PARLIAMO DI AUTISMO

Adriana Guareschi Cazzullo

Sebbene descritto da Kanner sin dal 1943, il disturbo autistico non è stato incluso in una classificazione diagnostica come entità clinica separata fino al 1980 con la pubblicazione del DSM-III (AFA, 1980).

Tuttavia le caratteristiche cliniche del disturbo hanno resistito alla prova del tempo in quanto hanno mantenuto essenzialmente gli stessi aspetti della prima descrizione di Kanner, fatta eccezione per quei casi con una sofferenza cerebrale da causa nota e con un ritardo mentale.

All'inizio quindi l'autismo era un termine che focalizzava una compromissione nello sviluppo delle relazioni sociali e nella comprensione e consapevolezza sociale.

Le più recenti ricerche sono tornate a rivolgersi a questi temi così che lo sviluppo affettivo, la cognizione (consapevolezza) sociale e la reciprocità interpersonale sono oggi le linee guida della ricerca.

Il disturbo autistico sembra oggi costituire lo spunto per meglio comprendere come emerge nel corso dello sviluppo la consapevolezza sociale e se vi sia un network nel cervello, una rete neurale, cognitiva-sociale.

STORIA

Le modificazioni più importanti in quanto più significative per il progresso nella comprensione del disturbo avvenute nella sua classificazione e definizione clinica, possono riconoscersi nella prima sua differenziazione dalla schizofrenia e dalle psicosi precoci avvenuta già prima del 1980 (Rutter, 1972).

Successive variazioni apparentemente formali riguardano il cambiamento del nome introdotto nella Revisione del DSM-III da "autismo infantile" a "disturbo autistico" o più tardi il tentativo di avvicinare di più i criteri diagnostici del DSM-IV (AFA, 1994) a quelli dell'ICD-10 (W HO, 1992) senza tuttavia risolvere la definizione di "autismo atipico" presente solo nel DSM-IV.

Ma a queste modificazioni apparentemente di superficie sottendono invece variazioni significative sul piano concettuale. Esse possono riassumersi essenzialmente nell'introduzione dei criteri focalizzati allo sviluppo cioè alla dimensione temporale del processo evolutivo (età di comparsa e di svolgimento del disturbo) e a valutazioni cliniche non solo descrittive dei sintomi essenziali, ma basate anche sull'analisi della distorsione di linee o percorsi evolutivi di molte funzioni psicologiche fondamentali quali quelle coinvolte nello sviluppo delle abilità

sociali, del linguaggio e della comunicazione come l'attenzione, la memoria, i la percezione, il test di realtà, ecc. (Rutter, 1978).

Le ultime due novità in fatto di nosografia e di definizione più puntuale del disturbo riguardano la classificazione multiassiale dei disturbi psichiatrici del bambino e dell'adolescente (OMS, 1997) proposta dall'OMS che, pur seguendo le linee guida dell'ICD-10 e inserendo l'autismo nei disturbi generalizzati dello sviluppo come il DSM- IV, ne specifica meglio alcuni aspetti.

Questa classificazione consente di codificare nei diversi assi altri elementi clinici e patogenetici di rilievo come il livello intellettivo, le patologie mediche associate (cioé patologie dismetaboliche, genetiche, degenerative, ecc.), le situazioni psicosociali anomale (carenze affettive, ambiente familiare anomalo, eventi stressanti acuti o cronici ecc.).

Un altro elemento innovatore è stato introdotto dalla proposta di una classificazione diagnostica per i disturbi di sviluppo da 0 a 3 anni avanzata da un gruppo di clinici e ricercatori del Nord America riunitisi in un Centro Nazionale per i programmi di salute mentale di clinica infantile (Zero to Three, 1994).

Oltre a portare un notevole contributo per differenziare i diversi quadri clinici che possono presentarsi a questa età, operazione indubbiamente difficile, ma di particolare importanza per la salute mentale dei bambini, questi AA. cercano di delineare tre diversi pattern clinici nell'autismo in relazione anche all'età dei soggetti. L'aspetto innovatore è già contenuto nella nuova definizione proposta che parla di disturbo multisistemico di sviluppo che esprime una concettualizzazione molto importante. Essa non considera la gamma di difficoltà relazionali e comunicative osservate nella popolazione clinica come appartenenti allo stesso ampio gruppo in cui rientra il disturbo autistico. Cioè cerca di differenziare il disturbo autistico dalla troppo vasta gamma di patologie comprese nei disturbi generalizzati dello sviluppo, in particolare quelle inglobate nello spettro autistico.

Nel disturbo multisistemico di sviluppo (MSDD) la difficoltà di relazione non è considerato un deficit primario come nei disturbi generalizzati (PDD) e pertanto non è permanente e relativamente fisso, ma viene riconosciuta la sua apertura al cambiamento e alla crescita. Si tratta ancora di un'etichetta descrittiva che però riflette la constatazione di tipologie multiple di ritardi o disfunzioni. È vero infatti che molti di questi bambini, come sottolineano gli A.A., anche quando appaiono molto evitanti, utilizzano modi sottili di manifestare il loro coinvolgimento emotivo con i genitori (ad es. sono impauriti da un ambiente nuovo se il genitore esce dalla stanza).

Questa concezione sollecita diagnosi molto precise e lascia aperta la possibilità di prognosi meno ineluttabilmente drammatiche. Infatti, se i pattern patologici vengono identificati precocemente, nel corso dei primi due-tre anni di vita, l'associazione tra capacità relazionali e problemi di processamento dell'informazione (cioè cognizione o consapevolezza cognitiva) può essere più flessibile.

In questa visione del problema, la possibilità di progresso e le prospettive relative all'esito definitivo non risultano limitate dalla definizione della prognosi.

È un aspetto questo che deve allertare i clinici e gli psicologi in particolare, che sono più frequentemente interpellati dalla scuola materna, a non eccedere facilmente in diagnosi di questo tipo che sembrano ineluttabilmente legate, o addirittura avviate per il tipo di interventi, a delle prognosi sfavorevoli.

Il rischio di sotto-diagnosticare o al contrario di eccedere in falsi positivi è stato affrontato anche dagli altri sistemi diagnostici e in parte da (loro ridimensionato dalla selezione del numero di items necessari e sufficienti a porre la diagnosi (da 8 su 16 si è passati a 6 su 12).

Tuttavia, per il crescente interesse e incremento di conoscenze in questo ambito di patologia ad esordio precocissimo stiamo assistendo ad una pericolosa inflazione nell'uso del termine "autistico" con il rischio sopra ricordato di etichettare così anche quadri clinici reversibili e di vincolarli ad una prognosi sfavorevole.

Assume pertanto particolare importanza nell'attualità identificare criteri molto accurati, apparentemente sofisticati poiché ancora poco usati nel bambino molto piccolo o in età prescolare, per realizzare una semeiotica che potremmo definire psicobiologia, che ci permetta di esplorare in una relazione dinamica, interattiva di gioco con lui, le diverse aree di funzionamento (comportamentale, cognitiva, linguistica e affettiva) nelle loro componenti basilari: dalle caratteristiche dell'affettività e del tono dell'umore, ad esempio, ai vari tipi di attenzione e di memoria, al tipo di evitamento attivo o passivo, ai peculiari aspetti della comunicazione verbale o non verbale e ai possibili contenuti narrativi ecc. (Musetti et al., 1999) Cong.Hamb.

Ascolterete, nel corso di questa giornata, relazioni dettagliate e illuminanti su questo e su altri aspetti del disturbo autistico dall'eziopatogenesi, alla semeiotica, all'evoluzione nelle varie età, alle strategie di intervento via via proposte nell'arco degli anni. Ma per parlare di autismo oggi non ci si può esimere dal cercare di trovare un filo conduttore che tenti di aggregare i molti dati emersi dalla ricerca sperimentale e clinica in questi ultimi anni su questo tema. Tentare di tentare di costruire una rete di conoscenze in cui possano aggregarsi ed acquistare sempre maggior significato i diversi parametri esplorati é un'operazione obbligatoria e indispensabile perché i risultati apparentemente più disparati che emergono di giorno in giorno, con velocità sorprendente, dai vari ambiti di ricerca (dalla genetica alle neuroscienze, dalla psicologia cognitiva alla psicopatologia dello sviluppo) possano diventare di momento in momento altrettanto rapidamente utilizzabili ai fini diagnostici e terapeutici.

Per quanto Kanner avesse percepito che la sindrome autistica rappresentasse una inabilità innata a sviluppare relazioni sociali con gli altri, presente sin dall'inizio della vita, e sia stato il primo a ipotizzare una base genetica (ricordiamoci che egli fu molto riluttante ad applicare la diagnosi a bambini con ritardo mentale o a quelli che avevano patologie cerebrali conosciute), il dibattito tra i sostenitori dell'autismo come derivato di una disfunzione innata nell'individuo e quelli che lo ritenevano la conseguenza di una deprivazione psicosociale continuò a lungo in carenza di dati chiarificatori al riguardo.

Mentre una valutazione adeguata della possibile origine psicogena o ambientale dell'autismo infantile risultava sempre più difficile e meno probabile, si sono andati accumulando dati sempre più numerosi e significativi a sostegno dell'esistenza di una lesione/disfunzione cerebrale sottostante che potrebbe essere il risultato non di una sola eziologia, ma di molte, ognuna delle quali potrebbe potenzialmente causare tale lesione/disfunzione.

Non si può escludere che i vari agenti eziologici possano agire attraverso una unica "via-finale comune" e che quindi esista un solo meccanismo patogenetico in grado di spiegare tutti i casi di autismo (Frith et al., 1991).

D'altro canto si ritiene anche possibile che possa esistere più di una forma genetica con espressione variabile. Gli aspetti neuropatologici di alcune malattie con una eziologia genetica (come la sindrome dell'X-fragile, la sindrome di Joubert, la sclerosi tuberosa) che presentano un coinvolgimento privilegiato di alcune strutture(ippocampo, corteccia temporale e verme cerebellare) sono andate via via incrociandosi, confrontandosi e convalidandosi reciprocamente con dati provenienti dallo studio di modelli neuroanatomici o neurofisiologici indagati con le tecniche più sofisticate (SPET, PET e MRI funzionale), giungendo a indicare varie e diverse strutture che possono risultare compromesse o meno nei singoli casi (Deb e Thompson, 1998).

I rilievi più frequenti riguardano il cervelletto e il cervello emotivo, ovvero le strutture limbiche (amigdala, ippocampo, setto, cingolo anteriore e corpo mammillare), regioni importanti per la processazione delle informazioni, specie quelle sociali, provenienti dall'ambiente, e l'amigdala, in particolare, per l'importanza nel riconoscimento delle emozioni nell'espressione facciale e nel deficit della capacità di riconoscimento della direzione dello sguardo.

Altrettanto documentata, anche se meno frequentemente indagata, è la compromissione dei lobi frontale e temporale nonché del tronco dell'encefalo. Meno indicative e meno specifiche sono risultate le ricerche neurochimiche sui livelli liquorali, plasmatici e urinari dei neurotrasmettitori anche se il dato più consistente sembra l'iperserotoninemia riscontrata nel 30-50% dei casi (Chugani et al., 1997).

Anche una possibile disfunzione del sistema dei peptidi oppioidi e neuropeptidi presenta ancora tante variabili nei risultati da renderne difficile ogni interpretazione (Guareschi Cazzullo et al., 1999).

È sostenuto ormai da molti studiosi che nella patogenesi dell'autismo esista un qualche tipo di influenza genetica anche se ancora non definita con sufficiente chiarezza nelle modalità di trasmissione.

La ricerca nell'ambito clinico documenta come una serie di patologie neurologiche, dismetaboliche, endocrine e quelle causate da incidenti e da infezioni che avvengono in periodo pre o postanatale possano associarsi all'autismo.

Nonostante la diversità manifesta di queste malattie sembra esistere tra esse un denominatore comune nella misura in cui tutte sono in grado di interferire negativamente nello sviluppo del sistema nervoso centrale.

È ragionevole credere che il disturbo intervenga in fasi molto precoci dello sviluppo e che possa consistere nella persistenza di circuiti fetali negli stadi più avanzati dello sviluppo. Gli effetti dello sviluppo anatomico prenatale possono rimanere silenti fino a che i particolari circuiti non vengono integrati nei nuovi sistemi che si organizzano in età più avanzate a ciò potrebbe imputarsi il riconoscimento del disturbo autistico nei primi tre anni di vita piuttosto che alla nascita.

In effetti quando si considerano insieme gli studi neuroanatomici e quelli funzionali si ha l'impressione di una immaturità dell'albero dendritico neuronale. Quanto ritrovato nel sistema limbico può riflettere una riduzione della connettività di queste strutture con altre regioni del cervello.

Sembra acquistare credibilità l'esistenza di un incompleto sviluppo delle reti neuronali distribuite nelle aree corticali associative frontali e parietali che sono coinvolte nei complessi processi di elaborazione delle informazioni, e precisamente in quei sistemi esecutivi e cognitivi sociali coinvolti nel trasferimento delle informazioni da una regione all'altra del cervello.

Per meglio comprendere la sindrome autistica è quindi importante partire da una concezione multifattoriale e considerarla come una perturbazione generalizzata e grave del processo di sviluppo che assume caratteristiche particolari, meglio comprensibili se si fa riferimento da un lato alle caratteristiche peculiari della patologia dello sviluppo e dall 'altro a dei modelli di funzionamento cerebrale, altrettanto peculiari, nel bambino e nell'adulto, in relazione ai tempi del loro organizzarsi.

Inizierò con l'accennare ad alcune caratteristiche proprie della psicopatologia dello sviluppo (Guareschi Cazzullo et al., 1998, Cap. 2, pagg.9-16).

Essa ha caratteristiche peculiari in quanto è dominata dalla dimensione temporale degli eventi sia biologici che psicologici.

L'importanza della dimensione temporale del processo evolutivo emerge con particolare evidenza nella maturazione del SNC. È un processo complesso che interessa la progressione degli eventi biologici di sviluppo, scanditi nel tempo con molta precisione e coordinati da una programmazione geneticamente determinata. Tuttavia poiché il DNA contiene un numero limitato di informazioni, non tutti gli eventi dello sviluppo, possono essere controllati direttamente dai geni. La maggior parte dei fenotipi comportamentali non è completamente dominata dal genotipo, ma è il risultato dell'interazione tra questo e l'ambiente.

Ne deriva che le sindromi cliniche del bambino sono sostanzialmente influenzate dagli eventi ambientali a partire dal livello molecolare, biologico, a quello sociale.

Gli esiti dello sviluppo sono il risultato dell'azione reciproca tra il bambino e il contesto nel tempo, in cui lo stato dell'uno influenza il successivo stato dell'altro in un processo dinamico continuo secondo un "modello interattivo" (Sameroff, 1996).

Questo aspetto sollecita il clinico a considerare con particolare attenzione anche le caratteristiche individuali, il temperamento di quel bambino e l'effetto che egli esercita sull'ambiente.

Il risultato varierà in relazione ai tempi in cui gli eventi accadono e potrà causare deficit grossolani, strutturali, o deficit funzionali da mettersi in relazione all'emergere della connettività neuronale nel cervello e alla selezione di gruppi neuronali che avviene sulla base dell'esperienza analogamente a quanto si verifica nel processo evoluzionistico della specie (teoria del darwinismo neurale di Edelman, 1991). Questa teoria si fonda sul concetto evolutivo di una rete di cellule nervose in cui alcune connessioni vengono rinforzate e altre indebolite o perdute in relazione agli stimoli forniti dall'ambiente dopo la nascita.

Il passaggio da un repertorio primario di strutture anatomiche funzionali a un repertorio epigenetico secondario di abilità funzionali, indotto dalle interazioni con l'ambiente sta alla base delle modificazioni morfologiche e funzionali del sistema nervoso in rapporto all'età.

Anche la specializzazione dei meccanismi biochimici responsabili della sintesi dei neurotrasmettitori è influenzata da fattori epigenetici (sperimentalmente il cambiare terreno di cultura dove stanno crescendo cellule gangliari può portare alla trasformazione dei neuroni adrenergici in colinergici) oltre al fatto che il variare dell'equilibrio dei diversi sistemi noradrenergico, serotoninergico, dopaminergico ecc. può portare a patologie diverse età correlate nel bambino e nell'adulto (ad es. l'Encefalite di Von Economo portò al morbo di Parkinson nell'adulto e alla sindrome

ipercinetica nel bambino).

In relazione a questi sistemi e alle complesse interazioni genotipo e fenotipo si riconoscono dei disturbi della autoregolazione biologica e comportamentale che intervengono in età molto precoce e che sempre più richiamano l'attenzione del clinico agli stati affettivi, a quelli attentivi e di coscienza e ai processi di memoria. Le funzioni di "arousal attentivo" e "tono affettivo" verosimilmente utilizzano gli stessi sistemi neurotrasmettitoriali per cui nella patologia dello sviluppo si colgono spesso gli stretti rapporti tra cognizione e affettività.

L'arousal affettivo operando a livello delle strutture limbiche, vero carrefour anatomofunzionale di emozioni e memoria, è in grado di innescare o inibire l'accesso in memoria di eventi positivi o negativi. Uno specifico stato emozionale può quindi "marcare" anche dal punto di vista cognitivo esperienze personali diverse.

Il richiamo sempre più pressante ad esplorare queste funzioni nel bambino anche molto piccolo è suffragato da una serie di conoscenze sull'emergere delle funzioni corticali superiori già in età neonatale (Diamond, 1990).

Il processo che realizza il passaggio dalle sensazioni alla conoscenza (nel senso di cognizione o meglio consapevolezza della conoscenza) avviene con una serie di modificazioni funzionali molto complesse nell'arco dei primi anni di vita.

La struttura che consente al neonato di poche settimane di riprodurre le espressioni del volto dell'adulto dinanzi a lui, cioè che consente delle integrazioni transmodali tra afferenze di varia provenienza è riconosciuta nel collicolo superiore della lamina quadrigemina. La sua struttura è caratterizzata da poche cellule nello strato interno, definite multisensoriali in quanto recepiscono le informazioni sensoriali specifiche inibendosi o attivandosi reciprocamente in relazione alle caratteristiche degli stimoli, e da un'unica uscita motoria.

È una struttura fondamentale per gli apprendimenti impliciti (vedi riflesso di orientamento) e sostituisce quello che nei soggetti adulti è svolto dalle aree associative corticali in stretta relazione con le strutture limbiche e paralimbiche conosciute in toto come aree transmodali. Il trasferimento di queste funzioni transmodali dal collicolo superiore alla corteccia si realizza gradualmente solo al termine del primo anno di vita per perfezionarsi poi negli anni successivi.

Se ci trasferiamo nel soggetto adulto (Mesulam, 1998) ci rendiamo conto di quanto molto più complesso sia 10 stesso processo. Esso infatti coinvolge connessioni sinaptiche di diverso livello funzionale e reti neuronali neurocognitive a larga diffusione che forniscono epicentri anatomici e computerazionali per la trasformazione dei dati sensoriali in rappresentazioni.

Confrontando i due modelli possiamo renderci conto di quante variabili possano intervenire e interferire nei vari tempi del procedere delle linee di sviluppo. I percorsi evolutivi patologici, cioè distorsioni abnormi e più o meno gravi delle linee di sviluppo, potranno derivare sia dalla distruzione degli epicentri transmodali che collegano i vari livelli delle reti sinaptiche, sia solamente da disconnessioni e disfunzioni che interferiranno in modo diverso sui vari tipi di trasformazione.

Almeno 5 di queste reti neuronali neurocognitive sono state ben definite: il network per la coscienza spaziale si basa su epicentri transmodali nella corteccia parietale posteriore e nell'area frontale per i movimenti oculari; il network per il linguaggio con epicentri nelle area di Wemike e di Broca; il network per la memoria/emozione esplicita con epicentri nel complesso ippocampo-entorinale e amigdala; il network per il riconoscimento di faccia/oggetto con epicentri nella corteccia del polo temporale e temporale media; il network per la funzione esecutiva/memoria di lavoro con epicentri nella corteccia prefrontale laterale e forse nella parietale posteriore.

Senza voler entrare nel dettaglio dei livelli più alti di funzionamento, basta qui sottolineare l'importanza che nell'espletamento di queste trasformazioni viene data alle modulazioni dell'attenzione, emotive e motivazionali correlate alla memoria di lavoro, alla ricerca del nuovo e di nuovi comportamenti. In definitiva a quelle rappresentazioni mentali che consentono a ciascun individuo di crearsi una versione del mondo altamente soggettiva ricca di significati piuttosto che di informazioni sulle proprietà specifiche degli eventi sensoriali.

In questo senso le capacità trasformative non sono deputate necessariamente alla fedeltà delle rappresentazioni ma piuttosto ottimizzano il valore adattativo dei comportamenti che sono guidati dalle più rilevanti percezioni e dalle loro elaborazioni più significative.

Una conseguenza ulteriore di questo processo fa emergere capacità di introspezione e di consapevolezza di se che portano poi a ritenere che anche altri e altri ancora abbiano queste capacità.

Le molteplici connessioni tra i vari livelli sinaptici e l'ulteriore influenza della memoria di lavoro introducono una vasta espansione spaziale e temporale del tessuto neuronale che lega le sensazioni alla cognizione.

L'architettura sinaptica delle reti neuronali su larga scala e le manifestazioni della memoria di lavoro, della ricerca di nuovi comportamenti e le rappresentazioni mentali agiscono tutti insieme a far perdere la rigidità del sistema stimolo-risposta che domina il comportamento nelle più basse specie animali. Questa azione fa sì che induca l'emergere del Il ordine di rappresentazioni, quello simbolico, legato al linguaggio che faciliterà e arricchirà ulteriormente il processo di trasformazione.

In questi sintetici richiami neuroanatomici e neurofunzionali che consentono il passaggio dalla sensazione alla cognizione o consapevolezza del conoscere possiamo ritrovare i presupposti di alcuni tra i più recenti e validi approcci teorici al disturbo autistico:

  1. quello del modello cognitivo meta-rappresentazionale, basato sulla teoria della mente, la capacità cioè di poter attribuire stati mentali ad altre persone che scaturisce come abbiamo accennato dalle capacità rappresentative più evolute (Baron Cohen, 1985);
  2. quello dell'intersoggettività che si riferisce alla con divisione reciproca delle proprie esperienze soggettive interne con un'altra persona ed ha strette connessioni sul versante affettivo con la teoria della mente (Roger e Pennington, 1991);
  3. quello della teoria emotiva che suggerisce il problema primario nello sviluppo affettivo per deficit nell'espressione e nella percezione emotiva e per un'incapacità a sviluppare relazioni con gli altri basate sull'affetto reciproco (Hobson, 1989);
  4. quella più recente che ipotizza un deficit esecutivo riferito a un deficit della memoria di lavoro che può appunto riflettere una sottostante patologia cerebellare come sostenuto da diversi A.A. (Schmahmann,1998).

Questi richiami alle caratteristiche della patologia dello sviluppo e ai numerosi e diversi aspetti strutturali e funzionali che possono emergere da percorsi evolutivi differenti in relazione ai tempi e al tipo di eventi patologici, cioè allo storia individuale e familiare di ogni bambino, portano a ribadire:

  1. il principio di una genesi multifattoriale del disturbo;
  2. di manifestazioni cliniche che sembrano realizzare quadri sovrapponibili solo se ci limitiamo a un approccio descrittivo;
  3. le diversità sono implicite nell'unicità e irripetibilità del percorso anomalo di sviluppo proprio della storia di ciascun bambino;
  4. la possibilità che esista un solo meccanismo patogenetico in grado di spiegare tutti i casi di autismo in quanto dati anatomici e neurofunzionali apparentemente dislocati in strutture diverse convergono a richiamare l'attenzione a un processo fondamentale per la vita mentale che riguarda la trasformazione o il passaggio dalle sensazioni alla cognizione;
  5. molti anelli nell'organizzazione di questo processo dalla nascita all'età adulta non ci sono ancora noti, tuttavia i numerosi contributi della ricerca in questi ultimi anni ci hanno avvicinato sempre di più alla comprensione di questo straordinario passaggio di qualità funzionale senza indurci in trionfalismi di certezze poco proficue ad ulteriori progressi della ricerca;
  6. di molte di queste nuove conoscenze è doveroso tuttavia prendere coscienza, essere consapevoli, per usufruirne non solo nella definizione diagnostica, ma soprattutto per tradurle in una oculata scelta dei possibili interventi terapeutici.

Credo che emerga dal meccanismo di base che ho cercato di delineare e dalle strutture coinvolte, come nel bambino autistico sia opportuno attivare le funzioni generalizzatrici del cervello. Dilatare cioè il più possibile lo spazio che intercorre tra sensazioni e rappresentazioni al fine di ridurre il più possibile la rigidità del sistema stimolo-risposta.

Questo significa privilegiare la modulazione dell'attenzione e degli affetti, privilegiare la memoria dichiarativa e la comunicazione narrativa in un contesto affettivo interattivo, rispetto ad attivazioni di funzioni specifiche e settoriali, come può essere ad es. il linguaggio, attivazioni improprie che possono conferire alla funzione stessa un effetto alienante.

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