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La MummiaThe Mummy - 2h 04'Regia: Stephen SommersIl kitsch, o "gusto del cattivo gusto", non ha per capitale Disneyland come va dicendo qualche teorico dell’alta cultura: la vera capitale del kitsch è Hollywood, lo è stata per tutto il ‘900 e non ci sono ragioni per supporre un trasferimento di sede. Andate a vedere La Mummia, e affondate le mani nell’offerta straripante e simultanea di oggetti, personaggi, situazioni, generi: ecco cosa si intende per autentico cattivo gusto cinematografico, una miscela di elementi renitente a rapprendere, a solidificare. Ma cerchiamo di capire come funziona questa miscela. La struttura del film è in verità piuttosto semplice, e deriva in qualche misura dalla passata generazione dei videogame (non da quella attuale, che consente spostamenti continui di tempo e di luogo, come accade in "Bugs Bunny lost in time"): qui un eroe estremamente dinamico deve raggiungere, attraverso varie fasi intermedie un obiettivo principale che è al termine del cammino. Tale struttura narrativa si traduce esteticamente in un massiccio intervento di effetti speciali, poco amalgamati con le riprese reali: ogni fase appare compiutamente caratterizzata e conclusa, in ogni fase l’eroe raccoglie degli oggetti che gli serviranno lungo la strada. Lo scenario del gioco (oops... del film!) è il misterioso Egitto, palestra di archeologi affascinanti, aviatori e balordi d’ogni cotta. Negli anni ’20 di questo secolo un ex-militare belloccio scopre il luogo mitico ove sorgeva l’inquietante Città dei Morti, teatro di antichissimi riti religiosi e di terribili maledizioni: qui giace un non-morto, assetato di vendetta e in attesa di riprendere un corpo. Le circostanze condurranno ad uno spettacolare scontro finale. Giacché il cinema attuale non si nutre d’altro che del cinema stesso, conviene enucleare in breve i riferimenti di questa Mummia: del film originale (del 1932, con Boris Karloff) non resta che il nome, mentre l’immaginario della trilogia spielberghiana di Indiana Jones è ampiamente saccheggiato, a partire dal protagonista Rick, interpretato da un Brendan Fraser qualunque. Si riconoscono pure sequenze rubate a Ombre Rosse, Zombi, Lawrence d’Arabia, ma il gran numero dei prelievi operati più o meno opportunamente dal regista Stephen Sommers ci impedisce di menzionarli tutti. Una lettura che ci pare adatta ad un testo siffatto è certo quella metalinguistica: è piuttosto evidente che l’antefatto del film, un episodio di sangue nell’Egitto dei Faraoni, allude all’età dell’oro hollywoodiana, al periodo espansionistico dell’industria cinematografica americana degli anni ‘20-’30 connesso col fenomeno del divismo. Lo sviluppo della vicenda, con un salto temporale di qualche millennio, mette in scena la distanza tra la nuova e la vecchia Hollywood (sicuramente in modo superficiale e acritico): l’avventura nella Città dei Morti è un "ritorno" sul set dei kolossal di Lean, visitati con l’armamentario dell’era tecnologica che ci regala addirittura le prime piaghe d’Egitto interamente digitali. Il mostro del titolo, essere mutante che si nutre di corpi nella speranza di riassumere le sembianze originarie, altro non è che il mezzo cinematografico considerato come "morte al lavoro", divoratore d’universi e insieme depositario del segreto della vita eterna. Finzione come non-morte: l’equivalenza racchiude, più che il senso di questo film, una tendenza generale della produzione americana, sempre più orientata verso la manipolazione (in scala superumana) dei grandi racconti. E’ il serbatoio inesauribile del kitsch, col suo mercatino di chincaglierie. © 1999 reVision, Luca Bandirali |
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