FUORI DAL TRENTINO

 

 Testimonianze di guerra da:

 

Lombardia

 

Emilia Romagna

 

Toscana

 

Lazio

 

 

 

 Avevo 22 anni e mi ricordo molto bene il terrore che provavo quando passava quel maledetto aereo che noi chiamavamo Pippo.

Io abitavo in un paesino di montagna e fortunatamente nei luoghi così piccoli non bombardavano molto. Mi ricordo che a Malcesine la guerra ha fatto grossi danni. Quando veniva il Pippo, o scappavo per i campi o andavo a rifugiarmi in cantina.

 

testimone: Celestina Delaini

anno di nascita: 1922

provenienza: Tremosine (BS)

professione: operaia

autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana

data dell’intervista: marzo 1998

  Avevo 24 anni. Quando bombardavano di giorno, mi rifugiavo tra le rose di casa mia, quando bombardavano di notte mi nascondevo in cantina. Avevo il fidanzato in guerra, ed io aspettavo ogni giorno la posta che non arrivava mai, ero sempre in pensiero. Dopo un anno ho ricevuto la notizia che era prigioniero in Germania: è stato due anni in un campo di concentramento a Berlino. Mangiava poco e male, spesso si nutriva di patate crude. Finita la guerra è tornato a casa molto sofferente e sono stata felicissima di rivederlo. Sapevo che era difficile uscire vivi dalla guerra.

 

testimone: Margherita Delaini

anno di nascita: 1920

provenienza: Tremosine (BS)

professione: casalinga

autori dell’intervista: Marco Bademer, Vittorio Calliari, Daniele Cavedine, Fabiano Giuliani, Andrea Pavana

data dell’intervista: marzo 1998

 

  All'epoca della guerra abitavo a Cesena. Erano gli anni 1943-44. Ricordo la presenza in città di numerosi fascisti, ma anche di parecchi comunisti, molti dei quali furono mandati al confino in Grecia ed in Jugoslavia.

Mio fratello era militare a Riccione e, un giorno, mia madre lo andò a trovare: l'accompagnai alla stazione e, sul grande viale di accesso alla stessa, fummo mitragliate da un aereo che passava a volo radente. Ci salvammo gettandoci per terra, come tutte le altre persone, mentre un giovane che conduceva un carro fu colpito a morte. Mi è rimasta impressa la scena del ragazzo che stramazzava a terra e del cavallo impazzito che continuava la sua corsa.

Nei giorni seguenti fecero ingresso in città oltre cento "panzer", i grossi carri armati tedeschi, che si disposero lungo un viale alberato, mimetizzati dalle fronde, pronti ad intervenire nei combattimenti che si stavano svolgendo lungo la cosiddetta Linea Gotica, a 25-30 chilometri dalla città.

In quei giorni mio fratello doveva prestare il giuramento. Vista la situazione, mio padre si recò da lui e, di notte, lo fece fuggire, benché questo volesse dire farlo diventare un disertore. Tornati a Cesena e considerato il costante pericolo rappresentato da tutti quei tedeschi, decidemmo di trasferirci in campagna, in una casetta di proprietà di mio zio, che era fuggito sugli Appennini per porre in salvo la sua numerosa famiglia. Là restammo per un certo periodo, con mio fratello sempre nascosto nel pagliaio, perché le SS continuavano ad ispezionare la zona con i cani. Il timore era grande e così decidemmo di raggiungere i miei due zii sugli Appennini.

 

Viaggiammo solo di notte, costretti spesso a gettarci nei fossati per paura di essere colpiti da un aereo di ricognizione chiamato Pippo. Il viaggio fu quindi molto pericoloso e faticoso.

In quel casolare erano riunite tre famiglie con 10 bambini, il più grande dei quali aveva otto anni. Era una casa situata in luogo molto isolato, senza strade di accesso e, per raggiungerla, si doveva persino guadare un torrente. Solo noi donne potevamo scendere in città per prendere il cibo: gli uomini dovevano stare segregati, altrimenti sarebbero stati catturati dai tedeschi. Le provviste erano nascoste nella casa di campagna che avevamo appena lasciato e le trasportavamo in montagna con un carro trainato da un cavallo da corsa di proprietà di uno zio. Purtroppo il cavallo in seguito morì, cadendo in una zona scoscesa dove era nascosto.

Ritenevamo il luogo e quel casolare un posto sicuro, invece eravamo arrivati nel covo delle vipere: c'erano, infatti, i partigiani che, di notte, scendevano a valle a compiere attentati, provocando la successiva rabbiosa reazione dei tedeschi, i quali infierivano sugli abitanti di tutte le casupole sparse in quel territorio.

Rivedo ancora la scena quando, insieme a mia madre e a mia zia, di ritorno da Cesena dove ci eravamo recate in bicicletta - non avevamo più il cavallo - passammo per un viottolo vicino ad un casolare: c'era una macchina bruciata e, poco più in là, appeso ad un poggiolo, penzolava il corpo di un ragazzo. Ci dissero che i partigiani avevano attaccato la macchina ed ucciso i tedeschi. Subito c’era stata la ritorsione e quel ragazzo, per salvare la vita ai pochi abitanti della zona, si fece catturare ed i tedeschi, cosa veramente assurda, lo impiccarono.

 

Restammo là parecchio tempo; un giorno si presentarono sei canadesi, sembravano proprio degli indiani, che si erano perduti. Mio zio li aiutò a ritrovare la strada e capimmo che gli americani erano vicini.

Allora mio zio sollecitò noi grandi a raggiungere gli alleati oltre il fronte. Partimmo con altri con una carovana di asini carichi della nostra roba e, dopo una notte di cammino sugli Appennini, sbucammo in una zona vicino Firenze. Là non sapevamo dove andare: ci ospitarono diverse famiglie e, per circa un mese, dormimmo per terra su materassi di foglie di pannocchia.

Saputo poi che Cesena era stata liberata, mio padre e mio fratello vi fecero ritorno in bicicletta, dopo un viaggio di circa 45 chilometri. Le biciclette erano l'unico mezzo di trasporto a disposizione, ed era già tanto averle; erano senza copertoni e fasciavamo i cerchioni con degli stracci. Dopo un paio di giorni rientrarono, ci assicurarono che non c'era più pericolo e che avremmo potuto fare ritorno a casa anche noi.

In quella lunga camminata verso casa, non essendo stata abituata a portare gli scarponi, mi si era infettato un piede, creandomi non pochi problemi; per fortuna gli americani mi diedero la penicillina e guarii dall'infezione.

C'è da dire che, sulla strada del ritorno, transitava una fila continua di camion con a bordo gente di tutte le razze: americani, canadesi, australiani, ecc., ma nessuno si fermò per darci un passaggio.

La guerra non era ancora terminata perché, di notte, si sentivano le esplosioni delle bombe U2 a lunga gittata. Una cadde nel nostro giardino, ma per fortuna non provocò danni.

A Cesena giunsero gli americani. I comunisti tornarono dal confino, presero il comando della città ed iniziarono le ritorsioni sui fascisti, colpevoli di tante angherie nei loro confronti nel periodo anteguerra. Tante volte di notte mi affacciavo alle finestre di casa, richiamata dai loro schiamazzi: scortavano i fascisti verso le prigioni, potevano essere uomini, donne e persino ragazzi, li ingiuriavano e li picchiavano con i bastoni. Qualcuno di loro morì nell'indifferenza generale.

 

Durante il periodo della guerra pativamo anche la fame: c'erano le tessere annonarie, che davano diritto ad un "tot", magari ad un paio di scarpe che però non erano sufficienti. Mio padre aveva un negozio di generi per la campagna e faceva scambio merci con i contadini; per mia madre era un grande sollievo tornare a casa con un chilo di farina o tre chili di patate, perché poteva aggiungere qualcosa al pasto di noi ragazzi. Non era come nei paesi, dove c'era la possibilità di arrangiarsi: in città i soldi servivano fino ad un certo punto perché non sempre si poteva arrivare al mercato nero.

Alla fine della guerra suonarono tutte le campane, la gente cominciò a gridare di gioia, potete immaginare la felicità al pensiero che non ci sarebbero state più bombe. Ci ritrovammo in strada con i vicini del quartiere, a chiederci l’un l'altro notizie sugli amici comuni, addolorati nell'apprendere che qualcuno purtroppo era morto.

Furono anni difficili, ci spostammo da una parte all'altra, sopportando difficoltà e patendo dolorose traversie.

Ripensandoci ora, visto che la nostra casa non era stata danneggiata, il nostro peregrinare è stato forse inutile.

 

testimone: Gigliola Molinari Cavazzani

anno di nascita: 1928

provenienza: Cesena

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

  Avevamo un bel setter bianco con delle macchie nere, ma dovemmo lasciare la città e rifugiarci nella campagna, perché tutti i ponti medievali sul fiume Arno a Pisa erano stati distrutti dai bombardamenti. La riva sinistra dell’Arno era controllata dagli americani, mentre quella destra dai tedeschi; questi stavano facendo dei rastrellamenti per procurarsi uomini e farli lavorare nelle loro opere di fortificazione. Quindi con la mia famiglia fuggii in un cascinale in campagna, nella zona di Campo, a 5-6 km. dalla città, dove erano rifugiate altre famiglie, ma era vietato portare cani. Così il nostro lo lasciammo ad un amico di mio padre che restò a Pisa con la sua famiglia, composta dalla moglie, da un figlio e una figlia. Il cane era molto affezionato a quell’uomo che ci frequentava regolarmente.

Un giorno i tedeschi capitarono in quella casa per prelevare il capofamiglia e portarlo a lavorare per loro, il cane saltò alla gola del tedesco che aveva preso l’uomo per un braccio, allora un altro tedesco sparò all’animale e lo colpì, ma questo fuggì. Fu trovato morto lungo un argine dell’Arno; forse voleva andare a dissetarsi, ma non ce la fece perché le ferite erano troppo gravi.

Il nostro amico fu portato via, ma riuscì a fuggire, tornò dalla famiglia e tutti insieme si rifugiarono nell’ospedale S. Chiara di Pisa, che nascondeva molte persone.

 

Dalla zona di Campo, dove eravamo sfollati, dovemmo fuggire perché il cascinale era stato occupato dai tedeschi ed andammo in un altro luogo, sempre in campagna. Ci avevano fatti andar via in fretta e furia ed avevamo lasciato là tutto, così un giorno decisi di tornare al cascinale per recuperare un po' di cose. Ma m’imbattei in un soldato tedesco giovanissimo che mi fermò.

"Non puoi venire qui, è pericoloso!" mi ordinò.

"Devo prendere le mie cose, " dissi "ho un bambino molto piccolo e se non recupero quel poco che abbiamo da mangiare morirà di fame!"

Non era vero, avevo solo 16 anni e non avevo né bambini né ero sposata.

"Così giovane hai un bambino!" fece lui con compassione. Poi si guardò attorno e mi accompagnò al cascinale, dove potei prendere i pochi vestiti, ma soprattutto le scorte alimentari, anche se erano piuttosto scarse. Il giovane soldato tedesco andò al comando, prese delle zollette di zucchero, sale, altri viveri e me li offrì, poi mi accompagnò per un bel pezzo di strada finché fui fuori pericolo. Mi salutò e tornò indietro.

Chissà se quel ragazzo così buono e generoso, anche se nemico, è riuscito a sopravvivere alla guerra...

 

Quando eravamo sfollati nella campagna pisana il problema principale era quello del cibo. Mio fratello Nedo, il più piccolo, aveva 11 anni, di notte andava nei campi di altri contadini a prendere un cavolo, qualche patata...era rubare, ma per sopravvivere!

Di giorno andavano per le campagne, dove ormai i contadini avevano raccolto gelosamente quel poco che la terra aveva prodotto e cercavamo i resti: qualche pesca ancora acerba o rovinata dalla grandine, qualche patata, delle erbe che si potevano mangiare. Un giorno eravamo io, Nedo e un nostro conoscente anziano e zoppo. C’imbattemmo nei tedeschi che rastrellavano uomini in grado di lavorare per le loro fortificazioni. Ci fecero fermare, presero il vecchio, che si dibatteva disperatamente, e lo portarono via.

Io e mio fratello cominciammo a correre terrorizzati, piangendo e urlando, non sapevamo più cosa fare. Vagammo per un po' per la campagna ma, ad un certo punto, sentimmo chiamare i nostri nomi: era il vecchio conoscente che, in lontananza, agitava le braccia e ci veniva incontro. Ci disse che quando i tedeschi avevano visto che era zoppo e non in buone condizioni fisiche gli avevano detto: "Vecchio, tu ormai Kaput!" e lo avevano lasciato libero perché non sarebbe servito come lavoratore.

 

testimone: Dina Mazzocchi Nencioni

anno di nascita: 1927

provenienza: Pisa

autore dell’intervista: Ivan Benvenuti

data dell’intervista: dicembre 1997

 

  Fu un giorno tristissimo il 23 luglio 1943. Ero allora imbarcato sul Regio Sommergibile "Ascianghi", quando in servizio agli idrofoni si presentò un’intera squadra navale nemica.

Il Comandante S. Ten. Vasc. Mario Fiorini diede l'ordine di venire a quota periscopica e al personale di schierarsi al posto di combattimento. Superò gli sbarramenti difensivi, scelse il bersaglio più grosso e lanciò una coppia di siluri che si presume colpisse l'incrociatore. Dico "si presume" perché il sommergibile non ebbe il tempo di raggiungere la quota di sicurezza e venne raggiunto da una gragnola di bombe in profondità. Colpito a morte e costretto a risalire in superficie, non fece in tempo ad accettare battaglia perché fu centrato dalle batterie di cannone di due caccia inglesi; così lentamente affondò, mentre io, ferito, fui preso a bordo del caccia inglese "Foly", assieme ad altri 23 naufraghi, e portato all'ospedale di Malta, dove venni operato all'occhio sinistro e curato.

 

testimone: Antonio D’Alessandro

anno di nascita: 1923

provenienza: Roma

professione: volontario in marina

autore dell’intervista: Karin D’Alessandro

data dell’intervista: marzo 1998

 

 

Quel giorno ero in servizio in qualità di vigile del fuoco volontario alla caserma di Frascati. Sarà stato circa mezzogiorno quando le sirene, con il loro lugubre suono, annunciavano aerei nemici in vista. Dalla finestra di un palazzo di fronte alla nostra caserma una signora mi chiamò dicendomi: "Vigile, per favore, porta la mia bambina nel rifugio poiché ha la gamba ingessata!"

Pronto salii le scale, presi la piccola in braccio e con la sua mamma che mi seguiva andai al rifugio, in casa di vicini parenti. Ritornai immediatamente in caserma e sentii il rombo di aerei, scorgendo in lontananza la loro sagoma. Un attimo dopo, il sibilo mortale di bombe in arrivo si udiva sopra noi.

L’anziano brigadiere di nome Gaia, reduce dai bombardamenti di Milano, disse: "Ragazzi, queste sono per noi. "

Un secondo dopo, laceranti cupi scoppi di bombe colpivano il palazzo delle scuole, dove eravamo alloggiati noi vigili, ed altri edifici tutt’intorno. Lo spostamento d’aria provocato dalle stesse fece volar via finestre, porte, tramezza in muratura, tavoli: ne ho ancora una limpida visione.

In quel momento il panico prese tutti noi vigili presenti in caserma - circa dieci - e ci rifugiammo in gruppo nell’angolo del garage dove ci sembrava di essere più sicuri. Con voce disperata qualcuno gridò: "Moriamo tutti assieme!" e ci stringemmo uno all’altro.

Io, anche se ero il più piccolo di tutti, mi trovai al centro del gruppo ed esortavo alla calma dicendo: "Dov’è caduta una bomba, non ne viene un’altra!"

Era quanto mi aveva insegnato mio padre, soldato austriaco contro i russi nella Prima Guerra Mondiale.

La paura era sovrana, sentivo i miei amici attaccarsi con le mani al mio cinturone da lavoro in cerca di conforto. Qualche momento dopo, cessato il polverone dei palazzi caduti, i miei amici mi trascinarono per forza - io non volevo muovermi - nel rifugio dei carabinieri poco distante da noi.

Facemmo appena in tempo a raggiungere la scala di accesso, quando altre bombe fecero cadere parte della caserma. In rifugio ricordo scene impressionanti: chi piangeva disperatamente, chi rideva da pazzi ed altre reazioni che si possono immaginare.

In quell’ora tremenda di bombardamento a tappeto non ebbi il tempo di pensare a niente, cercai solo di riuscire a sopravvivere.

Dopo un’ora terminò il bombardamento, mi vidi ancora vivo e la mia memoria, sebbene non ancora "a piombo", si riaprì e il mio pensiero volò subito alla mia giovane mogliettina, alla mia mamma, al mio papà, e dal portafoglio che tenevo con me tirai fuori l’immagine della Madonna della Pieve e un piccolo crocifisso, e diedi loro un bacio. Era un bacio di ringraziamento e di consolazione per lo scampato pericolo.

Io e i miei amici vigili ritornammo su dal rifugio e cercammo di aiutare chi più ne aveva bisogno. Il panorama che si presentava della bella cittadina di Frascati era desolante. Non trovo parole giuste per descriverlo: urla che chiedevano soccorso da tutte le parti, persone dilaniate; morti sotto le macerie ce n’erano ovunque, come pure nei rifugi, dove molti credevano di essere sicuri.

Prontamente soccorremmo i più vicini. Ricordo che nel rifugio delle suore vicino alla nostra caserma, sotto in grotta, ci saranno state cento persone che a prima vista sembrava dormissero.

Portate su un giardino le prime quattro suore, che riverse sulla scala impedivano il passaggio, e prestati i primi soccorsi, ritornai giù assieme al portalettere di Frascati, di nome Arnaldo, per soccorrere e portare all’aperto quanti più corpi possibile.

Non dimenticherò mai lo strazio di una mamma di due bambini, due veri angioletti, quando dopo averli portati su dal rifugio constatammo la loro morte.

Rifeci quella scala alcune volte assieme al mio compagno Arnaldo, quando ad un certo momento questi mi disse: "Vigile, non ce la faccio più" e si accasciò. Lo presi a stento e lo riportai di sopra. A quel punto l’effetto del gas che c’era giù in rifugio fece effetto pure su di me e dovetti smettere il servizio che stavo facendo. Mi sdraiai in terra in giardino per respirare meglio. La mamma dei due bambini morti venne a soccorrermi

bagnandomi le narici con aceto trovato nella cucina delle suore.

Certi particolari di quell’esperienza non posso descriverli, perché erano veramente raccapriccianti.

Riavutomi dal malore, non mi fidai più a scendere in rifugio perché privo delle protezioni necessarie, però lavoro ce n’era per tutti. Tutt’intorno ricordo gente che respirava a stento e forse con una respirazione particolare potevamo salvarla. Bastava guardarsi attorno: c’erano solo persone da aiutare. Per le suore non ci fu più nulla da fare e morirono tutte.

A un certo momento i miei occhi videro un giovane con la fede al dito che dormiva per terra. Pensai subito che forse era sposato da poco come me. Prontamente con l’aiuto di un ragazzino - avrà avuto 10-12 anni - lo trasportai in un locale, penso nel refettorio delle suore; un braccio io, un braccio il ragazzino, su e giù, giù e su, gli premevamo sullo stomaco, facendogli muovere le braccia in un ritmo frenetico. Dopo circa venti minuti il giovane riaprì gli occhi e noi continuammo con la respirazione finché si risollevò sulle sue gambe e si sedette ad un tavolo. Allora smettemmo con grande soddisfazione.

Descrivere tutta la distruzione non si può, ma ad un particolare voglio accennare. In piazza mercato, martoriata delle bombe, una casa era quasi del tutto crollata e restava uno spuntone del muro centrale; sotto l’architrave di una porta una donna in piedi gridava disperatamente aiuto, ma non si poteva muovere poiché le persone, rimaste schiacciate sotto tutto il groviglio di materiale caduto, si erano aggrappate a lei in un disperato abbraccio, dal quale la poveretta non riusciva più a liberarsi. Al piano terra, in grotta e sotto tutto stavano tre uomini che potemmo far uscire sani e salvi. Il lavoro continuò per tutto il pomeriggio. La notte fui ospite in casa di vigili commilitoni a Monte Porzio Catone.

Al mattino del giorno 9 settembre ritornammo a Frascati per riprendere il nostro lavoro, ma con stupore ci rendemmo conto che non c’erano più né macchine né mezzi: i soldati tedeschi se li erano presi. Proseguimmo nell’opera come si poteva, assieme a soldati e civili accorsi in aiuto; ce n’era per tutti. Un nostro vigile bolzanino, che sapeva parlare il tedesco, andò al comando per vedere se ci restituivano tutto quanto era stato prelevato. Il comandante tedesco per tutta riposta gli offrì un pacchetto di sigarette da fumare assieme.

A seguito dell’armistizio firmato il giorno precedente fra lo stato italiano e forze alleate serpeggiava la voce: "La guerra è finita e tutti a casa."

Dopo diverse consultazioni fra noi vigili, nel pomeriggio decidemmo di tornare a Roma a piedi e presentarci alla caserma centrale di Via Genova, per ulteriori disposizioni.

Nonostante cercassimo di avanzare nella campagna, evitando la strada, c’imbattemmo in diverse pattuglie tedesche che stavano controllando ogni movimento di militari e civili.

Grazie al nostro vigile che conosceva il tedesco, riuscimmo ad avere via libera fino a Guidonia. A sbarrarci la strada c’erano militari italiani, con mitragliatrici in postazione, pronti a fermare i militari tedeschi intenzionati ad entrare a Roma. A mani alzate ci presentammo ad un tenente italiano capo postazione e, visto che eravamo vigili del fuoco, ci fece passare. Intanto calava un’altra sera e la notte dormimmo - come si poteva - in aperta campagna.

Qui finisce la tragedia di Frascati.

Al mattino del 10 settembre di buonora, partenza per Roma, Via Porta S. Giovanni.

Finalmente giunti in città - saranno state le 9:00 - si fece per prendere il tram, quando l’urlo delle sirene annunciò l’allarme e tutto si fermò. Ripartimmo nuovamente a piedi.

Le truppe tedesche si erano riorganizzate e avanzavano per il centro di Roma. Ricordo un fuggi fuggi di civili, militari, fanti, artiglieri e granatieri. Qualche piccolo scontro e poi avanzarono i carri armati tedeschi, affiancati da mitraglieri a piedi che ad ogni angolo della via sparavano all’impazzata. Di corsa dal monumento alla Vittoria e da Via Nazionale, sempre con i tedeschi alle calcagna, giunsi assieme ai miei amici in Via Genova, alla nostra caserma centrale, col fiato grasso, ma con un grande sospiro di sollievo.

I giorni seguenti, 11-12-13 settembre, ci furono consultazioni frenetiche fra noi vigili dell’alta Italia per ritornare alla nostra casa.

Nel frattempo si unirono a noi due miei compaesani: il vigile Arcadio Tranquillini e l’artigliere mio amico Arnaldo Sega, in servizio come mitragliere antiaereo - vestito in borghese - e nel pomeriggio del giorno 13 corremmo tutti di corsa alla stazione Termini.

Alle ore 16:00 circa una tradotta militare era in partenza con destinazione Brennero: finalmente, casa nostra. Non posso descrivere le ansie e le speranze che provammo tutti.

Fu prezioso l’aiuto di meravigliosi ferrovieri: ci tenevano informati, durante il viaggio, della presenza di soldati tedeschi, precisando località fuori rischio dove potevano scendere tutti gli interessati.

Alle 3:00 del mattino del giorno 14 arrivammo a Verona, decisi a scendere per poi proseguire a piedi fino a casa. Per fortuna anche là un angelo di ferroviere in servizio ci fermò consigliandoci di attendere il primo treno del mattino, perché fuori la stazione brulicava di tedeschi che fermavano tutti i giovani e li impacchettavano sui treni con destinazione Germania.

Finalmente con grande ansia arrivò il treno passeggeri Verona-Trento, alle 5:30 ci salimmo con i nostri fagotti e via.

Arrivati alla stazione di Borghetto si decise di smontare, ma la presenza di divise tedesche ci fece cambiare idea e quindi si proseguì. La stazione di Avio era gremita di persone che partivano alla ricerca dei propri familiari e parenti, e questo fatto ci permise di scendere fortunatamente proprio a casa nostra. Dopo circa una mezz’ora ebbi la grande gioia di riabbracciare la mia mogliettina Elda. Usando una frase evangelica posso senz’altro affermare che sussultava nel suo grembo una graziosa bambina. Scambiai bacioni fissi con mamma e papà.

Era il giorno 14 settembre, il mio trentesimo compleanno.

 

Qui finisce la storia di Rino pompiere a Frascati.

Ho poi continuato il servizio di vigile del fuoco volontario per tutto il periodo di guerra ad Avio come:

FEUER WEHRMANN

NICHT MILITARE

così mi classificarono i tedeschi.

Solamente dopo 40 anni di servizio ininterrotto, nel 1974 ho smesso di far parte del corpo dei vigili del fuoco, lasciando ai più giovani il compito di continuare sempre con un intramontabile entusiasmo.

 

 

 

P.S.

Riferendomi al bombardamento di Frascati, la bambina che portai nel rifugio era la signorina Delfina Cenci e la sua mamma la signora Fulvia, ora nostre carissime amiche.

 

testimone: Rino Sega

anno di nascita: 1913

provenienza: Avio

professione: falegname

autori dell’intervista: Lorenzo Campostrini, Sara Campostrini, Marco Chiusole, Alessandra Redolfi

data dell’intervista: marzo 1998

 

zzz

 

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