Appunto sugli operatori

di Guido Bezzola

Quando si parla degli operatori del cinema italiano il discorso non è semplice, tutt'altro. In primo luogo, è chiaro che, piú che di operatori, dovremmo parlare di direttori della fotografia, ormai ben diversi dagli operatori di macchina; in secondo luogo è altrettanto chiaro che non potremo considerare la categoria come un tutto unico, e sarà invece necessario prendere in esame soprattutto i maestri, gli iniziatori, coloro che hanno aperto nuove vie, battute poi da tutti gli altri. Solo così potremo riuscire a vedere se piú o meno si sia formata una vera scuola italiana di fotografia cinematografica, o se dobbiamo al contrario limitarci a prendere atto dell'esistenza di alcune personalità piú o meno individualmente dotate, ma non inquadrabili in uno schema generale, di "scuola" appunto.
Non si può d'altra parte aprire il problema senza risalire molto indietro nel tempo: anzi, il discorso sugli "operatori" in sé non mi interesserebbe nemmeno, come troppo settoriale e quindi sostanzialmente inesatto, se non si potesse allrgarlo all'intero fatto di cui la fotografia cinematografica costituisce un aspetto, se cioè non si considerasse detta fotografia nei suoi continui rapporti col cinema di cui ora costituisce parte essenziale (e dicendo "cinema" non alludo al fatto in sÉ, ma all'opera tecnico-artistica vista come insieme). Ecco perché mi pare si debba risalire parecchio, e cercare la chiarezza nel modo giusto, vale a dire guardando alle origini.
La storia degli operatori è legata indissolubilmente a quella dei registi: non si può spiegare l'una senza l'altra, nell'alterno prevalere di tendenze miranti ora a sopravvalutare, ora al contrario a troppo svilire la parte fotografica nella realizzazione del film. In generale, possiamo dire che dapprincipio registi e operatori camminarono ognuno per suo conto: si capiva, o si lasciava capire, che la scelta della sequenza, dell'inquadratura, dell'illuminazione stessa (in casi di effetti speciali) erano opera del regista, e che l'operatore si limitava a riprendere, nei limiti delle possibilità tecniche offerte dalle macchine e dalle pellicole di allora. Aggiungiamo, per dovere di onestà, che nei film precedenti alla guera '14-18 gli sforzi di inquadratura e di illuminazione non erano poi cosí frequenti: campi lunghi, medi, piani americani predominavano, mentre l'illuminazione diffusa o il pieno sole bastavano a soddisfare tutti; non mancavano, s'intende, ricerche più approfondite (il primissimo piano per esempio, già usato in Italia prima che Griffith lo riscoprisse in America), ma è singolare (fino a un certo punto, dopo tutto) la somiglianza di fondo che allora sussisteva nella fotografia delle due massime cinematografie dell'epoca, l'italiana e l'americana. Si era trovata una formula, una calligrafia, si era stabilita una convenzione che poteva durare benissimo, come durò, finché qualcuno non decise di buttare all'aria tutto e ricominciare daccapo.
Se infatti, sia pure alla lontana, nei nostri migliori film si era avvertita l'influenza dell'arte figurativa contemporanea, non dobbiamo dimenticare che si trattava pur sempre dell'arte "ufficiale", dell'arte dei ritratti del Grosso e delle Biennali del Fradeletto: quanto bolliva in pentola a Parigi, a Milano, a Monaco era ignorato, come del resto era logico, né si poteva pretendere un atteggiamento diverso da persone "normali" come registi e operatori dell'epoca, i quali per di piú si consideravano ed erano non tanto artisti o intellettuali quanto artigiani, con tutte le limitazioni che ne conseguivano, anche di semplice informazione.
La prima scossa la diedero gli espressionisti tedeschi: troppa era per loro l'importanza dell'immagine, perché non se ne impadronissero. Non solo le scenografie, ma le inquadrature mutarono, sparirono quasi completamente gli esterni, l'immagine suggerí o addirittura creò la vicenda anzich´ esserne acriticamente al servizio. La tecnica in sé non ebbe trasformazioni di rilievo (ricordiamo tutti Wiene, Galeen, Murnau, mentre non ricordiamo i nomi degli operatori che lavorarono con loro e per loro), ma chi conosceva il gruppo Die Brücke, il gruppo del Blaue Reiter, chi si era sentito commosso dalla violenta protesta di quelle opere, non mancò di avvertire quanto di quel moto fosse passato sullo schermo, pur dopo una guerra che aveva stroncato la parte piú viva dell'intelligenza tedesca, e in condizioni storiche ormai diversissime e non reversibili.
Le esperienze dell'espressionismo non ebbero grandi esiti, almeno in apparenza, ma rimasero sempre sospese, sempre in essere; se ne valse parallelamente l'avanguardia francese, pur nutrendosi di filamenti diversi, se ne ricordò pochissimo dopo il cinema sovietico al momento della sua prima grande fioritura: ma l'importanza vera di quell'esperimento stette nel fatto che per la prima volta si accostava al cinema l'intelligenza nuova, mossa dalla spinta del linguaggio nuovo dell'arte. Certo, anche Bragaglia aveva girato un film come Perfido incanto nel 1914, e aveva pubblicato Fotodinamismo futurista, ma un tentativo isolato non poteva avere seguito, senza trascurare il fatto che dietro al futurismo stava al massimo Marinetti e che un movimento il quale propugnava un manifesto politico come quello futurista rinunciava in partenza a ogni possibilità di futuro vero, limitandosi a celebrarne le apprenze, i grattacieli, le automobili da corsa e le dreadnoughts. I primi esperimenti per un linguaggio cinematografico piú aderente a ciò che i tempi nuovi esigevano in pratica si ebbero allora, o almeno allora furono fatti con una certa coerenza e sopprattutto con una certa consapevolezza.
Quello che accadeva per il cinema andava del resto accadendo per le arti figurative per l'architettura e per la fotografia vera e propria; un gruppo come il Bauhaus non nasce a caso, e non a caso nasce in Germania, dove la tecnica industriale aveva in genere una evoluzione più rapida che nel restante d'Europa e dove l'orribile salasso della Guerra '14-18 non era ancora stato seguito dall'idiota quanto radicale annientamento nazista. Verso il '27-28, quando il cinema italiano è definitivamente sepolto (e molti suoi esponenti lavorano all'estero, da Genina a Gallone), si viene formando una cinematografia europea, che accanto a caratteri ben differenziati, soprattutto in Francia, presenta certi aspetti comuni, come ad esempio nella fotografia, chiara, soffice, curata nei particolari. Si sente che gli obbiettivi sono migliorati, che le pellicole sono piú sensibili e a grana piú fina, che le fonti d'illuminazione non sono piú date dal sole che filtra attraverso le grandi vetrate dei teatri di posa. Incominciano a comparire i primi operatori ufficiali, nasce un gusto dell'inquadratura difficile, equamente diviso tra regista e direttore della fotografia, e nasce anche una nuova importanza di quest'ultimo, perché ormai il pubblico si &aecute; raffinato, esige di piú e di meglio, e ciò che il pubblico vuole costa molta più fatica. Ecco perché l'operatore diventa sempre piú importante (come del resto il regista), ecco perché proprio in quegli anni, con l'arrivo del sonoro, vediamo film fatti piú dai tecnici che dalla regia, la quale serve soltanto di pretesto per l'esibizione di trovate di vario tipo. È il periodo in cui la figura dell'operatore si fa piú precisa, forse ancor piú in Europa che in America, anche percé in Europa le arti hanno camminato piú in fretta, ed è meno facile che un fotografo americano sia al corrente di novità figurative di cui bene o male gli europei sono al corrente, e che a qualcuno cominciano a piacere. Gregg Toland e James Wong Howe sono indubiamente due straordinari operatori, ma non vanno al di là della descrizione tradizionale, sia pure perfezionata e raffinata al massimo. Quando ero ragazzo, e l'inquadratura voleva ancora dire tutto o quasi, ben difficlmente si riusciva a trovare nei film americani quelle composizioni bizzarre e fantasiose che invece ci colpivano in Pudovkin, in Ejsenstein, in Dreyer, in Lang (del resto, tale atteggiamento si mantiene ancor oggi, sopprattutto a Hollywood, ed è conseguenza diretta del concetto americano dell'ancillarità delle arti nei confronti di altre attività umane; chi fa del cinem, o comunque chi si occupa d'arte in modo ufficiale, deve sempre tenere presente che il suo è semplicemente un servizio reso alla collettività, di cui deve rispettare, anzi amare, i tabú e le debolezze. Non per niente quando Orson Welles, attraverso Citizen Kane, partí - per poco tempo - a lancia in resta contro il cinema tradizionale, incominciò prima di tutto col cambiare le inquadrature). Un tecnico americano di molto valore, Joseph V.Mascelli, descriveva anni fa in una rivista specializzata le sue fatiche nel campo degli effetti speciali, e diceva che a un certo punto la macchina da presa era diventata un po' come la soffitta della nonna, a furia di aggeggi e di congegnetti, di velatini e di garze pronti a intervenire. Tutto ciò, comunque, aveva poco a che vedere con la fotografia del film in genere, che restava quella che si è detto e che semmai, in confronto con l'Europa, tendeva ogni tanto - di rado - alla documentazione realistica, certo piú per influenza del regista e del soggetto che non per le qualità dell'operatore, anch'esso ingranaggio anonimo in una gran macchina che poteva permettersi ogni tanto di sfornare un prodotto "unico", insieme a tanta roba di serie. D'altra parte, sempre tornando ai miei ricordi di ragazzo, mi rammento che nelle appassionate discussioni di allora - ci fu un periodo in cui discutevo - nasceva comune il lamento circa la scarsità di esterni e di riprese dal vero riscontrabili nei film coerenti: sentivamo che qualcosa ci mancava, sentivamo che le riprese in studio erano utili alla produzione e al mestiere, ma dannose all'arte (almeno se intese in quel modo e per quei film) anche se l'operatore lavorava sul sicuro, le luci erano tutte previste, nessun passante importuno veniva a guardare nella macchina da presa. Insomma, nella gran confusione estetica di quei tempi (la critica era generalmente condotta alla meno peggio, i testi erano quasi tutti sconosciuti, i vecchi classici non circolavano piú, cineteche e cinémas d'essais un pio desiderio, la storiografia era agli inizi, Cinema uscí nel 1936 ma per parecchi numeri parlò anche di Scipione l'Africano e di Jolanda la figlia del Corsaro Nero) per noi, assetati come eravamo di non conformismo e insieme educati all'evasione nella calligrafia per evitare lo studio in profondo dei problemi, ogni film che si annunciasse fotograficamente nuovo era fonte di vera commozione. Ci sfuggivano le ragioni piú riposte della "novità" di certi film russi, in cui l'inquadratura nuova corrispondeva a contenuti nuovi, a nuove tecniche estetiche: mettevamo in un fasci La passione di Giovanna d'Arco e La corazzata Potiomkin, esempi in sé ambedue validissimi, però frutto di tradizioni completamente diverse; soprattutto badavamo allo specifico filmico, anzi ai vari specifici (l'ossessione dei "materiali plastici"!) senza pensare che, naturalmente, l'inquadratura da sola non risolveva nulla, e che gli sforzi "epici" di Blasetti, il quale aveva studiato molto intelligentemente ciò che i russi avevano fatto, sarebbero inevitabilmente naufragati di fronte ad una ideologia di regime che, nata dal falso, del falso aveva bisogno per esprimersi, sia nell'epica (Scipione l'Africano, appunto), sia nella commedia (i telefoni bianchi, dei quali potrà forse dir male a sufficienza solo chi abbia provato a subirli per tanti anni). Non fu una coincidenza del resto, l'avvento del nazismo e la sparizione dei buoni film tedeschi: anche la fotografia cambiò, si schiarí, si addolcí, si fece falsamente serena, forse anche buona tecnicamente, ma esteticamente insoffribile, ciò che del resto avveniva anche da noi.
Verso il 1940 appariva ormai chiaro che, sia pure con fatica, in Italia si era formato un gruppo di tecnici di valore, in grado di fornire una collaborazione qualificata ai registi. I registi però erano quello che erano, lo sanno tutti, col risultato che gli operatori in un certo senso si muovevano in un cerchio chiuso. La storia della fotografia non era molto nota, le novità introdotte in America dalla FSA e dalla serie March of Time non erano penetrate fin da noi, Life era agli inizi, cosí come agli inizi era ancora la migrazione centroeuropea negli USA. Per noi l'America significava ancora la commedia di Hollywood, piú o meno sofisticata, ed i nostri produttori ignoravano di sicuro chi fosse Steichen; gli USA degli hard boiled arrivavano a noi di straforo, a Melville, a Hawthorne, a Hemingway stesso si preferiva Gregory La Cava o Norman Taurog: non si è ancora fatta - e sarebbe molto interessante - una storia della produzione italiana, ma anche se si facesse non credo che le nostre considerazioni potrebbero mutare di molto. In quel periodo, in quel clima, con quella gente il cinema italiano rispecchiava fedelmente gli ideali della classe dirigente, che, come tale, fu polverizzata dal 25 luglio del 1933: andare a cercare segni di vitalità e trovarli magari in Ossessione significa non capire che Ossesione nacque contro e fuori quel clima, di cui segnò l'atto di morte definitivo. C'era in giro un po' di pratica, molto provincialismo, poca cultura, e questo valeva per tutti: una delle caratteristiche fondamentali di Ossessione sta appunto - finalmente - nell'accostamento alla regia da parte della critica, degli studiosi, della gente culturalmente preparata in ogni campo, non piú soltanto dei maneggioni e dei praticoni, esperti del mestiere ma privi di una formazione sicura, di una coscienza chiara dell'impegno che il loro lavoro richiedeva non soltanto come ore lavorative ma come chiarezza di propositi e serietà di intenti. Batti e ribatti, la storia del nostro cinema torna sempre lí, a Ossessione, come ad uno dei suoi punti cruciali, come l'inizio di una evoluzione per fortuna lunga e fruttuosa (dura ormai da piú di vent'anni); non sarà fuor di luogo rammentare che, nella storia d'Italia contemporanea, una data analoga, da cui non si può in nessun modo prescindere perché veramente chiude e sigilla un periodo e ne apre un altro incomparabilmente migliore, è quella dell'8 settembre.
È certo comunque che la Liberazione pose al nostro cinema problemi abbastanza simili a quelli che a loro tempo si affacciarono al cinema sovietico dopo la Rivoluzione d'ottobre: come far fronte a nuove necessità, all'urgenza di dire altre cose in modo nuovo, con mezzi finanziari e tecnici oltremodo ridotti. Fu una grande corsa all'improvvisazione geniale, con alcune immutabili componenti di fondo però, prima di tutte l'esigenza della verità: anche la fotografia si adeguò al momento, divenne "brutta", bruciata, sovraesposta e sottoesposta a seconda delle necessità, secondo uno stile che i cinegiornali di guerra avevano messo alla moda. Abbastanza curioso fu il vedere che, come gli altri film del periodo, nati al di fuori se non contro la tendenza neorealista, in realtà aderivano ad essa per certi spunti formali assolutamente esterni, cosí accadeva anche per la fotografia. La vecchia guardia degli operatori italiani abbandonava gli interni tipo "900" del periodo Cinecittà per affrontare cose nuove, per spostarsi in Sicilia, in Sardegna, nella Sila, nelle strade delle città italiane semidistrutte o impoverite, anche se i risultati finivano per risentire delle incertezze della regia; per qualche tempo, non parve più possibile che si ricominciasse a girare secondo una tecnica ed una stilistica miranti a risultati formalmente gradevoli.
Invece le cose lentamente cambiarono: si videro esperienze di vario tipo, si credette possibile tornare all'antico in ogni senso, poi adagio adagio ci si rese conto del fatto che il passato è irrevocabile, non si può maii tornare, che la nostalgia è debolezza e il ritorno un tradimento. Ci si rese conto pure del fatto che, man mano, la composizione qualitativa del cinema italiano era mutata, che i giovanissimi, i ragazzi, i bambini del '45 oramai erano adulti che avevano qualcosa da dire e la dicevano senza mezzi termini. Ormai gli intellettuali erano entrati pienamente nel cinema, dalle riviste, dalla letteratura, dalla critica; se ciò accadeva per la regia e per la sceneggiatura, qualcosa del genere poté accadere anche per gli operatori: a un certo punto l'operatore "nuovo" si profilò chiaramente ed era un tipo completamente diverso dad quello che per anni e anni aveva diretto le nostre macchine da presa.
Nel dopoguerra si ebbero infatti due tra i piú importanti fenomeni della nostra storia: la maggior facilità dei viaggi e la rapidissima diffusione delle immagini. Il provincialismo, l'antica nostra piaga, si attenuò o sparí in larghi strati della popolazione, e nello specifico campo della fotografia fu infine possibile anche in Italia confrontare, esaminare, studiare. Dirò subito che, per rimanere tra gli operatori, gli influssi piú vivi vennero non tanto dalla fotografia cinematografica quanto dalla foto vera e propria, quella professionale s'intende. Beaton e il gruppo Vogue da una parte, Feininger Bresson Brassaï, il gruppo Magnum e il gruppo Life da un'altra (cito quasi a caso s'intende) insegnaronoveramente a vedere le cose in un altro modo, un modo che ben presto si cristallizzò anch'esso in convenzione, tuttavia non certo priva di aspetti interessanti. Si capisce, a un certo punto, che nel caso Life-Magnum siamo di fronte a fotografie di gente che lavora tra un aereo e l'altro, che dei paesi coglie solo certi aspetti, mentre molti altri le sfuggono, però anche il porsi cosí liberamente, senza prevenzioni, di fronte ad una realtà nuova, conferisce alle foto quella forza d'urto, quell'impact che in fondo si richiede ai servizi giornalistici (col permesso di molta gente, dirò che ho sempre avuto l'impressione che raccolte in volume quelle foto calino di parecchio). Quanto a Vogue, invece, l'abile stilizzazione dei cascami del surrealismo, il fondo vagamente omosessuale (la donna uso Vogue non è una donna, e si sente che i fotografi fanno di tutto per farci dimenticare cos'è una donna vera) venivano largamente incontro ai gusti "raffinati", alla concezione dell'eleganza propria dei ceti alto borghesi dei nostri anni (finché lo stile Vogue non passò anche alle vetrine di corso Garibaldi, sia pure rabberciato in modo piú casalingo e con un fondo chiaramente eterosessuale).
Fatto sta che i grandi, i vecchi divi della macchina da presa lentamente furono circondati da gente nuova, efficiente, tecnicamente poco amante dell'improvvisazione ma capace di tutto. Quando il cinema italiano, dopo la pausa involutiva di qualche anno, verso il 1958 ripartí e prese quota, molti nomi nuovi si affiancarono, che non erano piú quelli notissimi del passato e che non erano nemmeno quelli di Rotunno e di Di Venanzo, i veri maestri della nuova generazione. In bianco-nero o a colori, ogni film che abbia un minimo d'impegno ormai fotograficamente è a postissimo: quando a Venezia fu proiettato Una storia milanese di Eriprando Visconti la cosa che impressionò maggiormante il pubblico qualificato fu la fotografia (con ragione del resto perché a parte il commento del Modern Jazz Quartet era piú o meno il solo pregio dell'opera). Eppure, quella fotografia era firmata da un Caimi qualunque, milanese per di piú, e illustre sconosciuto nel campo del cinema romano: era dunque cosí facile essere un bravo operatore?
Facile non direi proprio, anche se luci pellicole macchine da ripresa e da stampa hanno fatto i progressi che tutti sanno. Soltanto, in questi ultimi tempi la piattaforma per dir cosí della preparazione tecnica generica dei nostri operatori si è molto allargata, aggiungendo alle nozioni pratiche, alle furberie del mestiere, anche una maggiore educazione estetica dell'occhio, educazione che (lo ripeto) secondo me è di natura piú fotografica che cinematografica. L'operatore conosce bene e studia e segue il lavoro dei suoi colleghi, ma prima di tutto è o è stato uomo d'immagine, è nato fotografo e porta con sé fin dall'inizio una preparazione visiva di primo ordine. Venticinque o trenta anni fa capitava talora che un film fosse piú dell'operatore che del regista, perché l'operatore faceva quel che voleva e non si curava per nulla di quel che il film voleva dire; lui vedeva solo le inquadrature e del loro nesso logico non gli importava. Oggi può capitare benissimo che un film sia "tenuto su" dall'operatore: ne ho in mente qualcuno, che per carità di patria non nomino: però è sempre una cosa diversa da quella di un tempo, bene o male il team work funziona, tra regista e operatore c'è una certa comunità di linguaggio e di sentimaenti, la tecnica è nota all'esteta e l'estetica al tecnico, tanto che il risultato ben difficilmente è del tutto negativo, e anche se il film è debole la fotografia riesce a dire qualcosa. Insomma, se lasciamo da parte la serie bikini, le serie sexy, le serie piú o meno comiche (che certe volte poi sono tutt'altro che fotografate male) dove gli intenti di risparmio a tutti i costi appaiono penosamente evidenti, uno dei motivi per cui il film "bidone" si è considerevolmente fatto piú raro nei nostri schermi sta appunto nella maggior dignità della presentazione, di cui la fotografia è parte importante. Ma a questo non si sarebbe giunti senza un innalzamento generale della qualità media del nostro cinema, grazie all'apporto - ahi quanto ancora incompleto e superficiale e affrettato - di un piú vasto influsso culturale, di una piú solida preparazione generale (il che in fondo rispecchia la sia pur lenta e ineguale evoluzione del nostro paese). 1