Mario Camerini in Africa

Maciste contro lo sceicco (1927) e Kif tebbi (1928)

di Paolo Cherchi Usai

Un numero speciale dei "Cahiers de la Cinémathèque" [49, 1988] dedicato al cinema europeo degli anni Venti aveva affrontato, fra gli altri, il problema dell' état des questions sull'Italia del periodo confrontando la reputazione di quel decennio (sciagurato decennio, nelle parole di un moribondo Emilio Ghione [La parabole du cinéma italien]) con le residue testimonianze visibili di una produzione soffocata da se stessa. Vi si parlava della miope e, nonostante tutto, passiva politica di ostruzionismo nei confronti della cinematografia straniera; della sovrabbondanza di titoli (1750, negli anni 1919-1930) affatto sproporzionata alle capacità di assorbimento del mercato interno, nonché indigesta a quello estero; della famigerata politica di accentramento provocata, e applicata fino alle estreme conseguenze, dell'Unione Cinematografica Italiana, alla cui sigla sono tuttora legate, nella storiografia corrente, tutte le maggiori spiegazioni della débâcle italiana nel panorama internazionale.
Quali che fossero le storture dell'industria e le miopi decisioni di coloro che ne decisero le sorti, un motivo più profondo - culturale, prima che organizzativo o finanziario - era tuttavia alla base della virtuale scomparsa dell'Italia dalla lotta per un primato qualitativo che opponeva ormai soltanto la Francia e la Germania agli Stati Uniti. Forti delle trascorse glorie, i registi e gli interpreti italiani preferirono ascoltare il proprio passato piuttosto che i vicini di casa, radicalizzando scelte e ossessioni la cui fortuna aveva portato Quo vadis? (Enrico Guazzoni, Cines, 1912) dall'altra parte dell'oceano, convinto George Kleine a tentare uno sciagurato esperimento imprenditoriale in Italia (1913-1914), esportato i film italiani nell'Europa del Nord, in Russia, in America Latina, in Giappone. Da questo punto di vista, non è esatto dire che il cinema italiano si sia fermato con il fiato grosso di fronte al resto dell'Europa; al contrario la sua evoluzione (o involuzione, volendo applicare un giudizio di valore al corso degli avvenimenti) fu segnata dall'esplodere delle tecniche di recitazione, dell'impiego (o rifiuto) della macchina da presa e del ricorso (o del deliberato non-ricorso) al montaggio nel nucleo di strutture narrative sovrabbondanti e di generi spinti a un grado di saturazione senza termini di confronto per l'epoca. Quest'accumulo di eccessi, questo forzare l'impatto di una formula stilistica moltiplicandone la quantità e l'intensità degli ingredienti all'interno di forme collaudate e stabili, è tipico dell'arte manierista; e il cinema italiano degli anni Venti è un cinema manierista per eccellenza, che si tiene strette le rievocazioni storiche, le prove di forza bruta e le tragedie in salotto sottoponendole a una sintesi additiva di natura opposta al "metodo" Fox, Goldwyn, Paramount. Là si insegue l'equilibrio, l'essenziale, l'implicito, non importa quante siano le comparse davanti alla macchina da presa; qui si vuole più che mai mostrare, sottolineare, confermare, al punto che le decorazioni e i punti esclamativi finiscono per rendere indecifrabile (o irrilevante) la storia, o ancora per privarla di ogni interesse intrinseco.
Nel formulare queste ipotesi, il mio contributo ai "Cahier" insisteva comunque sul fatto che l'esiguo numero di film a disposizione del ricercatore avrebbe reso impossibile qualunque tentativo di generalizzazione; rimanevano alcuni film-simbolo, salvati dalla loro stessa reputazione o dal caso, se non dalla volontà storiografica di additare alle generazioni successive i motivi per i quali dieci anni di cinema erano diventati, nelle cineteche e sui libri, una terra incognita descritta sulla base di fonti secondarie o di testimonianze d'epoca. Era una conclusione affrettata. Oltre centocinquanta titoli, realizzati dal 1920 all'introduzione del sonoro, sono conservati dalle cineteche aderenti alla Fedération Internationale des Archives du Film; altri si trovano, in numero imprecisato, presso collezionisti privati. È poco più del dieci per cento della produzione complessiva del periodo, più, o meno la stessa percentuale dei film appaertenenti al precedente decennio soppravvissuti alla distruzione. Nessuno li ha visti, ma questo è un altro discorso: l'accontentarsi di ciò che è già stato detto o il riaprire il discorso dipende, oltre che dal senso di responsabilità intellettuale degli storici, dal fatto che i film si possano effettivamente consultare; il che appare difficile, ma non solo per una vocazione alla segretezza - vera o presunta - da parte degli archivi. Le cineteche restaurano quel che vuole la storiografia, e se i libri di cinema hanno liquidato gli anni Venti in Italia con capitoli che si riproducono l'un l'altro, il disinteresse da parte dei responsabili dei programmi di restauro e degli studiosi appare - se non pienamente giustificabile - almeno comprensibile. Da qualche anno sis sta facendo strada la convinzione che non si restaurano solo i capolavori, e che la produzione di routine non richiede meno attenzione dei film d'autore. Anche per questo, nel giro di tre anni, tre film muti di Mario Camerini sono riemersi dalla pletora delle opere date per disperse. Il primo Voglio tradire mio marito!,/I> (1925), può essere consultato presso la cineteca del Friuli; gli altri due, Maciste contro lo sceicco e Kif tebbi, fanno ora parte della collezione della Cineteca Comunale di Bologna. Del primo esisteva già un esemplare alla Cineteca Italiana di Milano; dell'altro si favoleggiava l'esistenza, poi diventata realtà (in mano di privati) e infine resa di pubblico dominio con una proiezione nel dicembre 1988.
Non è ancora il tipo di riscoperta che getta luce su un periodo controverso nella storia del cinema: Camerini è una "personalità" nel senso classico del termine, un nome che ha già un suo posto di riguardo fra coloro che godono di una reputazione autoriale per l'aver dato dignità alla produzione del ventennio fascista. Rivedere i film muti di Camerini equivale, da tale punto di vista, a riconoscere la precocità di un talento e le premesse delle sue successive realizzazioni, ma non ancora a capire cos'era la routine produttiva prima e dopo il crollo dell'U.C.I.; ciò vale sopprattutto per Voglio tradire mio marito!, lieve commedia che si libera di un colpo dalle zavorre della messinscena alla Baldassarre Negroni per ambire a una coralità di respiro francese. Il contemporaneo ritrovamento delle copie di Maciste contro lo sceicco e Kif tebbi ha invece un significato plurimo. Kif tebbi annuncia la fine di un'epoca (non soltanto muta), facendo germogliare l'innovazione da un terreno tematico del tutto tradizionale, confermato e anzi rafforzato dal suo assunto ideologico; Maciste contro lo sceicco riassume invece i motivi ricorrenti della citata tendenza all'accumulazione espressiva tipica del cinema Italiano del precedente quinquennio, volgendo i difetti di scrittura (sceneggiature stereotipate, sviluppo drammatico basato sulla coincidenza anziché sul rapporto causale) in problemi risolti mediante espedienti di regia.
La trama di Maciste contro lo sceicco è in effetti semplicissima, priva di ramificazioni: due tutori cercano di liberarsi di una fanciulla erede di una fortuna, vendendola ad uno sceicco; Maciste, generoso marinaio, la salva dapprima dalla ciurma della nave che l'ha sequestratas e poi dall'harem in cui è rinchiusa. Il critico della "Vita cinematografica" parlò di "avventure piuttosto inverosimili, tolte alcune scene che si svolgono su una nave e che sono condotte con arte": si tratta in realtà di un intero blocco del film, che occupa la maggior parte di ciò che la Cineteca di Bologna ha ricostruito in base ai due frammenti disponibili (a 35 e 16 millimetri, entrambi lontani dalla probabile nitidezza dell'originale). Rispetto ad altri episodi della saga muscolare di Bartolomeo Pagano, Maciste contro lo sceicco rinuncia a repentine metamorfosi di tempo e d'ambiente, non identifica la pluralità dei luoghi con la rapidità d'azione. Maciste nella gabbia dei leoni (Guido Brignone, Pittaluga, 1926), realizzato quasi contemporaneamente all'episodio diretto da Camerini, è uno spettacolare esempio dell'estremo opposto; della tendenza, cioè, a forzare la dinamica degli avvenimenti mediante transizioni da sequenza a sequenza con ritmi ogni volta diversi, culminanti nella straordinaria apoteosi dell'assalto dei leoni sul pubblico del circo Pommer (da qui l'eccezionale successo commerciale del film, che godette di una fortunata distribuzione negli Stati Uniti sutto l'egida della Universal: il titolo fu mutato in Hero of the Circus, il nome del regista diventò Guy Brignone).
Maciste contro lo sceicco non è ancora un film "moderno" nell'accezione hollywoodiana del termine, nel senso che esso privilegia la sensazione all'azione; ma anziché tentare di rendere più agile il racconto depurandolo dal maggior numero possibile di digressioni, come aveva fatto Brignone, Camerini sceglie di sfruttare la cumulatività dei luoghi comuni a vantaggio della messinscena. Anziché accettare la compressione geografica (l'azione sulla nave) come un dato limitativo, egli ne rafforza gli efetti: costruisce attorno alla protagonista femminile - una Cecyl Tryan giudiziosamente inespressiva - un concentrato di pericoli latenti ed effettivi (la ciurma malfamata, un secondo di bordo più aggressivo degli altri, la voluttà dello sceicco quale destinazione finale del viaggio) e uno spazio claustrofobico, soffocante, raramente squarciato da aperture sul mare circostante. La necessità di comprimere i movimenti dei personaggi in volumetrie minime (cabine nelle quali si cammina a fatica, ripide scalete, il ponte della nave ingombro di oggetti) dà modo di trasformare un dato di pericolo oggettivo - l'onnipresenza e la brutalità del nemico, l'impossibilità della fuga - in un dato d'atmosfera, in un'elegia del sensazionale capace di ricavare "un sottile senso di poesia" da circostanze altrimenti condannate a spegnersi negli stereotipi del dramma avventuroso.
Raramente, nel cinema italiano del periodo, si troveranno sequenze in cui la preoccupazione per il risultato (Maciste che prevale su circostanze impossibili, l'innocenza minacciata e poi salva) si accompagna a un'assidua coscienza del montaggio in continuità (personaggi che salgono e scendono dal ponte della nave alle cabine, esempi di matching cut per azioni di raccordo che altri non si sarebbero dati la pena di costruire); nonostante l'assenza delle didascalie dalle copie utilizzate per la ricostruzione del film, non è inoltre difficile apprezzare l'inflessibile alternarsi di primi piani e dettagli (le tazze che cadono a terra durante l'irruento assalto dello sceicco alla virtù della protagonista) e la funzione anticipatrice del dénouement finale in una sorta di flash forward, all'inizio del film, in cui si prefigura la sorte della sfortunata ereditiera. Per questo, nonostante le sostanziali differenze di stile, c'è continuità fra Maciste contro lo sceicco e il successivo Kif tebbi, distribuito meno di due anni dopo e acclamato come primo grande esempio di realizzazione del cinema "coloniale" fascista (un aspetto, questo, che meriterebbe da solo un'approfondita analisi politologica).

Mné e la sorella cieca Gamra sono le beniamine della cabilia di Mabruk el Gadi, uno dei più noti nomadi della Libia. La bellezza di Mné ha acceso una torbida fiamma nel cuore di Rassim Ben Abdalla, signorotto superbo e lussurioso, ma la ragazza lo sfugge, anche perché ha promesso il suo cuore al generoso Ismail. Scoppia la guerra italo-turca (1911) e le truppe ottomane requisiscono e saccheggiano e neppure la cabilia di Mabruk si salva. Le due sorelle terrorizzate dai soldati fuggono sulle dune e Mné è salvata dalle voglie di un sergente brutale da Ismail che conduce la giovane nella casa di suo padre Ajad dove trova protezione e conforto. Intanto la cieca muore nel deserto per il morso di una vipera e Ismail e Rassim - che non aveva mai abbandonato l'idea di far sua la bella Mné - si sfidano a duello con il fucile ed il signorotto cade fulminato. Si svolge un'inchiesta e Ismail, già reduce da un lungo viaggio in Europa, con la mente colma di idee occidentali ed il cuore pieno di nostalgia, viene sospettato di intesa con gli invasori, tanto più che Rassim aveva organizzato un'imboscata per le truppe italiane. Il giovane che intanto ha rivestito la divisa di capitano dell'esercito turco viene mandato in una fortezza, degradato e condannato a morte. Ma un intenso bombardamento prima e l'arrivo degli italiani poi risolve la situazione e il giovane arabo può riabbracciare la dolce Mnè.
L'evoluzione mostrata da Camerini in fatto di tecnica in un così breve lasso di tempo è senza dubbio spettacolare, ma la freschezza d'ispirazione nel penultimo film muto del regista non nega i ritmi pacati della precedente opera, anzi li presuppone. Ciò è vero a cominciare da quel che non è nuovo in Kif tebbi: la radicale dicotomia fra eroi positivi e paladini del male, la presenza di una donna al centro del conflitto tra dovere e istinto, la decisione di evitare per quanto possibile il coinvolgimento di personaggi (soldati) italiani in un film a sfondo programmaticamente nazionalista. Poco importa sapere se lo stesso Camerini abbia avuto o meno voce in capitolo nella decisione di limitare la presenza dell'Italia nel film allo sventolare di una bandiera tricolore: là dove Maciste contro lo sceicco procedeva per sovrapposizioni, Kif tebbi sceglie l'opposta strada della sottrazione, ma il processo è identico. Identica è la ricerca dell'impressione, l'analisi dello stato d'animo non a partire dalla psicologia dei personaggi ma dallo spazio (topografico e culturale) che li circonda; analoga è pure l'attenzione per dettagli che qualificano la macchina da presa al rango di testimone "partecipante" all'azione (in Kif tebbi, fra gli altri, l'inquadratura in dettaglio del calcio di un fucile nella scena del duello fra Ismail e Rassim). È inoltre significativo che Maciste contro lo sceicco e Kif tebbi condividano una concezione dello spazio fondata sull'assenza: dell'orizzonte intorno alla nave nell'avventura di Bartolomeo Pagano, della civiltà delle macchine per colui che è, e rimane, figlio del deserto. Ismail Ben Ayad Temischet (Marcello Spada) è legato dal proprio sangue alla terra degli avi, ma ha negli occhi immagini di fonderie, di rotaie, di modernità: una serie di dissolvenze incrociate (del tutto simili a quelle del successivo Rotaie, SACIA/Nero Film, 1929) sull'uniforme tessuto chiaroscurale delle dune rafforza l'effetto di una paradossale nostalgia per la modernità appena temperata dall'orgoglio razziale.
È a questo punto che le somiglianze fra Kif tebbi e Maciste contro lo sceicco si fermano. Kif tebbi, fors'anche a cousa del suo intento programmatico, non rinuncia alla digressione etnografica; molti i dettagli di costume, ostinate le allusioni ai codici d'onore del mondo arabo. Camerini è abile nel sottrarre le pause della narrazione dal bozzettismo di maniera insistendo sul contrappunto fra montaggio ritmico e composizioni organizzate geometricamente, come nella sequenza dedicata alle Zavie, processioni di fanatici autoflagellanti ai quali il film attribuisce un significato anti-italiano (inquadrature organizzate lungo le diagonali, profili di tamburi che occupano tutto lo schermo, brevi inquadrature dal basso sui volti dei musicisti). Laddove Maciste contro lo sceicco rivelava un'andatura uniforme, increspata da lievi variazioni di ritmo ma saldamente ancorata a una concezione del racconto come successione continua di eventi, Kif Tebbi (dramma della rassegnazione e della coincidenza, al di là dell'intento politico: da qui il titolo, "come vuoi", già associato da alcuni - forse audacemente - a tematiche pirandelliane) sceglie ritmi sincopati, brusche rotture, improvvisi mutamenti di direzione. La più radicale fra queste deviazioni è visibile alla fine della copia conservata a Bologna, dove buona parte dell'intrigo è svelata mettendo di fronte Ismail e suo fratello al cospetto degli avversari, che credevano di aver estorto una promessa di tradimento a favore dell'esercito turco; iniziato come un'epopea indiretta (raccontata da terzi) della guerra fra l'Italia e la decadente potenza musulmana in libia, il film si volge all'improvviso in un paradigma del sensazionale (il doppio, due donne che fuggono nel deserto alla disperata ricerca di salvezza dalla brutalità degli invasori) appena temperato da sapienti - ma anch'esse non nuove - notazioni di paesaggio.
Questo per dire che l'importanza di Kif tebbi in rapporto alla produzione italiana del periodo non ha a che fare con la sua precaria coerenza stilistica (in ciò Voglio tradire mio marito! rimane il miglior esempio, nel Camerini del periodo muto, di linearità e rigore argomentativo), quanto con un intento diametralmente opposto: la risoluta volontà di recuperare le tracce, al di fuori dei canoni di genere, di una felicità di invenzione da tempo sconosciuta al cinema degli anni Venti in Italia. Il punto di arrivo di tale ricerca è come confermato dallo stesso Camerini, una concezione "metrica" del montaggio basata sul rapporto fra brevi inserti ad alta concentrazione emotiva e ampie zone neutre, dove il piacere della contemplazione ha la meglio sul dramma. L'esempio rivelatore di questo criterio d'organizzazione metronomica delle immagini è dato dalla sequenza della fuga di Mné (Donatella Neri) e della sorella cieca Gamra (Laura Orsini) sulle dune, dopo i saccheggi delle truppe ottomane nei villaggi della cabila di Mobruk: due minuti di grande cinema, da soli sufficienti a giustificare l'entusiasmo delle autorità fasciste - che attribuirono a Kif tebbi un premio di cinquantamila lire - e della critica, che notò come Camerini,
pur dovendo realizzare un soggetto svolgentesi in un ambiente sfruttatissimo in tutti i modi da cinematografisti d'ogni calibro (il deserto, l'oasi, i cammelli, le carovaniere, tutte cose che, oh Dio! si son viste un'infinità di volte sullo schermo), [abbia] saputo darci un film che è del tutto esente dai soliti stucchevoli luoghi comuni, propri, in generale, alle pellicole d'ambiente arabo-musulmano
La macchina da presa si distende in audaci tracking shots laterali sui piedi delle due donne che affondano nella sabbia desertica, e brevi quanto brucianti inserti di camera a mano sui volti delle fuggitive, alternati ai primi in modo esplicitamente "musicale": né gli uni né gli altri erano inediti per il cinema del 1928 (un precocissimo esempio di camera a mano adoperato con cognizione di causa si trova già in The Raven, diretto da Charles J.Brabin per la Essanay nel 1915); certo, non erano cosa di tutti i giorni in un film italiano degli anni Venti, dove era buona norma lasciare la macchina da presa saldamente attaccata al treppiede, preferibilmente a buona distanza dal soggetto, e dove i primi piani ravvicinati costituivano un'eccezione guardata con sospetto (non fa testo Quo vadis? del 1924, la cui tecnica sofisticata, a tratti prodigiosa, attende ancora di essere esaminata sotto nuova luce mettendo da parte pregiudizi e clich$ecute; ermeneutici). Negli Stati Uniti, forse, una sequenza del genere non avrebbe destato particolare sorpresa, sopprattutto dopo le brevi e fiammeggianti apparizioni dell'hand-held camera in The Red Dance (Raoul Walsh, Fox, 1928) e le formidabili carrellate laterali di The Big Parade (King Vidor, MGM, 1925); in Italia, dove ancora era fresca la memoria dell'estremo, catastrofico tentativo da parte di Francesca Bertini di sedurre il pubblico con l'esecrabile Fior di Leone (Roberto Leone Roberti, U.C.I., 1926), si trattava di una soluzione pressoché inedita, rafforzata drammaticamente dall'esito funesto dell'azione: Mné sfugge alla morte, chiede aiuto a un turco che vuole farla schiava ("Questa ragazza è mia. L'ho presa conj la carovana"), Gamra soccombe, e muore per il morso di un serpente velenoso.
Il fatto che Camerini abbia voluto scindere in più parti una circostanza (l'opposta sorte di Mné e dellas fanciulla cieca) inessenziale allo sviluppo centrale della trama suggerisce l'idea che la ricerca del climax retorico non sia stata la prima delle sue preoccupazioni. Dapprima c'è Mné che si offre di cercare aiuto ai margini del deserto, mentre Gamra, esausta, si affida alla fortuna della sorella; poco ppiù avanti, quando la narrazione si è già rivolta altrove, un breve inserto rammenta il tragico destino di Gamra, e ne descrive con relativo distacco l'orrenda fine per opera di un rettile velenoso. Ancora più avanti, quando Mné chiede a Ismail notizie di Gamra, l'annuncio della morte è risolto in un'inquadratura simbolica: il corpo immobile di Gamra, gli occhi sbarrati, aridosso di una duna.
Tre momenti distinti per un'unica storia parallela, il contrario di quel che qualsiasi regista al servizio di Bartolomeo Pagano - compreso l'autore di Kif tebbi - avrebbe voluto per Maciste. Quanta eco l'esperimento di Camerini l'Africano abbia sortito al crepuscolo del muto in Italia è difficile dire, sia perché l'industria e gli artisti stavano per essere attratti da altre preoccupazioni (l'ideologia in ascesa, la rivoluzione del sonoro), sia perché non sappiamo se ciò che è soppravvissuto del cinema di quelperiodo sia indicativo di una tendenza rinnovatrice o costituisca soltanto il fossile di un'età creativa fiammeggiante, mummificata dalla crisi economica e dalla dittatura di interpreti un tempo gloriosi e ora ingombranti, senza futuro. Anche per questo gli altri 150 film italiani degli anni Venti rimasti in gran parte - e così a lungo - invisibili, assumono un'importanza cruciale agli occhi dello storico che non si accontenta del già detto, che vuol toccare con mano e guardare con i propri occhi: possono confermare tutto, ma possono anche insinuare il sospetto che una sostanziosa parte del romanzo del cinema muto italiano non sia ancora stata letta per intero, come nelle pagine di un vecchio libro i cui ultimi capitoli non hanno conosciuto il tagliacarte ma sono lì, stampati con un labile inchiostro, in attesa di un lettore dedicato e paziente.


da Cinegrafie, Anno I - N.2 (1989), pagg. 93-102. Pubblicato in occasione della XVIII Mostra Internazionale del Cinema Libero, Bologna 1