I forzuti emigrano

di Vittorio Martinelli

1923: l'Italia cinematografica é agli stremi. La crisi, iniziata subito dopo la fine della guerra mondiale, si éandata sempre più aggravando. Gli americani, che si erano timidamente affacciati sulle sponde europee sulla fine del decennio precedente, ora sono diventati padroni degli schermi di tutto il vecchio continente.
Qualche film si gira ancora ma, appena completato, viene depositato negli scaffali dell'Unione Cinematografica Italiana, il trust che raggruppa le maggiori case produttrici italiane e che si é assunto l'ingrato compito della distribuzione dei film nazionali.
Ma in quell'anno di grazia 1923 chi ha più voglia di andare a vedere storie di orfane adottate da nobili signori, il cui nipote libertino e dissoluto ne insidia le virtù o passionali melodrammi che terminano con il suicidio della protagonista per l'onta di essersi concessa all'uomo che ha la possibilità di salvare dal dissesto finanziario il legittimo marito che ha imprudentemente dilapidato le ricchezze avite?
Perché questi, con qualche leggera variante, sono i canovacci di cui si servono i fabbricanti di pellicola italiani. Non vi sono nemmeno più la Bertini, la Borelli o la Menichelli, convolate a giuste e nobili nozze alle prime avvisaglie della crisi; almeno queste signore del silenzio, con l'allure di autentiche primedonne della scena muta, riuscivano a far digerire a masse di spettatori siffatti polpettoni: bastava mettere - raccontano le cronache d'epoca - il cartello "stasera Bertini", che i cinematografi registravano il tutto esaurito.
Le dive della seconda generazione, Linda Pini, Leda Gys, Linda Moglia, Lucy di Sangermano, Carmen Boni, ora che qua e là appaiono in qualche film recuperato, ci sembrano più moderne, più versatili, in una parola più americanizzate, comunque inadatte a ruoli di macerato dannunzianesimo o da feuilletton strappalacrime.
Solo Rina de Liguoro si stacca da questa pattuglia: ha raccolto in parte l'eredità delle sue illustri colleghe, aggiungendovi una spiccata propensione erotica, pimentando i suoi film con generose esibizioni di nudo. Peraltro i film se li produce in proprio, evitando che le pizze di Savitri, La bella corsara o In maremma vadano ad ammuffirsi nei magazzini della Unione, diventata più una cineteca che un luogo di smistamento delle pellicole.
In quegli anni Venti che vedono l'affossamento completo del cinema italiano, resistono solo due produzioni: quella dei film napoletani che, pur osteggiata dal fascismo perché veicolo di cultura vernacola e "calunniatrice per una popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel tono di vita sociale e materiale che il Regime imprime al paese" (dichiarazione testuale delle commissioni di censura del 1928), ha un suo fedele pubblico a sud del Garigliano e nei paesi di intensa emigrazione, e quella degli uomini forti, una serie che aveva avuto inizio prestissimo, quando nel primo Quo vadis? (Guazzoni, 1912), il possente Bruno Castellani (Ursus) aveva letteralmente rubato le scene agli interpreti principali. La stessa regina d'Inghilterra, che aveva assistito alla prima del film alla Albeert Hall di Londra, nel complimentarsi con il regista e gli attori presenti alla cerimonia, si rivolse a Castellani chiamandolo Ursus ed esprimendogli la sua simpatia.
L'anno dopo lo scettro di "uomo forte" passò a Bartolomeo Pagano il Maciste di Cabiria (pastrone, 1914). E l'entusiasmo per il gigante buono fu tale che Pagano divenne immediatamente un divo.
La serie di film con Maciste non conobbe sosta se non per la penossa malattia che colpì il protagonista verso la fine degli anni Venti, costringendolo ad un prematuro ritiro. Si ebbero nei quindici anni di intensissima presenza dell'attore sugli schermi di tutto il mondo un Maciste alpino, un Maciste medium, un Maciste poliziotto, naturalmente un Maciste innamorato, una Trilogia di Maciste, un Maciste all'inferno, un Maciste imperatore e così via.
Tra questi un Maciste nella gabbia dei leoni dove il nostro eroe, avventuroso esploratore in Africa a caccia di leoni per un circo, salva una giovanissima creola dalle insidie della giungla, la porta in Europa e le insegna come diventare una domatrice. Ed interverrà ancora a sua protezione quando due biechi figuri tenteranno di usarle violenza. "Vi domina - ci informa un critico d'epoca - colla sua solita funzione di protettore dei deboli e dei buoni e di castigamatti dei prepotenti, il ben noto Maciste". Maciste nella gabbia dei leoni, recentemente ritrovato ad Amsterdam, permetterà di rivedere questo popolare beniamino dello schermo in un film che all'epoca colse un vastissimo successo e venne venduto in tutt'Europa e persino negli Stati Uniti, sempre refrattari ad importare prodotti europei ed italiani in particolare. Maciste lavorò anche in Germania: venne scritturato per cinque film con un contratto da capogiro, che comprendeva anche il suo regista di fiducia Borgnetto, l'operatore ed il consueto team di rompicollo che gli faceva ala, tra cui Umberto Guarracino, suo eterno avversario col nome di Cimaste. Ne girò solo quattro, poi preferì tornarsene nella sua Genova, quando si accorse che i marchi pattuiti, a causa della sopraggiunta inflazione, non valevano nulla. E poi, non gli andavano a genio il mangiare, certe regole di lavorazione tipicamente teutoniche e non spicciava una sola parola di tedesco. Abbandonò quindi il set del quinto film al secondo giorno di lavorazione, quando già erano state preparate le scene, lasciando nella disperazione più nera il produttore Jacob Karol.
Fortuna volle che in quei giorni fosse arrivato a Berlino un altro uomo forte, il lucchese Carlo Aldini, noto già per aver dato vita in una decina di film, in verità un tantino scalcinati, al personaggio di Ajax, altro muscleman, che però differiva nelle caratteristiche da quelle di Maciste per una sorta di agilità, di disinvoltura, direi quasi di eleganza. Se maciste rappresentava la forza assoluta, la potenza dei muscoli, Aldini, che prima del cinema era stato campione di salto in alto, coppa d'oro in gare di pentathlon ed aveva una lunga consuetudine con le palestre sportive era un atleta completo, con una struttura più virilmente armoniosa.
Era stato proprio Karol che l'aveva invitato a Berlino quando era venuto in Italia in cerca di interpreti di film a sensation e s'era portato prima Luciano Albertini e poi Maciste.
Aldini capitava come il cacio sui maccheroni. Bastò cambiare il titolo che era Il nipote pazzo di Lord Maciste in Il nipote pazzo di Lord Aldini (in Italia arrivò come Un simpatico mascalzone) e Aldini divenne per anni un apprezzato interprete di vicende infarcite di peripezie e di avventure mozzafiato.
Anche se con un po' di affettazione, Aldini, in questi suoi film tedeschi - continuerà anche nel sonoro inoltrato, grazie alla perfetta conoscenza della lingua - riesce a dissimulare abilmente la sua poderosa complessione toracica con una eleganza ricercata, con uno smagliante sorriso, con una ben studiata disinvoltura: é un italianer che ha un indubbio fascino, la cui figura ben si adatta anche a quella degli eroi da leggenda: viene scelto per la parte di Achille in un kolossal in due episodi: Der Raub der Helena / Der Untergang Trojas(Il ritratto di Elena / La caduta di Troia), ove Elena é un'altra bella emigrata, Edy Darclea.
L'uomo senza testa (Der Mann ohne Kopf, 1927) é uno dei tre film che Aldini ha girato in Germania con la regia di Nunzio Malasomma. É uno dei pochi esemplari superstiti delle bravure cinematografiche di questi rompicollo che rischiavano in proprio per offrire uno spettacolo d'ardimento ai pubblici avidi di emozioni.
La copia é stata trovata presso la Cinémateque del Lussemburgo: é action allo stato puro, senza trucchi, con una spolveratina di autoironia.
E non é poco.


da Cinegrafie, Anno I - N.2 (1989), pagg. 85-87. Pubblicato in occasione della XVIII Mostra Internazionale del Cinema Libero, Bologna 1