Quando nacque,
la televisione era, essenzialmente, fatta di trasmissioni in diretta.
Se occorreva mandare in onda la ripresa di un evento che si svolgeva
in tempi diversi, per lunghi anni si fece ricorso alla pellicola.
Anche la conservazione, per un utilizzo futuro, delle immagini di
importanti avvenimenti di cronaca, spettacolo o sport, quindi, era
affidata alla celluloide. Apparecchiature denominate
telecinema
e vidigrafo
avevano il compito, rispettivamente, di permettere la trasmissione
televisiva di immagini cinematografiche e di immortalare su film le
scene riprese con le telecamere. Fu solo sul finire degli anni
Cinquanta che l' industria americana
Ampex
introdusse sul mercato il primo videoregistratore (VTR,
da video tape recorder). Anche se la stessa Casa produceva
telecamere, apparecchiature video di ogni genere e nastri magnetici,
il suo nome divenne per lunghi anni sinonimo di videoregistrazione.
Dapprima in bianco e nero, poi a colori, la registrazione
videomagnetica (da cui la sigla
RVM,
tuttora usatissima specialmente in ambito RAI) permise una maggiore
flessibilità nell'impiego e nella conservazione delle riprese
televisive. Il nastro usato, all'epoca, era da 2", misura usata
anche nei registratori multitraccia impiegati dall'industria
discografica. La ragione di questa scelta era evidente: trattandosi
di segnali analogici, più grande
era lo spazio a disposizione, maggiore era la qualità di
registrazione e riproduzione, dato che era possibile sfruttare un
maggior numero di particelle magnetiche. Inventata la videoregistrazione,
si pensò anche al
montaggio. Originariamente il nastro video veniva
tagliato proprio come la pellicola, con la differenza che non si
potevano usare copie-lavoro e che era praticamente impossibile, in
caso di errore, tornare indietro. Col passar del tempo fu evidente
che l'unico sistema per effettuare montaggi in grado di trarre
profitto dalla principale caratteristica del nastro magnetico, la
possibilità di cancellare e riutilizzare intere bobine o parti di
esse, consisteva nel copiare immagini e suoni da un apparecchio
all'altro. I produttori di VTR (all'Ampex si erano nel frattempo
aggiunti altri marchi quali Sony, Hitachi, JVC, RCA, National
Panasonic e IVC) iniziarono a sviluppare apparecchi che
consentissero di ottenere il miglior risultato possibile. Non era un
lavoro semplice, perché occorreva risolvere diversi problemi: la
riproduzione, anzitutto, perché il passaggio del segnale audio-video
da un VTR all'altro comportava una certa perdita di qualità, ma
anche la stabilità delle immagini e la possibilità di sincronizzare,
tramite
TBC
(Time Base Corrector)
il segnale registrato con quello delle telecamere gestite da una
regia video, in modo da permettere dissolvenze incrociate e altri
effetti. Parallelamente allo sviluppo delle apparecchiature
broadcast,
quelle destinate all'utilizzo per le trasmissioni televisive e per
le quali occorreva il massimo della qualità, iniziò a nascere un
secondo mercato, quello
professionale, nel quale
si rivelava importante soprattutto la comodità d'uso e la ridotta
dimensione delle apparecchiature audiovisive. L'impiego crescente di
tecnologia allo stato
solido (transistor),
piuttosto che valvole, permetteva di ottenere risultati sempre
migliori e, di lì a poco, avrebbe aperto le porte a un terzo
segmento di mercato, quello destinato a grandi masse di consumatori
(consumer),
che avrebbero in seguito beneficiato della possibilità di utilizzare
a casa loro telecamere, videoregistratori e quant'altro. Il
risultato fondamentale dell'evoluzione tecnologica, comunque, fu
quello di permettere una maggiore flessibilità d'uso delle
apparecchiature broadcast e professionali, tant'è vero che, in tempi
più
recenti,
si è parlato spesso di apparecchiature
prosumer
(parola composta da professional
e consumer), in grado cioè di essere usate dalla gente comune e
dall'industria radiotelevisiva: certe telecamere digitali MiniDV di
fascia alta rappresentano un ottimo esempio di questo tipo di
materiale. Tornando alla nostra storia dei formati di registrazione,
dobbiamo arrivare ai primi anni Ottanta, quando l'Ampex lanciò il
VPR-1,
funzionante con nastri da 1". Altre Case si erano già cimentate con
questo tipo di supporto. Negli anni Settanta l'IVC aveva prodotto
alcuni modelli di videoregistratori che impiegavano bobine da 1", in
grado di registrare a colori per circa un'ora. Molte tv locali
italiane, ad esempio, si equipaggiarono con gli IVC 801 e 871. Il
VPR-1 era un'altra cosa, anche se fu evidente che si trattava di un
punto di partenza. Il sistema da 1" A, come veniva chiamato, fu in
seguito surclassato da un'evoluzione realizzata dalla Bosch-Fernseh,
denominata 1"B, caratteristica per la disposizione delle due bobine,
sovrapposte e controrotanti, ma soprattutto dalla successiva
produzione Ampex, 1" C, che venne anche ripresa dalla Sony e,
su licenza, dalla francese Thomson CSF, che la ribattezzarono Ω (Omega)
per la forma del percorso
del nastro attorno al tamburo rotante contenente le testine video.
L'Ampex realizzò, per lo standard 1" C, vari modelli di
videoregistratori, quali il robustissimo
VPR-2, nelle versioni A e B, il
VPR-80,
successivamente evolutosi nel
VPR-6 e il fantascientifico
VPR-3, che
fu successivamente dotato del rivoluzionario TBC digitale
Zeus (di lì a poco realizzato anche in dimensioni più piccole,
adatte a sostituire il TBC-6 che equipaggiava il VPR-6). La
collaborazione di Ampex con la
Nagra, celebre azienda svizzera
specializzata in registratori audio portatili, dette vita al
VPR-5,
videoregistratore portatile, sempre da 1" C, che utilizzava bobine
larghe circa 13 cm, in grado di registrare una ventina di minuti, sufficienti per
un utilizzo EFP
o ENG.
La Sony, dal canto suo, acquisita la licenza del sistema 1" C,
realizzò la serie
BVH (da Broadcast Videocorder Helical) che si
espresse principalmente nei modelli
2000,
2500 e
3100, quest'ultimo dotato di un
avveniristico sistema
di caricamento automatico del nastro. Il nuovo
standard permetteva di registrare su tre canali audio,
convenzionalmente fu deciso dai vari costruttori di usare le tracce
1 e 2 (eventualmente come canali Left e Right, in caso di
stereofonia), mentre la 3 veniva destinata al
Time Code,
ferma restando la possibilità di utilizzarla come traccia
supplementare. Con una scheda aggiuntiva, inoltre, si poteva
registrare o riprodurre anche la traccia 4, ma occorreva tenere
presente che tale traccia non poteva essere riprodotta o registrata
da videoregistratori sprovvisti di un'analoga scheda. Nel campo broadcast non esistevano soltanto le
bobine da 1". La Sony, già dalla metà degli anni Settanta, aveva
anche sviluppato un proprio formato basato su videocassette con
nastro da 3/4", denominato
U-matic anche in questo caso a causa del
percorso a "U" cormpiuto attorno al tamburo dove erano posizionate
le testine video. La qualità di registrazione dell'U-matic, già
abbastanza buona, venne in seguito migliorata e resa rispondente
alle specifiche broadcast con l'adozione di un procedimento
denominato HB (High Band). Di conseguenza, le cassette della prima
versione vennero ribattezzate
LB (Low Band). In Giappone e negli
USA, così come in tutte le nazioni che impiegavano il sistema NTSC,
vi era una piena compatibilità fra videoregistratori LB (catalogati
con la sigla VO) e videoregistratori
HB
(siglati BVU, in questo caso l'acronimo indicava Broadcast
Videocorder U-matic). Ferma restando la differenza di qualità dell'immagine
(un High Band leggeva una cassetta incisa da un Low Band con la stessa
risoluzione dell'LB, e un Low Band leggeva un nastro HB sempre in
qualità LB), il segnale veniva registrato e riprodotto a colori. Nei
paesi del sistema colore PAL, invece, un LB leggeva un nastro HB in
bianco e nero, e viceversa. Solo i
BVU SP,
quelli dell'ultima generazione, come i 9630P e i 9850P, erano in
grado di riprodurre a colori le cassette LB. Mi è capitato di
vedere, però, alcuni VO 5630P (lettore LB) che, in RAI, erano stati
modificati dai tecnici del laboratorio interno di manutenzione con
l'aggiunta di un dispositivo "top secret" che permetteva di riprodurre a colori
le cassette registrate dai BVU. L'U-matic ha tenuto banco per circa
trent'anni, grazie alla robustezza e all'affidabilità dei VCR,
prodotti, oltre che dalla Sony, da Hitachi, JVC e National/Panasonic.
Anche le cassette, certamente non un capolavoro di
miniaturizzazione, presentavano le stesse doti di solidità. Va
sottolineato che queste erano disponibili in due formati, U-matic
(durata da 5' a 60') e U-matic S, di dimensioni inferiori, destinate
all'impiego su VCR portatili (durata di 20', in seguito ne furono
fabbricate anche da 30' da 45'). L'U-matic LB ha rappresentato il
formato principalmente impiegato dalle tv locali italiane, nate
negli anni Settanta, dopo il periodo pionieristico nel quale veniva
utilizzato di tutto: ad esempio bobine EIAJ da 1/2" o da 1/4",
videocassette VCR (il primo standard per home video elaborato
dalla Philips) e altri nastri sviluppati per il settore della TVCC o
per scopi didattici e industriali. Curioso sottolineare che,
nell'ambiente del broadcast italiano, non si sia mai parlato di High
Band e Low Band ma, impropriamente, di BVU per indicare le cassette
HB e di U-matic per quelle LB. Il settore dell'home video, sul
finire degli anni
Settanta, stava mostrando elevate possibilità di
espansione. Il buon successo ottenuto dal VCR (in origine le
cassette, particolarmente complicate come meccanica, avevano una
durata massima di un'ora, successivamente Philips e Grundig
riuscirono a produrre apparecchi in grado di registrare fino a tre
ore) spinse le industrie del settore a investire in ricerca, con lo
scopo comune di produrre un nuovo tipo di videocassetta, destinata
all'utilizzo domestico. In Giappone il nuovo progetto del futuro
sistema ,
che coinvolgeva Sony, Hitachi e Matsushita (Panasonic e JVC), venne
abbandonato da due dei tre partner a pochi mesi dal lancio. La Sony
rimase da sola a lavorare a quello che sarebbe stato chiamato
Betamax
(ancora una volta il nome derivava dalla forma del percorso del nastro, che ricordava
la lettera "Beta" dell'alfabeto greco, gli altri due ex-soci, poco
dopo, presentarono il loro prodotto, denominato
VHS
(Video Home System). A complicare maggiormente le cose, si aggiunse
anche la Philips che, per evitare di perdere terreno, lasciò perdere
il VCR in favore di un altro sistema, denominato
Video 2000,
probabilmente il migliore in assoluto, che si distingueva dai
concorrenti giapponesi perché le videocassette potevano essere
registrate sui due lati. Come spesso accade, fu proprio il peggiore
dei tre, il VHS, a prevalere sugli altri. La Sony, però, riuscì a
salvarsi in calcio d'angolo utilizzando le
ingenti risorse destinate
al Betamax e il know-how acquisito per sviluppare un nuovo
standard di videoregistrazione, il cui successo superò, nei decenni
successivi, ogni più rosea previsione. Si trattava del
Betacam.
Concepito inizialmente per un utilizzo ENG (le prime cassette,
identiche in tutto e per tutto alle Betamax, erano molto più piccole
delle U-matic S e permettevano di registrare fino a mezz'ora), il
Betacam nacque come videoregistratore portatile che, come i
precedenti U-matic, veniva trasportato a tracolla, collegato alla
telecamera con un cavo coassiale a 10 pin. Di lì a poco, però, la
Sony riuscì a produrre un videoregistratore talmente compatto da
essere applicato alla parte posteriore della
telecamera.
Fu una vera e
propria rivoluzione: grazie anche all'idea
di sponsorizzare la
serie televisiva "V-Visitors", il cui protagonista
riusciva a filmare col suo Betacam in condizioni praticamente impossibili, le
troupe dei telegiornali di tutto il mondo iniziarono a dotarsi di
queste apparecchiature. Il passo successivo fu la creazione di un
videoregistratore da
tavolo, per poter riprodurre e montare le
immagini riprese in Betacam. L'unico grave handicap era
rappresentato dalla durata: mezz'ora non era certamente il massimo,
ma la qualità di registrazione era stata ottenuta facendo girare il
nastro Betamax, che originariamente durava tre ore, a velocità
relativamente elevata. Non potendo rallentare la velocità di
scorrimento, fu deciso di creare delle nuove cassette, più grandi,
che permisero di raggiungere la rispettabile durata di novanta
minuti. Anche i videoregistratori dovettero essere riprogettati,
perché i Betacam
da studio potevano usare solo le
cassette di piccole dimensioni. Nacque così il
Betacam SP,
dotato anche di migliori prestazioni, funzionante con nastri Metal e
con Dolby-B , due tracce audio supplementari registrate in PCM dalle
testine video. Parallelamente, furono introdotte sul mercato anche
le cassette "large" che permettevano di registrare 60 e 90 minuti. Se i Betacam SP potevano registrare su nastri Betacam
e
riprodurli, i Betacam non potevano invece leggere le cassette SP.
Col passare degli anni la famiglia si è allargata: al Betacam SP (commercializzato con la sigla VW, dove V sta per videoregistratore
e W per Betacam, preceduta dai suffissi B=Broadcast, P=Professional
e U=Economico; i modelli più diffusi delle tre fasce di mercato sono
il BVW75,
il PVW2800
e l'UVW1800)
si sono affiancati i Digital
Betacam (che possono leggere
i nastri Betacam e Betacam SP), i
Betacam SX
(che possono leggere, anch'essi, Betacam e Betacam SP) e i
Betacam IMX
(compatibili in lettura con Betacam, Betacam SP, Betacam SX e, in
alcuni modelli, anche coi Digital Betacam). Dal Digital Betacam in
poi fa la sua comparsa anche il
preread,
dispositivo col quale, grazie alla presenza di due testine
supplementari di lettura collocate immediatamente prima di quelle di
registrazione, è possibile usare un videoregistratore come se ci
fossero due macchine distinte, il che permette di realizzare
dissolvenze
ed effetti impiegando un VTR in meno. Un'evoluzione analoga a quella
del Betacam ha caratterizzato il
Video8,
sistema home video sviluppato dalla Sony in alternativa al VHS (e al
VHS-c, la versione compact con cassette di minori dimensioni), che
ha avuto un buon successo nel campo delle videocamere, un po' meno
come videoregistratore da tavolo, anche perché la durata massima
delle cassette era di 90 minuti, insufficienti per registrare un
film trasmesso in TV. Il Video8, nelle successive versioni Hi8 e Digital 8, ha
mantenuto una buona quota di mercato anche grazie alla compatibilità
tra nuovi e vecchi modelli, come già accaduto nei Betacam, per poi
soccombere definitivamente nei confronti delle videocamere MiniDV,
che hanno praticamente monopolizzato il segmento. Per tornare nel
settore broadcast occorre fare un passo indietro. La registrazione
digitale, assieme all'alta definizione, rappresenta il grande mito
degli anni Novanta. Si pensava
di effettuare il grande balzo dalla
pellicola alla registrazione magnetica e molti film sperimentali
(cito fra tutti "Il mistero di Oberwald" di Michelangelo Antonioni)
vennero realizzati con apparecchiature destinate a venire ben presto
sorpassate dalla rapidissima evoluzione tecnologica. Parallelamente,
i nastri da 1" si accingevano ad andare in pensione. Il primo
videoregistratore interamente digitale, il
D1, fu sviluppato da un
consorzio comprendente la Sony, la Bosch e la Thomson. Non era
certamente un gioiello di miniaturizzazione, dato che le videocassette
impiegate avevano dimensioni ragguardevoli. L'Ampex rispose col
D2,
anche in questo caso cassette di rispettabili dimensioni, contenenti
nastro da 3/4". Il D2, lavorando in digitale-composito, aveva il grande pregio di
poter essere impiegato anche in ambienti analogici, integrandosi
quindi in sale di post-produzione dove erano presenti il "vecchio"
mixer video e i videoregistratori da 1", Betacam e BVU. Il più
celebre modello di D2 prodotto dall'Ampex è il VPR-300, ingombrante
e inaffidabile fino a quando non venne implementato un software che
riusciva a gestire il cosiddetto "edit optimize", procedura di
allineamento delle quattro testine, fino ad allora laboriosissima.
Anche la Sony produsse dei D2: i DVR10
e DVR18 si rivelarono da
subito molto più semplici e affidabili dei loro concorrenti made in
USA, e sono tuttora in uso in alcune società di post-produzione e
presso la RAI, che aveva standardizzato su questo formato la messa
in onda dei suoi (all'epoca) neonati canali satellitari. L'Ampex provò a
superare i difetti di nascita del D2 creando degli adattatori per
rendere "ibridi" i mixer video analogici, mettendoli in grado di trattare i segnali
digitali, ma soprattutto elaborando un'evoluzione del
formato, funzionante in digital component,
denominato DCT (Digital Component Tape), incompatibile col D2 e,
anche per questo, praticamente rifiutato dal mercato. In Italia ho
visto solo una sala DCT, presso la Telerecord di Firenze. La crisi del settore e della stessa Ampex, però,
posero fine a qualsiasi speranza di ripresa. Dopo aver provato a
mantenersi a galla vendendo nastri e videocassette col nuovo marchio
Quantegy, l'industria che aveva inventato la videoregistrazione
scomparve nel nulla. Resta da parlare, per concludere la nostra
storia, del presente e del prossimo futuro. Oltre ai già gitati Betacam SP, SX e IMX e al Digital Betacam, trascurando il
D3,
standard prodotto dal gruppo
Matsushita e basato su una
cassetta simile alla VHS, il grosso del mercato è oggi occupato dalla
famiglia del D5,
espressa dalle varie MiniDV,
DV,
DVCam e
DVC Pro. Esiste un'infinità di
modelli di videocamere in grado di funzionare con una o più di
queste cassette, piccolissime e in grado di offrire un'eccellente
qualità. Tutte quante impiegano un nastro alto 5 mm e molti
videoregistratori da banco, a volte impiegando degli adattatori, possono
riprodurre tutti quanti i formati. L'alta definizione è nuovamente in fase sperimentale,
grazie alla nascita di nuove apparecchiature basate su videocassette
scaturite dal Betacam o dal DV e, oltre ai nastri, si inizia a parlare di
dischi. DVD e hard disk, sempre più, cominciano a giocare un nuovo
ruolo nel settore. Basta pensare, oltre alle videocamere che
registrano su disco, al sistema
MAV,
che incorpora un hard disk in grado di registrare due ore di segnale
video e una centralina di montaggio che può effettuare un montaggio,
anche con dissolvenze incrociate,
attingendo immagini e suoni in tempo reale dallo stesso hard disk dove sta avvenendo la
registrazione...
Dopo questa piccola storia della
videoregistrazione, quindi, è chiaro che le sale lineari non sono
destinate alla demolizione, almeno ancora per un po'.
Quando conviene il lineare:
- Se si deve intervenire su una trasmissione registrata in studio o
in esterni, di almeno mezz'ora, per la quale sono previsti alcuni
tagli per ridurne la durata, magari già stabiliti durante la
registrazione, allora il lineare è la soluzione più rapida. Avere a
disposizione una duplice copia del programma può risultare
utilissimo perché consente di risparmiare ulteriore tempo, dato che
è possibile intervenire, con la seconda copia, a partire dal punto
in cui è situato il primo taglio, evitando di riversare tutto il
master fino a quel momento. Finito il montaggio, il nastro è subito
pronto, senza bisogno di aspettare lo "scarico". - Se occorre
preparare un "pizzone" di contributi, già registrati su nastro, per
una trasmissione, in diretta o registrata che sia. Basta
semplicemente riversarli seguendo l'ordine prestabilito. Di contro,
in Avid occorre prima acquisire, quindi montare e poi scaricare, con
evidente perdita di tempo. - Se c'è da montare un servizio ENG girato con due (o più) telecamere. Basta metterle al passo e,
volendo, effettuare "al volo" le commutazioni col mixer
video tra una camera e
l'altra. Un montaggio della durata di cinque-dieci minuti, se non ci
sono stati grossi problemi in sede di ripresa, può essere pronto in
due-tre ore. Acquisire in Avid due cassette con circa venti minuti
di "girato" ciascuna, sincronizzarle tra loro e, a montaggio finito,
scaricare su nastro, richiede di solito un bel po' di tempo in più.
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