Memorie di Carlo

 

 Una storia di cinque anni di guerra

 

  Durante il secondo conflitto, Carlo Campostrini ha sempre scritto appunti relativi alle sue esperienze di soldato. Aveva frequentato solo alcuni anni di scuola elementare, era di famiglia modesta e costretto, fin da bambino, a lavorare. Grande osservatore, desideroso di conoscere luoghi e persone nuove, ha inseguito il sogno dell’arruolamento in fanteria per poter viaggiare per l’Italia e fare nuove esperienze. Ma la sua non è stata una vacanza, bensì si è trattato di cinque lunghi anni di servizio militare, esposto alla fame, al freddo, agli stenti, al pericolo della morte. Si sentirà parlare molto spesso, nelle sue pagine, di paura, di fame e di freddo. Ma Carlo scriveva, appuntava su qualunque pezzo di carta avesse a disposizione date, luoghi, avvenimenti.

Poi la guerra è finita e Carlo è tornato a casa, anche se con problemi di salute. Così sono passati altri anni, lui ha potuto curarsi, rifarsi una vita e, finalmente, una famiglia.

All’inizio degli anni cinquanta ha ripreso in mano quei fogli di appunti, ormai logori, ma mai abbandonati o dimenticati ed ha dato loro una prima sistemazione, cercando di ricostruire la sua storia su un quaderno, in bella scrittura. Ma non è mai stato soddisfatto di quel lavoro perché lo trovava troppo incompleto e carente nell’uso della lingua.

Sono passati altri anni e nel 1995 ha ricopiato le sue memorie con una macchina da scrivere, dando loro una nuova veste linguistica, grazie anche alle sue numerose letture che gli hanno permesso di migliorare la padronanza dell’italiano.

Adesso - siamo alle soglie del 2000 - le sue vicende sono state riscritte ad un computer.

Carlo ci ha affidato la sua storia, non ne è geloso, vuole farla conoscere a tutti, in particolare ai giovani, perché capiscano come la guerra possa cambiare radicalmente la vita di una persona e s’impegnino a costruire un futuro di pace.

 

 Primi mesi da recluta

 

 

Marzo 1940

Era una sera dei primi di marzo. Tornavo allora dalla montagna, dove in quei giorni stavo terminando il taglio di piante. Arrivato a casa, trovai la sorpresa: era arrivata la cartolina rosa. Dovevo presentarmi, il 18 del mese, al distretto militare di Trento, per essere arruolato nell’esercito. Non fui tanto sorpreso, in quel momento, ma fui soprattutto emozionato, mi sentivo importante. Stavo per entrare in quell’esercito che in quei giorni sembrava invincibile. Questa era l’euforia che si viveva allora, e anch’io ne ero contagiato. Malgrado ciò, altre preoccupazioni frenavano l’entusiasmo trasmesso dai compagni: lasciavo la famiglia nel momento meno opportuno, tutto quello che avevamo fatto e quello che insieme credevamo di realizzare, sarebbe andato - a mio giudizio - in completo fallimento. Con quei poco lieti pensieri mi preparavo alla partenza.

La città di Trento quel mattino era più affollata del solito, percorsa da comitive di giovani provenienti dalle diverse valli trentine. La maggior parte era come noi, diretta verso il distretto militare. C’era da farsi coraggio, non eravamo soli.

Mi trovavo con i miei compagni, eravamo in tre dello stesso paese. Assieme entrammo nel distretto, ma mentre stavamo per varcare la soglia, diversi giovani, al contrario, cercavano di uscire scappando. Incuriositi da questo fatto, fermammo uno dei tanti per chiedergli il perché di tale atteggiamento. La risposta l’ottenemmo quando si mise a correre: "Oggi tutti quelli che si presentano vengono arruolati nella fanteria!"

Così, quei ragazzi, non volevano andare in fanteria. Era evidente che preferivano un castigo per insubordinazione piuttosto che essere esclusi dagli alpini, nei quali del resto anche noi credevamo di essere inquadrati.

Ci chiedemmo se fosse il caso di imitarli nella fuga. Ma il mio atteggiamento risoluto fece desistere i miei compagni. Alpini o fanti: dov’era la differenza? Solo l’atteggiamento borioso dei nostri montanari creava la superiorità.

Un solo sguardo nel piazzale bastò per farci rendere conto quanto c’era da aspettare, ma contro ogni previsione non fu così.

La visita - se così la vogliamo chiamare - fu solo una formalità; un’occhiata e dopo aver dato le generalità via, abile! Poco dopo trovai ancora i compagni, tutti e tre eravamo destinati allo stesso reggimento e alla stessa compagnia: al 67° reggimento fanteria (Como).

La sera stessa, dopo aver preso in consegna uno zainetto, una coperta e, chi voleva, un mestolo di brodo con due pagnotte - sfornate almeno due mesi prima - fummo inquadrati per tre e via alla stazione.

Lungo la strada, malgrado le severe proteste dell’ufficiale che ci accompagnava, i nostri discorsi cadevano sugli ultimi avvenimenti e sulla nostra destinazione.

Chi poteva immaginare quel mattino che l’indomani Como dovesse essere la nostra sede?

Erano le 7:00 di sera quando il treno sbuffando lasciò la stazione. Nella notte, accostati al finestrino, vedemmo passare uno alla volta i paesi a noi familiari, ecco anche il nostro, contemporaneamente ci sporgemmo: qualche conoscente? Niente.

Il treno come un fulmine passò, e via: ciao casa, ciao paese, quando ci saremo rivisti?

A Verona dovemmo scendere e ci condussero in un sottopassaggio della stazione. "Accomodarsi alla meglio," gridò il comandante "fino alle 5:00 di domani non si riparte!"

Quel luogo sembrava una stalla: pagnotte, gallette, scatole vuote gettate in ogni angolo, segnavano il passaggio di altre tradotte militari. Fu con vero sollievo per noi quando di nuovo ci condussero al treno. Ai primi albori del 19 marzo, la nostra tradotta filava a tutta velocità verso Milano. Quello che dal nostro finestrino potevamo scorgere era solo un velo di nebbia, passammo qualche stazione e giungemmo a Milano. Là il treno ripartì quasi subito e, in meno di un’ora, potemmo vedere Como, dove trovammo chi ci aspettava: un ufficiale e un paio di caporali. Fummo inquadrati subito per tre e via. Sempre per strade secondarie, dopo una mezz’ora di cammino, giungemmo davanti all’entrata del grande casermone.

 

Como - 20.03.1940

Assieme agli altri due paesani venivo assegnato alla compagnia reggimento mortai da 81 mm. Tanti assicuravano che nella nostra compagnia si stava meglio, in quanto non era dipendente dal comando battaglione e solo il capitano era responsabile al colonnello. Poi c’era la questione dell’arma: il mortaio, in caso di guerra, era un’arma da accompagnamento in più; c’era anche in dotazione il moschetto più leggero, meno ingombrante del modello 91. Ma per il momento non c’era nulla da invidiarci: ancora il primo giorno, un sergente prese in consegna noi della compagnia reclute, ci spedì subito giù in piazza d’arme per istruzioni, marcia e scuola delle armi. Non vi era un momento di respiro, i giorni passavano, ma nulla cambiava.

Diverse settimane dopo incominciarono le passeggiate, consistevano in un’ora o due di marcia, tanto nell’andata che nel ritorno, nella sosta facevamo esercitazioni sul terreno e tiro al bersaglio. Così la sera, quando si rientrava, sfumava la voglia di andar fuori in libera uscita.

Nelle passeggiate previste c’erano delle marce bisettimanali e queste non solo stancavano, ma erano addirittura sfibranti. Il colonnello, per spronarci, nei suoi discorsi non dimenticava di dire che nei momenti in cui si viveva bisognava essere all’altezza della situazione, ma lui partecipava seguendoci in macchina. Questo non escludeva che ogni tanto si uscisse; alla domenica specialmente davano permessi fino alle 23:00. La città meritava veramente di essere visitata, ma anche questo non attirava troppo: ufficiali e ronde li trovavi dovunque, ed era un gioco di fortuna non essere presi in disordine e consegnati.

Con i primi di maggio anche le giornate diventavano più belle, con qualche amico facevamo delle escursioni sul lago, con poche lire si noleggiava una barca e si filava al largo. Da là il panorama era incantevole.

Il 9 maggio, festa dell’Impero, tutti i reparti distaccati dal reggimento dovevano sfilare per le principali vie della città. Quel mattino presto, dopo prove su prove, ci condussero in piazza al monumento del Milite Ignoto.

Il federale pronunciò un discorso, dopo incominciò la parata, che terminò verso le 13:00. Ma quel giorno non c’era di che lamentarsi: rancio speciale ed una scatola di sigarette ciascuno. Questo fu anche l’ultimo giorno di permanenza a Como. Il mattino del giorno dopo lasciammo definitivamente la città con i suoi ricordi, per essere trasferiti a Vercelli, in Piemonte, dove era di stanza il comando del reggimento.

 

Livorno Ferraris (Vercelli) - 10.05.1940

Ancora mezzo addormentato cercavo il modo per accostarmi al finestrino, erano diverse ore che dormivo, perché quando aprii gli occhi era quasi giorno. Il paesaggio che filava davanti ai miei occhi per me era del tutto sconosciuto. Alla prima stazione il treno rallentò, domandai ad un ferroviere: "Dove siamo?"

"Subito a Novara, la prossima stazione" mi rispose.

A Novara il treno si fermò una decina di minuti, di nuovo ripartì. Ora viaggiavamo circondati solo da estese campagne verdeggianti, le risaie sembravano dei piccoli laghi, o degli stagni, e attiravano la mia attenzione. Nel mio vagone un po’ per volta si svegliarono tutti, eravamo circa una quarantina, non facevamo altro che pestarci i piedi gli uni con gli altri. Mi augurai che il viaggio finisse presto.

Finalmente! Il treno rallentò e si fermò: eravamo a Livorno Ferraris. Appena fuori dalla stazione trovammo la compagnia anziani con il capitano ad attenderci. Il comandante ci dette il bene arrivati, espresse il suo piacere di essere il nostro superiore, sicuro che noi pure avremo fatto del nostro meglio per guadagnare la sua fiducia. Dopo il discorsetto entrammo nel paese, dove erano preparati i nostri accantonamenti.

La compagnia restò divisa in diversi alloggiamenti sparsi nel paese, noi eravamo contenti, pensavamo che ci fosse meno disciplina. Il paese che ci ospitava era tra i più ricchi per lo sviluppo agricolo. Se pure quasi tutta l’Italia incominciava a sentire la crisi della guerra che stava per scoppiare, là con poche lire si mangiava bene. Non mancavano divertimenti, feste tradizionali del paese, il tutto teneva allegria anche ai soldati.

"Ma noi non siamo qui per divertirci!" tuonava il capitano. Tutte le mattine incominciavano istruzioni e manovre, queste ultime due volte alla settimana, e marcia di resistenza. Quando si tornava, avevamo i piedi da medicare; con tale ritmo passavano i giorni, e noi incominciavamo ad ambientarci, malgrado tutto.

Una sera, tornando dalla libera uscita, trovai adunata tutta la compagnia. Il capitano impartì l’ordine di preparare la nostra roba perché tra qualche ora si doveva partire. Preparare lo zaino avrebbe dovuto essere un impegno di pochi minuti, invece fu la confusione di tutta la notte. Chi gridava da una parte e chi dall’altra, nei dormitori la paglia volava. Pensai a quante bestioline potevano esservi annidate. Suggestionato mi venne l’idea di controllare la mia camicia...che sorpresa! Trovai l’amico, disgraziatamente inseparabile, del soldato. Tanta fu la rabbia, e tanto il disagio - credevo di essere il solo ad avere i pidocchi - che subito pensai al modo di disfarmene. Qualche ora dopo, quando vennero a chiamarci per partire, mi trovavo con mezza biancheria lavata e, quindi, dovetti portarmela via bagnata.

Era di nuovo giorno, quando la lunga tradotta si mise in moto. A Torino cambiò linea e, una stazione dopo l’altra, verso le 11:00 arrivammo a Pinerolo. Nel mezzo della strada, pronti per metterci in marcia, arrivò l’ordine di consumare il rancio: mezza scatoletta e metà galletta. Quando tutti, compresi i signori ufficiali, furono pronti, ci mettemmo lo zaino in spalla e partimmo. Era la prima volta che si marciava con lo zaino pronto per la guerra, su una strada tra le peggiori, con il sole di mezzogiorno. Raccontare quella faticaccia? Potete immaginarla.

Finalmente verso sera arrivammo a Cumiana (Torino). Il paese era situato in collina e poco distante da dove ci eravamo fermati, ricordo che c’era un grande bosco di castagni. Ma noi la notte la passammo nella cunetta della strada e solo il mattino ci accorgemmo che avevamo dormito sui sassi.

Il primo giorno fu per noi di grande lavoro: che fatica rizzare la tenda, era la prima volta e, nonostante le numerose prove, non riuscivamo a sistemarla. I giorni che seguirono, come sempre, facevano parte della solita vita militare: camminate, istruzioni, ore libere, inoltre noi sei compagni eravamo impegnati a sistemare la tenda nel modo migliore.

Neppure a Cumiana era destino mettere radici: un ordine repentino fece di nuovo ripartire tutta la divisione. Che cosa era successo? Doveva essere qualcosa di grave, perché là senza inconvenienti straordinari si doveva restare fino al termine del campo estivo. Le prime ore del 7 giugno la compagnia era pronta e aspettava l’ordine di partenza. Un portaordini, giunto nel frattempo, chiese subito che fossero mandati al comando dieci soldati per caricare le munizioni. Tutti volevano essere tra i prescelti, sicuri di rimandare la partenza di qualche giorno. Il capitano, non sapendo cosa decidere, disse che si presentasse chi aveva le scarpe più malconce. Così le mie vecchie scarpe mi salvarono da una lunga marcia. Poco dopo la compagnia partiva ed io, assieme ad altri, restai al comando.

I due camion che trasportavano munizioni facevano spola tra Cumiana e Fenestrelle, il tratto era lungo e arrivavano a compiere appena due viaggi giornalieri. Così parte della giornata l’avevamo libera, e noi ne approfittavamo per assaltare piante di ciliegio nei dintorni. Ma anche il lavoro di carico stava per finire, non restava che l’attesa per il rientro.

Il 10 giugno, mentre eravamo intenti a preparare gli zaini, si diffuse la triste notizia che l’Italia entrava in guerra, ora non c’era più mistero sulla nostra destinazione: ci aspettava il fronte.

 

Fronte occidentale

 

Forte di Fenestrelle

Giungemmo a Fenestrelle sotto una pioggia torrenziale e per ritrovare la compagnia, rintanata in uno dei tanti baracconi, girovagammo a lungo. La prima impressione fu poco confortante: era meglio sotto la tenda, almeno eravamo solo in sei.

Per fare posto a noi nuovi arrivati, gli altri dovettero restringersi ancora, eravamo insaccati come sardine, un collega disse che non solo si stava male, ma c’erano i pidocchi; infatti, in quel posto, prima di noi, erano passati bersaglieri ed altri reparti, usando sempre la stessa paglia.

La mattina del giorno dopo, quando dettero la sveglia, la prima sorpresa fu che mi avevano rubato le fasce gambiere. Mi preoccupai: cosa fare? Fuori chiamavano l’adunata, ma per fortuna m’imbattei in un soldato che per il freddo ne portava due paia; dovetti supplicarlo e provvisoriamente me ne cedette un paio, così mi salvai da qualche brutta punizione.

Quel mattino incominciai, con tutta la compagnia, le solite prove di tattica di guerra. In quella occasione venni nominato capo arma, ed ebbi in dotazione una rivoltella al posto del moschetto; ero quasi contento perché era meno ingombrante e meno pesante da portare. Il guaio era che i mortai non arrivavano. Il giorno dopo il maggiore, al quale eravamo aggregati provvisoriamente, fece il suo discorso: con poche parole fece capire che tra qualche ora avremo raggiunto il fronte.

"Coraggio ragazzi," disse "ben presto avremo ragione del nemico."

A sentire lui doveva essere una passeggiata, e non capivo il perché di tanto entusiasmo; non arrivava il vestiario, neppure le scarpe e tutto quello che era estremamente necessario. E le armi... quando arrivavano?

La partenza fu per la sera seguente, senza tanti preparativi come al solito: quattro pacchetti di munizioni, due giorni di viveri riserva per ognuno e avanti. La strada ripida girava ininterrottamente sul dorso della montagna; camminammo tutta la notte, il mattino in lontananza scorgemmo la meta: Sestriere, ma sembrava non si arrivasse mai.

Finalmente ecco i primi alberghi, fra cui il Principe del Piemonte, il più alto e maestoso. Non avrei mai immaginato che lassù ci fosse così tanto lusso; noi passammo oltre i grandi hotel, e dopo ancora 500 metri venne dato l’alt. A Sestriere trascorremmo il resto della giornata e la notte. Lassù era freddo, per ripararci entrammo nelle casupole dei pastori. La mattina dopo ci mettemmo di nuovo in marcia, lungo la strada che scendeva sul versante opposto. Se per arrivare a Sestriere avevamo sudato sette camicie, ora i guai riguardavano i nostri piedi, ma non ci preoccupava solo questo. Eravamo in una zona pericolosa, sulle falde della montagna, i fragori dei combattimenti si sentivano e ci accompagnavano, spesso c’era l’allarme aereo e bisognava saltar fuori dalla strada per non essere individuati.

A buio arrivammo alle porte della cittadina di Ulzio e in una specie di palude dettero l’alt. La notte la passai vicino ad una pianta, sul rialzo delle sue grosse radici, il fango mi arrivava alle caviglie, e nel buio non trovai niente di meglio.

Non so precisare i pochi giorni in cui restammo in quel pantano. Quello che ricordo è che per noi si metteva male: il colonnello, visto che le armi - i mortai - non arrivavano, credette bene sfasciare la compagnia e aggregare i componenti alle diverse compagnie. Fu estremamente negativo per noi, proprio nel momento in cui si sentiva il bisogno più che mai di compagni amici.

La notte della domenica, preparati i nostri zaini, con il più fitto delle tenebre, lasciammo Ulzio e la palude per raggiungere la linea avanzata.

La prima tappa era solo ad una decina di chilometri da Cesana (Torino), alle falde del forte Chaberton; là le compagnie vennero sistemate sotto un costone. La mia restò indietro e il nostro capitano, in poche parole, fece capire che era arrivata l’ora di lasciarci e il furiere ci chiamò per nome dandoci le nostre destinazioni.

Io con quattro altri fui destinato alla 5a compagnia fucilieri. Senza chiasso, senza un saluto a quelli che erano stati compagni e amici, tutti se ne andarono. Anche noi cinque andammo in cerca del nostro comandante.

Alla 5a compagnia trovammo un’accoglienza fredda; il tenente che la comandava disse solo: "Arrangiatevi alla meglio, in attesa di mie nuove disposizioni!"

Ora che fare, sotto la pioggia che imperversava da ore, completamente bagnati e senza un riparo? La soluzione era quella di preparare la tenda, ma bisognava scavare perché la zona era ripida e scoscesa. Finalmente la tenda venne rizzata, ma una volta raggruppati sotto, intirizziti dal freddo, ci chiedemmo: "Ci lasceranno riposare?" Chiamarono per il rancio, anche noi con le nostre gavette ci avvicinammo, eravamo digiuni dalla sera.

"Niente!" disse l’ufficiale di sevizio "Voi non siete in forza oggi, domani incomincerete a partecipare."

Le nostre ragioni non valsero, dovemmo accontentarci dell’ultimo mestolo di brodaglia, datoci come per carità, tutto il resto, che quel giorno fortunato c’era da mangiare, a noi fu negato.

Con quel viatico qualche ora dopo, e sotto una pioggia torrenziale, ci incamminammo verso il forte francese Janus.

 

Montgenèvre

Lo strapazzo, il disagio e la fatica si sentivano più nelle marce notturne, e quella notte fu memorabile: si camminava dalla sera e sempre sotto la pioggia battente, i nostri vestiti erano appiccicati sulla pelle e mettevano un freddo che penetrava nelle ossa.

Anche la marcia era estremamente silenziosa, camminavamo come automi e si sentiva solo qualche comando secco, come: "Date strada alle macchine!"

Di quelle tante erano autoambulanze cariche di feriti che tornavano dal fronte.

Le prime persone che quel mattino nebbioso incrociammo furono i soldati della divisione a cui dovevamo dare il cambio. Scendevano alla rinfusa, per ripararsi avevano sulle spalle lacere coperte o teli da tenda, mentre zaino e armi erano stati abbandonati. Alle nostre domande preferivano non rispondere, qualcuno di loro, con ancora dell’ironia, ci diceva: "Li proverete!"

Si riferiva, ovviamente, ai francesi.

Più avanti passammo nella prima linea di fili spinati, poi bisognava attraversare un prato, sotto l’osservazione del nemico; la fortuna ci assistette perché la nebbia ci nascose. Oltre c’era il bosco di conifere, eravamo al riparo dall’artiglieria francese, ma ci avvicinavamo sempre più al nemico, quindi bisognava camminare con precauzione.

Il 1° e il 2° battaglione andarono subito nei posti più avanzati, il mio, che era il terzo, restò di rincalzo.

 

Dopo un tempo che sembrò interminabile, il maggiore ordinò di accomodarsi alla meglio. La prima cosa che feci fu di cercare qualche cosa di asciutto nello zaino. Niente, era tutto bagnato, e non potevamo pensare ad accendere un fuoco. Per completare il tutto, smise di piovere, ma cominciò a nevicare, eravamo a 2500 metri. Digiuni da 24 ore, in quelle condizioni, non eravamo veramente da invidiare. Altro non restava che ripararsi alla meglio dietro il fusto di una pianta. La stanchezza mi vinse. Dormivo forse da una o due ore, quando venni scosso da una terribile deflagrazione; mi svegliai di soprassalto, per prima cosa cercai i compagni che, però, erano spariti. Poco sopra gridavano, chiamavano, vidi soldati che correvano spaventati. Presi le scarpe per calzarle, ma impossibile, le gambe si erano irrigidite, non potevo alzarmi. Incominciai a massaggiarmi perché sapevo che in quel caso bisognava fare così. Ero intento in tale esercizio, quando un altro fragoroso scoppio, seguito da un secondo e da un terzo, mi fecero sobbalzare; nello stesso tempo, schegge, sassi e terra volavano.

Saltai in piedi con le scarpe in mano, iniziai a correre come un disperato, ma feci più di cento metri prima d’accorgermi che mi trovavo sulla neve. Dietro un grosso larice, a bocconi per terra, restai sospeso tra la vita e la morte per parecchio tempo, tutto intorno era crivellato da bombe; poi finalmente il fuoco nemico cominciò a diradare.

Cosa era successo per essere stati presi di mira in quel modo? La risposta l’avemmo più tardi: un reparto di fascisti, col loro fare "da eroi", si era fatto individuare dal forte francese. Nello sprazzo di tempo in cui la nebbia s’era diradata ci avevano puntato addosso tutta l’artiglieria del forte. Questo episodio causò diversi morti e feriti nel battaglione, sacrificati per "i signori della guerra". Dopo quello spavento, avessimo almeno avuto un po’ di tregua per riprenderci! No, a mezzanotte c’era l’ordine di attaccare il forte francese.

I preparativi erano a buon punto, quando la voce si diffuse in un baleno: la Francia aveva chiesto l’armistizio. Anche i marconisti confermarono la buona notizia, ormai la Francia non faceva più paura.

Immaginate la gioia dentro di noi in quel momento? Impossibile descriverla. Ufficiali e soldati, senza distinzione, si abbracciavano, cantavano, gridavano. Però era destino che anche quella notte non si potesse riposare. Nella improvvisata euforia per la notizia ricevuta non ci eravamo accorti che il fuoco nemico non cessava, anzi aumentava d’intensità. Che cosa era successo? I francesi avevano firmato l’armistizio, ma il cessare il fuoco scadeva a mezzanotte, quindi per vendetta continuavano.

Ma sopraggiunse anche un altro disagio: era caduta la neve e aveva portato un freddo insostenibile dal nostro equipaggiamento estivo, tanto che avevamo dovuto battere i piedi tutta la notte per non gelare.

Il nuovo giorno venne salutato con grandi fuochi, ora ci si poteva vendicare del freddo patito. A tarda ora arrivarono anche i muli con i viveri e furono salutati con grida di "evviva".

La distribuzione delle razioni alimentari era stata fatta anche il giorno prima, così quella volta potei sfamarmi. Verso sera lasciammo il costone, portandoci dietro solo il suo triste ricordo e, attraversando la foresta sottostante, raggiungemmo la strada che portava alla contrada francese di Montgenèvre. La strada era breve, ma potemmo vedere uno spettacolo indimenticabile: il terreno più si andava avanti più era pieno di morti, tanti erano squarciati dalle bombe e aspettavano di essere seppelliti.

A sollevare in parte lo spirito così atrocemente provato fu l'inaspettata sorpresa trovata nel borgo francese. Il primo impatto fu quello di trovarsi davanti ad un paese completamente abbandonato, e avemmo una cattiva impressione. Ma quale fu la sorpresa quando il colonnello diede l'ordine di occupazione! Le poche case ancora in piedi risparmiate dall'artiglieria erano alberghi e hotel che portavano ancora i segni di una precipitosa fuga. In quegli ambienti abbandonati trovammo di tutto, qualunque cosa ci potesse servire in quel momento. Nelle cantine ricolme di liquori e pregiati vini c’era di che sfamarsi, c’erano guardaroba pieni di biancheria, necessaria nelle nostre condizioni disagiate. Le camere aspettavano solo l'ospite e quella volta eravamo noi gli attesi ospiti. La cuccagna durò tre giorni. Alla fine del terzo giorno la mia compagnia ricevette l'ordine di portarsi nelle posizioni precedentemente conquistate, come presidio. Malvolentieri dovemmo fare i fagotti e lasciare ai più fortunati il delizioso borgo.

La guardia era dura, si montava di pattuglia giorno e notte, il servizio era di stare sotto il massiccio del forte. In quei giorni ricevemmo la visita del duce, subito dopo quella del principe di Piemonte. Pronunciarono brevi discorsi, le solite chiacchiere: vincere, vinceremo.

Così terminava la guerra di Francia, che in quei giorni sentii così dura.

Oggi che scrivo sono passati tanti anni ed ho un lontano ricordo. Ma voglio rievocare quei momenti perché fu allora che incominciai quella serie di peripezie che sarebbero durate ininterrottamente per sei anni. E fu proprio là che iniziò a colpirmi la malattia che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita...

 

Breve pausa

 

None (Torino)

Verso la metà del mese di luglio eravamo di nuovo accampati nella palude vicino a Ulzio. Era però asciutta e grazie all'altitudine - 1000 metri - non si stava tanto male. Anche la cittadina aveva ripreso il suo normale andamento.

Una sera, uscito in permesso, incontrai dei paesani, reduci da poco dal fronte. Passammo una bella serata assieme, raccontandoci a vicenda le avventure vissute.

Il giorno 20 dello stesso mese, il generale mise in marcia la divisione. Prima tappa da ricordare, dopo 40 chilometri, raggiunta dopo quattro giorni, fu None, vicino Torino. Restammo nei dintorni del paese venti giorni circa, accampati sotto le piante, lungo i fossati.

La disciplina, che era quasi un ricordo, incominciò a farsi sentire, ed anche la paga di guerra venne levata. Così ci sentivamo privi anche di quella risorsa. L’unica e bella soddisfazione fu il ripristino della nostra compagnia.

Il 10 agosto ci fu una nuova partenza per destinazione ignota. Questa volta però si andava col treno: allora avanti, verso altre avventure.

 

Rovetta (Bergamo)

La lunga tradotta due giorni dopo toccava l’ultima stazione, Clusone, in Val Seriana. Il nostro accampamento venne destinato a Rovetta, un paese poco distante. Scaricata la nostra roba, zaino in spalla, si raggiunse immediatamente la nostra sede.

Arrivati là, il primo nostro lavoro fu quello di piantare le tende. Eravamo a pochi metri dal paese, ma a noi non era concesso un alloggio migliore. Si poteva ringraziare la provvidenza perché la stagione era propizia. Anche là dovevamo svolgere il solito servizio: camminate, istruzioni sulle armi e manovre a fuoco.

Così passarono i due mesi estivi, il terzo, che fu anche l’ultimo, incominciò la scuola delle grandi manovre: si girava per settimane in mezzo a monti e a valli. Le manovre ebbero termine a Schilpario con una grossa manovra a fuoco. Il 1° novembre demmo l’addio alla Val Seriana che con i suoi monti ci ricordava le nostre valli trentine. Ancora una volta il treno ci portava lontano…

 

Rebbio (Como)

Como si presentò come una bella città, ideale per noi militari. Quasi tutte le sere libere, seppur distaccati, in una mezz’ora a piedi raggiungevamo il centro. Nei cinema, nei ritrovi, lungo i viali costeggianti il lago c’era da spassarsela. Le vie formicolavano di militari, di questi la maggior parte erano richiamati. Per fortuna la disciplina non era molto severa, tutti così cercavano il più possibile di godersela per dimenticare.

Ormai per nessuno era un mistero e si aspettava con animo febbrile la nuova partenza, che era certo in zona di guerra. Intanto in Africa e in Grecia continuavano ad affluire le nostre divisioni migliori.

Il 20 dicembre, anche per la mia divisione suonò la sua ora. Il mattino presto, tutta la compagnia era adunata nel cortile dell’accantonamento, eravamo disposti in file distanziate e incominciò la distribuzione del nuovo equipaggiamento per affrontare i rigori dell’inverno in zona di guerra.

Addio licenza! Sembrava svanita ogni possibilità di rivedere, magari per breve tempo, il paese e la famiglia. Così, senza quella speranza, un giorno dopo l’altro, eravamo arrivati a Natale.

Il colonnello, dietro insistenza di tutti i reparti, e forse credendo fosse la cosa migliore, largheggiò in permessi, per le province lombarde. Noi trentini - che eravamo la maggioranza nella mia compagnia - eravamo esclusi. Questo non era giusto; tutti assieme, senza perdere tempo, chiedemmo spiegazioni al nostro capitano; questi, vedendosi circondato da tanti suoi soldati, chiese colloquio al colonnello. La sera stessa - era la vigilia di Natale - eravamo in possesso del permesso di 70 ore. In pochi minuti preparammo le nostre cose e, senza altri ordini, come fuggiaschi corremmo al primo treno in partenza per Milano, quindi verso Trento.

 

1 gennaio 1941

Quel giorno a noi non venne concesso alcun festeggiamento. Alla stazione tre tradotte aspettavano il loro carico, che dalle caserme affluiva con ritmo accelerato. La sera stessa correvano verso la Puglia.

Com’era vuota la caserma! Solo paglia, stracci e roba non servibile era sparsa ovunque. I pochi soldati, che ancora restavano, aspettavano ordini per raggiungere gli altri. Tra questi una diecina erano della mia compagnia; tutti andavamo e venivamo dalla caserma, senza controllo, giravamo a nostro piacimento, ma la città non ci sembrava più quella di prima. Col reggimento se n’era andato anche il nostro spirito, si sapeva che quelle "arie" non erano più per noi.

Prima di lasciare definitivamente Como, nell’intervallo precedente la partenza -prolungatosi per più d’un ora - uscii con il mio compagno per dare l’ultimo addio alla città. La visita fu breve, ma significativa.

Da parte mia, quando salii sul carrozzone stavo meglio e qualche ora dopo dormivo. Quando mi svegliai, il treno passava la stazione di Bologna.

 Bari

Giungemmo al porto di Bari dopo due giorni di viaggio stancante. Tutti eravamo convinti che, una volta arrivati, si trovasse qualcosa di più comodo. Ma la prima notte dopo il nostro arrivo fu una delusione: nel grande stabile dove fummo accompagnati, il policlinico in costruzione, non c’era posto. Ogni angolo era occupato dai reparti in attesa di partire per l’Albania. Solo con il loro imbarco potevano lasciare il posto ad altri. La prima sera dovemmo accontentarci del piazzale, anche se pioveva. In attesa della partenza, nella città c’erano sicuramente i mezzi per spassarsela. Per noi del settentrione, tutto era novità: abitudini e usanze contrastavano con i nostri costumi. Anche i prezzi sul mercato erano irrisori se confrontati con i nostri; ne approfittammo, ovviamente nei limiti delle nostre possibilità.

Il 20 gennaio arrivò l’ordine per l’imbarco. Due giorni dopo eravamo a bordo del piccolo mercantile. Salpò di notte, ma dopo poche miglia dovette invertire la rotta, in quanto era stato individuato dai sommergibili inglesi. La notte del giorno seguente fu più fortunato e poté lambire la costa albanese ed effettuare lo sbarco. Era il 26 gennaio, e ci accampammo per la notte a Valona.

 

fronte greco-albanese

 

Da Valona a Tepeleni

Tra le poche strade carrozzabili che dal porto di Valona si inoltravano nell’interno, quella che passava per Tepeleni e Argirocastro era la più battuta in quei giorni: lunghe colonne di macchine e uomini appiedati la percorrevano ininterrottamente. Anche noi dovevamo camminare per quella strada per raggiungere al fronte il nostro reparto.

Il mattino, dopo lo sbarco, unito il materiale e caricati i muli, lasciammo il porto procedendo verso l’interno, dove si sentiva, nell’inoltrarsi, il rombo del cannone.

Era qualche ora che si camminava, quando per caso m’incrociai con un compagno di scuola, ma in che condizioni era ridotto! Mi raccontò in un breve colloquio le ultime avventure vissute. Era sbarcato qualche mese prima e da allora era stato nelle prime linee. L’attacco dei greci delle ultime settimane era stato disastroso, il suo reparto completamente distrutto. Lui e altri pochi si erano salvati, ma in che condizioni!

La sera del secondo giorno di marcia fui assegnato di guardia ai muli. Si trattava, dopo avere camminato tutto il giorno, di passare la notte battendo i piedi, per non gelare. I muli quella notte sembrava avessero il diavolo in corpo. Ruppero la catena alla quale erano legati, forse dalla fame, e sfasciarono le balle di foraggio di riserva. Era tanta la rabbia che avevo dentro: presi il fucile per le canne e incominciai a menare colpi sulle teste dei quadrupedi. Quel gesto d’incontrollata reazione nervosa poteva costarmi caro, molto caro, me ne resi conto subito; infine, un colpo ben assestato si portò via tutto il calcio del fucile e restai con in mano le sole canne. Immediatamente mi resi conto del reato che avevo commesso, pensai che mi sarei dovuto recare al fronte con il fucile sfasciato. Per fortuna nessuno si era accorto di questo fatto, tutti dormivano. Cercai dello spago e alla meglio aggiustai l’arma. Il sonno, come pure la stanchezza, non li sentivo, e trepidante attesi il mattino, sperando che nessun superiore si fosse accorto del gesto.

Il terzo giorno di marcia fu più lungo dei precedenti. Quando diedero l’alt, era notte inoltrata ed avevamo raggiunto il comando della divisione.

Al mio risveglio al mattino ero abbastanza su di morale, avevano promesso che avrebbero distribuito vari generi di conforto, anche per i giorni precedenti; dunque, coraggio, si mangiava. Qualche momento dopo il caporale passava squadra dopo squadra e distribuiva pane fresco, formaggio, vino e cioccolata. Eravamo intenti al primo assaggio di quel ben di Dio, ancora mezzi svestiti, quando la nostra improvvisata allegria fu rotta dall’apparizione dell’aviazione nemica. Una squadriglia seguiva l’altra, sfrecciando sopra di noi; il pensiero che subito passò nelle nostre teste, vedendo che la nostra contraerea non interveniva, era che fossero "i nostri". Erano scomparsi e ormai si pensava: "Siano amici o nemici, si arrangeranno più avanti."

Fu quello che passò nei nostri cervelli, ma subito dopo gli aerei si girarono e in picchiata vennero verso di noi.

Cento metri dal luogo dove eravamo noi si trovava il grande ospedale da campo, che in quei giorni era pieno di feriti; venne colpito in pieno, così pure il cimitero di guerra adiacente. Quindi, persone già ferite furono colpite di nuovo e i morti scaraventati fuori dalla loro fossa; uno spavento immaginabile per giorni ci accompagnò.

 

 

Tepeleni

E’ troppo lungo raccontare di questa borgata albanese che fu, per diversi mesi, centro del fronte, quindi riassumo in breve.

Da una curva della strada, ancora da lontano, venne segnalata Tepeleni. Laggiù in quei paraggi era in posizione anche il nostro reggimento e, per questo, seppure ancora lontani, iniziammo ad interessarci. Quello che alla nostra vista era possibile vedere confortava poco: macerie e ancora macerie, solo qualche grigia parete sembrava volesse sfidare il triste destino.

Ad un certo punto la strada scendeva, per poi risalire sul versante opposto. Noi, ormai accompagnati dal rombo delle grosse artiglierie, proseguivamo incerti. Si camminava ancora, solo pochi metri ci dividevano dal paese, quando trovammo un posto di blocco, dove un ufficiale precisò che non si poteva andare avanti, se non a buio inoltrato. E venne la notte, ormai il cielo e la terra formavano una sola massa oscura. Dopo averci impartito gli ordini, l’ufficiale dette il via alla partenza. Fatto un breve tratto nel buio, si scorgevano le sagome del diroccato paese, l’ordine era di passare uno per volta. Mezz’ora dopo eravamo fuori anche da quel pericolo. Camminammo ancora per circa un’ora, certamente non si poteva dire di essere al sicuro, anzi, man mano che si procedeva, sempre più intensa e roboante diventava la battaglia fra le opposte artiglierie.

A quel punto un altro ostacolo si parò sul nostro cammino: il ponte sulla Vojussa, lungo circa 300 metri, bersagliato senza posa dall’aviazione nemica e, in quel momento, non meno dall’artiglieria.

Mentre aspettavamo il nostro turno per passare, perché si poteva attraversare uno o due per volta, dall’altra parte del costone sovrastante fino alla cima della montagna, infieriva una battaglia senza confronti. Erano i nostri che avevano sferrato un rabbioso attacco: obbiettivo era la vetta del Monte Golico. Questa era la famosa cima, della quale anche noi ben presto dovemmo fare conoscenza; essa costò all’Italia la perdita di migliaia dei suoi migliori soldati che forse più nessuno ricorda. In quei giorni i pochi che tornavano da lassù portavano, come solo "trofeo", una canzone e la cantavano nei momenti malinconici e tristi. Ne ricordo alcune parole:

Sul Golico infuocato

i fanti della Legnano

sono volati in ciel! 29.01.1941

 

Monastir Kodra

Passato che avemmo il fiume, sfuggimmo fortunatamente al grave pericolo, ma la strada su cui noi dovevamo proseguire era il centro della battaglia: scoppi, squarci, fischi formidabili rischiaravano la notte. Qualcuno arrivava vicino, allora giù a terra, poi avanti ancora pochi metri e di nuovo a terra.

Finalmente sembrava che i colpi diradassero, girammo dietro la montagna ancora qualche chilometro ed arrivammo. E così terminava quella marcia lunga più di 200 chilometri per raggiungere il nostro reggimento in quella valle, denominata allora "la valle della morte".

Quando mi risvegliai il mattino seguente ero completamente bagnato. I compagni con cui dividevo il giaciglio dormivano ancora. Diedi un’occhiata in giro per rendermi conto dove mi trovavo, dato che al nostro arrivo era buio. Sotto scorreva il fiume in piena, eravamo su un costone senza alcun riparo. Bisognava fare qualcosa. Chiamai i compagni: "Sveglia che piove!"

Quasi si arrabbiarono: "Lasciaci dormire!" brontolarono.

Ma ben presto si persuasero che là non c’era posto per gli scherzi. Anche gli altri arrivati con noi saltarono in piedi, bisognava crearsi un riparo e rizzare la tenda.

Quando, dopo un lavoro di scavo di qualche oretta, "il cucio", cioè il nostro giaciglio, era pronto per riceverci, potevamo constatare che l'acqua usciva anche dalle nostre scarpe. Bella accoglienza avevamo ricevuto.

Ci rifugiammo sotto la tenda, completamente bagnati e seduti nel fango, assistendo al solito spettacolo.

"Speriamo," si diceva tra noi "che le cannonate vadano sempre laggiù oltre il fiume. Forse questa sera ci lasceranno riposare..."

Infatti, eravamo in condizioni pietose. Ma così non la pensava il maggiore, comandante del nostro distaccamento. Erano circa le quattro pomeridiane quando arrivò uno del comando e, con poche parole piene di prepotenza, ordinò che quella sera si raggiungesse la prima linea. Volente o nolente, non era il caso di farcelo ripetere. Eravamo già stati informati delle gesta del "magnanimo" comandante, specie in quelle ore, quando ormai era in preda alle fantasie del cognac, che sottraeva regolarmente ai soldati, e questi, impantanati nella neve e nel fango, morivano "gloriosamente" per la patria.

Ma se il furore di questi eroici comandanti era contro noi, non lo era meno il furore del cielo: dal mattino era infatti scoppiata una bufera di acqua e neve che non cessava, anzi, sembrava aumentasse.

Un’ora dopo, 150 muli affiancati, carichi di munizioni e viveri, aspettavano l’ordine di partenza.

 

Bregianit

Il nome correva di bocca in bocca: la sera ci attendeva quella cima. Qualcuno tra di noi diceva di sapere dove si trovava e che era necessario camminare quattro o cinque ore per raggiungere la meta. Nessuno però, esclusa la guida che ci accompagnava, sapeva da che parte bisognava incamminarsi in quel buio.

Noi quattro compagni e amici da tanto tempo, più anziani d’esperienza, ci infilammo nella lunga colonna, uno vicino all’altro, d’accordo di aiutarci in caso di emergenza.

Quella sera avemmo la certezza che gli albanesi erano stati incapaci di tracciare, non solo le strade, ma neppure le mulattiere. Dopo avere camminato per qualche chilometro sulla strada costruita dagli italiani, prendemmo un sentiero costeggiante il fiume, in mezzo a precipizi e burroni; in quegli stretti passaggi pericolosi, parecchi muli carichi rotolarono nella Vojussa in piena. Il lento procedere, oltre ad essere ostacolato dal buio e da grossi pericoli, era intralciato dalle lunghe colonne dei feriti e degli affetti da congelamento che cercavano con la forza della disperazione di raggiungere i primi posti di medicazione.

Fu verso le prime ore del mattino che, sfiniti e coperti di fango, arrivammo sull’altopiano, dove in quattro casupole si trovava il comando del reggimento. Volevano farci ancora proseguire, ma quella volta avevano sbagliato i conti. I quadrupedi trascinati fino in quel punto, con ogni mezzo, non reggevano più e uno alla volta caddero sfiniti.

Pieni di fango, sanguinanti, quasi irriconoscibili, il tardo mattino eravamo di ritorno da quella prima missione.

Prima di buttarci in quelle coperte bagnate, cercando un po' di riposo, pensammo bene di levarci tutti gli indumenti di dosso e lasciarli fuori sui cespugli, in modo che le intemperie li pulissero.

Il nostro sonno fu pesante - non arrivarono a svegliarci le bombe scoppiate vicino - e chissà quanto ancora sarebbe durato se il nostro "angelo custode" non avesse cominciato ad urlare i nostri nomi: "Su, preparate i muli!"

Era quel "bravo sergente" che per nulla al mondo avrebbe trasgredito gli ordini superiori. Protestare? Inutile.

Indossare quegli stracci bagnati, gettati sulle spine il mattino prima, fu la cosa più semplice del mondo. Del resto non c’era da scegliere.

Dieci giorni durò questa prima fase dell’intervento: né noi né il tempo mancammo ai nostri doveri e inoltre fummo bersagliati da ripetuti attacchi nemici. Sembrava avessero un orario fisso.

Le perdite nostre erano state tante, ma il vero macello riguardò i muli, metà dei quali andarono perduti. Ma quello che portò più problemi a tutti noi fu l’abbattimento del ponte sul fiume. La mia divisione ed altri reparti congiunti si trovarono completamente tagliati fuori. I viveri e altri rifornimenti, comprese le munizioni, erano sulla sponda opposta e incominciavano a scarseggiare. Ma a mettere fine a tutto furono ancora i greci, quando un pomeriggio colpirono e distrussero la nostra sussistenza (armi, munizioni, viveri). La fame divenne un incubo, ognuno dei nostri stomachi reclamava, ma inutilmente.

I greci erano al corrente della nostra situazione e ne approfittavano per sferrare ogni giorno rabbiosi attacchi.

Una sera arrivò l’ordine di portarci un paio di chilometri oltre il ponte Dragoti, gemello dell’altro da poco abbattuto, per avvicinarci alle linee avanzate. Si passava solo di notte; raccontare le vicissitudini della traversata di quel ponte sarebbe troppo doloroso. A un tiro di fucile c’erano i greci, e noi tutte le sere dovevamo passarlo, non prima di esserci raccomandati l’anima.

 

Dragoti

La zona in cui ci eravamo ritirati si trovava vicino al fiume, ma era anche più scoperta. La montagna, che gradualmente s’innalzava, Mali Scindeli, era piuttosto dolce, ma senza ripari. Tale spostamento fu fatto perché solamente in quel tratto di fiume sembrava possibile passare, con l’aiuto dei barconi e di passerelle su corde metalliche. Dall’altra sponda il genio militare di notte costruiva, ma veniva giorno e i greci con l’aviazione e l’artiglieria infaticabilmente demolivano.

Per il trasbordo a spalla una sera dovetti presentarmi anch’io, pur sapendo del grande pericolo a cui andavo incontro. Non cercai scappatoie, pensai che forse con un po' d’astuzia avrei potuto trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

Il lavoro quella notte consisteva nel portare casse dalla sponda opposta alla nostra, attraverso la passerella traballante. Il fiume in quel punto era diviso in due rami, nel bel mezzo formava un’isoletta che serviva bene come sosta. Là, su quel poco terreno asciutto risparmiato dall’inondazione, tutto era occupato da barelle con i feriti, che aspettavano il turno per passare sull’altra sponda. Nel buio, quasi senza accorgermi, mi trovai in mezzo a loro, dovetti chiamare in aiuto tutto il mio coraggio per resistere e sopportare un tale spettacolo.

"Mamma...aiuto...acqua..." sentivo implorare e le urla non avevano niente di umano; continuavano a chiamare, quei disgraziati, mentre i portaferiti con calma esasperante li stavano a guardare.

Arrivai sull’altra sponda e nel buio perdetti ogni contatto con i miei compagni. Mi avvicinai ad un gruppetto, pensando che fossero loro, ma mi sbagliavo; erano solo dei soldati sconosciuti intenti a vuotare una cassa di gallette, pane secco di riserva; non ci pensai due volte, avevo fame, e in fretta e furia cacciai nelle tasche e nel petto quanto più potevo. Presi a spalle una cassa e con il mio "doppio" carico ripassai il fiume.

Le gallette che mi erano rimaste le spartii con i compagni di tenda, che per l’improvvisa contentezza mi proclamarono "eroe della notte".

Anche quella volta l'avevamo scampata per un vero miracolo; era il nostro destino: "Se non oggi sarà domani. "

Chi parlava in quel modo era il mio amico.

 

Becisti

Da pochi minuti eravamo scampati ad un bombardamento a tappeto fino ad allora mai visto.

Mi trovavo nel recinto dei muli ed ero intento a dar loro la biada, povere bestie, in quei giorni digiunavano spesso. La mia attenzione fu attirata dal rombo di aerei; in principio a ciò non diedi troppa importanza, dato che venivano tanto spesso, ma quando m'accorsi che la contraerea insisteva sopra di noi, era troppo tardi: una squadriglia dopo l'altra a tappeto incominciarono a sganciare bombe. Mi buttai a terra credendo fosse arrivata l'ultima ora.

Quando credetti salutare alzare la testa, vidi solo fumo e polvere. Il primo pensiero fu per i compagni di tenda, tutti erano scampati al pericolo, uno solo dallo spavento aveva perso i sensi per una scheggia, che l’aveva colpito solo di rimbalzo.

Eravamo intenti nel rallegrarci del fatto che eravamo salvi, quando sopra di noi si fecero insistenti delle grida di aiuto.

Lo spettacolo era terrificante: un battaglione di alpini, che stava salendo il sentiero soprastante per dare il cambio nella linea avanzata, aveva trovato sotto quel bombardamento aereo la sua fine; solo pochi soldati erano rimasti illesi. Quella sera dovevo trovarmi lassù anch'io.

Con quel grosso spavento provato, alla vista di quella carneficina, quella notte fui segnato di servizio a Mezgoranit.

In quella zona del fronte a noi tutti erano noti i duri combattimenti che si accanivano in quei giorni. La mia divisione, in particolare, aveva avuto grosse perdite di uomini.

 

Mezgoranit

La mulattiera che conduceva in quel paesino era per me sconosciuta, quanto al compagno che mi seguiva nella missione, nemmeno parlarne: era un milanese, di quei tipi che si trovano a loro agio solo su un marciapiede di città, quindi, era solo d'impaccio. Nonostante i fastidi che mi avrebbe procurato in seguito, dovevo compiere la missione con lui.

Per prima cosa mi aggregai ad una delle colonne militari che quella sera percorrevano la stessa strada, così ero più sicuro di arrivare senza inconvenienti, dato il buio e il fatto che non conoscevo il percorso. La prima parte del viaggio andò abbastanza bene, la pioggia e il buio ci permisero di non essere individuati.

Arrivati nel piccolo borgo albanese, subito si fece avanti un militare, mi chiese se portavo viveri del comando. Risposi di sì. Ero contento di liberarmi di quel carico fastidioso, e pure pericoloso, e di ritornare sui miei passi lontano da tali insidie.

Lo seguii senza alcuna preoccupazione, mi condusse in una casupola e là scaricai il tutto.

"Ora puoi ritornare" mi dissero. Nel buio attesi che il mio compagno scaricasse, infatti qualche minuto dopo chiamarono il suo nome.

"Fai presto!" gli dissi.

Passò qualche minuto e sentii che chiamavano ancora il mio nome. Pensai: "Cosa vogliono adesso? Forse c’è qualcosa di rotto?"

"Vieni avanti a scaricare!" mi ordinarono.

"Ma come?" dissi loro "Se ho appena scaricato!"

Non l'avessi mai detto! Constatato che era vero quello che dicevo, perché non avevo nient’altro sul mulo, come un ladro preso un flagrante mi tirarono dentro e fui interrogato. Cos’era successo? Era scomparsa la merce che avevo portato, qualche imbroglione, evidentemente, l’aveva imboscata. Volevano sapere il nome dei complici, ogni parola era un'offesa; li scongiurai dicendo che ero innocente, ma niente. Visto che non potevano cavarmi di bocca altro, dissero: "Domani mattina alle nove, accompagnato dal tuo superiore, ti presenterai alla base davanti al colonnello. Lui deciderà la punizione che meriti!"

Ancora tra le lacrime li scongiurai che ero innocente, ma niente. Dicevo: "Credetemi, m'hanno imbrogliato e truffato!"

Come risposta mi buttarono fuori.

Feci il ritorno da solo perché il mio compagno se l'era squagliata; come uno che ha preso un colpo in testa, camminavo e cadevo: avevo contro quei furfanti un odio tale che li avrei strozzati, nello stesso tempo avevo la paura di ricevere un castigo immeritato. Sapevo cosa succedeva a chi aveva colpe come la mia: compagnia di punizione ed invio nelle prime linee, le più pericolose, e pochi tornavano da quelle missioni.

Per non perdermi in quel labirinto di spine, nel buio assoluto, non trovai di meglio che fidarmi del mulo, attaccandomi alla sua coda; strano quadrupede, che sempre trovava la strada del ritorno.

Lacero e sfinito arrivai alla tenda dei compagni.

Quella notte, malgrado la stanchezza, non potei dormire, credo di aver anche pregato: " Cosa ho fatto di male?" continuavo a dirmi.

Il mattino puntuale arrivò il sottufficiale e mi disse: "Devo accompagnarti al comando."

Lungo il breve tragitto gli ripetevo la mia innocenza, forse mi credeva, ma non sapeva rispondermi. Al comando ci fecero attendere, ma in cuor mio aspettavo rassegnato il verdetto.

Chiamarono il sottufficiale; dopo un po' questo ritornò e mi disse: "Sei fortunato, il colonnello questa notte è stato portato in Italia d'urgenza. Aspettano il nuovo comandante per decidere."

Incominciai a sperare, feci anche un voto: "Se torno farò dire una Messa al Santuario della Madonna."

Passarono i giorni e, come una bolla di sapone, il caso si disciolse; non mi cercarono più.

 

Sinanaja

I primi di marzo la divisione, dopo tante settimane di prima linea, ebbe un periodo di riposo e di assetto dei reparti.

Lunghe file di macchine oltre il fiume - il ponte di barche era in costruzione - caricavano e trasportavano nelle retrovie le compagnie che scendevano dal fronte. Solo gli addetti ai quadrupedi dovevano raggiungere la retrovia a piedi. Il mio mulo, ferito ad una zampa, faticava a seguire la colonna, ero dispiaciuto, avrei voluto aiutarlo, ma come? Non potevo dimenticare quante volte, con il suo intuito animale, m'aveva trovato la strada per arrivare a destinazione e, forse, salvato la vita.

All'alba del giorno dopo raggiungemmo i nostri reparti. Sembrava tutto tranquillo, una nuova vita, che bello se fosse durato! Anche il tempo s'era schiarito e aiutava veramente quel meritato riposo.

Il terzo giorno di sosta ricevemmo l'inaspettata visita di Mussolini, con il lungo seguito dei suoi generali. Passò in rivista il reggimento, pronunciò brevi parole di elogio e ripartì.

Due giorni dopo un ordine improvviso mise di nuovo in moto tutti i nostri reparti. La sera stessa raggiungevamo la prima linea, in aiuto al 48° reggimento fanteria, che si trovava in difficoltà. I conducenti dovettero fare la strada in senso inverso a piedi. Quella volta il mulo, già molto provato per la marcia, zoppicava ancora di più.

Stavamo per attraversare il fiume quando il capitano veterinario, che si era appostato per osservare meglio i quadrupedi, s'accorse che il mio zoppicava. Mi ordinò allora di raggiungere l'infermeria quadrupedi. Qualche ora più tardi, dopo una visita più accurata, propose una lunga convalescenza all’animale perché si rimarginasse la sua ferita.

In quei giorni i muli erano preziosi, anche perché ne avevamo perduti molti, ed erano indispensabili quanto i soldati.

L'infermeria venne piantata su di un colle fuori dal tiro dell'artiglieria, dove però si dominava un tratto del fronte, nei dintorni di Tepeleni, che noi conoscevamo bene.

Nelle notti chiare, quando per motivi diversi non si prendeva sonno, eravamo testimoni delle dure battaglie che lassù, di fronte a noi, sulle pendici della montagna, si susseguivano ininterrottamente.

Anche le notizie che arrivavano non erano buone. Da parte mia vivevo nell’angoscioso timore di rientrare in servizio da un momento all’altro, perché dopo un po’ di tempo il quadrupede era in condizioni di riprendere la sua fatica.

Con quella preoccupazione passai ancora una settimana. Poi un ordine improvviso ci fece di nuovo traslocare.

Dopo due giorni e due notti di cammino ci inoltrammo in una valle, a noi sconosciuta, e vicino ad un ruscello ci fecero piantare le tende.

Là anche il rombo del cannone sembrava lontano, solo i camion passavano sulla nuova strada, costruita in quei giorni; portavano i rifornimenti alle truppe dislocate nell'interno della valle a me sconosciuta.

Nessuno sembrava avesse notizie dei nostri reparti, dei nostri compagni, noi ne avremmo fatto senza, ma la pulce nell'orecchio ci diceva: "Non vi illudete!"

A portare notizie e altro arrivò una sera un soldato del comando, chiedendo che tutti i muli idonei fossero inviati immediatamente al comando base. Come era prevedibile, il mio venne scelto tra i primi.

Col piccolo gruppo, quella sera stessa, ci mettemmo in marcia e alle prime luci dell'alba ero di nuovo tra i vecchi compagni.

L'incontro fu per noi anche un momento d'emozione: erano tutti sani e illesi, ma quante ne avevano passate!

 

Cascisti

Tutte le sere, indistintamente, anche i quadrupedi più malconci dovevano partecipare alla spedizione.

Nei primi giorni tutto sembrava tranquillo, venivano prese le solite precauzioni, ma non c’era nulla che non fosse più allarmante del solito. Per raggiungere la mia compagnia, dove erano piazzati i mortai, occorrevano circa due ore; tutto funzionò bene, fino a quando si incominciò a parlare di "grande offensiva".

Le richieste di rifornimenti raddoppiarono e le povere bestie, sotto quel lavoro pesante di trasporto continuo, crepavano. Il maggiore, che comandava la base, risolse il problema obbligando i muli sani a raddoppiare la fatica per sostituire quelli che erano morti o i più deboli. Quella scelta risultò inaccettabile e disumana. Si partiva anche in pieno giorno esposti al tiro nemico, eravamo di ritorno a tarda sera, senza nemmeno un'ora di riposo; poi bisognava caricare di nuovo e partire. Ogni spedizione era destinata ai reparti più lontani e più avanzati, agli arditi, e consisteva nel trasporto di bombe a mano, granate, ecc. Senza elencare i gravi pericoli che essa comportava, se tutto andava bene, eravamo di ritorno il mattino seguente. Stanchi e ubriachi di sonno ci si addormentava senza avere voglia di mangiare.

Questa dura fatica finì nei giorni della Pasqua e, precisamente, il 14 aprile.

 Pasqua 1941

Da settimane si aspettava questo santo giorno; si parlava anche del giorno di riposo della truppa: un'oasi in mezzo a tanti sacrifici.

Quella mattina presto ci recammo alla Messa che per l'occasione venne celebrata al riparo, dietro un costone; finita la cerimonia nei nostri rifugi attendemmo il decantato pranzo. Ma la sorpresa fu ancora una volta una delusione. Il caporale, addetto alla distribuzione, mise nel coperchio due piccoli pezzetti di patate, con altrettanta carne; per innaffiare il pranzo di quella ricorrenza ci misero due dita di Chianti nel gavettino.

"E' la guerra, bisogna accontentarsi" andava dicendo il caporale, ma ci avrei scommesso che una buona parte delle vivande l'aveva fregata proprio lui. Quanto agli ufficiali, là sotto di noi, mezzi ubriachi, gozzovigliavano e cantavano.

Era destino che la Pasqua finisse male così come era cominciata. Stava per calare il tramonto e noi eravamo buttati sopra una coperta per cogliere gli ultimi raggi di sole, pensavamo a tutto, ma non a riprendere il servizio in prima linea, visto che ci avevano assicurato che ciò non sarebbe accaduto quel giorno.

Un ordine improvviso mise il campo in allarme: dovevamo partire tutti per i rifornimenti della linea avanzata.

Un'ora dopo eravamo alla polveriera a caricare le munizioni. Mentre eravamo intenti ad equilibrare il carico, si sparse una voce; in un primo momento non le demmo molta importanza, se ne sentivano tante di trovate, ma poi, pensandoci bene, perché dovevamo trasportare tutte quelle bombe da mortaio e artiglieria proprio quella sera? Ecco la risposta: quella notte doveva cominciare la grande offensiva italiana.

Strano a dirsi, ma nessun panico si diffuse tra noi, forse per effetto delle settimane e dei mesi di logorio continuo, delle perdite e della prostrazione che avevamo subìto. Le nostre truppe accettavano quasi passivamente i comandi superiori. A notte alta, arrivati alla nostra compagnia, il capitano - che ci attendeva - ordinò di recarci in un avvallamento più protetto, in attesa di suoi ordini. Dietro a dei cespugli cercammo un po' di riposo.

 

Offensiva sul Mali Scindeli

Le poche ore che restavano di quella notte le passammo piuttosto male. il freddo e l'attesa ci tennero svegli.

Alle ore 5:00 l'artiglieria cominciò a sparare; mai, dopo tanti mesi di guerra, eravamo stati testimoni di una simile battaglia.

Dal basso, dove si trovavano le postazioni greche, fino alla cima della montagna, metro per metro, tutto veniva colpito. In quell'azione era impegnata l'intera artiglieria con tutti i mortai, arrivata nuova dall'Italia.

E cosa fecero i greci in quell'inferno? Come si può immaginare non restò loro che darsela a gambe, infatti contraccambiarono pochi colpi, e poi più nulla.

Erano circa due ore che durava quel fuoco concentrico, quando i mortai e i piccoli calibri, per primi, cessarono di sparare.

Nel nostro settore, il 2° battaglione con reparti di arditi incominciò ad avanzare; come rincalzo seguivano il 3° e il 1° battaglione, dietro i quali seguivamo noi, a circa 200 metri, con i mortai da 81 mm.

I primi reparti, 7a e 5a compagnia, erano arrivati quasi alla sommità del monte quando, per un segnale sbagliato partito dai nostri osservatori, furono fatti segno dalla nostra artiglieria. Quell’errore ci costò più di trenta morti e vari feriti.

Quando la mia compagnia arrivò sulla cima, su un’altra più lontana si potevano vedere gli ultimi greci che scappavano. Le compagnie fucilieri proseguivano l'avanzata incalzando sempre e senza respiro: l'esercito greco in rotta. Sulla cima del monte, la mia compagnia restò ferma tutta la giornata e la notte seguente.

Il mattino presto arrivò l'ordine di scendere nelle nostre precedenti posizioni e poi, per una valle laterale, di raggiungere in fretta i reparti avanzati. Arrivati sul posto di prima, il capitano diede ordine che due di noi andassero al comando base a disposizione, fra questi fui scelto anch'io. All'accampamento rimanemmo poche ore, ormai era quasi abbandonato, poi scendemmo alla sussistenza per caricare il materiale di scorta.

Senza la più pallida idea di non ritornare, non ci preoccupammo di portare con noi lo stretto necessario, così, finito di caricare ed iniziata la marcia, constatammo che la strada non era più la solita, ma ormai era troppo tardi. Reclamare sarebbe stato inutile, anzi peggio, perché era nell'ordinamento che si doveva, per qualsiasi spostamento, portare con sé il proprio armamento e corredo. Per tale faciloneria il peggio doveva venire: infatti, quando diedero l'alt, era notte e pioveva, non c'era riparo e a noi, tremanti e in manica di camicia, non restava che prendersela con lo scalognato destino. Il freddo della notte e la stanchezza erano al limite della sopportazione: cercare almeno un riparo, questa era l'unica soluzione. Ma dove?

Forse è vero, quando tutto sembra contro di noi, ecco si apre uno spiraglio e qualcosa di superiore ci tende una mano. In un rifugio abbandonato trovai ospitalità, quattro soldati sconosciuti mi fecero posto davanti ad un grande fuoco. Passai il resto della notte accovacciato là, al riparo dalle intemperie.

Il mattino riprendemmo la marcia e, quando il sole, in un’alba purificata dalla notte di tempesta, si affacciò sulla cima della montagna, noi eravamo oltre la Valle d'Arza, ultimo baluardo della difesa greca.

Gradualmente si avanzava, ma davanti a noi si presentava uno spettacolo agghiacciante e terrificante: cadaveri e cadaveri, di ogni data, erano abbandonati ovunque. In quella zona da mesi infuriava una tremenda battaglia per il possesso di pochi metri, ma stava costando tanti lutti.

Alle 9:00 del mattino eravamo sulla sommità del Monte Groppa; all’inizio si camminava tra creste e nevai, dopo cominciava la discesa dalla parte opposta. A mezzogiorno diedero l'alt per un'ora; finalmente si erano decisi e ci distribuirono un pezzo di galletta, dopo trenta ore di fame.

La mulattiera che percorremmo in seguito era segnata dal passaggio delle capre; si saliva per due o trecento metri, poi si scendeva di altrettanto, finalmente verso mezzanotte eravamo nei pressi dell'accampamento dei nostri, visibile per i grandi fuochi accesi. Avrei voluto sapere dove si trovava la mia compagnia, ma prima dovevamo scaricare i muli e consegnare il tutto. Dato che potevo muovermi, iniziai a domandare, a cercare, ma un po' per il buio, un po' perché l'accampamento era molto vasto, non riuscii a trovarla. Dovetti aspettare la luce del giorno e passare così un'altra notte all'agghiaccio.

Per fortuna fu anche l'ultima da quelle parti.

 

Klisura

Alla mia divisione, dopo quella prima avanzata, fu assegnato qualche giorno di riposo. Altri reparti, autotrasportati, inseguivano l'esercito greco.

I giorni di riposo passarono in fretta e si attendeva, da un'ora all'altra, i camion per essere trasportati più avanti.

Ma fu destino - o fortuna - che quel giorno i greci chiedessero l'armistizio: era il 23 aprile 1941.

La notizia da noi venne accolta con un urlo generale di gioia. Dicevano che l'unico che non la pensasse così fosse il generale.

A Klisura restammo ancora una settimana, quei giorni fummo impegnati nella pulizia personale, si cercava di smaltire tutto il sudiciume accumulato in quei mesi di guerra. Anche i barbieri avevano il loro da fare. Il colonnello, nell'elogiare il nostro comportamento negli ultimi eventi, non mancò di dire che non voleva vedere più quelle "barbe di guerra". Lo disse in modo che non ammetteva replica.

Una sera, poco dopo il rancio, arrivò l'ordine di fare lo zaino: si doveva nuovamente partire. Questa volta però si voltavano le spalle e si tornava dove eravamo sbarcati o nei dintorni.

Sei giorni durò quella marcia di trasferimento, si camminava sempre nelle ore notturne perché il caldo del giorno rendeva troppo gravosa la marcia. Passammo per il centro di Berati e i primi di maggio raggiungemmo Fieri, dove ci accampammo per smaltire la quarantena, obbligatoria per il rientro in Italia.

 

Fieri

Là i giorni li passammo spendendo i risparmi accumulati, dato che nei mesi trascorsi si era nell'impossibilità di farlo. Il servizio era leggero, così parte del tempo lo trascorrevamo nei dintorni dello spaccio del battaglione.

Il territorio a nostra disposizione era grandioso: terreni incolti, fossati e boschi abbandonati. Non capivo perché gran parte degli albanesi viveva sulle colline aride, sui monti, in appollaiati paesucoli.

La risposta venne quando incominciarono la distribuzione del chinino: la zona, seppure fertile, era malarica.

Il 15 giugno, dopo altri due giorni di marcia, eravamo di nuovo in vista del mare, a Valona.

Qui terminava il nostro pellegrinare per l'Albania, cominciato a Valona il giorno dello sbarco, il 26 gennaio, e concluso nello stesso posto, dopo una camminata di circa 500 chilometri.

Il 22 giugno, alle 10:00 del mattino, la nave che ci rimpatriava usciva dalla baia di Valona diretta al porto di Brindisi.

La traversata dell'Adriatico durò una decina di ore, tutto era tranquillo e il mare calmo, la sera la nave entrò in porto. Dopo una breve formalità della dogana, finalmente sbarcammo. In attesa del treno, che ci avrebbe portati a Como, pernottammo fuori città.

Il ritorno in sede, a Como, fu bello e festoso, in ogni stazione la gente ci dimostrava la propria simpatia: era il ritorno dei reduci vittoriosi.

Dopo tre giorni di tradotta arrivammo alla stazione di Como,

dove trovammo una lieta sorpresa: tutta la città si era mobilitata, ci aspettava esultante ed imbandierata. Dal corteo fummo accompagnati alla nostra caserma.

 

sulla costa ligure

 In licenza

Nella notte insonne, mentre la tradotta traballante correva verso la sua meta, il mio pensiero volava da un giorno all'altro delle ultime settimane.

Ci fu concessa una licenza, che passò in fretta, un mese trascorso nella libertà, nel gioioso incontro con amici e familiari, nella propria casa.

Il pomeriggio in cui arrivai a casa, ebbi l’impressione che tutto fosse così bello. Poi un giorno dopo l'altro, quasi senza accorgermene, era arrivato il momento di ripartire.

Di nuovo addio, e via, verso altre avventure.

Tornati in sede dalla licenza, ricevemmo una sorpresa quando ci dissero che la divisione era stata trasferita in Liguria, così subito dopo fummo condotti al treno e partimmo. A Savona la tradotta rimase ferma una mezz'ora e quando riprese il viaggio cominciava ad albeggiare.

Il paesaggio che si poteva ammirare era veramente stupendo, era la prima volta che nella mia gioventù capitavo in un posto così bello, ne restai tanto affascinato da distogliermi dai malinconici pensieri.

Il treno, nella sua corsa, ci permetteva a stento di ammirare le piccole piane perché subito entrava in una galleria, ma poi, una volta uscito, ci faceva vedere un paesaggio ancora più bello.

Alle dieci il treno si fermò definitivamente: eravamo arrivati.

 

Andora (Savona)

Poco fuori dalla stazione, in una ex colonia marina, era accantonata la mia compagnia. Il paese non si presentava uno dei migliori della costa, ma per noi militari era bello ugualmente. Il territorio del circondario era ricco di frutteti, dove noi in libera uscita trovavamo alle volte di che sfamarci.

Una quindicina di giorni così, passarono presto, tutto sommato era una vita tranquilla e, grazie al nostro colonnello, la disciplina, che era solita alle truppe a riposo, non ci veniva imposta.

Fu con una certa ostilità che venne accolta la notizia della partenza per il campo, ma come sempre era un ordine superiore, e si doveva ubbidire.

La sera della partenza era una delle più belle del mese d’agosto; noi con i nostri zaini, voltate le spalle al paese, camminammo per la via Aurelia alla volta di Imperia. Giungemmo nel capoluogo con i piedi gonfi, infatti la strada asfaltata è micidiale per marciare. Là c’era l’ordine di proseguire per la valle fiancheggiante la città e giungere ad Aurigo, frazione di Borgomaro, 20 chilometri da Imperia.

 

Aurigo (Imperia)

Di questa sperduta contrada, situata nell’interno delle Alpi Liguri, c’è poco d’interessante da dire. Lassù trascorremmo una quarantina di giorni. Il tempo era impiegato per lo più come previsto dalle solite norme militari: esercitazioni a fuoco e marce d’allenamento. In complesso, però, sembravano lunghe passeggiate.

Le ultime settimane di permanenza, nel nostro tempo libero, dato che le castagne maturavano - il paese era ricco di castagneti - si cercava di coglierne il più possibile, per levarci in parte quella rabbiosa fame di dosso, dato che eravamo trattati "con parsimonia".

Una sera, al rientro dalla mensa ufficiali, il capitano trovò appesa alla sua tenda una collana con infilati i pochi "tubi" (maccheroncini) di una razione individuale di minestrone, pescata in una gavetta. Si trattò di un’ironica protesta contro la fame che ci facevano patire. Il capitano naturalmente andò su tutte le furie e avrebbe voluto conoscere il colpevole, così minacciò, in caso non fosse saltato fuori, l’intera compagnia.

Un giorno di ottobre il comandante ci radunò in fureria per avere le nostre generalità, al termine chiamò tutti quelli che si erano dichiarati rurali e lavoratori della terra: potevano usufruire della licenza agricola di trenta giorni più il viaggio; la partenza sarebbe stata per il giorno dopo.

La notizia ebbe l’effetto di una bomba, ce ne vollero delle belle per calmare gli animi, ma non parliamo dei delusi: questi, in parte, avevano le loro colpe perché, pur essendo agricoltori, per ambizione avevano dato generalità fasulle.

 

Alassio (Savona)

Solo per caso, di ritorno dalla licenza, scendemmo in quella stazione, nessuno ci aveva informati di un nuovo spostamento. Fu proprio quando il treno rallentò nella stazione di Alassio che vedemmo e riconoscemmo i nostri colleghi. Saputo da loro del perché si trovassero lì, in fretta e furia scendemmo anche noi.

La mia compagnia era sistemata nel Lido di Alassio, in un fabbricato in legno piantato tra spiaggia e mare.

La prima impressione, arrivati sul posto, non fu negativa: dal terrazzo sporgente sul mare si godeva un magnifico panorama.

Oltre alla mia compagnia, in quella bellissima cittadina balneare, s’era insediato il comando del reggimento. Alla sera e alla domenica la fanfara del reggimento dava concerti nei giardini della piazza principale, calorosamente accolti dalla cittadinanza.

Nei molti alberghi e ritrovi anche i militari erano ben accetti, così passarono i giorni, e niente di allarmante succedeva.

Il nostro compito principale era il controllo della costa, per scongiurare eventuali sbarchi, anche se i veri protagonisti del temuto sbarco - gli americani - ancora non erano entrati in guerra.

La vigilia di Natale mi buscai per punizione cinque giorni di guardia fissa, per fortuna in quei giorni festivi non c’era un vero controllo e la guardia non era pesante.

Il giorno di Natale ero di servizio alle scuderie, verso mezzogiorno stavo là da solo ad aspettare il mio compagno che poco prima era andato con le gavette alla compagnia, a prelevare la nostra razione. Quando all’improvviso sentii una voce femminile chiamare il mio nome, guardai meravigliato verso la casa di fronte, una signora mi fece segno di avvicinarmi e mi indicò il cancello perché entrassi in casa. Volevo risponderle che ero di servizio e non potevo muovermi, ma nello stesso tempo pensai che proprio quel giorno di Natale potevo fare uno strappo alla regola. Passai per il piccolo viale ed entrai in casa.

La signora mi venne incontro, mi pregò di accomodarmi in sala da pranzo, mi fece sedere, offrendomi di partecipare al banchetto familiare natalizio.

Ero impacciato e volevo scusarmi, ma la signora, come capisse quello che mi passava per la testa, disse: "Non si preoccupi più di tanto, forse le farà meraviglia, ma noi conosciamo la vostra sventura in questi giorni, castigati proprio sotto le feste natalizie."

Non sarebbe stato gentile rifiutare l’invito e presi posto alla tavola; oltre alla signora che m’aveva invitato c’erano il figlio e la nipote. Restai subito colpito dalla presenza di quest’ultima: era una bella ragazza e credo che mi innamorai subito di lei, tanto più che capii, qualcosa dentro di me lo diceva, di essere corrisposto.

Sembra scontato che quando credi di aver trovato qualche cosa di bello nella vita, questo finisca presto. Fu ciò che successe a me. Avevo avuto, diciamo, la fortuna d’incontrare delle persone amiche, fuori dall’ambiente militare, che mi apprezzavano per quello che ero ed avevano stima e fiducia in me. Perché avevano scelto proprio me in mezzo a più di quaranta compagni? Mi sentivo orgoglioso e nello stesso tempo ero loro grato.

Più tardi venni a sapere che Oriella era stata allevata dalla zia e tenuta come una figlia, la vedevo spesso e avevamo una grande simpatia reciproca. Ma il tutto doveva finire molto presto...

Il giorno dopo l’Epifania la mia compagnia ricevette l’ordine di trasferimento immediato al centro addestramento di Albenga, a cinque chilometri da Alassio. L’improvvisa partenza aveva creato malumore, non solo in me, ma in tanti altri commilitoni che nella cittadina avevano trovato sollievo e amicizia.

Il giorno dopo eravamo sistemati nella grande caserma sede della VI armata, nel suo interno si potevano incontrare militari delle varie armi dell’esercito.

In un reparto di camicie nere, ebbi occasione d’incontrare un mio compaesano, là per l’addestramento alle armi. Nelle ore di libera uscita lo vidi più volte, rimarcava sempre la fame che si pativa in quella sede e non aveva torto, anche per noi la situazione non era migliore; la differenza era che noi ci eravamo ormai abituati, mentre loro, i fascisti, avevano da sempre ricevuto un trattamento migliore.

Al centro addestramento il nostro servizio consisteva nel recarsi ogni mattina, dopo sette chilometri di strada, a Campochiesa, una frazione ai piedi della montagna, dove venivano eseguiti tiri di mortaio e con altre armi. Si trattava di esercitazioni per i vari reparti venuti appositamente per l’addestramento. Il servizio si svolgeva tutti i giorni della settimana ed era abbastanza gravoso. L’unico sollievo era che ci lasciavano dormire la notte, cosa che non succedeva molto spesso al reggimento, a causa dei continui allarmi, veri e finti. Nel centro addestramento rimanemmo fino agli ultimi di marzo.

In quel lungo periodo ero restato senza notizie della famiglia dei miei amici di Alassio. Una domenica mi feci coraggio e andai dal capitano per chiedergli un permesso fino alle ventitré, senza riferirgli l’intenzione di allontanarmi dal circondario. Ero assieme al sergente, unitosi all’ultimo momento, anche lui contento di rivedere altri amici di Alassio.

Fu una vera camminata fuori programma, ma ricompensata dall’accoglienza che ricevetti. Sentivo che quella brava e buona famiglia sarebbe restata per sempre nel mio cuore e non l’avrei più dimenticata. Avrei voluto incontrarli spesso, ma non mi era possibile. Solo due volte, inventando degli stratagemmi, potei incontrarli e poi...più nulla.

 

Andora (Savona)

Ci stabilimmo ancora ad Andora, questa però nell’interno, nella valle omonima. In seguito venni a sapere che di questo comune faceva parte anche Andora Marina, dove ci eravamo stanziati la prima volta del nostro arrivo in Liguria.

Per arrivare alla nuova destinazione non passammo per la strada principale, ma scelsero per noi una scorciatoia, la mulattiera che passava attraverso una montagnola. Il mio gruppo prese alloggio in un vecchio frantoio abbandonato.

La zona era agricola, coltivazione principale erano le pesche e tanta verdura, i contadini del luogo subito ci assediarono di richieste d’aiuto per i lavori agricoli più urgenti, promettendo di pagarci bene. Non sapevamo come comportarci e consigliammo loro di rivolgersi ai nostri superiori. Qualche giorno dopo il permesso era accordato, venni chiamato anch’io, dato che ero iscritto nei rurali. Assieme a un collega fummo accolti da un grande proprietario, il lavoro non mancava e ci pagava bene, il guaio era che il vitto che l’esercito dava non era sufficiente per sostenere tanta fatica. Il padrone, saputa la nostra situazione, portava sul lavoro per noi ogni giorno un piatto di fave: meglio che niente!

Alla metà di giugno arrivò ancora la licenza agricola per il taglio del grano: il cinquanta per cento di noi così partì.

Io dovetti aspettare il secondo turno, quello dell’alta Italia. Ma la licenza quando arrivò fu ugualmente ben accolta e presi il treno per il paese nativo.

 

San Remo (Imperia)

Tornai dalla licenza un mese dopo, la compagnia si stava preparando per le marce di allenamento. Dicevano di volere raggiungere il primato dell’alleato tedesco; la propaganda sosteneva che con un intenso allenamento i tedeschi erano arrivati a percorrere settanta chilometri giornalieri. C’era da stare allegri!

Il giorno dopo il mio rientro, mi presentai dal mio capitano perché avevo bisogno di un paio di scarpe. Lo trovai alla mensa ufficiali e stava parlando con il mio sergente; appena potei avvicinarlo gli spiegai le condizioni delle mie calzature, dicendo che in quello stato non potevo camminare.

Ero veramente sincero, ma mi aspettavo qualche rimbrotto, il momento era il meno adatto per avanzare richieste, dato che quel giorno ce n’erano state molte. Quando il capitano capì di che cosa si trattava disse: "Non ho la possibilità di accontentarti, ma potrei metterti a disposizione del sergente nelle salmerie, così potrai risparmiarti la marcia di domani. Senz’altro mi recherò da quest’ultimo per informarlo."

Qualche minuto dopo ero dal sergente che mi disse subito: "Avevo da poco invitato il capitano a mandarmi un soldato per accompagnare due muli ammalati."

Il sergente era più che contento che tale impegno lo prendessi io, non volevo dimostrargli la mia gioia, ma dissi che accettavo volentieri l’incarico.

La sera stessa preparai la mia roba e il mattino presto, mentre la compagnia partiva per la marcia, io quieto mi avviavo dalla parte opposta, verso l’infermeria quadrupedi di San Remo, dove arrivammo con i muli zoppicanti due giorni dopo. La distanza in chilometri non era tanta, ma si deve considerare che in carovana si camminava con muli ammalati e zoppi. San Remo, di cui tutti avevano sentito parlare, si presentò a noi come un incanto: fiori, giardini, ville principesche, il casinò. Bisogna dire che nel nostro pellegrinaggio, da un posto all’altro, qualche volta il luogo era più bello di quello che ci si aspettava. Attraversata la città, camminammo ancora cinquecento metri, dopo le ultime ville c’era il capannone a disposizione per noi.

Come in qualunque altra occasione, anche là vigeva la disciplina militare: non si poteva uscire senza permesso speciale, ma noi eravamo impazienti di visitare la città. Che fare? Quasi fossimo d’accordo e senza esitazione, salimmo in gran numero sul primo filobus che passò: volevamo vedere quella città incantata.

Paghi della spedizione clandestina ci preparammo per rientrare, timorosi che ci aspettasse una punizione. Ma quella volta eravamo stati veramente fortunati: nessuno sembrava si fosse accorto della nostra assenza, anzi non incontrammo quasi nessuno, i pochi che c’erano erano di guardia.

A San Remo, dopo questa nostra scappatella, iniziò la disciplina sistematica e regolare di sempre. Al mattino dovevamo fare la pulizia alle scuderie, subito dopo accompagnare gli animali alla visita veterinaria, finito questo impegno, che era il più gravoso, c’era la possibilità, senza farsi sorprendere, di recarsi in città o dove più piaceva.

Un mattino stavo terminando il mio servizio, quando mi annunciarono una visita e, da quello che mi dissero, capii che era per me molto importante, ma ancora non potevo crederci. Possibile? Io credevo che tutto fosse finito, ma mi sbagliavo, non m’aveva dimenticato: era Lei, Oriella. Come mi sentivo piccolo in quel momento!

Cercai di riavermi e le corsi in contro. Passammo una giornata indimenticabile, le ore correvano, visitammo tutto il meglio di San Remo, ogni angolo era una sorpresa. Avrei voluto dirle tante cose, ma dovetti limitarmi perché era accompagnata da un’amica. Mentre la riaccompagnavo alla stazione, dentro di me giurai che alla prima occasione sarei corso a casa sua per dichiararle i miei sentimenti. Ci salutammo, lei sembrava aver capito veramente quello che provavo, e forse anch’io capivo i suoi sentimenti.

A San Remo e lungo la riviera, dove quell’estate stanziava tutto il reggimento, si susseguirono due fatti, che al momento non ho citato, non dando loro l’importanza che hanno avuto.

La nostra divisione era destinata, per colmare le perdite, ad andare in Russia. Il generale comandante la formazione aveva caldeggiato codesta decisione, forse voleva fare aggiungersi qualche altra medaglia. Ma all’ultimo momento l’opportunità gli scappò di mano. Infatti, s’accorsero che là sul posto stazionava la divisione Cosseria che, da quando era scoppiato il conflitto mondiale, non si era mai mossa, quindi dovette partire; senza quell’imprevisto saremo stati destinati noi a fare la fine che toccò alla Cosseria: i soldati restarono quasi tutti dispersi nella steppa russa.

Il secondo fatto riguarda il peggioramento del mio stato di salute, che contribuì a condizionare fortemente il corso della mia giovane vita. Allora non potevo immaginare, non potevo pensare che quella piccola fitta che sentivo sulla spalla avrebbe avuto in futuro conseguenze così brutte. Avevo anche marcato visita, ma mi avevano sempre mandato via con un paio di giorni di servizio interno; secondo loro non avevo niente, solo un dolore passeggero. Non mi accanii oltre, c’era di mezzo la licenza e, come si può immaginare, non c’era licenza per i lavativi o per chi contestava troppo.

Il giorno dopo, nemmeno a farlo apposta, suonò l’allarme: si doveva partire per le grandi marce. Accennai al mio problema, ma il tenente rise e disse che non era un motivo per assentarmi. Per una settimana camminammo nell’interno delle valli liguri, sfiorando i confini francesi, l’unico conforto era alla sera quando davano l’alt: si poteva approfittare per fare qualche mangiata di castagne, bastava raccoglierle sul posto.

In ottobre ottenni la licenza agricola; non sentivo più dolore, avevo solo voglia - come sempre - di tornare a casa.

Qualche giorno dopo il mio arrivo confidai a mia madre quello che mi succedeva, mi consigliò di recarmi dal dottore del paese, mi disse anche che era una brava persona e anche medico militare, ed avrebbe capito.

Infatti, quando il giorno dopo mi presentai, fu gentile e premuroso, visitandomi volle sapere del servizio militare. Quando conobbe quante traversie avevo passato, fece la diagnosi, non diversa da quella fatta precedentemente in Liguria: reumatismi acquisiti in guerra.

 

occupazione della francia (1942)

 

La partenza

"All’armi, all’armi!!" gridava l’ufficiale di guardia, passando per le camerate, mentre in cortile squillavano le ultime note della tromba; qualcuno guardò l’orologio: erano le 0:40 dell’11 novembre 1942.

Nella confusione che regnava nessuno diede molta importanza al brutale modo in cui ci avevano svegliati. Da una decina di giorni ero tornato dalla licenza e l’allarme era suonato più di una notte, dicevano che erano stati segnalati aerei nemici.

Si usciva inquadrati dalla caserma - da novembre eravamo sistemati nella caserma della Cosseria - per rifugiarci lontano e non fare da bersaglio. Dopo ore di attesa snervante, battendo i piedi per non gelare, si rientrava senza aver visto o sentito nessun apparecchio causa di tale seccatura.

Ma quella volta dell’11 novembre non era il solito allarme, era un giorno che segnava una data storica: l’occupazione totale della Francia da parte delle forze italo-tedesche.

Il capitano entrò nella camerata come un fulmine, la sua toeletta era incompleta, aveva gli occhi rossi per la sveglia precipitosa; ci fece capire che qualcosa di molto serio e importante doveva averlo mosso, ancora prima degli ufficiali subalterni.

"Fate gli zaini, preparate la vostra roba. Si parte!" gridò tutto d’un fiato.

Chiunque altro fosse stato nei nostri panni, sarebbe stato spaventato della sorpresa. Per noi quel brusco risveglio faceva parte della normalità: quante e quante volte, in condizioni anche peggiori, eravamo stati protagonisti di partenze di quel genere.

Malgrado il continuo rimbeccare degli ufficiali che ci intimavano di muoverci, procedemmo con la calma acquisita dopo l’esperienza di tante altre spedizioni. Preparate le nostre cose, uno dopo l’altro, ci accingemmo a scendere nel piazzale, dove ci mettemmo ai posti assegnati.

I primi albori dell’alba incominciavano a diffondersi quando, terminati i preparativi, le compagnie inquadrate lasciavano la caserma da poco occupata. Le ultime a muoversi erano le carrette, che portavano i resti dei grossi fardelli che non potevano stare in spalla.

Attraversammo la città ancora immersa nel sonno. La marcia si avviava verso la frontiera: passammo Ospedaletti, Bordighera, Ventimiglia; ad un certo punto c’era una salita che portava al confine, e dopo si scendeva verso la cittadina francese di Mentone.

Arrivammo là che era buio, passammo anche gli ultimi fabbricati e in un uliveto dettero l’alt per la notte.

Il mattino presto, dopo aver distribuito il caffè, si partì di nuovo e verso le dieci eravamo sulla strada che tagliava la collina rocciosa del Principato di Monaco. Là facemmo una sosta di venti minuti e in quel piccolo lasso di tempo potemmo ammirare, dal ciglio della strada, lo sfarzoso casinò, ritrovo di ricchi giocatori.

Alle cinque di sera eravamo in vista di Nizza. In quel tratto la strada scendeva ancora qualche centinaia di metri per giungere nella tanto disputata città.

Ma ad un certo punto la lunga colonna si fermò, il capitano colse l’occasione per richiamare l’ordine: "Bisogna presentarsi bene!" ripeté. Il tempo passava e noi impazienti attendevamo, pensavamo che di certo ci stavano mettendo a disposizione qualche palazzo o qualche fabbricato decente. O, ancora meglio, stavano preparandoci una festosa accoglienza. Avevamo dimenticato quella sera che noi facevamo parte dell’Esercito Italiano e quindi, secondo i nostri superiori, eravamo indegni di tanta attenzione.

 

Nizza

La prima notte trascorsa a Nizza, il nostro comodo letto fu 1a cunetta della strada e il rialzo del marciapiede servì da cuscino; alle tre del mattino eravamo tutti svegli, bagnati da capo a piedi, che maledicevamo l'esercito e chi lo comandava.

In quelle condizioni attendemmo fino a mezzogiorno, quando la lunga colonna incominciò a muoversi. Ma ancora non erano finite le sorprese per noi. Dopo avere sfiorato i primi palazzi della città, la colonna girò a sinistra in una strada secondaria, e circa un’ora dopo eravamo giunti a destinazione.

Il luogo dove ci avevano confinati era un brullo colle, d’interessante c’era che dominava lo sguardo su parte della città. Quella collina fu per un mese il nostro rifugio e la sede generale del reggimento. Da là partivano tutte le mattine le squadre e le pattuglie di servizio per il presidio della città e del porto.

Quelle furono le sole occasioni per potere vedere e ammirare la città di Nizza.

 

Vallauris

Il 17 dicembre, per ordine del comando di divisione, tutti i reparti, noi compresi, ci spostammo sulla costa verso Cannes e Tolone.

Sotto un tempo proibitivo, dato che pioveva a dirotto, camminammo due giorni.

A Vallaures restammo circa una settimana, il paese era abbastanza accogliente, parte della popolazione era di origine italiana e ci dimostrava la sua simpatia.

La notte della vigilia di Natale vennero a svegliarci perché si doveva partire; preparata la nostra roba, ci mettemmo in marcia verso Cannes, un’ora dopo eravamo in vista della città.

Lungo la spiaggia, a fianco di grandi alberghi, il "Martinez" a destra e dal lato opposto il "Miramar", si trovava la nostra sede: Villa Enrico VI, una grande casa sequestrata agli inglesi.

 

Cannes

Del suo antico lussuoso prestigio, l’edificio portava solo l’impronta esterna, dentro era vuoto e deserto; noi ci accomodammo lungo le pareti dell'anticamera e per giaciglio ci venne distribuita della paglia. Il resto del palazzo era occupato dal comando e dagli ufficiali.

Codesta villa, che nel passato era sorta per capriccio di qualche lord, divenne per noi quasi un carcere: niente libera uscita, ed era esclusa qualunque sortita che non fosse per servizio di pattuglia.

Là passammo il terzo Natale di guerra, nulla che avesse confronto con il disagio della prima linea. Ma quel Natale lo ricorderò per tutta la vita.

Il nostro capitano, tre settimane prima, aveva adunato tutta la compagnia e fatto una proposta: quella di organizzare per il Natale, dato che eravamo costretti a passarlo lontano dalle famiglie, una festa per vivere la ricorrenza nel ricordo delle nostre case. Fin qui tutto bene. Ma quando parlò di ridurre la razione giornaliera di viveri, che era già una miseria, per poter festeggiare all’insegna di un buon pranzo, sospettammo subito che la sua proposta fosse un inganno, ma non potevamo opporci.

Arrivò il Natale e, malgrado tutto, quella mattina eravamo abbastanza di buon umore.

Eravamo tutti così giovani, stanziati per la prima volta in un palazzo signorile, anche se mancavano le principali comodità, e facevamo presto a credere nelle "fate".

L’attesa delle undici fu spasmodica, specie mezz’ora prima che suonasse la tromba; eravamo in tanti in fila, in attesa del rancio natalizio, sicuri che dopo tre settimane di rinunce, per lo meno servissero una discreta razione, ma non fu così.

Nella gavetta la razione di pasta - che costituiva il menu principale - non raggiunse la solita misura; a chi reclamava, i cuochi rispondevano che distribuivano con parsimonia per essere sicuri che il pasto bastasse per tutti, eventualmente, in un secondo tempo, ne avrebbero dato ancora. Noi primi, dalla fretta di rimetterci in fila dopo gli ultimi per ricevere una nuova razione, avevamo ingoiato la pasta senza sentirne il sapore. Ma quella volta non ci fu una seconda distribuzione, quindi non riuscimmo a mangiare neppure una razione normale.

Tutti capirono l'inganno: ci avevano truffati un’ennesima volta. Incominciarono urla e grida di malcontento; il tenentino che assisteva alla distribuzione non trovò di meglio che avvisare il capitano che, in un albergo fuori, banchettava con gli ufficiali, contornato da amiche raccolte sul posto. Entrò nell'accampamento come un animale feroce, non ascoltò nessuna giustificazione, ordinò l'allarme generale: ciò voleva dire assettare lo zaino ed essere pronti per un’emergenza.

Quando ebbe davanti tutta la compagnia schierata sull'attenti, incominciò con i più immeritati insulti, arrivò persino a chiamarci traditori della patria. Dopo una mezz’ora di duri rimproveri diede l’ordine di rompere le righe.

Quel Natale ho visto piangere non solo giovani, ma anche anziani e padri di famiglia.

 

Rosseville

Un chilometro circa da Cannes, su una collina verdeggiante di ulivi, che dominava la vista fino al mare, si trovava Rosseville.

La mia compagnia venne là trasferita verso la metà di gennaio del 1943. Il posto non aveva alcuna risorsa e questo ci fece soffrire. La tristezza del luogo pesava, non si trovava nemmeno da acquistare prodotti alla "borsa nera". Anche dall'Italia non arrivava più niente e gli spacci erano vuoti.

Con l'approssimarsi della primavera, al nostro comando della 4a Armata c’era la paura di uno sbarco angloamericano, così incominciò il lavoro di fortificazione ed anche la mia compagnia venne chiamata sulla costa per impastare cemento. Si lavorava a turni giorno e notte e, con quel pasto che forniva la nostra cucina, per poco non si era colti da svenimento. In quelle condizioni lavorammo tutta la primavera e oltre.

I1 25 luglio eravamo pronti per ritornare in Italia, quando si divulgò la notizia della caduta del fascismo. In principio non ci si voleva credere, si pensava che fossero tutte malignità, dette per demoralizzare ancora di più l'esercito, ma ci trovavamo nella stazione, con tutto il carico, pronti per rientrare nel nostro paese, quando arrivò la notizia ufficiale da parte del comando.

Fischi e urla fecero capire che la truppa non solo ci credeva, ma voleva sfogare l'astio, il malumore accumulato in tanti mesi anni di ingiusta sopportazione.

All'arrivo della tradotta a Ventimiglia ci aspettava un nuovo ordine, la nuova disposizione di Badoglio: raggiungere le precedenti posizioni.

Così il mattino del giorno seguente ritornammo al posto di partenza; ricordo che quella sera pioveva e non fummo nelle condizioni di reggere le tende, fu un tribolare per nulla, stanchi e sfiniti chiedevamo solo un po’ di riposo, anche sotto la pioggia, ma non fu così: giunse l’ordine di raggiungere di nuovo la stazione.

A mezzogiorno del 30 luglio tornammo in Italia, a Castel Maggiore, in provincia di Bologna.

 

Castel Maggiore (Bologna)

Arrivati a Castel Maggiore, il primo pensiero fu di cercare qualche cosa da mangiare.

In Francia, sulla Costa Azzurra, avevamo veramente patito la fame. Solo una volta vidi un collega che sgranocchiava un filone di pane, lo supplicai di informarmi dove potevo anch’io procurarmelo, e alla fine un po’ restio mi confidò dove andare. Girai per un centro abitato chiedendo ed implorando, lo trovai, ma si trattava di un pane che del grano non era nemmeno parente. Mi chiesero 150 franchi, una cifra astronomica per quel tempo.

Nel centro bolognese non fu così difficile procurasi da mangiare; in una locanda trovammo di che sfamarci, e anche del vino per allontanare il malumore ma, come succede, un bicchiere tira l’altro e così l’allegria finì in un gran un baccano.

Noi di certo non eravamo informati del rigoroso stato d’allarme in cui viveva l'Italia in quei giorni. Fu così che, senza conoscerne il motivo, ci vedemmo circondati da una pattuglia con fucili spianati, a capo c’era un ufficiale che ordinò immediatamente di alzarci e di seguirlo. Quel comando oltrepassava la misura, quindi noi, invece di seguirlo, ci ribellammo.

L’ufficiale, inviperito dal nostro atteggiamento, al primo di noi che gli capitò davanti intimò di uscire. Nacque una rissa tra dei soldati che venivano da una zona d'occupazione in Francia contro altri che se la spassavano in Italia.

Non vedendo via di pacificazione, dato che loro erano armati e noi eravamo dalla parte dei trasgressori e del torto, non trovai altra soluzione che saltare da una finestra e darmela a gambe. Dopo dieci minuti, quasi indisturbato, entrai nel campo. Dopo un po’ di tempo i compagni di prima si trovavano schierati davanti al comando di battaglione; il maggiore gridava come un ossesso contro i mal capitati, non potendo dare loro nessuna giustificazione. Furono condannati a due ore di palo, cioè a stare con le mani dietro la schiena legate ad un palo.

La zona in cui eravamo accampati presentava troppi pericoli d’incursioni nemiche. Qualche giorno dopo venimmo trasferiti una ventina di chilometri oltre Bologna, in un paese sul fiume Reno.

 

Lavino (Bologna)

Aspettavamo con ansia una meritata licenza, che ci era stata promessa dal giorno del rimpatrio, ma questa, per motivi che non potevamo capire, veniva sempre rinviata. Un giorno venni chiamato al comando battaglione, sembrava che ci fosse posta per me; non me lo feci ripetere e mi precipitai al comando. Infatti era arrivato un telegramma di mia madre: diceva che mio padre non stava bene e che voleva vedermi. Non era firmato dai carabinieri locali, allora capii subito che il trucco suggerito tempo addietro a mia madre aveva funzionato solo per metà. Infatti, senza il timbro, che poteva rilasciare solo il comando dei carabinieri della zona, non davano licenze o permessi: che fare? Cercai di mettere assieme tutta la mia eloquenza che, per la prima volta, funzionò e mi fu rilasciato un permesso di 48 ore.

Non c'era da perdere un solo minuto: corsi, feci fagotto e poco dopo mi misi in viaggio sul treno verso casa.

Fui preso dall’ansia di arrivare e dalla voglia di recuperare qualche ora, così pensai che il treno viaggiava come una lumaca. Arrivato a Verona corsi per salire sul locale, ma era partito e dovetti aspettare il diretto in partenza poco dopo. Sapevo che quel convoglio non si sarebbe fermato alla mia stazione, ma saltai su come fossi un braccato e bisogna dire che il rischiare spesso premia i coraggiosi. Cinque o sei chilometri prima della stazione del mio paese il treno rallentò, corsi nell'ultimo vagone e aspettai il momento propizio: senza esitazione feci un salto e mi trovai tra i binari, mentre il convoglio s’allontanava. Il capotreno, che mi vide, mi gridò dietro quattro parolacce.

Sapevo di dover camminare un bel po’, ma ero ormai abituato; lungo il tragitto passai davanti a un’osteria, chiesi da bere e qualche cosa da mangiare. L’oste mi rispose: "Niente da mangiare senza tessera!"

Gli domandai di portarmi almeno un bicchiere di vino, allora l’uomo arrivò con una bottiglia intera. Non avevo nemmeno la voglia di mandarla indietro e l’accettai.

Accaldato e a digiuno dalla sera precedente, trangugiai un paio di bicchieri, pagai e lasciai il resto del vino sulla tavola. Poi m’incamminai verso il paese.

Quando aprii la porta di casa, mia madre mi venne incontro; la prima cosa che le chiesi fu se avesse qualcosa da mangiare. Dovette essere molto duro e triste per lei, la conoscevo bene, era generosa e di gran cuore, ma mi confidò tra le lacrime che non aveva un pezzo di pane per la cena.

Anche se intontito di stanchezza e da tutto il resto, incominciai a ragionare con mia madre e presi una decisione: mi venne in mente un vicino che godeva dell’esonero dal servizio militare e che era proprietario di un vasto terreno seminato; pensai che, in un’emergenza come quella, m'avrebbe aiutato.

Sembrava contento di rivedermi, ma quando gli dissi lo scopo della mia visita cambiò umore; raccontò le ristrettezze in cui si trovava, inoltre disse di essere obbligato a consegnare tutto al governo e che, quindi, non aveva nessun aiuto da darmi, neppure pagando.

Ero mortificato e avvilito da tale atteggiamento egoistico e lo salutai solo per educazione; allora andai direttamente nel negozio più comune del paese, in cooperativa. Ero al corrente che quel poco che poteva comperare la popolazione avveniva tramite la tessera annonaria, ma questo non mi impedì di presentarmi al banco. Il più anziano degli agenti si avvicinò per chiedere cosa desideravo, risposi pane o farina, faceva lo stesso. Per convincerlo gli raccontai le ristrettezze in cui mi trovavo, ma lui, come non avesse capito, mi chiese di esibire la tessera.

Stavo perdendo la testa, non ragionavo più: vile imboscato, pensai, non trovi nemmeno un pugno di farina per sfamarmi? Avrei voluto dirgli tutto l'amaro che avevo dentro, ma all'improvviso sbucò, non so da dove, il direttore.

Aveva sentito tutto e si rivolse al subalterno apostrofandolo così: "Possibile che nei magazzini non trovi qualche cosa per questo giovane che arriva dalla guerra?"

Detto e fatto poco dopo uscivo dal negozio con una scorta di viveri sufficiente per me e per i miei genitori.

Povera mamma, pensare che era l'ultima volta che la vedevo viva...anche se non potevo prevedere la sua prossima fine, capivo che aveva bisogno d'aiuto, bastava guardarla , ma non potevo fare più di tanto.

I due giorni di permesso passarono in fretta, quasi attesi la partenza, il paese era vuoto, le poche facce che incontravo sembrava dicessero: "Tu sei qui, e mio figlio? E mio fratello? Sono là!"

Tutto era opprimente, non potevo sopportare certi sospetti, meglio andarsene.

 

Bologna

Di ritorno dal breve permesso, arrivai a Bologna a mezzogiorno. Senza perdere altro tempo, corsi al tram in partenza per Casalecchio, dovevo sbrigarmi perché ero già in ritardo. Da là, in un’altra corsa tranviaria, sarei arrivato a destinazione.

Nella stazioncina trovai altri soldati del mio reggimento; in principio non badai ai loro discorsi, ma in seguito, da quello che dicevano, capii che parlavano del 2° battaglione già partito e di quelli che sarebbero partiti in giornata. Anche se in quel momento i miei pensieri erano altrove, non potei fare a meno di chiedere di che battaglione stessero parlando. Mi guardarono come scandalizzati, ma quando capirono che venivo dalla licenza compresero la mia ignoranza. Dissero che i1 1° ed il 2° erano partiti e il 3° li avrebbe seguiti presto.

Bastò questo per farmi tornare alla realtà, ricordai che, nell'ultima settimana, nella compagnia si parlava della prossima partenza, anche se la destinazione era ignota. La situazione in quel momento si presentava un po’ ingarbugliata.

L'ultima corsa del tram fu breve, alla prima fermata scesi, a pochi passi c'era il comando del reggimento, e mi avviai da quella parte. Sulla porta non trovai nessuna sentinella, senza esitare entrai nell'ufficio e chiesi il permesso di parlare con il responsabile. M'indicarono il sottufficiale seduto a un tavolo che mi chiese che cosa volevo. Lo misi al corrente della mia situazione. Lui, come fosse là per questo, mi mise in mano un biglietto da consegnare al comando del 3° battaglione a cui sarei stato aggregato fino al raggiungimento del mio reparto.

Il trasferimento alla lontana nuova destinazione, assieme agli improvvisati compagni, non fu tanto piacevole. Ancora alla stazione di Bologna, per un piccolo ritardo, persi la tradotta che ci doveva trasportare; dovetti così rivolgermi al comando tappa, esistente in tutti nodi ferroviari più importanti. Dopo avermi fatto il solito rimprovero, qualche ora dopo gli addetti mi accompagnarono al treno passeggeri in partenza per la Puglia.

Impiegammo due giorni per arrivare a Barletta, il treno era un diretto, ma viaggiava a singhiozzo, succedeva abbastanza spesso che davano l'allarme aereo e allora giù dal treno e via, lontano dal pericolo. Qualche ora dopo si riprendeva, ancora un tratto di strada e giù di nuovo.

A Barletta ci assicurarono - ero con un compagno aggregato lungo il viaggio - che non era ancora arrivata nessuna tradotta militare; non restava che scendere ed aspettare. Nella stazione attendemmo per diverse ore, ormai stanchi e affamati volevamo coricarci in un angolo, quando la nostra attenzione fu attirata dal giungere di un treno. Pochi momenti dopo eravamo tra i compagni persi a Bologna.

L’ultimo tratto del trasferimento passò senza nessun incidente e così, dopo tre giorni, raggiunsi la compagnia a S. Vito dei Normanni, in Puglia.

 

 

 CONSEGUENZE DELL’8 SETTEMBRE

 

8 settembre 1943

La sera di quella giornata, che fu fatale per l'Italia, volgeva al tramonto, quando la notizia dell’armistizio si diffuse in un baleno.

"E’ finita la guerra!" si urlava "Andiamo a casa!"

La gioia si notava su ogni volto e nessuno in quel momento si preoccupava del fatto che avevamo perso la guerra, questa era la verità.

Qualcuno tra noi più esaltato voleva minacciare il comando, gli ufficiali furono chiamati in causa per le molteplici ingiustizie che ci avevano fatto subire.

Fu allora, visto come si mettevano le cose, che il capitano credette bene di chiamare in adunata la compagnia e così, di mala voglia, poco dopo eravamo inquadrati davanti al comandante. Quello che aveva da dirci, paragonato all’importanza dell’avvenimento, era ben poca cosa e nessuno di noi dava retta alle sue lagnanze. In quel momento il capitano non aveva credibilità per i suoi soldati, e così il suo discorsetto - solo qualche giorno dopo le sue parole si avverarono - ci apparve come una delle sue ultime cattiverie. Ancora prima che concludesse, la maggior parte della compagnia aveva lasciato il suo posto.

Tutta la notte passò in continuo fermento tra spari, urla e canti, solo verso il mattino sembrò che la situazione si normalizzasse.

Anch’io venni coinvolto da quella confusione e non potei prendere sonno; ai primi albori ero già in piedi.

"Troppo bello per essere vero!" mi ripetevo.

Chi se ne importava della guerra? Chi l’aveva voluta? Volevamo tutti andare a casa e lasciare quella miseria, eravamo stufi di quella vita. Ora contava solo questo.

Alle nove del mattino suonò l’adunata del battaglione. Il maggiore doveva parlare poco dopo a tutte le compagnie schierate.

Il grosso tiranno incominciò il suo discorso con queste parole: "Miei fanti, tutto quello che si va dicendo da ieri sera in poi non è frutto di fantasia, ma è la verità! L’Italia ha firmato l’armistizio senza condizioni con i governi alleati, noi da quella data in poi siamo completamente in balia dei vincitori. Speriamo solo che prendano in considerazione la nostra volontà di difenderci se è necessario, da chiunque osi attaccarci; questo in nome della nostra martoriata Patria."

Qualche cosa di simile aveva pronunciato Badoglio, prima di rifugiarsi a Brindisi con tutto il governo.

Il discorso del nostro maggiore aveva sottinteso un significato preciso: dovevamo difenderci dall’alleato di ieri o attaccarlo.

Così tutto d’un tratto il soldato italiano, che per tanti anni era stato combattente per una causa considerata giusta senza discussioni, d’improvviso doveva cambiare alleato, perché la causa giusta era quella del nemico di ieri.

Prima di chiudere il suo panegirico, il maggiore diede ordine di non allontanarsi dal campo, pena la condanna per diserzione.

Il resto della giornata fu un po’ movimentata, ma senza nulla di straordinario da segnalare. Quanto a me, feci il mio solito giro nei dintorni, cercando sulle piante di fico di che sfamarmi e scrissi lettere e cartoline annunciando il prossimo ritorno.

 

Francavilla Fontana (Brindisi)

La notte del giorno seguente non passò tranquillamente per noi. Da poco eravamo sotto la tenda, convinti di recuperare almeno in parte la nottata precedente con una buona dormita, ma non si realizzò tale speranza. Perché? Le trombe squillarono improvvisamente: era l’allarme.

"Fare lo zaino, si parte!" gridavano.

Vi fu un momento d’indecisione: "Lasciateci dormire!" si rispondeva "Non è ancora finita?"

Ma poi, come sempre, anche quella volta i nostri superiori ebbero la meglio. Qualche ora dopo si marciava verso Francavilla Fontana, un paesone considerato quasi una città, che si trova sulla strada nazionale tra Brindisi e Taranto. Di questa cittadina rurale e fangosa dovevamo fare un caposaldo per la difesa, contro un’eventuale occupazione tedesca.

Lo stesso giorno passò la prima colonna motorizzata inglese e, senza nemmeno fermarsi, passò oltre salutandoci.

Il pellegrinare dei nostri reparti durò una decina di giorni. Sembrava quasi di fuggire al nuovo vincitore; finalmente fu deciso di fermarsi nella tenuta di un nobile, fuori dalla città di Brindisi, e piantammo le tende.

Passarono i giorni e nessuno sembrava curarsi più di noi. Ma forse era solo la nostra impressione…

Qualche giorno più tardi arrivò a farci visita il Re, seguito dopo dal principe che, con qualche frase, ci fece capire che il nostro reggimento era destinato alla formazione del nuovo Esercito Italiano.

Quello che il principe aveva suggerito si verificò più presto di quanto si credesse. Una sera una lunga colonna di camion si fermò davanti al nostro accampamento: si doveva partire immediatamente per Lecce; solo le salmerie restarono nella tenuta, in attesa del trasferimento.

Così i miei amici, compagni da tanto tempo, se ne andavano e il destino non ci fece più incontrare, anche se tutti eravamo destinati alla stessa sorte: quella di partecipare, con gli Alleati, alla liberazione del nostro paese.

 

1 novembre 1943

Quella giornata non fu solo la ricorrenza della festa dei Santi. Per noi, della prima formazione, è una data da ricordare con malinconia e tristezza.

L’1 novembre 1943, il primo reparto salmerie, divenuto il primo scaglione italiano, doveva raggiungere il fronte a fianco delle truppe della 5a armata americana.

Partiti da Foggia, attraversammo l’Appennino, ma progredendo trovavamo sempre più un terreno impraticabile, ed erano evidenti i segni degli ultimi combattimenti.

Ben presto la colonna autotrasportata si fermò e, nell’impossibilità di proseguire, scaricò il materiale per continuare a piedi.

Erano le cinque di sera, da ore si camminava, eravamo stanchi e sfiniti e il buio ci circondava. Come automi proseguimmo, passammo vicino ad un burrone e per fortuna riuscimmo a distinguere i margini della strada. Le macerie rendevano ancora più difficoltoso il cammino, così come il rombo del cannone dietro alle nostre spalle; le ore passavano e noi proseguivamo sempre avanti.

Solo verso l’alba, in seguito ad un incidente grave, venne impartito l’alt: due soldati e un ufficiale persero la vita. Questo fu quindi il motivo per interrompere la nostra marcia ed aspettare il giorno.

All’alba riprendemmo la marcia, ma si andava avanti curvi e stanchi. Più che una colonna di giovani pronti ad affrontare un nemico, davamo l’impressione di essere un corteo funebre.

Lungo la strada che c’era qualche casa isolata, ma contrade e paesi interi erano cumuli di macerie. In un paese che da poco era stato minato e abbandonato dai tedeschi in ritirata, vedemmo la poca popolazione rimasta che cercava disperatamente tra le macerie qualche cosa che le apparteneva.

Saputo che eravamo una colonna di italiani, ci vennero incontro dei sopravvissuti per raccontarci l’accaduto; quello che dicevano era tragico e triste: i tedeschi prima li avevano derubati di tutto, compresa l’unica risorsa che possedevano, il bestiame, e poi, senza dar loro il tempo di recuperare quel poco che rimaneva, avevano minato le loro case.

Sì, era veramente una desolazione: pensare che qualche settimana prima i tedeschi erano i nostri alleati.

Credo che ognuno di noi in quel momento avesse pensato alla propria casa, temendo che quella mano devastatrice potesse passare dalle nostre parti e far toccare la stessa sorte alle nostre famiglie.

 

5a armata americana

La sorpresa del destino! Chi avrebbe pensato, qualche mese prima, a quel cambio di posizione? Ma, tutto sommato, a noi soldati che importava? Era la guerra, una parola che suonava male al nostro udito, ma non avremmo potuto evitarla. Non restava che malamente rassegnarsi o maledire la sorte. Credo che quella sera ci fossero molti miei compagni che la pensavano come me.

I muli erano carichi di ogni ben di Dio, non più come sulle montagne greco-albanesi, quando eravamo affamati e ci mancava di tutto. Ma anche in quel momento, se pure la guerra veniva condotta con mezzi più moderni, i sentieri che percorrevamo erano qua e là cosparsi di morti. I feriti, allineati in lunghe file di barelle, arrivavano ai primi posti di medicazione. Ma tutto questo non era l’unico motivo a mettere tensione nell’incerto nostro cammino. Il fuoco micidiale del nemico era qualcosa di spaventoso, da un’ora eravamo bersagliati senza posa e anche i più coraggiosi avevano paura.

In testa alla colonna apriva il cammino il capitano inglese con il radar in cerca di eventuali mine, in coda due inglesi chiudevano la colonna. A una curva della strada si parò davanti un’insidia all’avanzata: la strada era sepolta sotto le macerie per il crollo delle case. Si provò con ogni sforzo di aprire il passaggio, ma era impossibile proseguire, i muli non trovavano l’appoggio per i pesanti zoccoli e cadevano.

Il comandante inglese dovette rassegnarsi e fare dietro front. Non dandosi per vinto, l’ufficiale ci fece provare a passare anche per stradicciole secondarie, ma non riuscì ad aprirsi un varco. Visto che ogni tentativo falliva, decise di mettere la colonna dei rifornimenti al riparo, nelle poche case ancora in piedi.

L’alba era ancora lontana e noi, distesi lungo i muri che miracolosamente tenevano, avevamo il fiato sospeso: ogni momento poteva essere quello fatale. Colpi di mortaio e scariche di mitraglia fischiavano attorno.

Almeno avessimo potuto sapere cosa pensavano gli inglesi, ma niente, il loro linguaggio era tabù per noi.

Il soldato italiano, però, anche nelle situazioni più difficili trova sempre il modo di arrangiarsi. Forse gli inglesi, con la loro boria, non volevano crederlo, ma noi eravamo gente provata dall’esperienza e lo dimostrammo.

Così, senza che loro si accorgessero, qualche ora dopo avevamo ispezionato tutte le case ancora in piedi. Certamente "la retata" non la facemmo in cerca di tedeschi. Le cantine erano fornite di vino e qualche ora dopo, con lo stupore degli inglese, eravamo ben forniti, con le borracce piene e il morale più alto.

Con il chiarire del giorno i colpi arrivavano più centrati; non c’era dubbio, i tedeschi ci avevano individuati.

Passavano le ore, noi eravamo sempre riparati alla meglio; attendemmo, verso mezzogiorno sembrava che i colpi si fossero un po’ calmati e noi ne approfittammo per uscire. Venne fatto una specie di appello, nessuno di noi risultò ferito. I muli invece ebbero la peggio e qualcuno era disteso a terra morto.

Presi l’occasione per allontanarmi un centinaio di metri, per i miei bisogni corporali, e mi misi al riparo dietro ad un mucchio di paglia. Vedevo i colpi partire dalla zona dei tedeschi. Era certamente un bell’osservatorio, ma cercai di sbrigarmi. Tutto d’un tratto mi vidi puntati contro due fucili: non credevo ai miei occhi, erano inglesi! Cosa volevano da me? Non vedevano che ero dei loro? Sembrava non mi fossi spiegato e, senza ascoltare oltre le mie giustificazioni, fui costretto a seguirli. Quando m’accorsi che non si dirigevano nel luogo dove si trovavano i miei compagni, incominciai a impensierirmi, e mi passarono per la testa i più brutti pensieri. Il tragitto che dovetti fare fu di qualche centinaia di metri, e mi condussero dentro una casa che all’apparenza sembrava in buone condizioni.

Ormai ero in uno stato di prostrazione che lascio immaginare: "Cosa ho fatto di male?" continuavo a ripetermi.

Finalmente entrò un ufficiale, accompagnato da un borghese che faceva da interprete. Volevano sapere cosa facevo dietro a quel pagliaio e mi chiesero se segnalavo ai tedeschi. Continuavo a ripetere che ero intento a fare i miei bisogni e che facevo parte del reparto a loro aggregato. Parlarono tra loro, poco dopo mi fecero segno che potevo andarmene.

Il borghese mi seguì e poi parlò: "Per fortuna che c’ero io, che ho fatto da interprete. Pensavano di aver preso una spia."

Tornai al reparto quasi di corsa; là nessuno si era accorto di niente, ma dentro di me giurai che mai più avrei cercato un posto - neppure in caso di bisogno - che assomigliasse ad un osservatorio.

Una nuova scarica di bombe si ripeté intorno al nostro reparto, corremmo per metterci al riparo; lungo il breve tragitto trovammo un paesano ferito, cercammo di prestargli aiuto, ma fu del tutto inutile, poco dopo spirava. Il poveretto era uno di quelli che non aveva voluto abbandonare la propria casa nemmeno con la forza, e trovò la morte proprio davanti all’entrata della sua abitazione.

Una settimana e più durò il nostro servizio di pattuglia avanzata, fu un grande sollievo quando arrivarono altri per il cambio.

Descrivere le avventurose battaglie di quei giorni sarebbe lungo e impegnativo; mi riservo solo di dire: ogni giorno, anzi - per essere giusti - ogni ora sembrava fosse arrivata la nostra fine.

 

Roccamonfina

Questo borgo appenninico della Campania divenne la nostra sede principale, in quel vasto altipiano dove era concentrata gran parte delle forze dell’8a armata, alla quale eravamo stati ultimamente aggregati.

Ritornati dalla missione di guerra, per passare un periodo di riposo, ci eravamo attendati in un boschetto poco distante dai comandi. Non eravamo certamente trattati alla pari degli inglesi, ma le nostre condizioni di vita erano certamente migliorate, e di molto, tanto che quella fame e quelle ingiustizie subite erano solo un ricordo. Anche per quanto riguarda il vestiario la situazione era migliorata, bastava chiedere e subito avevi quello che ti mancava.

Malgrado tutto questo, i miei compagni, che facevano parte del reparto italiano aggregato alle forze alleate, non si sentivano al sicuro, non capivano perché ancora e ogni giorno bisognava rischiare la vita. E non erano d’accordo con quello che ormai tutti dicevano, e cioè che eravamo volontari. Non era assolutamente vero, anche se un tentativo c’era stato di farci apparire come tali, ancora a Brindisi. Eravamo stati chiamati in fureria uno per uno, dovevamo dichiarare se eravamo disposti a collaborare con i nuovi alleati, ma fu un fiasco per i promotori, così poco dopo fummo caricati sui camion e portati al fronte: tutti volontari, ma per forza!

In seguito a quella situazione un po’ anomala si ebbero le prime fughe dai ranghi dei reparti italiani: si trattava di soldati meridionali, che potevano raggiungere facilmente le proprie case.

L’assottigliamento dei nostri reparti continuò fino a quando restarono i soli settentrionali, quasi costretti dal bisogno a non fuggire, per necessità legate alla sopravvivenza. C’era anche qualcos’altro che ci tratteneva: ogni balzo in avanti ci faceva sentire più vicini, sia pure parziale, alle nostre case.

In quel periodo una delle tante avventure di guerra vissute fu la presa di Monte Camino, vicino a Montecassino. Era la metà di dicembre e da parecchi giorni eravamo accampati con tutta la salmeria nei pressi di Roccamonfina, anche là si prestava servizio, ma rispetto a prima era poca cosa. Noi pensavamo a tutto, ma non a ritornare alle "gesta eroiche". Tuttavia anche quella volta, come sempre, non fummo noi a decidere. Era un bel giorno piovoso, zaino in spalla e via. Gli inglesi non badavano per il sottile e, sia di notte che di giorno, ci facevano proseguire, anche se eravamo controllati dai tedeschi. Ci trovavamo ormai nei pressi in cui, qualche settimana prima, eravamo restati bloccati. Nello stesso posto in cui c’era la sussistenza, cioè il centro smistamento viveri e munizioni, caricammo i muli di munizioni e di scorte d’acqua; gli inglesi ci tenevano molto all’acqua, anche se questa sull’Appennino si trovava in ogni angolo. Ma loro non si fidavano, così con i muli carichi e una pioggia torrenziale incominciammo ad avanzare. Per diverse ore camminammo senza una sosta, accompagnati da scoppi e squarci. Il luogo che attraversammo era "terra di nessuno" ed armi, munizioni, equipaggiamenti di ogni genere si trovavano ovunque abbandonati. Protetti dal tiro d’artiglieria continuammo l’avanzata, poi nel primo caposaldo militare trovammo l’ufficiale inglese che ci condusse ancora avanti. La strada si arrampicava sul dorso della montagna, poi piegava dalla parte opposta e scendeva.

Non potrei dire da quanto tempo si camminava, la notte era scesa e noi non eravamo più capaci di orientarci. Si parlava del Garigliano che, al bagliore degli scoppi, sembrava fosse laggiù in fondo alla valle. Finalmente questo avanzare incerto e la morte nel cuore ebbero fine. Sotto le mura di un vecchio castello medioevale, al riparo dal fischio delle pallottole, incominciammo a scaricare i rifornimenti. Ma ad un certo punto arrivò l’ordine di ripiegare e tornare ai posti precedenti.

Quando incominciò ad albeggiare eravamo fuori pericolo e senza esitare ci buttammo ancora vestiti nei nostri "cuci", cioè nei nostri giacigli, esausti per la stanchezza.

 

Natale 1943

Quel giorno festoso e importante, noi cinque compagni e amici volevamo festeggiarlo con un pranzetto a modo nostro, anche per rievocare i lontani ricordi e le nostre case: gnocchi, arrosto, dolce, frutta e vino in abbondanza. Ricordando il precedente Natale di guerra passato a Cannes, ci sentivamo dei signori. Ora bisognava vedere se le nostre doti di cuochi erano all’altezza della situazione. Io e il compagno triestino eravamo promotori e cuochi, gli altri tre dovevano mettere insieme il resto. Il pranzo fu un successo di inventiva e di coraggio. Ricevemmo gli elogi non solo dai partecipanti, ma anche dagli altri colleghi che ci avevano messi alla prova. Ora ricordo che quello fu anche il pranzo dell’addio, infatti quei quattro compagni, con cui da tanto tempo dividevo fatiche e piccole soddisfazioni, due giorni dopo ero costretto a lasciarli e non li avrei mai più incontrati. Il resto della giornata la trascorremmo nella grotta rifugio raccontandoci a vicenda le nostre lontane avventure borghesi. Con il calare della sera stavamo ancora preparandoci una tazza di vino brulè, per chiudere con un buon ricordo la giornata di Natale, quando la nostra attenzione venne attirata da delle voci provenienti da fuori che ci chiamavano. In quel momento chi avesse osservato le nostre facce, avrebbe visto la nostra inquietudine. Non era un abbaglio: era un ufficiale inglese, accompagnato dal nostro sergente, che ci invitava a correre subito ai muli; contrariamente a quello che ci avevano promesso, quella sera stessa si doveva raggiungere la prima linea. Ricordo le grida, le urla di protesta, il malcontento: nessuno voleva saperne della nuova disposizione, considerata un tradimento alla nostra fiducia. Ebbero da fare, per formare una "corvée", in cui ero compreso anch’io.

Il Natale, che era cominciato abbastanza bene per me, doveva finire piuttosto maluccio: infatti, quella sera, lungo la mulattiera per raggiungere i posti avanzati, una granata scoppiò a pochi metri da noi; non si ebbero perdite, ma lo spostamento d’aria mi giocò un brutto tiro: stavo per svenire e il comandante di fine colonna, visto il mio stato, credette bene di rimandarmi all’accampamento.

Per questo incidente, qualche giorno dopo, venni inviato ad un controllo medico. Fui caricato su un’ambulanza inglese, con un altro del mio reparto, dato che anche lui doveva essere messo sottoposto a visita. Fummo sballottati per chilometri da un ospedale all’altro. Nei reparti alleati non ci volevano, allora dopo un pellegrinare inconcludente, fummo scaricati nell’ospedale militare di Aversa, che in quei giorni era un ospedale solo di nome. Era affollato di militari provenienti dalle varie province meridionali, tutti sbandati dopo l’8 settembre o fuggiti davanti all’incalzare degli anglo-americani. Erano là non necessariamente perché avevano bisogno di cure, che in ogni caso non avrebbero potuto ricevere, ma per avere un letto e, a mezzogiorno, un pezzo di pane. Era veramente strano, noi lassù nelle prime linee eravamo costretti a subire sofferenze e disagi, mentre altri non sapevano neppure dov’era il proprio posto.

Trascorremmo sei giorni in quel misero ospedale, sei giorni di fame, e l’esperienza nei reparti aggregati agli Alleati era solo un ricordo. Ringraziammo il Padre Eterno quando, dopo quattro giorni di ricovero, passò in corsia il tenente medico: controllò le nostre cartelle e dichiarò che secondo lui ero sano, idem per il mio improvvisato compagno. Qualche ora dopo ci avvisò della sua intenzione di dimetterci. Senza spiegare come potevamo raggiungere il nostro reparto, ci mise in mano un foglio dimissionario con due giorni di riposo, una volta arrivati a destinazione.

Così il giorno seguente ci trovammo come due derelitti sulla strada: dove andare? Come fare per raggiungere il nostro reparto e i nostri compagni? Nella cittadina vigeva un caos indescrivibile: soldati di ogni nazionalità, macchine e camion percorrevano le vie. I pochi borghesi che si avventuravano in quel fracasso erano i borsaneristi e gli approfittatori. Vista l'insegna di una specie di trattoria ci avviammo da quella parte, entrammo e ci guardammo attorno: nessun posto era libero. Non sapendo cosa fare andammo verso il banco. Il mio compagno, nella confusione, venne urtato da un gigante nero e mandò un'ingiuria nel suo dialetto lombardo, allora un uomo seduto vicino si mise a ridere. Era delle sue parti, subito facemmo conoscenza e ci invitò alla sua tavola. Così gli raccontammo le ultime nostre disavventure, tra un bicchiere e l'altro si parlava, anche lui era un reduce. Era fuggito, durante un bombardamento, dal carcere militare di Aversa, dove avrebbe dovuto scontare due anni per avere picchiato un ufficiale in Africa. Ora era uccel di bosco, nessuno in quella confusione lo cercava e lui si arrangiava come capitava. Non era certamente, da quello che si poteva capire, un tipo troppo raccomandabile, ma in quel momento era una fortuna aver trovato qualcuno che poteva darci una mano. Da parte sua, quando conobbe la nostra situazione, offrì un aiuto. Noi avevamo bisogno di mangiare e di un posto per la notte e in quel caos era difficile trovare entrambi, ma lui ci offrì uno e l'altro. In quei pochi giorni passati ad Aversa conoscemmo un'infinità di persone che più o meno erano nelle nostre condizioni. Tutti vivevano e si arrangiavano per sopravvivere, ma erano confortati dalla speranza che la guerra finisse presto, per raggiungere la propria casa e la famiglia. Anche il nostro nuovo amico si arrangiava, ma nel modo più disonesto: era affiliato ad una banda di rapinatori. Non ci volle molto per capire che con tale compagnia potevamo finire male anche noi.

Una sera, prima di dormire, tra una chiacchierata e l'altra, ci fece la proposta di seguirlo: c'era lavoro anche per noi. Non ricordo quello che risposi, ma quella notte non potei dormire.

Da quattro anni eravamo in balia della guerra, avevamo subìto soprusi, ricatti, miserie, ogni privazione. Ma mai, per vendetta, avevamo approfittato della situazione rubando. L'unica fede dentro di noi era l'onore, e a maggioranza la seguivamo da sempre. Il mattino presto svegliai il compagno, gli spiegai il desiderio di partire subito, gli feci capire che non potevo restare per nessun motivo in tale compagnia. Anche lui era del mio parere e credo di averlo solo preceduto. Fu così che due ore dopo, fatte le nostre scuse all'amico, scendemmo in strada e ce ne andammo.

 La strada del ritorno

Cosa fare allora? Dove andare? La nostra situazione era identica a quella di due giorni prima, quando eravamo appena usciti dall'ospedale. Raggiungere il nostro reparto equivaleva a camminare una settimana. Avevamo fatto il possibile, in quei due giorni, per risolvere la questione nel modo migliore, ma al distretto dove ci eravamo recati avevamo trovato solo caos e disordine.

Al colonnello comandante spiegammo la nostra decisione di volere raggiungere la nostra formazione. Lui non seppe cosa rispondere, così disse in modo evasivo: "Provate al comando alleato."

Per non lasciare nulla d'intentato ci recammo là, ma non solo non seppero apprezzare il nostro gesto spontaneo, ma fummo mandati via con frasi che nel loro linguaggio erano sicuramente poco rispettose.

Lasciata quindi la città di Aversa indirizzammo i nostri passi verso Capua, sul Volturno: era la via più breve per raggiungere gli amici, come pure il nord. Ad un bivio chiedemmo ad un passante la strada più diretta per arrivare alla nostra destinazione. Dopo parecchie ore di cammino la stanchezza si faceva sentire; il mio compagno si diceva esausto e stentava a starmi dietro, cercai di rincuorarlo e in alcuni tratti di strada, per sollevarlo, mi caricavo in spalla anche il suo zaino.

Ormai cominciava a diventare incerta anche la possibilità di raggiungere i nostri compagni, così pensammo che fosse meglio cercare lungo la strada qualche reparto che ci avesse raccolti, almeno si scongiurava la fame.

Giunti alle porte di Capua, stremati dalla fatica e senza avere trovato un'accoglienza per la notte, decidemmo che nel primo gruppo di case incontrato non avremo lasciato nulla d’intentato per avere un posto per dormire, sperando di trovare anche qualche cosa per sfamarci.

Era vero che conoscendo ormai la scarsa disponibilità della gente - ne avevamo fatta esperienza lungo la strada - c'era da aspettarsi un rifiuto, ma noi eravamo decisi, se fosse stato necessario, a dimostrare i nostri diritti, in quanto appartenenti all'Esercito Italiano. Fatti ancora pochi metri, visto un cancello mezzo aperto, ci infilammo dentro e chiamammo i padroni. Come c'era da prevedere nessuno si fece vivo, era indubbio che erano nascosti ed aspettavano che ce ne fossimo andati, ma se pensavano di fregarci si sbagliavano.

In un angolo della casa si potevano cogliere gli ultimi raggi del sole, ci sedemmo sui nostri zaini e aspettammo. Finalmente si fece avanti un uomo anziano, chissà da dove era sbucato.

"Buonasera, giovanotti," incominciò "è freddo stasera!"

Noi lo mettemmo subito alle strette: "Sentite, buon uomo, noi vi paghiamo il disturbo, ma dovete darci un posto per passare la notte."

Per convincerlo gli raccontammo parte di quello che avevamo subito negli ultimi giorni. Quella volta finalmente eravamo riusciti a commuovere qualcuno: l’uomo fu abbastanza comprensivo e ci offrì la stalla. S’intende, ci chiuse dentro.

Alla sera tardi, forse per renderci meno penosa la nostra prigionia, venne ancora per trattenersi con noi e così venimmo informati su tanti particolari sulla situazione complessiva, che più tardi dovevano esserci utili. La notizia che più ci fece restare perplessi era che senza un permesso speciale non si poteva passare il ponte sul Volturno, in quanto oltre il fiume era stata dichiarata zona di guerra: cosa potevamo fare in un simile frangente? Non avevamo permessi e nemmeno c'era il mezzo per procurarseli: tornare ancora sui nostri passi? No, si doveva trovare un'altra soluzione e andare avanti.

Il giorno seguente, prima delle otto, eravamo in una piazza di Capua, dalla quale tutte le mattine partivano camion carichi di operai, che venivano assunti sul posto dalle forze alleate per lavori di manovalanza. La soluzione migliore, per la situazione in cui eravamo, era chiedere se prendevano anche noi, ma per nera combinazione quella mattina non avevano bisogno di nuovi ingaggi. Così, con i molti che aspettavano, dovemmo rassegnarci ad un'altra occasione.

Eravamo là e stavamo guardandoci attorno per decidere che strada prendere, quando un’auto americana sopraggiunse e si fermò a pochi passi da noi. Per curiosità ci fermammo a guardare: scesero quattro soldati che, chiacchierando, si avviarono verso il centro della città. Ne restò solo uno di guardia, si vedeva dal suo atteggiamento quanto gli costava rimanere là, mentre i suoi compagni erano andati a divertirsi.

Vedendoci impalati che lo osservavamo, fece segno di avvicinarci e ci chiese se eravamo disposti a restare al suo posto: ci avrebbe ricompensati. Non poteva farci offerta migliore, contenti dell’incarico ci accingemmo a montare la guardia.

Tornarono qualche ora dopo. Dai loro atteggiamenti era facile capire che erano soddisfatti. Noi avevamo architettato un nostro piano: bisognava decidersi e parlare, farci capire meglio. Gli americani avevano bisogno di gente sveglia e in gamba come noi.

Il mio compagno si mise subito alla prova: un po' in italiano, un po' in francese, che lui diceva di conoscere, riuscì a farsi comprendere. I cinque americani fecero una specie di conciliabolo, si capiva che decidevano di noi.

Finalmente arrivò la risposta: uno di loro, che sapeva spiegarsi meglio, disse: "Trovatevi domani mattina al corpo di guardia del campo" e indicò dove si trovava.

Era una vera fortuna e, sicuri che tutto sarebbe andato bene, con le poche lire che rimanevano andammo in cerca di qualcosa per sfamarci. Ancora prima dell'ora indicata, il mattino successivo eravamo ai cancelli ad aspettare. L'attesa fu abbastanza lunga e già incominciavamo a pensare male, ma poi vedemmo venire verso di noi il soldato del giorno prima accompagnato da un ufficiale; quest’ultimo ci fece segno di entrare e di seguirlo. Non ce lo facemmo ripetere e, prese le nostre cose in spalla, con passo deciso ubbidimmo.

Ci condussero in cucina e ci fecero portare qualcosa da mangiare, che divorammo in un baleno davanti alla loro ilarità, poi ci domandarono cosa eravamo capaci di fare. La risposta fu pronta: noi ci arrangiavamo a fare di tutto. Credo avessero capito il significato e poco dopo eravamo sistemati presso una squadra di americani, con l'impegno di tenere acceso il fuoco nella stufa. Questo fu solo l'inizio: qualche giorno dopo, mentre il mio compagno veniva chiamato come aiutante nell'ufficio del comando, io venivo promosso capo squadra degli operai italiani nel campo della 189a compagnia americana.

Quello fu il periodo più bello del mio quinto anno di guerra. Con gli americani trovai giustizia, lealtà e comprensione. I primi giorni non capivo le ragioni del tanto impegno con cui svolgevano le loro mansioni, era tutto il contrario di quello che succedeva nel nostro esercito. Il merito, se c'era, veniva riconosciuto in base alle capacità, non come avevo sempre visto da noi, in base a raccomandazioni e simpatie. Con gli americani ebbi il mio primo successo e per me fu una sorpresa. Un giorno mi chiamarono per dirmi che da quel momento in poi sarei restato il solo responsabile del lavoro di manovalanza italiana. Era un impegno abbastanza gravoso, ma con loro mi sentivo capace di fare questo ed altro. Dissero anche che erano stanchi di soprusi e ingiustizie perpetrate nelle nostre file.

I mesi passarono ed io mi sentivo sempre più soddisfatto e vicino a loro. Avevo anche escogitato il modo di seguirli negli eventuali spostamenti. Verso il 20 di giugno 1944, in seguito all'avanzata degli eserciti alleati su Roma, il mio reparto, deposito e rifornimento della 5a armata americana, doveva raggiungere il porto di Civitavecchia con gli ultimi convogli che lasciavano Capua. Era ormai sicuro che li avrei seguiti anche in America.

Tutto sembrava procedere nel modo migliore, ma una sera chiesero a me e ad altri se eravamo disposti ad allungare l'orario di lavoro, con l’assicurazione di avere il pasto della sera. Poi ci avrebbero trasportati con i camion alle nostre case, dato che vigeva il coprifuoco. Tutto si svolse come era stato predisposto, verso le ore 20:00 rientrai nel mio alloggio, niente presagiva il peggio che doveva capitarmi.

Quella sera, quella notte fu come un incubo. La mia vita, la mia gioventù ebbero un crollo. Non voglio, non posso ricordare...

La mia malattia trascurata si era aggravata terribilmente, fino a farmi rischiare la vita e ad obbligarmi a rinunciare ai miei progetti.

 

Quindici mesi dopo

Era la primavera del 1945 e la guerra stava per finire, tutti ormai ne erano certi. Si viveva le giornate in ansia, dalla radio continuamente venivano trasmessi bollettini di guerra. Le armate alleate marciavano verso il covo del nazismo e sulla rotta man mano annientavano quello che un giorno era il potente esercito tedesco.

Anche le forze della resistenza si facevano sentire: stavano occupando le piazzeforti delle principali città. Milano, per prima, trasmise la voce dell'Italia libera, si capiva che era solo questione di ore e che poi sarebbe sopraggiunta la sensazionale notizia della fine del conflitto.

Quei giorni, quelle ore di frenesia - strano a dirsi - da me erano vissuti con molta angoscia. Chi l'avrebbe mai pensato, chi l'avrebbe detto: dopo tanti anni di guerra, reduce incolume da tanti fatti d’arme, proprio in quegli ultimi giorni dovevo starmene rinchiuso in ospedale. La fatalità, solo una brutta fatalità.

Sulla terrazza, appoggiato al balcone, in quel momento non vedevo e non sentivo nulla di quello che mi circondava; assorto nei miei pensieri volavo lontano, ancora alle vicende di guerra, ai miei compagni, agli amici di cui da tanto tempo non avevo più notizia. Come avrei voluto in quel momento essere con loro, ricordare le molte avventure che assieme avevamo trascorso nella desolazione, ma anche nella "mai mancata" speranza.

Ricordavo il lontano 8 settembre 1943, laggiù a Brindisi, quando nella certezza dell'armistizio avevamo vissuto quelle ore drammatiche, pensando fosse finita la guerra; in realtà era stato uno scherzo di cattivo gusto, perché la guerra continuava.

Poi mi tornava in mente il famoso cambio di posizione, il cambio di guardia: dall’alleato germanico a quello anglo-americano, al seguito del quale eravamo di nuovo al fronte "volontari senza consenso". Ricordavo le dure giornate intorno a Montecassino ed infine il distacco definitivo da quelli che per anni erano stati amici e compagni. Come non ricordare l'avventura trascorsa a Capua, quando in tristi condizioni ero entrato nel campo americano, dal quale - dopo quel periodo abbastanza felice - ero ripartito di nuovo solo e malconcio?

Da allora avevo cambiato diversi reparti, ero passato da tanti altri paesi. Negli ultimi tempi ero stato in Abruzzo, aggregato al 58° battaglione di complemento.

Infine, la malattia, che da tempo mi portavo dentro, all'improvviso mi fece ospitare da alcuni ospedali e, infine, da quello di Chieti. No, quello era un destino troppo duro per me, che me ne importava più della vita!

In quel triste abbattimento morale chissà quanto sarei rimasto a fantasticare, se il mio orecchio non fosse stato colto da un lontano soave concerto di campane. Era qualcosa di melodioso che, in quel momento, mi portava al mio paese, ai lontani anni della fanciullezza, quando in estasi restavo ad ascoltare le campane che a stormo volevano annunciare la solennità del giorno festivo. Al concerto ben presto vennero in aiuto tutte le campane dei dintorni, anche le sirene delle fabbriche vollero intervenire: era un urlo.

Sì, era un urlo, che sembrava sprigionato dalla terra e gridasse: basta, è la pace. Questa era la parola che contemporaneamente usciva da ogni gola.

Avrei voluto anch'io in quel momento gridare, ma la mia gioia in quell'ora suprema era offuscata. Era l'amarezza di un animo stanco, che invano cercavo di calmare.

 

LA FINE DELLA GUERRA

 Tornare a casa

Un giorno, all’improvviso, venni chiamato dall’amministrazione dell’ospedale: mi dissero che mi avrebbero dimesso su due piedi, senza nemmeno il parere del medico curante. Li scongiurai di lasciarmi finire la cura iniziata da poco. Non avevo più famiglia, l’unica comunicazione ricevuta dal paese diceva che mia madre era morta, ancora nel 1944. Dove avrei potuto trovare accoglienza e aiuto fuori dall’ospedale?

Cercai la suora, in quei lunghi mesi mi aveva aiutato tanto e la stimavo, era stata sempre gentile e buona nei miei confronti. Le chiesi di fare ancora qualcosa per me, non volevo andarmene, non potevo. Lei lo sapeva, l’avevo messa al corrente della situazione in cui mi trovavo. Fuori di là sarei stato in balia a grossi disagi e sofferenze. Non ci fu niente da fare, fece una faccia che mi sembrò arcigna e cattiva e mi disse: "Ci sarà pure qualcuno che si prenderà cura di te, non essere così pessimista! Qua, l’avrai constatato anche tu, è difficile riacquistare la salute. Invece lassù nel tuo Trentino è un’altra cosa, nei tuoi paesi riacquisterai la salute ed un giorno mi ringrazierai!"

In quel momento non potevo capire e nemmeno scusarla.

Anche il viaggio del ritorno fu complicato oltre ogni immaginazione. Il giorno della mia partenza da Chieti sembrava fosse scoppiato l’universo, una pioggia battente con temporali accompagnò quasi tutta la giornata. Solo verso sera andò diradandosi e presi la decisione su due piedi: con il mio zainetto mi avviai alla stazione delle corriere, trovai quasi subito il mezzo in partenza per Pescara e ci salii senza preoccuparmi del dopo.

Giunsi nella città di Pescara che era quasi notte, la stazione ferroviaria era poco lontana, allungai il passo per arrivarci: "Chissà," pensavo " con un po’ di fortuna..."

La stazione era solo un mucchio di macerie, in quella confusione vedevo gente che correva da una parte all’altra, era inutile chiedere, non c’era nessun treno. Ma mi sbagliavo: in fondo a sinistra vidi un brulicare di persone davanti a vagoni per il trasporto bestiame. Per non perdere anche l’ultima possibilità, mi diressi da quella parte: c’era gente che voleva salire e litigava per prendere posto. Cercai di avvicinarmi per capire eventualmente dove fosse diretto il treno. Quando mi assicurarono che la sua meta era Ancona, non persi tempo, cercai di salire, ma nulla da fare. C’era un pigia pigia tale che a me, ultimo arrivato, gridavano d’andarmene, ma non potevo arrendermi, provai ancora; un giovanotto, più o meno della mia età, mi fece cenno di avvicinarmi, così mi accostai a lui.

"Sali! Sali!" mi ripeteva e nello stesso tempo cercava di farmi spazio; così fra spintoni e parolacce salii in quel carnaio vivente.

Al generoso giovanotto che così tanto si era prestato, dopo averlo ringraziato, chiesi se pure lui era militare.

"No" disse "ma in confidenza ti dico che il mio lavoro è scendere dal nord al sud d’Italia per comperare e poi vendere nella zona di Milano."

"Ecco," pensai "a che cosa è dovuto l’altruismo del giovanotto!"

Aveva bisogno di protezione e, visto che vestivo la divisa militare, ero per lui come una guardia del corpo. Questo non mi impedì di essergli riconoscente: senza il suo aiuto sarei stato in guai seri.

Il convoglio incominciò a muoversi a notte avanzata; intirizziti dal freddo - i portelloni erano aperti - si sperava solo di arrivare presto. Intanto il giovane che m’aveva aiutato raccontava dei suoi viaggi disperati nel meridione. Comperava tutto quello che trovava di valore, il prezzo era stracciato, diceva, si facevano affari d’oro, ed era contento che gli fossi vicino. Temeva, oltre agli agenti antirepressivi, i malintenzionati.

Da parte mia non avevo voglia, e non ne ero nemmeno nelle condizioni, di fargli la predica. Visto come andava il viaggio era più prudente tenermelo amico, sperando che una volta giunti ad Ancona potesse essermi ancora d’aiuto.

Il treno giunse nella stazione dopo mezzanotte. La prima preoccupazione fu quella di cercare un’eventuale partenza per Bologna, ma niente era in programma e nessuno era in grado di dare una risposta sicura. Il servizio della stazione non esisteva o quasi. Sotto un tendone, che serviva anche come centro di smistamento, bivaccava e brulicava gente sdraiata per terra. Visto che non trovavo niente di meglio per ripararmi, anch’io mi feci coraggio e cercai di sistemarmi, ma non ci riuscii e dovetti andarmene; passai la notte tra i binari, infreddolito, accovacciato sullo zaino che portavo con me.

Chi mi salvò da quella situazione fu il giovanotto della sera prima. Venne nell’oscurità a cercarmi e mi disse di andare con lui, così presi il mio fardello e lo seguii senza interpellarlo. Trovammo il convoglio che sarebbe partito per Bologna e ci accomodammo al riparo, nell’attesa che venisse agganciato ad un locomotore. Avrei abbracciato quel giovane, solo in certe situazioni si può capire il valore della solidarietà.

I carrozzoni sembravano abbandonati, ma capivo che quel brulicare di persone era segno di speranza, noi eravamo sistemati su delle comode panche: "Almeno qua," pensai "siamo al riparo. "

La partenza del treno si protrasse per molte ore, speravo di arrivare a Bologna prima di notte, almeno in tempo per trovare un rifugio, per non essere costretto a passare un’altra notte all’aperto. Finalmente il convoglio si mosse. "Meno male" pensai, poi, piano piano, come uscisse da un groviglio di labirinti, lasciò la stazione.

Il treno era zeppo contro ogni misura, noi eravamo seduti, ma guai muoversi, mancava perfino l’aria; stringevo i denti, mi sembrava di svenire. Sarà stata la stanchezza, oppure il digiuno, visto che erano quaranta ore che non mettevo niente nello stomaco, nemmeno l’acqua.

"Aiuto, Signore, fammi arrivare. Non ce la faccio più!" pregai dentro di me.

Una giovane signora comprese il mio stato e mi porse un uovo: "Lo prenda, si sentirà meglio" mi disse. La ringraziai. Quel gesto mi mise coraggio e incominciai a pensare che cosa avrei potuto fare giunto a Bologna.

Il convoglio entrò nella stazione a sera inoltrata; avevo escogitato un piano, non poteva fallire, non potevo farcela in altro modo: scesi dal treno con una certa fretta, non mi curai più del giovane amico che sapevo doveva aspettare la coincidenza per Milano. La mia non fu sgarberia o indifferenza, fu un bisogno estremo e spero che lui abbia capito e perdonato.

Conoscevo abbastanza bene la zona, in quanto due anni prima il mio reggimento aveva stazionato da quelle parti. Sapevo che subito fuori la stazione c’era il centro abitato: possibile non trovare un posto, un giaciglio per la notte? Se non l’avessi trovato, non so se ce l’avrei fatta.

La città era peggio di come l’avessi immaginata: macerie dappertutto. Che fare? Notai una signora che con passo sicuro s’inoltrava in mezzo ai ruderi dei palazzi, istintivamente la seguii. Vidi che saliva una scala sporgente a precipizio tra le macerie e che entrava da una porta. Mi feci coraggio e, con il cuore in gola, bussai. Venne ad aprire la signora stessa, non le diedi il tempo di aprire la bocca e le dissi: "Signora! Mi aiuti, sto male..."

Prima ancora che potesse replicare, le raccontai le disavventure capitatemi. L’avrei ricompensata, ma che non mi avesse mandato via. Per tutta risposta aprì la porta e mi fece entrare.

Era la prima volta della mia vita che chiedevo qualcosa implorando in quel modo, umiliandomi tanto. Forse qualcuno tanto sopra di me mi aveva dato coraggio.

Fui accettato dentro casa benevolmente; quando capirono e si resero conto dell’odissea di quei giorni, mi diedero tutto il loro aiuto, mi sfamarono e cercarono uno spazio per farmi riposare e passare la notte. Quella famiglia era composta da tre persone, due donne e un giovane, si vedeva che anche loro subivano le conseguenze della guerra, e le loro condizioni erano piuttosto precarie. Ciò non impedì loro di darmi un aiuto che nemmeno speravo; infatti il mattino, al mio risveglio, mi dissero di essere andati alla stazione per informarsi di un’eventuale partenza per Verona: il treno c’era ed era l’unico per quel giorno; il problema era se bisognasse prenotare il posto, perché il convoglio era contingentato, cioè aveva i posti numerati.

Quando mezz’ora dopo scesi nella stazione per accertarmi di quanto mi avevano riferito, vidi una lunga fila di persone davanti alla biglietteria e mi cascarono le braccia, ma sperai che fossero sbrigativi e mi accodai. Tuttavia, dopo un tempo abbastanza lungo, mi resi conto che mi ero portato avanti di ben poco, così andai in cerca del comando militare. Ricordavo che negli anni bui della guerra in tutte le città importanti ce n’era uno e speravo che ancora funzionasse. Anche quella volta trovai uno spiraglio nella cattiva sorte: il comando esisteva e questo mi facilitò la partenza, visto il mio incartamento e la situazione in cui mi trovavo.

Ebbi solo il tempo di correre dalla famiglia che m’aveva ospitato, ringraziare, prendere le mie cose e raggiungere il treno in partenza.

Il tragitto Bologna-Verona, contro ogni previsione, fu abbastanza comodo. Entrando nella stazione di Verona, come del resto nelle altre che in quei giorni avevo attraversato - Chieti, Pescara, Ancona, Bologna - trovai solo mucchi di macerie.

"Ecco," pensai "siamo alle solite, qui bisogna ancora una volta passare la notte fuori, intirizziti al freddo."

Intanto mi apprestavo a scendere dal treno. Non avevo ancora messo piede a terra, quando vidi passarmi davanti gente che cercava di correre, impedita da grossi fardelli. Ad un uomo chiesi forte: "Dove si prende il treno per Trento?"

Lui senza fermarsi mi rispose: "Fai presto e seguimi, se ci vuoi salire!"

Inebriato dalla stanchezza cercai di concentrarmi e ragionare: "O ti muovi," mi dissi "o resterai un’altra notte tra i binari!"

Con le forze che ancora mi rimanevano corsi al treno. Mi fecero salire a forza di spintoni e grida, cercai di spiegare che ero un reduce tornato allora dalla guerra, ma quelli non si scostavano più di tanto. Il treno si mise in moto ed io ero in mezzo alla confusione, come fossi un intruso arrivato chissà da dove; nessuno sembrava accorgersi della mia presenza, eppure certe facce non mi erano nuove. Parlavano tra di loro, delle loro mercanzie; erano quasi tutti carichi di grossi fardelli e valigie piene di generi alimentari che contrabbandavano dalla Val Padana. Avrei voluto in confidenza parlare con loro, chiedere spiegazioni, ma in fin dei conti non mi interessavano i loro traffici: possibile che nessuno mi avesse riconosciuto?

Avrei voluto domandare e sapere quello che era successo in paese, specie alla mia famiglia e ad altri conoscenti, dei quali da due anni non sapevo più nulla. Infatti, dopo l’8 settembre, mi ero trovato tagliato fuori dal resto d’Italia. I tedeschi avevano occupato il nord, mentre il sud era invaso dalle forze alleate, e dove mi trovavo non c’era possibilità di comunicare con le nostre case. Poi negli ultimi mesi di guerra ero in Abruzzo, a Chieti, ricoverato in quella specie di ospedale-lazzaretto, dove le uniche notizie che ricevevo erano relative ai massicci bombardamenti sulla linea del Brennero, dove c’erano la mia casa e la mia famiglia.

Ma ormai, chiuso in me stesso, pensavo agli ultimi avvenimenti e alla cattiva sorte che portavo con me.

Ancora qualche fermata e poi avrebbero chiamato la mia stazione: che fare? Continuare per Trento? Sperare che qualche ospedale mi potesse accogliere dopo aver spiegato in che modo mi avevano dimesso dall’ospedale di Chieti?

I miei pensieri chissà quanto ancora avrebbero galoppato se non fossi stato spinto da chi voleva scendere e da chi salire; tornai alla realtà: ero arrivato, quella era l’ultima stazione e là, oltre il fiume, c’era il mio paese. Cinque anni prima c’erano la mia famiglia a la mia casa.

Senza molta decisione scesi dal treno con il mio zaino, mi guardai attorno e mi chiesi: "E ora, cosa faccio?"

Il piazzale si era vuotato, presi la mia roba e come un automa mi avviai verso l’uscita, poi ebbi un momento di lucidità e mi ricordai lo zaino. Decisi che era meglio lasciarlo in custodia, girai e andai verso l’ufficio della stazione. All’entrata mancava la porta, guardai dentro, ma non c’era nessuno. Chiamai e si fece avanti un ferroviere. Lo conoscevo, avevo anche lavorato per lui prima della guerra.

"Ciao, mi vuoi tenere in custodia lo zaino? Vado a fare un giretto in paese" gli dissi. E senza dare altre spiegazioni mi girai e andai verso quella che era un tempo la mia casa. Nessuno mi rivolse un saluto o una parola: ero solo. Andai avanti, la strada mi era familiare, incontrai il passaggio a livello sull’Adige e avevo davanti due chilometri di strada, pensai che erano tanti, stanco com’ero. Attraversai i binari, ma oltre non vidi più il ponte; capii che era stato bombardato e mi venne spontanea la domanda: "Da che parte sono passati quelli che sono scesi dal treno?"

Tornai sui miei passi, incontrai una signora del posto e le chiesi come si poteva passare sull’alta sponda. Mi guardò un po’ meravigliata e mi disse che il ponte era stato abbattuto dai tedeschi in ritirata, ma che, andando più avanti, avrei trovato il pontile.

Fu così che una ventina di minuti dopo, confuso e stanco, ero sulla sponda destra del fiume. Scombussolato e disorientato stavo per capire dove mi trovavo, quando sentii chiamare il mio nome, mi girai un po’ incuriosito: era Catullo, mio cugino. Era l’ultima persona che potevo immaginare d’incontrare in quel momento, eppure lui abitava nelle vicinanze, a Vo’ Destro.

"Ciao come va?" mi chiese.

"Torno ora dalla guerra e sono stanco del viaggio" risposi. Replicò che si vedeva e mi disse di fermarmi a salutare la zia; non ci pensai due volte e lo seguii.

Sua madre e la cugina Fabiola mi accolsero in casa: parlammo degli ultimi avvenimenti, vollero offrirmi un piatto di minestra.

"Mangia," mi disse la zia "sei affamato?"

"No," risposi "voglio solo arrivare a casa, troverò pure un letto!"

"Povero fiol... comunque ora rilassati, poi ti accompagniamo, se ti fa piacere" replicò lei.

Era quasi buio quando, in compagnia della zia e della cugina, mi avviai verso il paese. La strada sembrava stranamente lunga, conversavamo su avvenimenti attuali e, per essere sincero, parlavano più loro, io preferivo ascoltare e limitarmi a dire sì o no.

Ancora prima di arrivare alle prime case, mi incuriosirono dei fasci di luce che brillavano nelle notte, non capivo la ragione di tanto spreco. Ancora più avanti c’erano archi inghirlandati di fiori, luci multicolori dappertutto. Cosa succedeva? Ad un passante chiedemmo il perché di tutto ciò e lui rispose che il giorno seguente ci sarebbe stata la grande festa del ringraziamento per i reduci tornati dalla guerra. In quell’occasione veniva portata in processione la Madonna della Pieve. Era veramente un grande avvenimento perché non ricordavo che mai fosse stata mossa la statua della Madonna dal suo santuario.

Così, tra sorpresa e stanchezza, eravamo quasi arrivati e mia zia mi propose di fermarmi a salutare dei parenti. Fu così che, senza volerlo, mi trovai faccia a faccia con i miei zii più stretti. Volevo loro bene e li stimavo tanto, ma provavo anche tanta soggezione, quindi non avrei mai voluto presentarmi in quelle condizioni.

Il ben tornato mi venne dato così: "Come sei fortunato ad essere potuto tornare dalla guerra... mentre di nostro figlio ancora non sappiamo niente!"

Capivo il loro stato angoscioso, capivo quanto soffrissero. Avrei voluto dire loro che la mia non era stata una vera fortuna, forse una fortuna dimezzata, ma preferii tacere.

Parlarono un poco tra di loro, poi lo zio, che aveva capito la mia situazione, disse: "Questa notte è meglio che resti qui."

Stentai a prendere sonno, troppe cose si erano sovrapposte in quei giorni, ma infine la stanchezza ebbe la meglio e m’addormentai.

Il mattino, ancora presto, mi svegliai e mi guardai attorno: dove mi trovavo? Ero ancora confuso, ma tornai alla realtà. "E adesso?" mi chiesi.

Scesi al piano inferiore dove c’era la cucina, trovai gli zii già in piedi come se fossero là ad aspettarmi.

Dimenticavo di dire che la sera prima avevo incontrato Egidio, il mio fratello più giovane. Da poco era tornato dai lager nazisti ed aveva ripreso servizio nell’arma dei carabinieri. Anche lui, in quei giorni di breve licenza, bivaccava dagli zii, e mi fu di grande conforto avere vicino uno della famiglia.

Con gli zii cercai di riattaccare la conversazione lasciata cadere la sera prima e dissi loro, quasi per scusarmi, che il lunedì, il giorno dopo, sarei partito; mi guardarono un po' sorpresi, ma anche con sollievo. Non attesi risposta e continuai: "Ho bisogno di un ambulatorio per un controllo."

Era vero, ma non dissi né che era urgente né che avevo bisogno di assistenza giornaliera. Il mio desiderio era di farmi ricoverare, così, oltre ad avere le cure necessarie - che mi erano state consigliate anche a Chieti - avrei potuto tranquillizzarmi e sperare nella guarigione, per poter continuare una vita normale. In caso contrario non restava che accettare quello che avrebbe voluto il destino.

Riepilogando, in quei giorni le cose non andarono come io speravo, anche se, per vie traverse, in seguito riuscii a farmi ricoverare. All’ospedale militare di Trento, dove il lunedì mi ero recato, accompagnato da mio fratello e dallo zio, credetti di ricevere aiuto e comprensione, trovai invece un colonnello comandante arcigno e inumano, che non volle sentire ragioni e mi mandò via con una semplice ricetta medica adatta a curare un raffreddato.

Fui costretto, ancora una volta, accettare lo smacco e l’indifferenza di quei "magnanimi superiori" e, con la tristezza nell’animo, tornare da dove ero partito pieno di speranza.

Gli zii dovettero ospitarmi ancora per una decina di giorni, durante i quali feci una scappatina alla mia vecchia casa; non ero del tutto convinto che fosse danneggiata, ma il vederla fu solo una grande delusione.

Per il mio ricovero dovettero darsi da fare i miei parenti, tramite il municipio, in quanto per "i signori della guerra" ero solo un relitto inutile che non serviva più.

Venni ricoverato ad Arco, in una casa sanatoriale privata, in cui dal primo giorno trovai gentilezza e tanta comprensione. La clinica era zeppa di militari reduci dalla guerra e dai campi di prigionia, con i quali legai subito: amicizia e fratellanza erano il nostro motto. Ognuno di noi aveva una lunga odissea da raccontare, era bello, ci sentivamo tutti amici e le storie di alcuni tante volte combaciavano con le mie.

Malgrado i tanti anni di guerra eravamo ancora giovani, la speranza era ancora viva e si pensava ad un domani migliore.

Là trovai dei veri amici, come Dante, il più caro e generoso, scrittore e poeta, che non dimenticherò mai.

La mia permanenza in quel luogo si prolungò per parecchi mesi, ma non perché avessi bisogno di particolari cure. Infatti, già alla prima visita dopo il ricovero, il dottore dichiarò la mia piena guarigione - ritenuta quasi miracolosa - visti tutti gli strapazzi subiti. In realtà, le conseguenze della malattia mi avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Uscii dall’ospedale il 10 giugno 1947, avevo in tasca il documento che attestava il mio diritto alla pensione di guerra ed anche questo mi diede la forza di ricominciare.

 

testimone: Carlo Campostrini

anno di nascita: 1920

provenienza: Avio

professione: contadino\operaio

data dell’intervista: maggio 1998

Gli alunni della classe III A hanno trascritto al computer la testimonianza scritta di Carlo Campostrini ed inserito, successivamente, la documentazione fotografica.

 

 

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