fuoco nemico, dovette pertanto arrestarsi ed attendere nascosto dietro la forcella fino al termine delle ostilità. Anche l’11o reggimento ebbe grandissime difficoltà a raggiungere le altre unità, dovute per lo più alle pessime condizioni dell’impervio percorso assegnatogli: canaloni ghiacciati e abbondanza di neve sul terreno.
Per quattro giorni non potemmo essere riforniti, rimanendo quindi anche senza cibo. Quando finalmente ci giunsero i viveri, dopo aver mangiato, io e diversi altri svenimmo per lo sfinimento, poiché lo stomaco non era più abituato a lavorare. Dopo un paio di giorni dall’armistizio partimmo per l’Italia e sostammo circa uno o due mesi nei pressi di Colle della Maddalena.
Successivamente fummo mandati in treno direttamente a Dobbiaco, dove restammo accampati per circa un mese e mezzo, poi a S. Candido in caserma.
Fronte greco - albanese:
conducente, 66a compagnia, battaglione Feltre,
7° reggimento alpini, 5a divisione alpina Pusteria
Arrivò poi il momento della partenza per l’Albania. Da S. Candido, impiegando circa due-tre giorni, con una tradotta fummo portati fino a Brindisi, dove ci fermammo otto-dieci giorni, in attesa della traversata. Ci imbarcarono, uomini, muli, e tutto il materiale necessario sulla nave "Principe di Piemonte", che fu in seguito affondata.
I muli venivano caricati nella parte bassa della nave, mentre gli uomini erano sistemati in locali nella parte superiore dell'imbarcazione, a livello del ponte. Ogni soldato aveva con sé il proprio equipaggiamento personale al completo: lo zaino e il moschetto, con il salvagente indossato e gli scarponi slacciati, pronti per ogni evenienza.
Dopo una traversata durata otto ore, scortati da cacciatorpediniere ed aeronautica, sbarcammo a Durazzo, in Albania.
Con una marcia durata quattro-cinque giorni ci portammo fino ai piedi del Monte Tomorit. In questo periodo ero inquadrato nelle salmerie della 66a compagnia. Nelle salmerie ciascuno di noi aveva in dotazione il seguente armamento ed equipaggiamento:
Il lavoro delle salmerie consisteva nel trasporto a dorso di mulo, ognuno guidato da un conducente, dei rifornimenti necessari, quali viveri, bevande come cognac e anice, munizioni e fieno, alle truppe impegnate al fronte. Quando si rendevano necessari gli approvvigionamenti, bisognava partire a qualunque ora e con qualunque tempo: di giorno o di notte, col sole o con la pioggia o con la neve.
I rifornimenti avvenivano quasi sempre di notte o con la nebbia, per nascondersi il più possibile ai greci, non si poteva mai parlare e tanto meno fumare: la brace ci avrebbe fatti individuare. Per nascondere il più possibile le operazioni si viaggiava in gruppetti isolati di massimo tre-quattro persone con i rispettivi muli, i quali partivano distanziati l’uno dall’altro; ogni gruppo era solito incontrare nella salita al fronte il gruppo partito in precedenza che faceva ritorno al campo. Ogni gruppo era guidato da un graduato, il più delle volte un caporale.
Lungo le mulattiere molto spesso capitava di essere fatti a segno dall’artiglieria nemica, dovevamo quindi buttarci a terra, e tenere i muli fermi con la forza perché spaventati non fuggissero. Qualche volta si poteva anche venire spezzonati dagli aerei. I viaggi duravano all’incirca tre-quattro ore, e si doveva compiere il tragitto senza mai fermarsi, essendo i rifornimenti indispensabili e urgenti.
Molte volte, in condizioni meteorologiche pessime, e con il terreno trasformato in un mare di fango, oltre a compiere lo sforzo di trascinare le nostre gambe che affondavano, si doveva anche faticare molto per aiutare il mulo che sprofondava nella melma fino alla cavezza.
Capitava molte volte di accamparsi in un determinato posto per diverso tempo: in questo caso si piantava un filare di pali e cordine dove si attaccavano tutti i muli. Diversamente, se ci si fermava per un giorno, o comunque per breve tempo, i muli venivano legati uno all’altro con le briglie, e disposti a forma di cerchio, perché non potessero fuggire. Inoltre, in questo caso, la sentinella doveva stare all’interno del cerchio e, con un bastone, tenere a bada i muli affinché non si battessero tra loro, con pericolo anche per il soldato. Ogni volta che si levava il basto ai muli, si doveva pulirli e strigliarli, usando la borsa per brusca-striglia che avevamo in dotazione.
Tutte le notti, con un turno di due ore a rotazione, si montava da soli la guardia ai muli. Ciascuna compagnia era dotata di cinquanta-sessanta muli, tutti matricolati, e tutti con il proprio nome. Ogni alpino aveva il suo mulo personale, che era ben riconoscibile dagli altri: il mio non ricordo come si chiamasse.
Noi delle salmerie dormivamo sempre in tenda, sopra della paglia: non capitava mai, per fortuna, di dover dormire all’aperto, avendo un minimo di organizzazione, e non dovevamo adeguarci ai ritmi, alle necessità e ai disagi della vita al fronte. In tenda si stava stretti, essendo sempre in almeno quattro persone, a volte anche di più. Come cibo ci davano gallette, scatolette di minestrone, di carne (quelle rare volte che era di maiale ci si leccava i baffi); ogni giorno, all'incirca alla stessa ora, ci distribuivano una pagnotta ciascuno, che io mangiavo sempre subito, avendo una fame terribile, e rimanevo senza in fretta; dovevo così aspettare il giorno seguente per averne un’altra. Per bere, avevamo una borraccia da un litro soltanto, che si svuotava rapidamente.
Un episodio particolare ce lo raccontarono la volta in cui avevamo portato dei rifornimenti sul Tomorit, dove faceva molto più freddo che in basso, dove eravamo noi: due nostri soldati fatti prigionieri dai greci, riuscirono a fuggire e, per confondersi con la neve, scapparono nudi, con addosso solo gli scarponi e il medaglino di riconoscimento, arrivando salvi fin sulla linea italiana.
Fra i momenti più brutti ricordo quando, lungo la strada che portava alle postazioni di combattimento, si incontravano i nostri soldati morti, stesi per terra e mal coperti con dei sassi. Io sono convinto che riuscivamo a tirare avanti in quelle condizioni solo per le punture che ci facevano: non si conosceva la paura e si diventava insensibili alla vista dei morti.
Conclusa in aprile la guerra con la Grecia, salimmo sul Monte Tomorit al presidio, dove rimanemmo solamente pochi giorni. Si andò quindi a Scutari (dove sviluppammo le fotografie), con sosta nelle baracche e riordino della divisione.
Montenegro:
65a - 66a compagnia, battaglione Feltre,
7° reggimento alpini, 5a divisione alpina Pusteria
Un bel giorno, quando ormai girava la voce del nostro rimpatrio, con una colonna di camion ci portarono in Montenegro, per spegnere la rivolta dei partigiani. Le azioni consistevano soprattutto in rastrellamenti per la cattura dei ribelli. Non si poteva assolutamente fidarsi della popolazione locale, specialmente delle donne, che fornivano false indicazioni per mandare i nostri reparti nelle imboscate tese dai loro uomini.
Subimmo molti attacchi da parte dei partigiani, sempre inaspettati. Avevano un fucile che sparando faceva un rumore caratteristico: "tapum"; si sentivano gli spari, ma era molto difficile individuare la provenienza e le postazioni dei ribelli, dato che erano abitanti di quei luoghi, quindi molto pratici ed anche aiutati dalla popolazione locale. Nell’agosto del 1942 la nostra divisione, avuta la sostituzione, si apprestava al rimpatrio.
In Albania, alle Bocche di Cattaro, ci imbarcarono. Prima di partire restammo fermi sulla nave per tre giorni, poiché appena si salpava venivamo silurati dai sommergibili nemici, costringendoci a ritornare alla costa albanese. E queste false partenze si susseguirono per ben tre volte, finché al terzo giorno dopo l’imbarco, scortati da nostre cacciatorpediniere e da nostri aeroplani, partimmo facendo rotta su Ancona, e una volta arrivati fiancheggiammo le nostre coste fino a Brindisi.
A Brindisi e a Ostuni sostammo circa due mesi per la contumacia. Nell’agosto 1942, la Pusteria, sostituita dalla Taurinense, rimpatriò dal Montenegro.
Provenza:
65a - 66a compagnia, battaglione Feltre,
7° reggimento alpini, 5a divisione alpina Pusteria
In seguito con la tradotta fummo mandati in Francia come truppe di occupazione nei dintorni di Nizza. Qui i giorni passavano compiendo alternativamente marce, riposo, guardia e così di seguito. Successe anche che molti soldati, che prima della guerra lavoravano in Francia, durante le guardie notturne disertassero, abbandonando sul posto mantellina e fucile e, quando andavi a dargli il cambio, non trovavi più nessuno.
Una volta eravamo in distaccamento vicino al mare, per sorvegliare dei capannoni per il ricovero di automezzi e per il deposito di carburante, per otto giorni, poi si aveva il cambio da un altro plotone. Per fare una bravata, io salii su una macchina, la misi in moto e feci alcuni giri nel cortile.
Il capitano lo venne a sapere e, dopo aver subìto una specie di processo, venni messo in isolamento per quarantaquattro giorni.
Avendo ricevuto l’ordine di rimpatriare e di lasciare la nostra zona di presidio ai tedeschi, il giorno 6 settembre 1943 partimmo per l’Italia, a piedi.
La notizia dell’armistizio, avvenuto il giorno 8 settembre, ci giunse a Ventimiglia, dove sostammo tutto il giorno 9, in attesa del ricongiungimento di nostri reparti in ritardo sulla marcia. Una volta avvenuta la ricongiunzione di tutti i nostri reparti, e man mano che questi avanzavano, nelle retrovie, quando tutti erano già passati, i nostri genieri facevano saltare ponti e strade per tentare di non essere raggiunti dai tedeschi, avendo saputo che arrestavano tutti i soldati italiani.
Proseguendo da Ventimiglia, per arrivare a Colle di Tenda bisognava attraversare uno sperone di terra francese che si insinua in territorio italiano, della larghezza di 25 chilometri.
Ci era stato consigliato di attraversare questo sperone molto velocemente e senza mai fermarsi.
Il giorno 12 il reparto venne sciolto, e tutti furono liberi di proseguire per proprio conto.
Appena rimessi in libertà, per prima cosa gettammo tutti gli abiti militari, indossando quelli civili datici da famiglie del luogo, e alla prima stazione prendemmo il treno. Durante il tragitto, ad una stazione in Piemonte, i tedeschi fermarono il treno, facendo scendere tutti gli uomini, e passarono a perquisire i vagoni. Io e un commilitone di Trieste, ci nascondemmo sotto i sedili di legno, coperti dalla grande gonna di una signora, sfuggendo così ai controlli.
Più avanti, scendemmo in una stazione dove non c’erano tedeschi, proseguendo a piedi. Camminando per la campagna arrivammo ad un maso, dove ci accolse un "famei" che lavorava alle dipendenze dei padroni del maso, dei signori di Bolzano. Sempre lo stesso giorno, arrivarono anche i padroni del maso con un camioncino, e li aiutammo a nasconderlo sotto i cartocci del granoturco.
Ci fermammo presso di loro un giorno e una notte. Il giorno seguente il nostro arrivo, ci accompagnarono a prendere un treno sicuro.
Il 18 settembre, mentre ero in viaggio sul treno verso casa, e correndo voce che ad Avio ci fossero molti soldati tedeschi con dei prigionieri polacchi, probabilmente catturati mentre lavoravano nel cantiere del canale Biffis, per paura decisi di scendere alla stazione di Borghetto. Solamente appena messo piede per terra, mi accorsi con spavento della presenza di un soldato tedesco, il quale non fece altro, per mia fortuna, che guardarmi con indifferenza. Seguendo il corso dell’Adige, proseguii a piedi fino alla casa di mia sorella Teresina, in località Ischia.
Qui appresi che potevo andare tranquillamente a casa, non essendoci alcun pericolo. Per non essere scoperto e internato, non dovevo dimostrare la mia presenza e neanche il mio nominativo, e per mangiare dovevo usare la tessera dei miei famigliari. Non potendo continuare a sottrarre il cibo agli altri, fui costretto ad andare in municipio, e comunicare così alle autorità la mia presenza in paese.
Ricevetti così anch’io la mia tessera. Avendo segnalato il mio nome, più tardi fui reclutato dai tedeschi per prestare lavoro alla TODT, un’organizzazione tedesca del lavoro, la quale si occupava anche della costruzione di fortini per l’esercito tedesco, resti dei quali rimangono ancora in località Campagnola a Pilcante.
Per un periodo di tempo però, non mi presentai al lavoro, dovendo accudire la campagna. E così un giorno, verso le 13:30, si presentarono a casa mia due o tre soldati tedeschi armati di mitra che mi prelevarono con la forza.
Mi portarono in caserma e, cessati gli allarmi, ci accompagnarono a piedi, io ed altri prelevati, ai rispettivi luoghi di lavoro (io a Pilcante). I tedeschi avevano il loro comando ad Ala.
Quasi tutte le notti vi erano dei bombardamenti, terminati i quali, i tedeschi passavano per le case a prelevare le donne per eseguire i lavori di ripristino della linea ferroviaria, se questa veniva danneggiata.
L’occupazione tedesca durò fino alla Liberazione, avvenuta nell’aprile del 1945.
testimone: Giovanni Piccoli
anno di nascita: 1920
provenienza: Avio
professione: contadino
autori dell’intervista: Marco e Roberto Bademer
data dell’intervista: dicembre 1997
Giuseppe Pavana: storia di un giovane soldato
Nacque ad Avio il 4 gennaio 1913. Era contadino, di carattere buono, umile e concreto. Aveva sempre lavorato nei campi con il padre ed aveva una grande passione per gli animali.
Fu chiamato alle armi per il servizio di leva nel 1933: fu arruolato a Tolmezzo e la leva durò circa tre anni. Partì subito dopo per la guerra in Etiopia, dove rimase sui luoghi di battaglia per l'intera durata del conflitto.
Le condizioni di vita erano pessime, come si legge sull'unica lettera ritrovata, spedita da Addis Abeba in data 7 settembre 1936:
C'è stato un attacco il giorno 28 luglio, ma noi non ci sono venuti a trovare. Ma un attacco molto forte che credevo di lasciarci la pelle con le unghie l'ho avuto stanotte per le pulci ed i pidocchi. Ve ne sono di rossi, di neri e di bianchi, di piccoli e di grossi come carri armati, ma finché avrò di questi attacchi la pelle la riporto a casa, magari bucata e crivellata ma questo poco importa...
E così fu, rientrò a casa al termine della campagna d'Africa. Vi rimase però solo quindici giorni perché fu nuovamente arruolato ed inviato in Piemonte.
La sua permanenza in Piemonte fu brevissima perché venne mandato a combattere in Grecia.
Quelle che seguono sono le sue testimonianze più significative, tratte dalle sue lettere; ci aiutano a capire i momenti salienti degli ultimi anni della breve vita di Giuseppe.
La novità più bella che vi posso dare è che sono sano e salvo anche questa volta. Per ora abbiate questa soddisfazione poi speriamo che si decidano presto a rimpatriarci. Ci troviamo fermi ad una quindicina di chilometri da Giannina però ogni momento è buono per partire verso la città. Sembra, se non vengono contrordini, che sarà là il nostro presidio. La vita passata è stata molto dura, ma ora cominceremo a godere quella comoda.
(lettera del 27 aprile 1941)
Non mi aspettavo di leggere nell'ultima lettera che il cugino Natale è venuto a casa in licenza. Sono molto contento e chissà quando sarà la mia volta. Ho perso le unghie dei piedi e l'alluce sinistro. Ho un po' patito, ma ora comincio a camminare. Ve l'ho tenuto nascosto per non impressionarvi. Questo è stato l'unico male sofferto, oltre la paura. Lunedì mi hanno fatto l'ultima puntura. Ora sto bene. Mi sembra di vedervi tutti, la sera nelle ore di riposo, attorno a Natale ad ascoltare le sue avventure con occhi sbalorditi nell'udire i suoi racconti. Vi abbraccio tutti.
(lettera del 3 agosto 1941)
Finita la Campagna di Grecia ci fu l'imbarco per Trieste, dove sperava arrivasse la risposta alla pratica di esonero. Questa non giunse e lui dovette partire per la guerra di Russia.
Di passaggio da Varsavia saluto tutti.
(cartolina postale dell’11 agosto 1942)
Mi trovo nel territorio dell'ex Lituania e invio i miei più sinceri saluti a tutti.
(cartolina postale del 12 agosto 1942)
Questa mattina siamo arrivati dopo un ottimo viaggio. Ora abbiamo molta strada da fare con i camion, credo passerà ancora molto tempo perché siamo i primi arrivati della divisione e dobbiamo aspettare tutti gli altri. La mia salute è ottima, non state in pensiero per me perché qua dicono che presto sarà finita.
(cartolina postale del 17 agosto 1942)
Il viaggio è stato lungo e interessante. Incominciando ancora in Austria non si vede che pianura, montagne nemmeno a immaginarsele. Tutte spianate di segala, frumento e orzo che incominciano ora a raccogliere. Si vedono segni di guerra lungo la ferrovia. Ora ci troviamo accampati in attesa di proseguire. Prima che si arrivi alle zone di operazione, si parla di centinaia di chilometri, impiegheremo circa un mese poiché dobbiamo proseguire con i muli. Più che mi spiace è per la posta, poiché non possiamo spedirla per via aerea finché non siamo arrivati a destinazione. Ci sono i tedeschi molto contenti e dicono: "Mosca è circondata, in due mesi Russia kaputt".
(lettera del 18 agosto 1942)
Abbiamo fatto la linea Tarvisio. Ora ci troviamo accampati fra boschi di pini su una piccola collinetta. Il nostro viaggio doveva proseguire ma poiché il settore dove dovevamo operare noi è già stato occupato dai tedeschi, ci hanno fermati e siamo in attesa di ordini. Ci si può spostare subito come rimanere a lungo. Qui si fa una vita beata, senza nessun disturbo, perché dal fronte siamo lontani 800 chilometri. Il mangiare è abbastanza, si trovano patate e zucche a volontà: per ora si sta meglio che in Grecia.
(lettera del 24 agosto 1942)
Stiamo spostandoci verso il fronte, ma a marce corte e non mi sembra nemmeno di farle. Forse la guerra finisce prima del nostro intervento. Oggi siamo in riposo e pare che si resti fermi per tre o quattro giorni. Durante il viaggio abbiamo preso due oche e ci siamo fatti il brodo. Sono sempre ritornato, stavolta ho più fiducia delle altre volte.
(lettera del 5 settembre 1942)
Tra qualche giorno arriviamo a destinazione, dove si deve riunire tutta la divisione e così spero di trovare i paesani che si trovano in altri battaglioni. In questi giorni di trasferimento il tempo è stato sempre bello. E' piovuto solo un giorno, ma il fango che c'era era una cosa incredibile. Le strade sono peggiori di quelle di campagna ma, se è secco, sono molto praticabili. Guardandomi attorno non si vede che pianura, ma pochissima coltivazione.
(lettera del 10 settembre 1942)
Ora siamo arrivati al punto destinato, ma non ancora al fronte che dista ancora una trentina di chilometri. Vi dico la verità, in Grecia era più brutta di qua. Per ora il tempo è sempre bello, da mangiare ne danno abbastanza, inoltre siamo accampati vicino a un paesino di campagna. La mia occupazione è intensa alla mattina, poi ozio tutto il giorno.
(lettera del 16 settembre 1942)
Sto benissimo quasi che mi spiacerebbe cambiare visto che il fronte è lontano 18 chilometri. Portiamo la spesa fino a quattro chilometri dal fronte, poi proseguono altri compagni che, con i carri, portano caffè, rancio caldo e acqua da bere, cosa che in Grecia non si è mai visto. Non sparano quasi mai. I prigionieri russi che arrivano alle nostre linee ci raccontano invece che muoiono di fame.
(lettera del 27 settembre 1942)
Quest'anno, come quando ero in Africa, non ho la fortuna di mangiare uva, pazienza. In Grecia, invece, era molto buona. Sono addetto al servizio dell'acqua dal paese all'accampamento, un chilometro di strada fra andata e ritorno, che faccio tre o quattro volte al giorno, con un carrettino a due ruote e un fusto da tre ettolitri. Carta e bolli intanto ne ho, se potete speditemi un gilet di lana, tabacco, cartine e dentifricio. A chi ha fatto la Grecia non sembra neanche di stare in guerra.
(lettera del 1° ottobre 1942)
Non state in pensiero per me, sono al sicuro, se continua così è l'America. Per il mangiare ci si arrangia ancora bene, ora abbiamo l'occasione di ricevere carne e grano, facciamo anche il purè forse meglio del vostro.
(lettera del 10 ottobre 1942)
Faccio sempre il mio mestiere di trasportatore di acqua e null'altro. Siamo ancora accampati. Il clima, fino ad oggi, lo trovo come da voi ma l'anno scorso era già un mese che c'era la neve.
(lettera del 15 ottobre 1942)
Ho saputo che mi state preparando della roba di lana da spedirmi. Da ieri possiamo ricevere pacchi di due chili per posta ordinaria e nulla per via aerea. Avrei bisogno di carta da lettera, di francobolli e di un fazzoletto da naso. Non fa ancora freddo.
(lettera del 18 ottobre 1942)
Sono meravigliato a vedere che il tempo è ancora buono, c'è un po' di brina solo la mattina. La decade di settembre, invece di intascarla io, l'ho mandata al vostro indirizzo perché qui dei soldi non si sa cosa farne.
(lettera del 25 ottobre 1942)
In questi giorni sono stato molto occupato, ma non in lavori di fatica. La compagnia è venuta in riposo così, con i carri, abbiamo dovuto trasportare tutta la roba. Ora siamo sistemati bene in rifugi sotterranei per ripararci dal freddo: sono piccolissimi locali coperti di legni, terra e paglia. Abbiamo pure una piccola scuderia con dodici muli. Se farà molto freddo dormiremo lì, così è più caldo. Il mio servizio è ancora quello del trasporto d'acqua.
(lettera del 31 ottobre 1942)
Non sembra ci sia la guerra, è una settimana che non si sente sparare un colpo, né di giorno né di notte. La posta impiegherà di più ad arrivare, perché da questo mese è stata soppressa la via aerea. La mia salute è ottima.
(lettera del 6 novembre 1942)
Aspetto ancora il pacco, vi raccomando la carta da lettera. Avrei piacere che mi mandaste un paio di pantofole di panno, da mettermi durante il giorno quando non ho da fare niente perché i piedi rimangono caldi solo quando si cammina. L'altro giorno è nevicato. Il freddo non è ancora forte. Dicono che ci tolgono il sussidio.
(lettera del 13 novembre 1942)
Siamo nel nostro rifugio in otto, e c'è una stufa di mattoni. Legna non ne manca perché ci troviamo in mezzo ad un bosco. Il mio battaglione è ancora in riposo e, a quanto sembra, ci starà per molto, forse per tutto l'inverno, perché è di rincalzo al reggimento. Vi ho spedito un vaglia di 327 lire.
(lettera del 15 novembre 1942)
Ieri sera sono stato chiamato in fureria dal comandante in seguito al sussidio, e mi ha detto che verrà tolto.
(lettera del 20 novembre 1942)
Con grandissimo piacere ho ricevuto il pacco e la carta da lettere. La maglia è bellissima, è un delitto rovinarla da queste parti. Anche la bottiglia di vino è stata una grande sorpresa, peccato l'averlo dovuto dividere con i miei sette compagni. Siamo però come fratelli e tutti fanno lo stesso. Sono caduti ancora quindici centimetri di neve. E' stata una manna, perché così il trasporto dell'acqua lo faccio con la slitta. Alle tre del pomeriggio è già notte, ma alle cinque del mattino è giorno.
(lettera del 21 novembre 1942)
Questa mattina sono tornato dal comandante per il sussidio. Appena saprà qualche cosa mi manderà a chiamare. Credo che quello che potrà lo farà in coscienza, perché non ho mai trovato un ufficiale che si interessi dei soldati come lui. Ci sono tanti soldati che reclamano il sussidio. Il tempo è sempre nuvolo, così il freddo è sopportabile. La posta per via aerea è sempre ferma, quindi non scrivete, sarebbero soldi gettati all'aria. Sono sprovvisto di carta da lettera.
(lettera del 25 novembre 1942)
Il pullover è comodissimo, e anche il maglione, ma il freddo non ci fa paura perché ci hanno dato due paia di mutande di lana, tre paia di calze, un paio di calzettoni, un copricapo di lana per le orecchie, un paio di guanti di pelle di pecora e un pastrano con all'interno lana di pecora. Mi spiace nel sentire che mi credete molto disagiato, invece sto bene. Fino ad oggi il famoso inverno russo, quello freddissimo, non è arrivato. Siamo ancora a riposo, come lo saremo per le feste di Natale. Spero sia l'ultimo che passo lontano da casa.
(lettera del 10 dicembre 1942)
Ho ricevuto il pane, che mangerò domani a colazione. Da ieri mi hanno aggregato al reggimento. La posta mandatela al solito indirizzo, perché non sono distante. Il tempo è ancora abbastanza buono. Ha fatto tre giorni di freddo intenso poi oggi è cambiato e nevica. Questa sera spero di ricevere posta, Il mio compagno è andato alla compagnia a vedere per tutti noi. Ora siamo in una casa, in otto, con un caporale di 21 anni, il più vecchio sono io.
(lettera del 24 dicembre 1942)
Con la cartolina postale del 31 dicembre 1942, Giuseppe inviava ai genitori gli auguri di buon anno: è l'ultimo scritto pervenuto alla famiglia in data 7 gennaio 1943.
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La madre non riusciva a rassegnarsi e continuava a scrivergli, ma le lettere, immancabilmente, ritornavano al mittente. In una sua lettera del 5 settembre 1943 così scriveva al figlio:
Invio questa lettera con la speranza che ti venga gentilmente inoltrata e che ti possa giungere presto, portandoti così un po' di sollievo in questo lungo silenzio. Dal 7 gennaio 1943 siamo privi di tue notizie. Ti pensiamo prigioniero, ma in buona salute e attendiamo con ansia il tuo ritorno. Desideriamo solo la pace, il lavoro e il pane. Ti saluto di cuore fiduciosa di rivederti presto. Un grande bacio, la tua mamma.
Per lunghi anni fece ancora ricerche attraverso la Croce Rossa Internazionale, annunci via radio, al Ministero della Difesa, al Vaticano e in moltissimi Comuni.
E man mano le risposte arrivavano e lei apriva quelle lettere con ansia e paura perché, con il passare dei mesi, la speranza diminuiva.
Da Pordenone, il 26 aprile 1945 un certo Manzon Giuseppe scrisse:
Ho ricevuto la vostra lettera tramite il municipio ed eccomi pronto a darvi una risposta. Io non solo vi posso assicurare che ero nella stessa compagnia, ma ero anche molto amico di vostro figlio. Infatti, durante la ritirata, ci siamo visti più volte e aiutati a vicenda. Il giorno 29 gennaio 1943, dopo aver trascorso tutta la giornata insieme, alla sera ci siamo persi di vista. Vi assicuro che vostro figlio godeva di ottima salute e conservava alto il morale. In seguito non abbiamo avuto combattimenti importanti. Suppongo che il 30 gennaio l'abbiano fatto prigioniero.
La speranza si riaccese e le ricerche continuarono. Passava intere nottate accanto alla radio per ascoltare se il figlio era annunciato fra i soldati in arrivo.
Il 3 aprile 1946 giunse da Roma un'altra lettera, dall'Ufficio Prigionieri - Ricerche. C'era scritto:
Con riferimento alla Vs. richiesta, siamo spiacenti di doverVi comunicare che il nominativo in oggetto non figura nei nostri elenchi dei prigionieri di guerra e che nulla abbiamo potuto sapere al suo riguardo. Siamo quindi nell'impossibilità di darVi sue notizie. Vogliate gradire l'espressione del nostro vivo rincrescimento.
Il 12 aprile 1947 arrivò da Roma la lettera del Partito Comunista Italiano - Via delle Botteghe Oscure. Ecco il testo:
Gentile Signora,
Siamo veramente colpiti dal Suo dolore. Questa deprecata guerra è servita soltanto a portare il lutto e la rovina in tante famiglie del popolo italiano. Vorremmo poterLe dare conforto con delle buone notizie, ma non abbiamo né la veste ufficiale per poterlo fare, né la possibilità di fornirGliele. Le Autorità militari avrebbero già dovuto da molto tempo definire la questione dei dispersi in Russia, esse che conoscono bene l'entità del disastro militare che subimmo e il numero rilevantissimo delle perdite che registrammo, perdite dovute soprattutto al freddo, alla fame, agli stenti, alla mancanza di vestiario adatto al clima di quelle terre. I prigionieri dalla Russia sono rientrati, malgrado che una parte della stampa interessata a turbare la tranquillità del popolo voglia oggi dire il contrario. Lei deve pensare che su quel fronte di guerra, i dispersi ed i caduti ammontano a milioni ed appartengono a tutte le nazionalità, russe in special modo. In tale vasto campo di battaglia ogni ricerca è inutile. Ci spiace di non poterLe essere di maggiore utilità. Cordialmente La salutiamo
La Direzione del P.C.I.
Questa lettera, da cui traspare umanità ma anche una cruda realtà, non convinse la madre che proseguì le ricerche.
Nel frattempo arrivò il verbale di irreperibilità dal Ministero della Difesa, in cui si leggeva che in occasione combattiva, avvenuta il 21 gennaio 1943 in Russia, il soldato Pavana Giuseppe era scomparso e che, dopo tale fatto, non fu riconosciuto tra i militari dei quali fu accertata morte o prigionia.
Nel 1949 la mamma cercava ancora disperatamente il figlio. Scrisse a Milano ad un certo ragionier Cesana:
Egr. Sig. Rag. Cesana
Mi rivolgo a Lei abbisognando di un grande favore. Essendo venuta a conoscenza dal Molto Rev. Padre Vincenzo che Lei può fornire notizie ai famigliari dei dispersi in Russia, pensai di rivolgermi anch'io alla Sua grande bontà, fiduciosa di essere esaudita. L'indirizzo di mio figlio è questo:
Alpino Pavana Giuseppe, figlio di Daniele ed Elisa Giuliani, nato ad Avio (Trento) il 4-1-1913
Appartenente all'8° Reggimento Alpini Btg Tolmezzo 19a Compagnia Posta Militare 202
Combatteva sul fronte Don, l'ultimo suo scritto il giorno 7-1-1943.
RingraziandoLa vivamente, in attesa di una risposta, invio rispettosi ossequi.
La lettera giunse al destinatario e fu anche utilizzata per la risposta, scritta a macchina sul retro:
Io non ho un ufficio di ricerche, perché vivo del mio lavoro che è tutt'altra cosa. Però, siccome ho trovato mio figlio, così potrei ritrovarne altri, senza mia responsabilità per quanto ne potrà essere l'esito. Però devo sostenere delle spese presso i miei informatori esteri e compensare quindi il lavoro di questi. Bisogna quindi essere comprensivi, da questo lato almeno.
Questo signore, appena due giorni dopo, riscrisse:
Signora Elisa Pavana
Le titubanze non sono fatte per frangenti simili e specie per il mio carattere assai dinamico. Ragione per la quale io ho fatto ugualmente già partire la richiesta delle notizie che Vi stanno a cuore. Il mio non è un ufficio di beneficenza, ciò non toglie che io non ho badato a spese pur di trovarmi nella condizione di poter fare del bene, specialmente a quelle famiglie che attendevano tanto dalla mia opera personale e disinteressata. Perciò, chi vuole e può dare, lo faccia nel limite delle sue forze, chi non lo può si faccia aiutare da chi può. Non per me personalmente, ma per le spese che un tale servizio comporta.
Era ormai il 1950, il 24 maggio giunse la seguente lettera dal Vaticano:
La Segreteria di Stato di Sua Santità porge distinti ossequi alla Sig.ra Elisa Pavana di Avio e, mentre la ringrazia per la devota offerta di Lire 2.000, rimessa nelle mani di Sua Santità, Le comunica che l'acclusa richiesta di informazioni è stata trasmessa per l'evasione al competente Ufficio Informazioni della medesima Segreteria di Stato, che non mancherà di espletare le pratiche opportune.
Il 31 maggio 1950, sei giorni dopo, arrivò la laconica lettera di risposta:
Spiacente di non poter dare informazioni utili.
Da Bellinzona, nel 1951, arrivò l'ultimo scritto dalla Croce Rossa Svizzera che chiedeva informazioni più dettagliate, ma anche queste ricerche sono risultarono vane.
Nel 1966 la mia bisnonna Elisa morì, con il dolore di non aver potuto riabbracciare i suoi due figli; infatti aveva un altro figlio disperso in guerra, Saverio, e anche per lui le ricerche erano rimaste infruttuose.
Non ho potuto ricostruire la storia di Saverio in modo approfondito perché la sua corrispondenza è insufficiente: so soltanto che è nato il 4 marzo 1921, è stato chiamato al servizio di leva nel 1941 in fanteria a Merano e, senza far rientro in famiglia, è partito per la campagna di Grecia senza fare mai ritorno. E' tuttora disperso.
Intanto, nel 1979, morì anche il mio bisnonno Daniele, mai rassegnato alla morte dei suoi due unici figli maschi.
Il 24 novembre 1995, inaspettata, è pervenuta alla famiglia la seguente lettera del Ministero della Difesa:
Alla Famiglia del Sol. PAVANA Giuseppe
In seguito ai mutamenti politici avvenuti nell'Europa dell'Est, è stato concluso, nel 1991, un accordo intergovernativo che ha dato la possibilità a questo Ministero della Difesa di consultare gli Archivi Segreti di Stato a Mosca ove è custodita la documentazione dei militari Italiani, catturati prigionieri, deceduti nei territori dell'ex U.R.S.S. nel corso della 2a Guerra Mondiale e considerati sino ad oggi Dispersi.
Dagli esiti delle ricerche effettuate in detti Archivi dal Commissariato Generale Onoranze ai Caduti e dai controlli e riscontri effettuati nella documentazione custodita da questa D.G. è emerso che il Vostro congiunto, Sol. PAVANA Giuseppe, già dichiarato disperso, è stato catturato dalle FF.AA. Russe, internato nel campo n. 56 UCIOSTOJE - Reg. TAMBOV, ove è deceduto nel Marzo del 1943.
La speranza di poter recuperare e rimpatriare i "Resti Mortali" presenta difficoltà difficilmente superabili in quanto i Sovietici hanno sepolto i nostri Caduti in fosse comuni unitamente a quelli di altre nazionalità rendendo così impossibile l'identificazione.
E' comunque intenzione del suddetto Commissariato Generale, una volta localizzate con precisione le aree di sepoltura, erigervi dei cippi commemorativi a perenne ricordo del sacrificio dei nostri soldati.
Con questo documento si conclude la storia di un ragazzo a cui la guerra ha rubato la giovinezza, le speranze, la vita.
Sulla base di documenti epistolari dell’archivio familiare, Alessandra Redolfi ricostruisce la storia del prozio Giuseppe Pavana (1913-1943), residente ad Avio al tempo della guerra, di professione contadino.
zzz