Un numero speciale dei "Cahiers de la Cinémathèque" [49,
1988] dedicato al cinema europeo degli anni Venti aveva
affrontato, fra gli altri, il problema dell' état des
questions sull'Italia del periodo confrontando la reputazione di
quel decennio (sciagurato decennio, nelle parole di un moribondo
Emilio Ghione [La parabole du cinéma italien]) con le
residue testimonianze visibili di una produzione soffocata da se
stessa. Vi si parlava della miope e, nonostante tutto, passiva
politica di ostruzionismo nei confronti della cinematografia
straniera; della sovrabbondanza di titoli (1750, negli anni 1919-1930)
affatto sproporzionata alle capacità di assorbimento del
mercato interno, nonché indigesta a quello estero; della
famigerata politica di accentramento provocata, e applicata fino alle
estreme conseguenze, dell'Unione Cinematografica Italiana, alla cui
sigla sono tuttora legate, nella storiografia corrente, tutte le
maggiori spiegazioni della débâcle italiana nel
panorama internazionale.
Quali che fossero le storture dell'industria e le miopi decisioni di
coloro che ne decisero le sorti, un motivo più profondo -
culturale, prima che organizzativo o finanziario - era tuttavia alla
base della virtuale scomparsa dell'Italia dalla lotta per un primato
qualitativo che opponeva ormai soltanto la Francia e la Germania agli
Stati Uniti. Forti delle trascorse glorie, i registi e gli interpreti
italiani preferirono ascoltare il proprio passato piuttosto che i
vicini di casa, radicalizzando scelte e ossessioni la cui fortuna
aveva portato Quo vadis? (Enrico Guazzoni, Cines, 1912)
dall'altra parte dell'oceano, convinto George Kleine a tentare uno
sciagurato esperimento imprenditoriale in Italia (1913-1914),
esportato i film italiani nell'Europa del Nord, in Russia, in America
Latina, in Giappone. Da questo punto di vista, non è esatto
dire che il cinema italiano si sia fermato con il fiato grosso di
fronte al resto dell'Europa; al contrario la sua evoluzione (o
involuzione, volendo applicare un giudizio di valore al corso degli
avvenimenti) fu segnata dall'esplodere delle tecniche di recitazione,
dell'impiego (o rifiuto) della macchina da presa e del ricorso (o del
deliberato non-ricorso) al montaggio nel nucleo di strutture narrative
sovrabbondanti e di generi spinti a un grado di saturazione senza
termini di confronto per l'epoca. Quest'accumulo di eccessi, questo
forzare l'impatto di una formula stilistica moltiplicandone la
quantità e l'intensità degli ingredienti all'interno di
forme collaudate e stabili, è tipico dell'arte manierista; e il
cinema italiano degli anni Venti è un cinema manierista per
eccellenza, che si tiene strette le rievocazioni storiche, le prove di
forza bruta e le tragedie in salotto sottoponendole a una sintesi
additiva di natura opposta al "metodo" Fox, Goldwyn,
Paramount. Là si insegue l'equilibrio, l'essenziale,
l'implicito, non importa quante siano le comparse davanti alla
macchina da presa; qui si vuole più che mai mostrare,
sottolineare, confermare, al punto che le decorazioni e i punti
esclamativi finiscono per rendere indecifrabile (o irrilevante) la
storia, o ancora per privarla di ogni interesse intrinseco.
Nel formulare queste ipotesi, il mio contributo ai "Cahier" insisteva
comunque sul fatto che l'esiguo numero di film a disposizione del
ricercatore avrebbe reso impossibile qualunque tentativo di
generalizzazione; rimanevano alcuni film-simbolo, salvati dalla loro
stessa reputazione o dal caso, se non dalla volontà
storiografica di additare alle generazioni successive i motivi per i
quali dieci anni di cinema erano diventati, nelle cineteche e sui
libri, una terra incognita descritta sulla base di fonti
secondarie o di testimonianze d'epoca. Era una conclusione
affrettata. Oltre centocinquanta titoli, realizzati dal 1920
all'introduzione del sonoro, sono conservati dalle cineteche aderenti
alla Fedération Internationale des Archives du Film; altri si
trovano, in numero imprecisato, presso collezionisti privati. È
poco più del dieci per cento della produzione complessiva del
periodo, più, o meno la stessa percentuale dei film
appaertenenti al precedente decennio soppravvissuti alla
distruzione. Nessuno li ha visti, ma questo è un altro
discorso: l'accontentarsi di ciò che è già stato
detto o il riaprire il discorso dipende, oltre che dal senso di
responsabilità intellettuale degli storici, dal fatto che i
film si possano effettivamente consultare; il che appare difficile, ma
non solo per una vocazione alla segretezza - vera o presunta - da
parte degli archivi. Le cineteche restaurano quel che vuole la
storiografia, e se i libri di cinema hanno liquidato gli anni Venti in
Italia con capitoli che si riproducono l'un l'altro, il disinteresse
da parte dei responsabili dei programmi di restauro e degli studiosi
appare - se non pienamente giustificabile - almeno comprensibile. Da
qualche anno sis sta facendo strada la convinzione che non si
restaurano solo i capolavori, e che la produzione di routine
non richiede meno attenzione dei film d'autore. Anche per questo, nel
giro di tre anni, tre film muti di Mario Camerini sono riemersi dalla
pletora delle opere date per disperse. Il primo Voglio tradire mio
marito!,/I> (1925), può essere consultato presso la cineteca
del Friuli; gli altri due, Maciste contro lo sceicco e Kif
tebbi, fanno ora parte della collezione della Cineteca Comunale di
Bologna. Del primo esisteva già un esemplare alla Cineteca
Italiana di Milano; dell'altro si favoleggiava l'esistenza, poi
diventata realtà (in mano di privati) e infine resa di pubblico
dominio con una proiezione nel dicembre 1988.
Non è ancora il tipo di riscoperta che getta luce su un periodo
controverso nella storia del cinema: Camerini è una
"personalità" nel senso classico del termine, un nome che ha
già un suo posto di riguardo fra coloro che godono di una
reputazione autoriale per l'aver dato dignità alla produzione
del ventennio fascista. Rivedere i film muti di Camerini equivale, da
tale punto di vista, a riconoscere la precocità di un talento e
le premesse delle sue successive realizzazioni, ma non ancora a capire
cos'era la routine produttiva prima e dopo il crollo
dell'U.C.I.; ciò vale sopprattutto per Voglio tradire mio
marito!, lieve commedia che si libera di un colpo dalle zavorre
della messinscena alla Baldassarre Negroni per ambire a una
coralità di respiro francese. Il contemporaneo ritrovamento
delle copie di Maciste contro lo sceicco e Kif tebbi ha
invece un significato plurimo. Kif tebbi annuncia la fine di
un'epoca (non soltanto muta), facendo germogliare l'innovazione da un
terreno tematico del tutto tradizionale, confermato e anzi rafforzato
dal suo assunto ideologico; Maciste contro lo sceicco riassume
invece i motivi ricorrenti della citata tendenza all'accumulazione
espressiva tipica del cinema Italiano del precedente quinquennio,
volgendo i difetti di scrittura (sceneggiature stereotipate, sviluppo
drammatico basato sulla coincidenza anziché sul rapporto
causale) in problemi risolti mediante espedienti di regia.
La trama di Maciste contro lo sceicco è in effetti
semplicissima, priva di ramificazioni: due tutori cercano di liberarsi
di una fanciulla erede di una fortuna, vendendola ad uno sceicco;
Maciste, generoso marinaio, la salva dapprima dalla ciurma della nave
che l'ha sequestratas e poi dall'harem in cui è rinchiusa. Il
critico della "Vita cinematografica" parlò di "avventure
piuttosto inverosimili, tolte alcune scene che si svolgono su una nave
e che sono condotte con arte": si tratta in realtà di un intero
blocco del film, che occupa la maggior parte di ciò che la
Cineteca di Bologna ha ricostruito in base ai due frammenti
disponibili (a 35 e 16 millimetri, entrambi lontani dalla probabile
nitidezza dell'originale). Rispetto ad altri episodi della saga
muscolare di Bartolomeo Pagano, Maciste contro lo sceicco
rinuncia a repentine metamorfosi di tempo e d'ambiente, non identifica
la pluralità dei luoghi con la rapidità
d'azione. Maciste nella gabbia dei leoni (Guido Brignone,
Pittaluga, 1926), realizzato quasi contemporaneamente all'episodio
diretto da Camerini, è uno spettacolare esempio dell'estremo
opposto; della tendenza, cioè, a forzare la dinamica degli
avvenimenti mediante transizioni da sequenza a sequenza con ritmi ogni
volta diversi, culminanti nella straordinaria apoteosi dell'assalto
dei leoni sul pubblico del circo Pommer (da qui l'eccezionale successo
commerciale del film, che godette di una fortunata distribuzione negli
Stati Uniti sutto l'egida della Universal: il titolo fu mutato in
Hero of the Circus, il nome del regista diventò Guy
Brignone).
Maciste contro lo sceicco non è ancora un film "moderno"
nell'accezione hollywoodiana del termine, nel senso che esso
privilegia la sensazione all'azione; ma anziché tentare di
rendere più agile il racconto depurandolo dal maggior numero
possibile di digressioni, come aveva fatto Brignone, Camerini sceglie
di sfruttare la cumulatività dei luoghi comuni a vantaggio
della
messinscena. Anziché accettare la compressione geografica
(l'azione sulla nave) come un dato limitativo, egli ne rafforza gli
efetti: costruisce attorno alla protagonista femminile - una Cecyl
Tryan giudiziosamente inespressiva - un concentrato di pericoli
latenti ed effettivi (la ciurma malfamata, un secondo di bordo
più aggressivo degli altri, la voluttà dello sceicco
quale destinazione finale del viaggio) e uno spazio claustrofobico,
soffocante, raramente squarciato da aperture sul mare circostante. La
necessità di comprimere i movimenti dei personaggi in
volumetrie minime (cabine nelle quali si cammina a fatica, ripide
scalete, il ponte della nave ingombro di oggetti) dà modo di
trasformare un dato di pericolo oggettivo - l'onnipresenza e la
brutalità del nemico, l'impossibilità della fuga - in un
dato d'atmosfera, in un'elegia del sensazionale capace di ricavare "un
sottile senso di poesia" da circostanze altrimenti condannate a
spegnersi negli stereotipi del dramma avventuroso.
Raramente, nel cinema italiano del periodo, si troveranno sequenze in
cui la preoccupazione per il risultato (Maciste che prevale su
circostanze impossibili, l'innocenza minacciata e poi salva) si
accompagna a un'assidua coscienza del montaggio in continuità
(personaggi che salgono e scendono dal ponte della nave alle cabine,
esempi di matching cut per azioni di raccordo che altri non si
sarebbero dati la pena di costruire); nonostante l'assenza delle
didascalie dalle copie utilizzate per la ricostruzione del film, non
è inoltre difficile apprezzare l'inflessibile alternarsi di
primi piani e dettagli (le tazze che cadono a terra durante l'irruento
assalto dello sceicco alla virtù della protagonista) e la
funzione anticipatrice del dénouement finale in una
sorta di flash forward, all'inizio del film, in cui si
prefigura la sorte della sfortunata ereditiera. Per questo, nonostante
le sostanziali differenze di stile, c'è continuità fra
Maciste contro lo sceicco e il successivo Kif tebbi,
distribuito meno di due anni dopo e acclamato come primo grande
esempio di realizzazione del cinema "coloniale" fascista (un aspetto,
questo, che meriterebbe da solo un'approfondita analisi politologica).
Mné e la sorella cieca Gamra sono le beniamine della cabilia di Mabruk el Gadi, uno dei più noti nomadi della Libia. La bellezza di Mné ha acceso una torbida fiamma nel cuore di Rassim Ben Abdalla, signorotto superbo e lussurioso, ma la ragazza lo sfugge, anche perché ha promesso il suo cuore al generoso Ismail. Scoppia la guerra italo-turca (1911) e le truppe ottomane requisiscono e saccheggiano e neppure la cabilia di Mabruk si salva. Le due sorelle terrorizzate dai soldati fuggono sulle dune e Mné è salvata dalle voglie di un sergente brutale da Ismail che conduce la giovane nella casa di suo padre Ajad dove trova protezione e conforto. Intanto la cieca muore nel deserto per il morso di una vipera e Ismail e Rassim - che non aveva mai abbandonato l'idea di far sua la bella Mné - si sfidano a duello con il fucile ed il signorotto cade fulminato. Si svolge un'inchiesta e Ismail, già reduce da un lungo viaggio in Europa, con la mente colma di idee occidentali ed il cuore pieno di nostalgia, viene sospettato di intesa con gli invasori, tanto più che Rassim aveva organizzato un'imboscata per le truppe italiane. Il giovane che intanto ha rivestito la divisa di capitano dell'esercito turco viene mandato in una fortezza, degradato e condannato a morte. Ma un intenso bombardamento prima e l'arrivo degli italiani poi risolve la situazione e il giovane arabo può riabbracciare la dolce Mnè.L'evoluzione mostrata da Camerini in fatto di tecnica in un così breve lasso di tempo è senza dubbio spettacolare, ma la freschezza d'ispirazione nel penultimo film muto del regista non nega i ritmi pacati della precedente opera, anzi li presuppone. Ciò è vero a cominciare da quel che non è nuovo in Kif tebbi: la radicale dicotomia fra eroi positivi e paladini del male, la presenza di una donna al centro del conflitto tra dovere e istinto, la decisione di evitare per quanto possibile il coinvolgimento di personaggi (soldati) italiani in un film a sfondo programmaticamente nazionalista. Poco importa sapere se lo stesso Camerini abbia avuto o meno voce in capitolo nella decisione di limitare la presenza dell'Italia nel film allo sventolare di una bandiera tricolore: là dove Maciste contro lo sceicco procedeva per sovrapposizioni, Kif tebbi sceglie l'opposta strada della sottrazione, ma il processo è identico. Identica è la ricerca dell'impressione, l'analisi dello stato d'animo non a partire dalla psicologia dei personaggi ma dallo spazio (topografico e culturale) che li circonda; analoga è pure l'attenzione per dettagli che qualificano la macchina da presa al rango di testimone "partecipante" all'azione (in Kif tebbi, fra gli altri, l'inquadratura in dettaglio del calcio di un fucile nella scena del duello fra Ismail e Rassim). È inoltre significativo che Maciste contro lo sceicco e Kif tebbi condividano una concezione dello spazio fondata sull'assenza: dell'orizzonte intorno alla nave nell'avventura di Bartolomeo Pagano, della civiltà delle macchine per colui che è, e rimane, figlio del deserto. Ismail Ben Ayad Temischet (Marcello Spada) è legato dal proprio sangue alla terra degli avi, ma ha negli occhi immagini di fonderie, di rotaie, di modernità: una serie di dissolvenze incrociate (del tutto simili a quelle del successivo Rotaie, SACIA/Nero Film, 1929) sull'uniforme tessuto chiaroscurale delle dune rafforza l'effetto di una paradossale nostalgia per la modernità appena temperata dall'orgoglio razziale.
pur dovendo realizzare un soggetto svolgentesi in un ambiente sfruttatissimo in tutti i modi da cinematografisti d'ogni calibro (il deserto, l'oasi, i cammelli, le carovaniere, tutte cose che, oh Dio! si son viste un'infinità di volte sullo schermo), [abbia] saputo darci un film che è del tutto esente dai soliti stucchevoli luoghi comuni, propri, in generale, alle pellicole d'ambiente arabo-musulmanoLa macchina da presa si distende in audaci tracking shots laterali sui piedi delle due donne che affondano nella sabbia desertica, e brevi quanto brucianti inserti di camera a mano sui volti delle fuggitive, alternati ai primi in modo esplicitamente "musicale": né gli uni né gli altri erano inediti per il cinema del 1928 (un precocissimo esempio di camera a mano adoperato con cognizione di causa si trova già in The Raven, diretto da Charles J.Brabin per la Essanay nel 1915); certo, non erano cosa di tutti i giorni in un film italiano degli anni Venti, dove era buona norma lasciare la macchina da presa saldamente attaccata al treppiede, preferibilmente a buona distanza dal soggetto, e dove i primi piani ravvicinati costituivano un'eccezione guardata con sospetto (non fa testo Quo vadis? del 1924, la cui tecnica sofisticata, a tratti prodigiosa, attende ancora di essere esaminata sotto nuova luce mettendo da parte pregiudizi e clich$ecute; ermeneutici). Negli Stati Uniti, forse, una sequenza del genere non avrebbe destato particolare sorpresa, sopprattutto dopo le brevi e fiammeggianti apparizioni dell'hand-held camera in The Red Dance (Raoul Walsh, Fox, 1928) e le formidabili carrellate laterali di The Big Parade (King Vidor, MGM, 1925); in Italia, dove ancora era fresca la memoria dell'estremo, catastrofico tentativo da parte di Francesca Bertini di sedurre il pubblico con l'esecrabile Fior di Leone (Roberto Leone Roberti, U.C.I., 1926), si trattava di una soluzione pressoché inedita, rafforzata drammaticamente dall'esito funesto dell'azione: Mné sfugge alla morte, chiede aiuto a un turco che vuole farla schiava ("Questa ragazza è mia. L'ho presa conj la carovana"), Gamra soccombe, e muore per il morso di un serpente velenoso.