Il caso di Andrès.
Per una revisione dei concetti di valutazione e diagnosi nell’autismo e nei disturbi generalizzati dello sviluppo.
Davide Scheriani e Romeo Lucioni
Nel corso della nostra pratica clinica, a continuo contatto con complessi e drammatici casi di disturbo dello sviluppo infantile, abbiamo potuto sperimentare direttamente ciò che diverse ricerche hanno posto in evidenza, come elemento di innovativa rilevanza nell’analisi degli stressors che interessano la famiglia di un bambino con un disturbo generalizzato dello sviluppo (questa è infatti la categoria diagnostica entro la quale si ritrova l’indicazione del disturbo autistico).
Secondo svariati autori, infatti (Bristol & Shopler, 1983, Morgan, 1988), i risultati non mostrano prove sufficienti per avvallare l’ipotesi che l’autismo, riferito ad uno dei membri del nucleo familiare, sia una condizione più stressante e più specifica di altri disturbi (come, ad esempio, il Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione) per determinare un forte clima di stress. Al contrario, pare che un elemento particolarmente significativo per definire il "potere stressante" che la presenza di membro affetto da autismo determina nella famiglia di appartenenza, sia l’ambiguità del disturbo.
Il nostro piccolo paziente, Andrès, viene da noi accolto in terapia all’ età di sette anni e mezzo. La madre, nel corso di un colloquio clinico preliminare, mette in evidenza, sin dalle prime battute, il fatto che il figlio sia stato sottoposto, a partire dai due anni, a svariati processi di valutazione da parte di diversi esperti di neuropsichiatria infantile e, di conseguenza, "etichettato" con altrettanti giudizi diagnostici, riferentesi, di volta in volta, a quadri patognomici completamente diversi, dall’autismo, fino alla sindrome borderline. Questa complessa caratterizzazione del disturbo ha portato l’attuale medico specialista del bambino a sconsigliare l’avvio di un programma di logopedìa, rinforzando così i presupposti, da un lato, di gravi ritardi nello sviluppo del linguaggio e, dall’altro, di un vissuto estremamente ansiogeno in seno alla famiglia, i cui membri non riuscivano a figurarsi un’evoluzione plausibilmente positiva della situazione di Andrès, stretto tra un’oggettiva difficoltà di comunicazione e di espressione dei propri vissuti e un’ambigua rispondenza affettiva dei suoi caregiver di riferimento (la madre afferma : "Non so… non so proprio cosa aspettarmi…mi hanno detto che è limitato…"; il padre : "Secondo me, lui, in realtà, capisce e riesce, a suo modo, a farsi capire, se vuole… è molto furbo, è scaltro…).
Tra spunti luttuosi e slanci possibilistici :
le ambivalenze insite nel rapporto con il problema-autismo.
Questa ambiguità di risposte da parte dei genitori di Andrès dunque, si riflette e trae alimento dalla sostanziale e sopraddetta ambiguità del disturbo: questo bambino, come del resto la maggior parte dei bambini autistici, non corrisponde alla tipica immagine del "bambino con handicap".
Per allargare il discorso ad una sfera più antropologico-sociale, si può fare riferimento all’ immagine di "idiot sauvant " (Sacks, 1995) che la società riserva a questa specifica tipologia di attori sociali : come non pensare al personaggio magistralmente interpretato da Dustin Hoffmann nel film "Rain Man", o ancora all’ autistico della pellicola "the Cube", figure di uomini indicibilmente fragili, apparentemente incapaci di confronto con un mondo complesso e straripante di stimoli contraddittori, eppure capaci di risolvere enigmi e calcoli impossibili per l’individuo "normale" ?
E’ peraltro nota agli specialisti del settore la peculiare capacità degli autistici a percepire o fissare l’attenzione su elementi marginali di un contesto di stimolazione, a fronte della sostanziale impossibilità di estendere tale attenzione a livello multidimensionale e generalizzato (Bandura, 1987). Molti dei comportamenti di questi soggetti "sembrano normali", o addirittura lascerebbero presagire il possesso di specifiche capacità di decodificazione delle informazioni provenienti dall’ambiente.
Eppure essi non sono affatto normali.
Questa situazione paradossale confonde i genitori dei bambini autistici, non meno di quanto coinvolga, spesso, gli stessi specialisti ai quali questi individui vengono posti di fronte, alfine di ricevere una diagnosi appropriata. Senza contare il fatto che, oltre a presentare una tipica "incostanza di performance" di tipo cognitivo, i soggetti affetti da autismo evidenziano una peculiare e imprevedibile alternanza di condotte affettive: il loro comportamento si caratterizza tanto per inclinazioni alla fuga e al ritiro dalle relazioni, quanto per la ricerca controfobica dell’abbraccio materno, della protezione genitoriale.
Tutto ciò confermerebbe che sia proprio l’ambiguità ad essere il maggiore stressor nell’autismo: da questo punto di vista si potrebbe dire che le differenze degli effetti stressanti nel disturbo autistico siano maggiori e più rilevanti che non quelle rilevabili tra autismo a altri disturbi.
Eppure, chiunque entri in contatto o abbia a che fare con un bambino con autismo e la sua famiglia, non può non accorgersi di una sofferenza che si esprime nella continua peregrinazione di questi genitori alla ricerca di una conferma - disconferma della diagnosi.
L’urgenza di giungere ad un "giudizio definitivo" sul caso di Andrès si esprime chiaramente nelle parole dei suoi genitori, divisi tra lo "spunto luttuoso" di considerarlo un "handicappato grave" e di avvallare quindi le interpretazioni di coloro tra gli specialisti che sono più propensi a considerarlo un bambino "estremamente fragile" (da non stimolare eccessivamente con l’ imposizione di traguardi che comunque non potrà mai raggiungere ) e il continuo tentativo di messa in discussione della diagnosi, di recupero di elementi che, per quanto embrionali, possano far presagire un futuro sviluppo della situazione.
Ma che significato ha questo continuo altalenare di posizioni, questa particolarissima strutturazione del transfert dei genitori sul proprio figlio ?
Essi infatti, in cerca di una riparazione alla ferita narcisistica derivante dall’impossibilità di Andrès di essere "il miglior figlio che abbiano mai potuto immaginare", approdano ora ad una resa angosciosa dei propri investimenti, ora ad una pervicace tensione a porre il problema in termini "altri", ove sia possibile intravedere uno spiraglio al dramma del deficit cronico.
Innanzitutto, questa ambiguità di fondo trova conferma nel fatto che le consultazioni specialistiche che le famiglie "collezionano" spesso danno adito quantomeno a interpretazioni diverse; tale situazione è a sua volta attribuibile alla non uniformità o a una carenza della conoscenza sul disturbo addirittura da parte dei professionisti (e qui sarebbe interessante approfondire le ragioni di ciò, di cosa significhi per un operatore dover "affrontare la distanza" di un disturbo di cui si sa davvero poco, anche rispetto a come poterlo trattare efficacemente…). Questo aspetto non può che riflettersi nei termini di una mancanza di informazioni da mettere a disposizione della famiglia. In tal senso, alcune ricerche (Gill & Harris, 1991) concentrano la propria attenzione al fatto che sapere che si può disporre di un aiuto adeguato sembra essere più importante dell’effettivo ammontare di tale supporto: in questo modo si crea, infatti, nei genitori un senso di sicurezza, anche quando essi non facciano davvero richiesta di quello specifico tipo di supporto.
Sorge allora un’ulteriore questione: quali sono i presupposti cui fare riferimento per impostare un’adeguata strategia di trattamento del "problema-autismo", che, a questo punto parrà ovvio, non coinvolge profondamente solo l’individuo che ne è affetto, ma la sua famiglia in primis e, immediatamente di seguito, l’equipe specialistica che deve valutarne la maggiore o minore adeguatezza ad un canone di riconosciuta "normalità", ed infine, l’ambiente sociale (nella fattispecie, la scuola) che lo dovrà accogliere, garantendo il diritto del bambino ad accedere ad adeguati strumenti didattico-formativi ?
Il corpo muto e l’urlo :
verso un’integrazione dei processi di valutazione e diagnosi
La caratteristica che forse colpisce in modo più incisivo, nelle fasi preliminari di rapporto con i bambini autistici, è l’ apparente, assoluta incapacità di modulazione e rielaborazione dei propri vissuti.
A tratti, questi soggetti, paiono singolarmente silenziosi ed assorti in processi di pensiero che non prevedono alcuna interazione o influenza esterna: si siedono in un angolo, spesso maneggiando un oggetto con tendenze e modi completamente afinalistici, apparentemente sordi ai richiami o alle manifestazioni di interesse da parte di chicchessia. In altre occasioni, invece, essi esibiscono un eloquio fluente ma incomprensibile, analogamente autoriferito, ininterrotto, intercalato da urla e stereotipìe ecolaliche. E’ così comprensibile il disagio dei genitori e degli operatori della sfera didattica e sanitaria, continuamente impegnati a "dare un senso" a queste manifestazioni tanto diametralmente opposte, dal mutismo al "farfuglio", eppure entrambe sostanzialmente riconducibili all’ idea di un "corpo muto", incapace di comunicare produttivamente con il prossimo.
E’ altrettanto comprensibile la pervicace tendenza dei genitori di Andrès a percepire, nel suo flusso copioso di "non-parole", qualche sporadico termine corretto, comprensibile, l’ accenno di un saluto, un’ espressione di disappunto o di soddisfazione. La madre e, soprattutto, il padre di questo bambino, non sanno arrendersi all’ evidenza di un dato diagnostico che condannerebbe il loro figlio all'estrema difficoltà di rapporti col mondo, e si impegnano nel circondarlo di stimoli affettivamente significativi e di relazioni sociali utili allo sviluppo di immagine di Sé positiva: invitano a casa i compagni di scuola, i quali hanno così modo di rendersi conto che Andrès non è solo un alunno estremamente in ritardo sul programma didattico, ma anche un abile fruitore di videogames e un compagno di giochi vivace e stimolante.
Proprio a partire dal rapporto con questo interessantissimo nucleo familiare, nella prospettiva teorica che noi per primi, come ricercatori e operatori dell’area clinco-terapeutica, siamo chiamati ad una maggiore sensibilità nei confronti dei feedback che provengono dalla sfera delle utenze (…in aperto contrasto con l’obsoleta mentalità medico-sanitaria, che vorrebbe il paziente attento e passivo ascoltatore del "verbum aureum" proveniente dall’autorità specialistica), siamo stati chiamati a riflettere su due elementi fondamentali nel trattamento di questo tipo di disturbi dello sviluppo: il rapporto tra processo diagnostico e valutativo e la rilevanza del contesto.
A partire dalle interessanti osservazioni condotte da Ibarra e Pereira (1999), ci siamo concentrati sul fatto che troppo spesso, in contesti clinico-diagnostici, si è manifestata la tendenza a considerare congiuntamente i termini "valutazione" e "diagnosi", quasi che fosse, in alcuni casi, possibile rendere interscambiabile la loro definizione.
In realtà, applicata a questo tipo di disturbo, la diagnosi permette di determinare se un soggetto rientri o meno nei criteri clinici per essere considerato come autistico; nel caso in cui, in questa fase, si apporti altresì un processo di valutazione, quest’ultima non deve essere circoscritta soltanto al consolidamento del giudizio diagnostico. La valutazione si estende lungo un processo che deve raggiungere l’obiettivo di sviluppare programmi individualizzati e appropriati (Van Bourgondien & Mesibov, 1989). In tal modo è possibile teorizzare (…e applicare fattivamente) uno stretto e articolato rapporto tra processo valutativo e intervento: solo così si potrà allora "valutare con la finalità di intervenire" (Shopler, Reichler & Lansing, 1980).
Dal nostro specifico punto di vista, il richiamo a queste teorie ha legittimato una sostanziale "sospensione di giudizio", resasi peraltro necessaria dalla disparità di giudizi diagnostici relativi al caso in questione. Il nostro approccio al caso di Andrès, dunque, ha preso le mosse da una valorizzazione del vissuto dei genitori, cioè di quelle figure che meglio e più approfonditamente conoscono le mille sfaccettature della condotta del loro bambino, per avviare un processo di valutazione che mettesse al primo posto l’obiettivo di capire "chi fosse" Andrès, piuttosto che di quale malattia egli soffrisse. La sostanziale rimessa in dubbio del giudizio diagnostico, in virtù dell’implementazione di un’ adeguata strategia di intervento, ha portato alla luce elementi essenziali della personalità e della condotta di questo piccolo paziente, che si è effettivamente scoperto essere dotato di una significativa capacità di adattamento all’ambiente, di una seppur minima funzionalità verbale e di una inclinazione alla relazionalità in continua crescita, di seduta in seduta.
Proprio a partire da quest’ultimo, fondamentale, elemento, si è riconosciuto come determinante il fatto che tali potenzialità si siano evidenziate in un contesto analitico-dinamico relativamente poco orientato all’ interpretazione dei prodotti esclusivamente verbali della comunicazione e, soprattutto, non strutturato su canoni di giudizio rigidamente quantitativi.
E’ noto infatti (Ibarra & Pereira, 1999) che molte delle condotte significative che un bambino autistico evidenzia in casa, coi genitori e il fratello o con la maestra (…tutti soggetti coi quali ha stabilito un rapporto relazionale altamente significativo), non è ugualmente in grado di esibirle in un ambiente rigoroso di valutazione.
Il bambino autistico e il suo "entorno" :
l’importanza del contesto nel trattamento.
Eccoci dunque giunti alla trattazione del secondo fondamentale aspetto del processo di valutazione, quello inerente l’ importanza del contesto.
A partire dalle precedenti considerazioni, è possibile intuire che questo tipo di approccio considera la "persona con autismo" come un’ unità psico-bio-sociale indivisibile, le cui peculiarità si configurano come il prodotto di un’ interazione complessa e dinamica tra la specifica funzionalità del suo sistema nervoso (bio), le sue emozioni e cognizioni (psico) e il suo ambiente familiare, educativo e sociale (socio ) (Ibarra, 1995).
In tal senso, è altresì possibile comprendere quanto sia importante indagare a fondo le strutture di interrelazione tra il soggetto e il suo "entorno", termine ispanico, carico di forte significatività e sintesi concettuale, designante, per quanto riguarda il bambino autistico, il suo ambito familiare, scolastico e comunitario, inteso come "ambiente affettivo elettivo" dal quale non solo il soggetto proviene, ma rispetto a cui egli dovrà cercare la migliore delle integrazioni possibili (…per tale motivo ci piace considerarlo, figurativamente, come un cerchio, un’area sacralmente investita, dalla quale l’individuo proviene e nella quale deve necessariamente "finire"…).
Il primo passo, nella pratica terapeutica, si configura attraverso una serie di colloqui clinici con la famiglia del soggetto, onde determinare l’impatto, a livello psicodinamico, che questa situazione (attinente la ferita narcisistica dei soggetti in gioco) ha prodotto all’ interno del ciclo di vita familiare, così come la percezione di ognuno dei singoli membri riguardo questa problematica, delle loro domande, del loro "senso di perdita" . E’ inoltre altrettanto produttivo coinvolgere nel processo di indagine e di riflessione sui propri vissuti anche la "famiglia allargata" del paziente, comprendente, in questo caso, anche le maestre, in modo da ottenere un quadro quanto più fedele possibile delle determinanti affettivo-relazionali che coinvolgono tutti i soggetti appartenenti all’ "habitat naturale" del bambino (Harris, 1988).
La finalità di questo processo di valutazione consiste nel determinare se sia o meno necessario auspicare significative modificazioni all’ interno del sistema di interrelazioni dell’ "entorno", che facilitino una reale integrazione del bambino nel suo ambiente di riferimento.
Nel caso di Andrès, questo tipo di attività ha portato alla delinazione di un quadro dinamico estremamente complesso, in seno alla famiglia: a fronte di un atteggiamento relativamente rinunciatario della madre, tendente a demandare al coniuge, al primogenito, alla terapia, all’ ambito scolastico il difficile compito di sanare o superare le "limitazioni" del figlio, si è evidenziata una difensività propria del padre a intellettualizzare le condotte di Andrès, o a disinvestirle di una peculiare patologicità ("… in realtà lui sa farsi capire…), accoppiata ad una deresponsabilizzazione del soggetto (infatti afferma: "…quando lo conosci in profondità, come i suoi compagni che lo vengono a trovare a casa, ti accorgi di quanto è capace, …mi piacerebbe che anche gli altri imparassero a tenerlo… che superassero il muro che lui si crea attorno, nel quale si mette dentro…").
Quest’ultimo atteggiamento, anche se superficialmente più produttivo di quello adottato dalla madre, nasconde le sue ambivalenze: proprio come le prime teorie psicoanalitiche applicate all’ autismo (Mahler, 1946), le quali, additando come principale responsabile dello sviluppo del disturbo la particolare tipologia di rapporti di nutrizione con la madre, hanno finito col criminalizzare un non ben precisato "atteggiamento carente" delle figure di riferimento per il bambino.
Allo stesso modo, il padre di Andrès afferma paradossalmente che non è suo figlio ad avere un problema di comunicazione, ma che sono "gli altri" che non si impegnano sufficientemente ad "imparare" da lui, per trovare strategie di interrelazione adeguate. E’ utile, a questo punto, ricordare quanto, in seno ai moderni sviluppi del pensiero psicodinamico applicato al bambino autistico, la figura paterna abbia recuperato un ruolo di primaria importanza.
Il padre, infatti, non solo si configura come primario recettore di informazioni (…nel nostro caso, è stato infatti il padre ad auspicare e seguire Andrès nel suo approccio all’ informatica e ai videogames …), ma anche in quanto catalizzatore degli investimenti che il bambino, giunto a questa età critica dello sviluppo individuale, assocerà alle "prove sociali" verso le quali si sente spinto dal suo "entorno" (Ibarra, 1995).
Così, è stato necessario implementare un intervento atto a far prendere coscienza al padre del ruolo fondamentale svolto dall’interazione del suo bambino col sociale "-altro", diverso rispetto al contesto familiare, quel sociale che presenta regole, ruoli e livelli e pretende un relativo adattamento rispetto a tali presupposti.
Si è altresì lavorato sul significato specifico che il suo "ritorno di immagine" riveste per il piccolo Andrès, in modo che l’ "O.k. paterno", fornito ai suoi tentativi di integrazione, venisse effettivamente costellato di significazioni atte a stimolare una reale motivazione del bambino a "…compiere lui stesso i primi passi fuori dal muro".
In modo analogo, ci si è mutuamente prefissi l’obiettivo, con la madre, di "prendere maggiore iniziativa" in seno all’ economia di ruoli e investimenti della triade familiare, partecipando attivamente alle sedute col figlio, ma anche, semplicemente, sforzandosi di accompagnarlo all’ appuntamento settimanale senza l’appoggio assiduo del marito.
Attualmente siamo in attesa di poter sviluppare una serie di colloqui anche col primogenito della coppia e con le maestre di Andrès, alfine di creare un vero e proprio "contesto di analisi dell’ entorno", dal quale trarre preziose indicazioni sia per la diagnosi (…che si pone dunque all’ interno del processo valutativo e d’intervento) che per la terapia.
Il futuro di Andrès :
verso un’ottica di "intervento globalizzante".
Dopo una nutrita serie di sedute di Terapia di Integrazione Emotivo-affettiva (Lucioni, 1997) e un paio di colloqui terapeutici con la coppia genitoriale, si è pervenuti a constatazioni cliniche che, prese nella loro globalità, porterebbero ad escludere la diagnosi di autismo, facendo propendere maggiormente il giudizio per una forma di disturbo nevrotico infantile, a prognosi decisamente più favorevole. Si è così potuti giungere alla strutturazione di un intervento definibile nei termini di un’impostazione di tipo "globalizzante", mirata cioè a tenere in considerazione ogni distinta sfera dell’ ambito di interazione del paziente, con la finalità di attribuire ad ognuna di esse il proprio, specifico ed insostituibile ruolo nel processo di trattamento.
Attraverso i colloqui coi genitori, stato infatti possibile mettere i due principali referenti del bambino a confronto coi rispettivi vissuti, onde implementare una strategia per il cambiamento utile al gruppo-famiglia nel suo complesso.
D’altro canto, la sfera diagnostico-terapeutica, da noi riassunta, ha conosciuto una continua e dinamica evoluzione, in funzione dei seppur minimi cambiamenti osservati, di seduta in seduta, nella condotta del piccolo paziente, al punto di osservare una rigorosa "sospensione del giudizio", in virtù del processo di valutazione del soggetto, inteso come unità bio-psico-sociale in costante evoluzione.
Sarebbe altrettanto auspicabile poter intervenire sulla sfera didattico-formativa, troppo spesso lasciata in balia dei propri investimenti in funzione del complesso rapporto che è chiamata ad imbastire con l’ "alunno-difficile". Questa situazione, se non adeguatamente analizzata, può portare la scuola a sconfinare in aree (come quella terapeutico-assistenziale) che, necessariamente, non attengono alla specifica professionalità e formazione dei suoi operatori, generando ambiguità nel rapporto con gli altri elementi dell’ "entorno", oppure, nel peggiore dei casi (purtroppo non infrequente), al sostanziale abbandono di ogni progettualità didattica sul caso, che verrà così considerato tipicamente "disperato".
Attualmente, abbiamo caldamente consigliato ai familiari di Andrès di inserire il bambino all'interno di un programma di logopedìa, dati i considerevoli miglioramenti osservati durante le sedute e avendo accumulato una messe ampiamente soddisfacente di informazioni cliniche, la cui analisi ha portato alla previsione di un esito senz’altro positivo rispetto alle possibilità di riuscita del soggetto ad adeguarsi ad un programma individualizzato di apprendimento del linguaggio scritto e parlato (esemplarmente, nel corso di una delle ultime sedute di E.I.T., ha spontaneamente scritto il proprio nome sulla lavagna).
In buona sostanza, contiamo, con i prossimi lavori e coi resoconti dell’ assiduo lavoro di ricerca da noi svolto, di descrivere ed applicare gli estremi teorici di un intervento di tipo "globalizzante" su questi soggetti, in vista del progetto, oggi come non mai relativamente fattibile e scevro da "ambiziosità" curative, di dare un vero e proprio futuro ai bambini autistici e al loro "entorno".