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Amistad2h 35'Amistad, una parola che in spagnolo significa amicizia, termine usato troppo spesso con semplicità, se non abusato, una parola che, al tempo stesso, trasuda sangue e storia, una storia oscura, mai raccontata nei testi scolastici, ma non per questo meno influente sugli avvenimenti futuri di tante altre a tutti note. "La Amistad", infatti, per uno strano scherzo della sorte, era una nave spagnola che, dietro il suo nome carico di speranza, nascondeva un carico umano: non schiavi, o figli di schiavi nati in qualche piantagione, il che, era il 1839, sarebbe stato consentito dalle leggi statunitensi, ma uomini liberi catturati con la forza in qualche lontano villaggio africano. E di questi uomini, della loro disperata lotta per la libertà, di giustizia e dei principi fondamentali della dignità umana parla Amistad, nuova incursione in un cinema se non d'autore sicuramente sociale per un autore come Steven Spielberg il cui nome è strettamente legato ad avventura e fantasia. Non si tratta di certo di cinema militante alla Spike Lee, nè potrebbe mai esserlo, ma la sua forza è proprio nell'obiettività, nella narrazione oggettiva di eventi che parlano da sè. In una notte di tempesta quegli uomini destinati ad essere venduti come schiavi avevano rotto le loro catene, si erano impossessati delle armi e, sterminato l'equipaggio, si erano affidati ai due membri superstiti affinchè La Amistad facesse nuovamente rotta verso le coste africane (e le scene iniziali del film, visivamente coinvolgenti, violente, sferzate da luci taglienti, percorse da fiumi di sangue, resteranno a lungo memorabili), per poi finire catturati da una nave della marina americana, imprigionati e processati per omicidio. I due marinai dell'Amistad ne rivendicavano la proprietà, i soldati che li avevano catturati ne rivendicavano la proprietà, e così la regina di Spagna, mentre loro, tenuti in catene in una terra lontana, isolati nel dialetto della tribù dei Mende, rivendicavano solo la propria libertà. Ma dietro ad un processo per certi versi insignificante si muovevano interessi enormi, venendosi apertamente a scontrare il fronte schiavista con quello abolizionista, i vecchi e saldi principi degli Stati del Sud con quelli innovativi dei ricchi Stati del Nord. E così lungo le due ore e mezza di Amistad, seguendo tutta la procedura giudiziaria fino all'estrema difesa davanti alla Corte Suprema, laddove, con un'arringa appassionata, i tentativi persecutori del presidente Martin Van Buren (Nigel Hawthorne, candidato all'Oscar per La Pazzia Di Re Giorgio), schiavista convinto, tesi a compiacere gli Stati del Sud e la regina di Spagna, vengono contrastati dall'ex presidente John Quincy Adams (uno straordinario Anthony Hopkins). Con una regia asciutta, mai ridondante, ed i movimenti della macchina da presa ridotti all'essenziale, Steven Spielberg riesce a catturare l'attenzione dello spettatore fin dai primi minuti, senza cadute di sorta, rendendo anzi appassionante la battaglia legale degli abolizionisti di Theodore Joadson (un Morgan Freeman poco convincente e credibile, in un ruolo, peraltro, marginale) in difesa degli "schiavi" dell'Amistad e di Cinque, il loro leader (Djimon Hounsou, incisivo attore del Benin qui al suo primo ruolo da protagonista). E quando ci si commuove - perchè l'eterna lotta per l'ovvio riconoscimento dei propri diritti non può non commuovere - non è perchè trascinati su quella strada con subdoli sotterfugi o a ciò indotti da patetici sermoni, come, ad esempio, avveniva nello stesso Schindler's List, e di questo bisogna rendere merito al regista. Peccato, però, per un finale inutilmente espicativo, dall'effetto posticcio, che sembra condurre per la manina l'ignaro spettatore attraverso gli sviluppi della vicenda e le sue conseguenze sulla storia americana. © 1998 reVision, Carlo Cimmino |
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