"Contributi alla psicoterapia delle demenze"
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PRAGMATICA DELL’ E.I.T. nella DEMENZA
Romeo Lucioni e Giuseppe Andreis
"… la verità non è un'idea da contemplare
né una dottrina da scrivere, ma …
una persona da amare!"
(André Frossard)
Le problematiche medico-assistenziali poste dalla malattia di Alzheimer riguardano la eziopatogenesi, ma anche e soprattutto la terapia, poiché sino ad oggi non si è trovato ancora un "qualcosa" capace di offrire sicurezza di cura per questi pazienti. In campo farmacologico studi approfonditi hanno evidenziato l’utilità degli anticolinesterasici, ma purtroppo anche queste molecole si sono dimostrate poco efficaci, poiché sono stati rilevati miglioramenti solo in pochi casi ed in forma temporanea (forse solo per 6-12 mesi).
Considerata la mancata risposta dei farmaci alle aspettative di numerosi pazienti sono stati sperimentati anche modelli terapeutici cosiddetti "non farmacologici" che, molto spesso, si riducono a meri tentativi o a interventi di counseling.
È però essenziale chiarire che una terapia non farmacologica non può essere considerata un insieme di semplici tecniche di accompagnamento e ludico-ricreative, ma deve rappresentare la possibilità di valorizzare le potenzialità residue del malato per ottenere un certo grado di recupero delle funzioni e di riabilitazione psico-sociale.
Ogni programmazione terapeutica deve avere un carattere scientifico, validato da interventi interdisciplinari, da osservazioni basate su tests riconosciuti o, comunque, su precise misurazioni che rispondono a scale predisposte ad hoc.
Per quanto riguarda l’E.I.T. dobbiamo rimarcare che il suo valore terapeutico è stato discusso e validato da numerosi incontri scientifici, dall’applicazione in svariate strutture; inoltre tutti gli operatori si avvalgono di una preparazione specifica ottenuta attraverso molte ore di stages, corsi, incontri ed un training teorico fondato sugli apporti delle scienze psico-neuro-biologiche, un approfondimento specifico della timologia, cioè della dinamica degli affetti puri, che riguardano il rapporto col demente e dell'uso della psico-dinamica e della psicoanalisi, ramo specifico di essa, per riportare all’Io le dinamiche prodotte attraverso queste tecniche di relazione.
Per diventare operatori è necessario possedere un titolo di Scuola media Superiore e frequentare i corsi della Scuola di E.I.T. che permettono di conseguire il diploma di specializzazione. La qualifica di "Direttore di corso" viene rilasciata solo a chi, al momento dell’iscrizione, possiede già una laurea in psicologia o la specialità in psichiatria.
La congiunzione complementare che unisce l’osservazione di quanto accade nel setting e la ricostruzione dei modelli psicomentali che sottendono ai comportamenti, risulta, nell’esperienza dell’ E.I.T., insostituibile per affrontare una patologia tanto complessa quale è la malattia di Alzheimer.
La psicodinamica e la psicoanalisi si sono dimostrate imprescindibili, accanto alle deduzioni bio-funzionali, per capire gli atteggiamenti ed anche i comportamenti messi in atto dalla relazione multidimensionale che si struttura nell’ambito del lavoro di gruppo.
Comprensione, ricostruzione, osservazione (che, a seconda della forma del contributo dell’operatore che prende sostanza nel "qui e adesso" della relazione) in funzione anche della disponibilità del paziente, costituiscono, tutte e tre considerate insieme, il nocciolo dell’ E.I.T., la sua meta, poiché si svolgono all’interno dell’operatore e non solo del paziente e contribuiscono a fare dell’ E.I.T. una costruzione che nasce nella relazione, ha il suo crogiolo nel terapeuta e non nel paziente soltanto.
Forse proprio questa possibilità operativa ha dato all’E.I.T. una importanza rilevante, ma è servita anche a strutturare un intervento a carattere terapeutico che ha centrato il suo obiettivo. Sebbene manchino ancora molte osservazioni e, soprattutto, la validazione sicura delle conclusioni, si possono accettare con rilevante margine di certezza i miglioramenti ottenuti sulla sintomatologia che conforma il quadro dementigeno, sia nell’area emotiva, che in quella affettiva e cognitiva.
Il metodo osservativo, insieme a quello riscostruttivo, risultano complementari e possono rappresentare una convalida reciproca, ma, soprattutto, si intravede che permettono di attivare un ampio campo di indagine attraverso la stessa rete degli operatori e quella dei parenti coinvolti. L’ E.I.T. tocca in profondità i legami famigliari tra demente ed i suoi parenti e noi terapeuti fungiamo da "terzo" di questa rete, inserito nel difficile rapporto fra il demente e la sua famiglia.
Da questo "fare da terzo" nasce una dinamica immaginaria che permette migliorare lo stare insieme che, a sua volta, produce effetti terapeutici attivati dall’immaginario quando viene reintrodotto.
TEORIA DEL METODO
La relazione terapeutica si svolge in un ambito di "sostegno", nel quale il terapeuta funge da Io-ausiliario che permette il transito delle esperienze attraverso un "ponte di validazione" per il quale gli oggetti tendono a strutturarsi e a rendersi permanenti.
Questi vissuti risultano "nuovi" per il paziente che ormai deve continuamente confrontarsi con la nebulosità e l’inconsistenza delle esperienze; in tal modo la risposta emotiva a carattere angosciante si trasforma in una "accettazione fiduciosa". È proprio questa "aspettativa fiduciosa" che caratterizza il rapporto terapeutico e lo apre a nuove esperienze che diventano accettabili. Il sorriso e l’assoluta tranquillità con cui persone, che hanno appena dichiarato di sentirsi angosciate per non essere più in grado di "fare", accettano i propri limiti, le proprie difficoltà che, a volte, sono veramente importanti, risultano sorprendenti, ma perfettamente giustificati.
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L’ E.I.T. offre al paziente un "appoggio vivo" che ha valore soprattutto perché condiviso, partecipato, sperimentato insieme ed è proprio questo "viversi alla pari" che fa nascere frasi come: "…vengo volentieri qui perché mi sento una persona!".
Il terapeuta-direttore nell’osservazione del lavoro svolto in ogni seduta tiene conto di:
per procurarsi dei mezzi per controllare situazioni disorientanti e difficili da sopportare perché coinvolgono gli operatori in prima persona o perché inducono nei pazienti trasformazioni mentre tentano di trovare un equilibrio tra ritrovate porzioni di libido oggettuale e narcisistica.
Considerare il ruolo del fantasma e lo stato delle idee preconsce è il modo con il quale il terapeuta riesce ancora a raccogliere qualcosa del mondo psichico del paziente; in altre parole è come entrare in uno dei nodi che caratterizzano la situazione di demenza.
Le idee preconsce rivelano il fantasma e, quando il soggetto vive la realtà, si producono idee preconsce e consce che, per certi aspetti, creano una situazione paragonabile a quella onirica. Si spiega così l’importanza di una tecnica come l’ E.I.T. nella quale il superamento di un Io-ausiliario porta il paziente ad una interiorizzazione affettiva che può essere conservata solo riconoscendola in un "altro", mettendo in atto così un meccanismo che assomiglia al sogno.
Nello svolgersi della seduta terapeutica si creano "interessanti momenti insieme" e "momenti di distacco" nei quali il paziente può cominciare a pensare, a "rappresentarci"; si permette che "parole", "oggetti interni", "rappresentazioni" restino agganciate perché accettate come punti di una rete di un "proto-pensiero" che, staccandosi dalla presenza e dalla percezione concreta, va strutturandosi come pensiero.
In questo modo il soggetto, grazie alla terapia, viene distratto dalla pulsione (che è indifferenziata), per essere attratto dalla causalità, dalla deduzione, dalla realtà: sulla costanza dei significati che lo allontana dalla confusione e dalla indeterminatezza.
Il recupero degli oggetti comporta una "consapevolezza di sé" basata sulla "soggettività" e l’auto-conoscersi che permette di cominciare a lavorare con l’Altro-Sé di fronte allo specchio. In questo modo, le sensazioni e le emozioni vengono ancorate ad un Sé che partecipa ad una relazione che si trasforma in scelta e che presuppone una memoria, quindi, una coscienza che obbliga a mettere a confronto ciò che si è percepito con ciò che percepiscono gli altri, creando così le basi del feed-back dell’affettività.
Per meglio spiegare la metodologia dell’ E.I.T. si è pensato di approfondire alcune tematiche che vengono affrontate in tutte le sedute terapeutiche.
GRUPPO TERAPEUTICO E TERAPIA DI GRUPPO
L’ E.I.T. è una terapia alla quale partecipano anche i parenti ed i caregivers e in cui si usano innumerevoli oggetti transizionali.
In questa psicoterapia la relazione biunivoca caratteristica si moltiplica e si intreccia tanto che anche l’oggetto della terapia tende a modificarsi.
Il terapeuta diventa un Io-ausiliario, cioè agisce come sostegno dell’ Io-debole del paziente, ma, nello stesso tempo, non deve risultare né troppo debole, né troppo forte, per evitare di creare rifiuti e/o opposizioni, facilitando così annichilimenti passivo-regressivi o una situazione di falso sé.
È importante fare collimare i livelli, in modo che il paziente possa riconoscersi nel "terapeuta", partecipando ad una dimensione di realtà che, nella relazione, si carica di affetti che rappresentano l’area dei "valori".
In questo modo, il lavoro di gruppo genera un "sistema" nel quale tutti crescono: i pazienti, gli operatori, i parenti, i caregivers ed il terapeuta.
Guardarsi negli occhi e leggersi nel profondo per il malato significa possibilità di recupero; per il parente quanto il suo caro non ha perduto e può riacquistare; per l’operatore la presa di coscienza delle proprie capacità e potenzialità empatiche e professionali; per il terapeuta la comprensione ed la possibilità di utilizzazione delle diverse relazioni.
In questa ottica, l’ E.I.T. assolve un ruolo sociale nel quale riconosciamo dimensioni affettive, di feed-back, di sottile osservazione dell’altro e di se stesso; in questo modo, i partecipanti non sentono più il bisogno di tamponare le perdite narcisistiche e le sensazioni di impossibilità e di incapacità.
Nel gruppo si scopre la pluralità, ma anche la permanenza e la stabilità degli oggetti, dei vincoli, delle esperienze; la realtà viene ridisegnata e la memoria si dilata con nuove esperienze mnesiche, con linguaggi diversi, con incontri, con inter-relazioni, con volontà di essere e di volere.
Il passaggio dalle esperienze senso-motorie a quelle emotive e, soprattutto, allo sviluppo delle funzioni affettive fondate sui valori, porta a strutturare quelle dimensioni che fanno parte di un Io-ideale gruppale e di un Io-ideale personale, ma, soprattutto, di valenze narcisistiche (secondarie) che portano al superamento delle dinamiche istintive, egocentriche ed onnipotenti.
Sottolineiamo la centralità dell’ affettività dei valori, proprio perché nell’ E.I.T. viene emarginato tutto quello che ha sapore di affettività erotico-sentimentale che, oltre a risultare una complicazione teoretica e procedurale, porta a vivere il rapporto in un’area di istintività e di piacere narcisistico primario che, alla fine, congiura contro lo sviluppo terapeutico, incanalando la relazione su versanti libidici che stimolano l’onnipotenza fantastica oltre che l’egoismo e l’egocentrismo regressivi.
Ritrovare il proprio Io ed il proprio Io-ideale significa superare le angosce persecutorie e cominciare a vivere una dimensione beatifica che supporta lo sviluppo positivo delle funzioni psico-mentali favorenti l’autoidentificazione e l’autovalorizzazione, "i primi passi" per organizzare le funzioni psichiche attraverso oggetti interni animati ed inanimati, stabili e confrontabili.
L’ E.I.T. è dunque una psicoterapia gruppale basata sulla relazione e con una precisa finalità di recupero funzionale psichico e mentale, capace di controllare le problematiche comportamentali e, prima di ogni altra cosa, quelle dinamiche profonde che risultano caratteristiche di una dementalizzazione che, forse, ha caratteri di autodifesa o, comunque, di reazione psicomentale.
IL LINGUAGGIO DEL CORPO.
La terapia di integrazione emotivo-affettiva –E.I.T- pone in primo piano il tema del linguaggio, parlato e non, che configura le basi della comunicazione e, soprattutto, proprio perché si tratta di una psicoterapia di gruppo, del rapporto con l’immagine del soggetto o dell’altro, che si sposta nel tempo e nello spazio, producendo un "ampio campo" dove agisce l’immaginario sostenuto dagli operatori e dal terapeuta.
In questo scenario, l’immaginario transita la comunicazione per formularsi come corpo (immaginario-parola-corpo) che si trasforma nella principale istanza del dominio del Sé e nell’espressione concreta della relazione.
Il corpo diventa nucleo significativo in quanto luogo di confluenza e di organizzazione di tutte le esperienze.
Se da un punto di vista teorico queste correlazioni prospettano il legame tra immagine ed affetti, resta però da considerare che la vera importanza dell’impostazione operativa si avvia nella considerazione dell’uso dell’immaginario con fini terapeutici, utilizzando appunto l’immagine o, in altra forma, il corpo.
Nell’E.I.T., il terapeuta-direttore non è solo il conduttore, ma è colui che immagina e, quindi, crea uno spazio di incontri e di vincoli, di percezioni originali e nuove, prodotte sia esternamente che internamente.
La creazione di uno spazio vincolare dell’immaginario, nell’ambito della terapia, permette di ricondurre al linguaggio anche il linguaggio del corpo (forse unico fondamento di utilizzazione possibile insieme alle emozioni ed agli affetti) che, con le sue caratteristiche relazionali a livelli di rappresentazione di cosa, acquista immediatezza e libertà, se sostenuto dal terapeuta. Il paziente diventa protagonista ed iniziatore della relazione, proponendo i suoi desideri ed il controllo dello spazio e del tempo nei quali le dinamiche del pensiero possono essere rilevate e riguardano osservazioni, speranza compattata, attesa del futuro.
Questo spazio comune dell’immaginario rappresenta il luogo da dove il soggetto parla, con parole che sono espressione di immagini (non sequenze esplicative), immagini parlanti, piene di significati che stabiliscono i vincoli; diventa l’ambito adatto alla creazione di materiale immaginario di una ricco e così sorprendente, da strutturare una commovente introspezione collettiva che agglutina il gruppo.
ATMOSFERA E QUALITÀ.
La "qualità" dell’esperienza dell’E.I.T. si scopre nell’atmosfera naturale (né forzata, né imposta) e spontanea (che colpisce chi partecipa per la prima volta), sulle dinamiche relazionali che, a volte anche drammatiche, sono sostenute da un impulso interiore irrefrenabile che supporta le esperienze, i tentativi, le conquiste.
Il soggetto-paziente non sembra però sorprendersi di questa atmosfera; vive come attore pulsioni, angosce, ribellioni, ma anche momenti di tenerezza, di slancio e di desiderio; si guarda, a volte, anche solo come spettatore (per es. nel lavoro allo specchio), senza percepire, forse, il filo conduttore del suo stesso discorso.
La qualità si potrà pertanto rendere visibile come effetti che diventeranno comprensibili sul piano clinico e valutabili con appositi indicatori.
La terapia si sviluppa attraverso il nostro porci come "oggetto ausiliario" o come "ciambella di salvataggio" in un mare indifferenziato nel quale il paziente fa un notevole sforzo per cercare di prendere contatto con "l’oggetto interno".
Il ritrovare, in parte o per intero, questo "oggetto interno", che lui, come demente, ha perso o ha destrutturato, darà il "segno" che, come sorriso o come volontà gioiosa a continuare il lavoro con noi, potremo leggere nello spazio che avremo cercato di strutturare.
L’atmosfera e la qualità della relazione e dell’intervento si leggono quindi nei "segni" che il paziente lancia e che il terapeuta raccoglie per continuare il tentativo di riagganciare le esperienze e trasformarle in rappresentazioni: la qualità della terapia si scopre da questo riuscito "aggangio di parole".
A questo punto l’effetto della relazione induce una rappresentazione immaginaria a carattere più ampio che ha effetto "moltiplicatore" e libera il soggetto dal dover percepire per poter pensare.
La qualità. in questi termini, non si misura più nel rendere valutabili questi effetti, oltre che leggibili e comprensibili sul piano clinico, ma dalla struttura del metodo che unisce l’osservazione di quanto accade nel setting, la ricostruzione dei modelli psico-mentali messi in gioco, l’atmosfera di compartecipazione e di spinta a crescere contro le valenze della perdita, la partecipazione attiva e comprensiva dei parenti e dei caregivers, la valutazione soggettiva dei pazienti e l’analisi dei confronti sulle modificazioni motorie, emotive, affettive e cognitive.
Proprio in questa dimensione si può leggere l’accettazione e la qualità della terapia, della quale i valori salienti sono:
Questo dimostra come il paradigma metodologico è sempre quello della cura che, attraverso situazioni pluri-soggettive organizzate, viene teorizzata e vissuta attraverso:
L’ESPERIENZA DELL’ IO.
L’ Io del demente è diviso in due: una parte ancora viva, mentre l’altra è sentita come morta; a seconda che la relazione d’oggetto si appoggi su l’una o sull’altra parte, l’economia psichica del demente ne è fortemente influenzata.
Un apparato psichico in disfacimento non è da considerarsi "assente" e, a questo punto, se ci poniamo come Io ausiliario, come oggetto vicariante apriremo una porta per poter "investire" sul malato.
In realtà, se ci togliamo dal semplice assioma della perdita, la demenza può essere considerata più che uno sconvolgimento, un enorme sforzo del soggetto per riprendere contatto con l’oggetto interno (momentaneamente o definitivamente perduto). L’ Io ausiliario, assumendo il ruolo di oggetto interno, attenua la crisi perché l’oggetto sostitutivo dona tranquillità; in questo si comprende perché nell’ E.I.T. i pazienti sono sempre tranquilli e disponibili a lavorare, a impegnarsi, mostrando un sorriso ed una soddisfazione intima.
Ciò che promuove il cambiamento è il vissuto di uno stato di benessere che non va inteso come tranquillità-silenzio-solitudine, bensì come rilancio di un’attività di pensiero accompagnato dal conseguente "piacere al funzionare".
L’attenzione rivolta ai contenuti psichici si distacca sia dal "nirvana" della riduzione dell’imput sensoriale, che dalla situazione di "stimolazione" a cui tende una imposizione dal di fuori, che non è altro che una specie di prova d’esame.
IL SAPERE AFFETTIVO.
Per evitare uno stato di dipendenza che può indurre anche crisi di aggressività e di opposizione, bisogna sostenere il demente con una "funzione ausiliaria" che gli permetta di affrontare le "angosce di annientamento", ma, soprattutto, di sperimentare un proprio "sapere affettivo" che gli fa riconoscere che almeno i sentimenti non svaniscono dentro di lui e che, anzi, sono fruibili.
I pazienti Alzheimer, nella partecipazione e nella comunicazione, mantengono e sviluppano un senso affettivo; nel lavoro di gruppo riescono ad abbracciare, accarezzare o, comunque, a rispondere ai comandi del Direttore, mentre risulta loro molto più difficile esprimersi con gli altri partecipanti.
In questo modo si evidenzia come lo stimolo affettivo sia capace di attivare la comprensione nelle sue valenze personalistiche (emotivo-affettive), ma non in quelle cognitive che sono, di per sé, intellettivo-deduttive.
Come dice Gerard Le Gones (1991), nel processo di disorganizzazione mentale del demente, sul piano della coscienza, i dati cognitivi si cancellano e, a livello inconscio, avviene una decostruzione sia del narcisismo che dell’oggettualità.
Questo, insieme allo svanire della memoria recente, conduce alla perdita della capacità di pensare (elaborazione cognitiva, analitico-deduttiva) che agisce in maniera parziale, utilizzando resti mnesici come engrammi.
Finché é possibile mantenere queste risposte emotivo-affettive integrate, con l’appoggio della percezione, si potrà conservare un senso di identità ed una capacità di adeguarsi alle esperienze, oltre a far vivere un "piacere di funzionare", almeno in senso affettivo, che sottende all’autostima e ad una progettualità fondata sulla volontà e sul piacere delle scelte.
Nella relazione "affettiva" (fondata sui "valori") con il terapeuta è insito quell’ OK-paterno che "scalda l’ambiente e permette al soggetto d’essere se stesso, di scaricare la propria aggressività, valorizzare il desiderio e la volontà che, altrimenti, vengono vissuti solo come distruttivi.
Nel rapporto con l’ altro, invece, manca l’ OK che gli permette di dire "… sono contento di venire qui perché ritrovo me stesso e la coscienza di essere una persona" e di
agire la propria motricità.Il calore della relazione acconsente di ritrovare l’immagine di se stesso che, "può", almeno affettivamente; la terapia non contenitiva, come è appunto l’ E.I.T., permette di non creare punti morti, ma, al contrario, di offrire al paziente la sensazione che c’è qualcos’altro al di là di ciò su cui ci siamo soffermati. Queste "parole" immesse nella relazione, creano immaginario, dimostrando come esso possa essere creato partendo dal simbolico.
VEDERE DAL DI DENTRO.
L’angoscia della perdita ha sempre il carattere di catastrofico perché vengono meno le prospettive, proprio quando l’oggetto ausiliare dà un appiglio, si … riaccende la speranza, espressa come desiderio a continuare.
In questo contesto, l’ E.I.T. assume una particolare valenza proprio perché, quando gli "oggetti" sono esistiti nel passato, possono essere recuperati attraverso la relazione che si stabilisce nel setting psicoterapeutico.
Lavorare su "cose" concrete e misurabili (motricità) insieme ad un atteggiamento attendista e dI interessamento, porta il paziente a utilizzare, dal di dentro, le sue capacità residue ed a scoprire momenti piacevoli (anche se questi possono mobilizzare censure e/o blocchi). L’imposizione a fare e la struttura educativa di altri interventi, che trasformano il paziente in buono o cattivo alunno, conducono, al massimo, a funzionamenti imitativi e compiacenti che riportano al senso di perdita, di disabilità ed alla volontà di rinuncia.
Se, nel suo stato di grande debolezza psichica, il paziente vive l’incubo dell’obbligatorietà, già insito nelle difficoltà quotidiane, si rischia che possa vivere la paura di essere abbandonato e di "lasciarsi cadere", la perdita della fissazione della psiche nel corpo, del senso di realtà, della capacità di stabilire una relazione con gli oggetti e, quindi, uno stato di non integrazione psico-mentale.
L’INTERESSE PER IL COGNITIVO.
Un segno caratteristico della malattia di Alzheimer è la perdita delle funzioni cognitive, prime fra tutte la memoria e l’attenzione; in questo senso, la valutazione quantitativa della perdita è essenziale.
Nell’approccio al demente attraverso l’ E.I.T., l’interesse per il cognitivo traspare nella ricerca del significato del decadimento che diventa, in questo modo, focalizzare l’osservazione sul comprendere l’espressività, le reazioni agli stimoli e le ripercussioni "psicologiche" che il declino comporta sia per il soggetto, che per le persone a lui vicine.
Scoprire il "senso della perdita" significa anche fornire al demente la possibilità di "essere pensato" che, se da un lato è fonte di "preziosità", dall’altro fornisce uno "strumento" per "pensarsi".
Questo comporta riscoprire come e perché ci si muove; ridare valore alle emozioni rivivendole come fonti di ricchezza percettiva e di carica energetica per il funzionamento psichico; fondamentare il valore degli affetti ed, in ultima analisi, riscoprire la fonte dei "pensieri" dando spessore alla funzione cognitiva.
Proprio questo sostiene la funzione di pensare (da parte del terapeuta) e di pensarsi (per il lato del soggetto), dando valore alla relazione, inducendola ad assumere la dimensione di ponte per il passaggio di piccole cose che vanno a riempire il "buco nero" o "vuoto mentale"; per Freud il pensiero implica una condizione di "giudizio", ovvero la capacità di stabilire "cosa c’è dentro e cosa fuori dal Sé.
In questa dinamica, assume importanza centrale il concetto di percezione, come trait d’union tra la costituzione del proprio senso di essere e lo strutturarsi del "cognitivo" che, articolandosi attraverso l’esperienza, diventa, per il soggetto, garanzia di un proprio senso di verità.
Nel demente questa sicurezza tende a venir meno, così che il soggetto sente di poter fare poco affidamento sulle proprie percezioni; in questo modo il cognitivo perde la sua funzione di "mediatore dell’angoscia" e il paziente presenta allucinazioni e discorsi deliranti, mostrando così, in maniera regressiva, una paradossale padronanza sul mondo delle rappresentazioni e, di rimando, nell’ambiente e nel Sé.
Questo funzionamento mentale assume nella demenza il significato di una regressione che può essere intesa come ultimo tentativo dell’apparato psichico per ritrovare un certo piacere di funzionare.
Il funzionamento psichico può essere considerato composto da due parti:
A – una arcaica che sottende all’identità percettiva:
B – una evoluta che sottende ad un’identità simbolica che è il risultato di
rappresentazioni simboliche del Sé e della realtà e che si configura nel
riflesso dello specchio e nello sguardo dell’Altro.
L’immagine di Sé deve essere considerata come un importante investimento dell’Io attraverso:
Questi due meccanismi psichici contengono componenti difensive che appunto servono all’Io per mantenersi valido e permanente.
Tali riflessioni hanno portato l’ E.I.T. a dare un senso alla regressione, intesa come meccanismo adattivo e compensatorio dell’attività mentale, con la quale c’è spazio per lavorare, sempre che si sia in grado di ri-conoscerla e di darle valore, leggendone la significazione.
L’incontro con il soggetto demente, reso reale, valido e creativo, implica per lui l’assunzione di una posizione terza, in virtù della quale il cognitivo deficitario, grazie alla relazione, si riappropria del "senso di verità".
Assume così importanza l’attribuzione di specificità dei soggetti in gioco ed il rapporto può moltiplicarsi, nella relazione terapeutica dell’ E.I.T., nella dimensione dei ruoli del terapeuta, degli operatori, dei caregivers e dei parenti.
La necessità di un interlocutore che fondi la propria professionalità sulla cosiddetta teoria della relazione implica il ribaltamento dell’ottica tipica dei modelli riabilitativi.
Nell’ E.I.T., dunque, non si trotta semplicemente di immettere spunti di relazionalità e di cognitività (di memoria e di attenzione), ma di articolare una complessa e fondata strategia di riabilitazione relazionale.
Attraverso questo approccio, ogni interlocutore assume, nel gruppo terapeutico, un ruolo speculare e strutturante: la formazione di ponti cognitivi ("ponte di cuore" o "relazione d’oggetto") si avrà solo susseguentemente allo sviluppo di rispecchiamenti positivi e, quindi, dopo un recupero di rappresentazioni mentali condivise, non necessariamente codificabili (vedi differenza tra rappresentazioni di cosa e rappresentazioni di parola).
Si tratta di stabilire una consapevole relazione nella quale la "consapevolezza" si riferisce al rendersi conto di quei tentativi di teorizzazione sui quali si basano sia "scambi" che passano sul "ponte di cuore", sia gli oggetti terapeutici che vengono, di volta in volta, sottolineati e valutati.
Per riassumere, si può sottolineare come il controllo ed il reincanalamento dell’esplosività emotiva (che, di per sé, può essere considerata una componente regressiva della patologia dell’Alzheimer) determinano un reinvestimento affettivo, attraverso la ricostruzione di valori significativi per il Sé. Tale aspetto può dunque considerarsi, nello studio del cognitivo, una utile prerogativa per una riabilitazione relazionale, più che cognitiva, in senso stretto.
IL NUCLEO MNESICO PERSECUTORIO
Le nostre osservazioni fatte attraverso l’ E.I.T. (Lucioni,1999) hanno portato a confermare la presenza, all’interno dello psichismo del demente, di un "nucleo mnesico persecutorio", già messo in luce da studiosi sudamericani (J.Pecheny e A.Kabanchik), che si riferisce ad un fatto critico pregresso (un anno circa prima dell’inizio della malattia) che si può riconoscere non come esperienza capace di mettere in moto un processo depressivo, ma come un evento che altera il "senso di sé profondo".
Potremmo dire che in questo meccanismo di formazione della "reazione demenziale" si possa riconoscere la presenza di un "nucleo dell’apparato psichico" che viene liberato dall’abbassarsi delle difese.
Accanto a questo "nucleo mnesico persecutorio" possiamo osservare come l’oggetto interno contenitivo e modulatore non sia più disponibile come riferimento strutturante e motivante; che l’oggetto sia stato introiettato e strutturato in forma poco adeguata; l’organizzazione sia incompleta e deficitaria, o anche si determini una impossibilità di accedere all’oggetto interno.
Si evidenzia, quindi, che:
La prima ipotesi non è confermata dall’osservazione clinico-psicodinamica poiché il funzionamento psichico ed i moti transferali fanno pensare che gli oggetti interni siano investiti in forma abbastanza solida.
Si può invece riscontrare l’effettiva presenza di resti dell’oggetto interno che resta ancora operante ed inoltre è attivo agendo un ruolo ancora parzialmente antidepressivo.
Questo vissuto critico può essere espressione di:
Ciò che si trova veramente compromesso nella demenza appartiene ai processi psichici secondari
mentre rimane ancora salvaguardata la capacità di riconoscere un clima transferale che si articola come buono o cattivo e che permette ancora operazioni supportate da equivalenti affettivi.
Questa è la spiegazione del perché bisogna intervenire subito ad analizzare il nucleo mnesico depressivo, prima che si generi un processo regressivo e distruttivo che fa perdere al paziente tutto lo psichismo guadagnato e/o recuperato.
Se qualcuno aiuta a spostare il peso del trauma, questo non sarà più esclusivamente del soggetto, ma si avrà un "punto terzo" vissuto come mediatore perché quella spaventosa realtà risulti meno angosciante.
Allora è chiaro perché il paziente ci può consegnare il suo trauma, che dobbiamo ricevere come un dono e non rimandarlo al mittente come diagnosi o come interpretazione. Se solo agiamo una blanda comprensione ed un accompagnamento, il paziente potrà vivere di non essere solo e, quindi, di poter superare il dramma esistenziale: non destrutturerà più la sua organizzazione psico-mentale nel tentativo fallimentare di annullare il ricordo conflittuale e persecutorio.
La quantità di materiale cognitivo, di mente e di cuore, che rimette in moto il nucleo conflittivo, permette di superare il trauma di essersi affacciati alla morte.
Altre voci psicotiche o nevrotiche che emergono a sostegno del nucleo conflittivo permettono di mettersi in relazione con la propria memoria e la propria soggettività, piuttosto che dover affrontare l’angoscia di una desoggettivizzazione.
CONCLUSIONI
L’E.I.T. è una psicoterapia fondata sulla psicologia dell’ IO, sulla psicodinamica e sulla psicoanalisi; proprio per questo apre le porte ad un’applicazione pratica che presuppone l’osservazione, da un lato, e l’interpretazione, dall’altro.
Anche nel rapporto con il demente, ogni sintomo diventa, nella sua singolarità, una esperienza analitica. Tale osservazione ha spinto a strutturare un modello terapeutico per l’Alzheimer, nel quale l’analisi si sviluppa nel rapporto ed il linguaggio del corpo e/o dei segni diventa un dialogo con l’inconscio: "l’inconscio è un sapere strutturato come un linguaggio" (J.D. Nasio,1998)
In altri lavori abbiamo messo in relazione la malattia con la destrutturazione dell’ Io e con le problematiche legate all’angoscia e alla percezione catastrofica della perdita; in altre parole, l’Alzheimer è sinonimo di "disagio" che si impone nell’interpellare se stessi sul significato delle cose, della realtà e delle persone che ci stanno di fronte: significato che sembra allontanarsi e/o dissolversi nella nebbia o nel "buco nero" della perdita della memoria.
Visto come disagio, come parole inaspettate, come "dettagli inattesi", come realtà che sfugge, l’Alzheimer o il malato-Alzheimer dà senso ad un rapporto terapeutico psicoanalitico nel quale l’incapacità del soggetto di trovare o di "fissare" la causa della propria sofferenza, giustifica la presenza di un Io-ausiliario che diventa terapeuta e che, prescindendo o ponendosi al di qua dell’interpretazione, diventa non "l’altro di me", ma "l’altro del mio sintomo".
Come dice J.D. Nasio, nella psicoanalisi il transfert è "… il particolare momento della relazione analitica in cui l’analista entra a far parte del sintomo del paziente"; nella stessa maniera, nell’ E.I.T. il terapeuta stimola e genera il sintomo, ne diventa causa (per esempio quando fa affrontare al paziente le sue limitazioni, i suoi … deficit), ma, in questa dimensione, i "segni", trattenuti nella relazione, si trasformano in transfert e, quindi, in dialogo, in linguaggio.
Il sintomo come segno è ciò che rappresenta qualcosa per qualcuno e, in questa speciale "valorizzazione" (l’analista fa vivere il segno come reale accettato) il paziente riscopre in sé qualcosa "di valore" e di autonomia che gli fa anche dire "… qui torno ad essere una persona" ; in questo "transitare", fondamenta il rapporto come ricostruzione di "Sé" e, quindi, come terapia.
Per altro lato, il sintomo come significato, nella sua dimensione di lapsus, di espressione involontaria e sprovvista di senso (nebbia, buco nero, perdita) pone una nuova domanda "… atta ad aprire l’accesso dell’inconscio, considerato come sapere: … l’inconscio è Sapere che il soggetto veicola, ma ignora!" .
In questa dinamica l’interpretazione diventa espressione non di sapere, ma di inconscio che, sostenuto da un transfert consolidato, diventa linguaggio, come afferma J. D. Nasio "… l’inconscio è un linguaggio che unisce i partner dell’analisi"; e ancora "… il linguaggio congiunge, il corpo separa", "… l’inconscio annoda, il godimento snoda" così come noi abbiamo evidenziato e descritto nella pratica dell’E.I.T.