LA PSICOANALISI PUÒ

CONTRIBUIRE ALLA CURA DELL'AUTISMO ?

Romeo Lucioni

 

Charles Melman ha posto un termine di sfida chiedendo agli analisti, in un dibattito nell'ambito della Associazione Freudiana Internazionale, di rinnovare la psicoanalisi partendo dalla clinica dei disturbi psicomentali dell'infanzia.

Ci sono teorie idealizzate che

gli analisti devono essere disposti

a migliorare o ad abbandonare

quando ne ascoltino di migliori

dai propri pazienti.

H.S. Bacal (modificato)

La messa a fuoco psicoanalitica dell'autismo partendo dalla clinica o, meglio, dalla pratica terapeutica, ha permesso di riscoprire la ricchezza di contributi metapsicologici di Lacan che sono stati a lungo lasciati in ombra.

Sebbene oggi sia ormai largamente in uso la terminologia adottata nella classificazione ateorica del DSM IV, "Disturbo globale dello sviluppo", è la denominazione psicoanalitica, che si riferisce a "Disturbo emotivo grave", quella che maggiormente si avvicina al quadro autistico caratterizzato da angosce, terrori e conseguenti ritiri, isolamenti e rifiuti.

L'impossibilità del bambino autistico di costituire una relazione interpersonale valida, lo pone necessariamente in un "tempo logico" anteriore alla costituzione dello stadio dello specchio.

Questo può essere organizzato, in maniera interessante, dal ruolo del terapeuta che, come agente reale, permette la costituzione di una immagine speculare.

La percezione di un terapeuta-cosa porta alla costituzione di un Sé simbolico attraverso il rispecchiamento (é nel terapeuta che l'autistico può rispecchiarsi con fiducia e con certezza) e da qui ricreare le valenze dell'immaginario.

Questa visione metapsicologica di incorporazione porta ad una concezione di bi-univocità per la quale diventa possibile il transfert, l'autoriconoscimento ed una crescita psico-affettiva che nell'autismo risulta bloccata.

La biunivocità, nel suo contesto etimologico di "bi" o "bis", non presuppone uguaglianza, bensì diversità nella quale si stabilisce la dimensione della "univocità" che significa comprensione, collaborazione, reciprocità, condivisione e fiducia.

La "asimmetria" di questa posizione nella relazione indica ciò che Freud dice con "… un nuovo tipo di relazione all'altro, con l'altro"; in questo riflettersi nell'altro che può, l'autistico trova la dimensione del proprio potere che acquista, di seduta in seduta, utilizzando un giudizio di qualità che supporta la crescita del suo narcisismo secondario.

Questo processo porta al recupero della via dello sviluppo ed argina la fuga o lo scivolamento nelle dinamiche psicotiche.



In questo processo G. Andreis dice che "il giudizio di esistenza è l'effetto della presenza del "significante padre" pienamente operante, mentre il giudizio di qualità è l'effetto dell'accoglimento del "significante padre", ma con declinazione esclusivamente duale della relazione".

Nell'autismo le problematiche psichiche e comportamentali possono essere riferite ad un mal funzionamento di strutture sia biologiche che psichiche che si trovano in formazione e/o in fase di strutturazione (R. Lucioni, "Terapia dell'autismo") e, pertanto, tenendo conto di quanto ha detto Freud parlando dell'angoscia e del sintomo ("Inibizione, sintomo e angoscia"), possiamo affermare che l' Io, con cui il terapeuta entra in rapporto per incontrare il Soggetto, si forma dalle stesse istanze dinamiche, dagli stessi "momenti" che individuano il sintomo.

Anna Freud, in "L'Io e i meccanismi di difesa", considerando questi momenti dello sviluppo, parla di Io come soggetto-oggettivato. In questa dimensione, il trattamento psicoterapeutico sarà inteso come intervento che, accettando, in linea di principio, l'esistenza nel soggetto di un sistema di meccanismi di difesa (Lacan), permette all' Io di ritrovare quelle dinamiche per le quali il Terapeuta-Io-ausiliario lo aiuta a raggiungere il proprio Io-integrato.

 



Nei modelli di trattamento che si basano sull'educazione, l'identificazione avviene con un "oggetto limitato" (per es. la mano sulla spalla nella F.C.) che porta l'autistico ad "accettare" la crescita in quel preciso ambito nel quale viene inscritto (per es. la comunicazione) e, per questo, il bambino continua a trovarsi come oggetto-sintomo perché da solo non può raggiungere il livello di "Soggetto" che presuppone un Io-integrato (che quindi significa anche: globale).

In altre parole, la terapia di integrazione, attraverso la relazione con un Io-ausiliario capace di promuovere "identificazione", permette all'autistico, come Io-fragile, di entrare in relazione con gli aspetti costitutivi del funzionamento normale che solo attraverso il terapeuta si può rappresentare e può utilizzare nel processo di integrazione psico-mentale.

La formulazione di Lacan porta a considerare un "senso del reale" che, più che una mancanza, risulta essere una necessità ineludibile per strutturare l'apparato psichico, ma anche un senso di sé, una autocoscienza ed un'autovalorizzazione.

La bi-univocità, sostenuta dalla fiducia (che è "fidarsi ciecamente"), porta l'autistico ad acquisire e poter introiettare oggetti stabili che, prima della terapia, erano costituiti come oggetti parziali, vaganti nell'Io e portatori di angoscia.

In questo processo, la vera meta libidica non è la ricerca del piacere, ma lo stabilirsi di soddisfacenti relazioni con gli oggetti che, investiti di libido, acquistano valore e diventano permanenti.

Oggetto parziale significa anche pulsione parziale perché con essi l'autistico non riesce a chiudere il cerchio della verità, che resta aperto e da lì fluisce il senso dell'incompletezza che supporta il desiderio e/o la necessità di riprovare, di ripetere l'esperienza sensoriale che gli serve per superare o contenere l'angoscia.

È un circolo vizioso perché l'oggetto parziale e la pulsione parziale lasciano un vuoto incolmabile che rasenta il senso catastrofico della perdita totale, della morte e dello "svanire nel nulla".

Il circolo vizioso supporta anche una sorta di frustrazione per la quale il soggetto, oltre al senso di incompletezza, vive quello di inefficienza, di insufficienza, di inadeguatezza.

Poter superare la frustrazione e l'angoscia è un processo delicato che

  1. presuppone la conquista di un Sé che può, che diventa oggetto interiorizzato, vero, permanente;
  2. porta a strutturazione dell'autocoscienza.

Per capire meglio questo "processo", possiamo riferirci all'esmpio portato da un paziente psicotico che diceva: "… io non ho bisogno delle cose, perché mi basta guardarle, anche da lontano, per avere dentro di me tutto ciò che si può sapere. Se guardo una cartolina dell'Egitto non ho più bisogno di andare là per conoscere tutto quello che si può sapere del Paese, perché ho già messo tutto dentro di me!".



A -



Dall'esperienza, intima e profonda, non può che derivare angoscia che è sostenuta dal dubbio di non possedere tutto ciò che si può conoscere dell'oggetto. Questo porta a una continua necessità di verificare (ripetere l'esperienza: riguardare la cartolina dell'Egitto), della coazione a ripetere, del non sopportare lo spostamento degli oggetti.

In questo caso la libido è investita nel soggetto e l'oggetto viene "buttato via" perché inutile, svalorizzato, pauperizzato.

 


B -

Il sapere diventa verità, quindi gli oggetti, interni e della realtà, possono diventare stabili, generando sicurezza, autocoscienza ed autosoddisfazione. La libido passa dal soggetto all'oggetto che, quindi, assume valore e viene investito di desiderio

Da qui si capisce come il pensare sia un effetto proprio dell'inconscio, cioè effetto del linguaggio e si comprende l'assioma per il quale Lacan pone il pensiero dove non si è o l'essere dove non si pensa.

In questo modo si dimostra come per la psicoanalisi la coscienza di sé non può, senza contraddizione, essere supposta come non essenziale; mentre per la scienza la coscienza di sé può, senza contraddizione, essere supposta come non essenziale (la verità è insita nell'esperienza, mentre per la psicoanalisi c'è verità solo se sostenuta da un processo di coscienza).

 

Da un altro punto di vista, il problema riguarda il superamento del narcisismo primario nel quale l' IO si trova rinchiuso e, da qui, il passaggio della libido dal soggetto all'oggetto permette il costituirsi di un principio di reciprocità che risulta fondamentale per la strutturazione di un normale funzionamento psichico perché non c'è desiderio senza oggetto.

La reciprocità equivale a salvare l'oggetto che comincia ad essere investito di valore ed anche di "verità"; non c'è più bisogno che il soggetto torni continuamente a dover verificare "la verità" attraverso l'esperienza concreta. In questo modo, viene superata quella che è stata chiamata la "dittatura dell'oggetto" e questo, al contrario, può finalmente entrare nell'area dell'immaginario per creare il simbolico o la "rappresentazione di parola", come dice Lacan.

Il "registro dell'immaginario" o "della reciprocità" viene vissuto quotidianamente come esperienza di identificazione che non è semplice poiché "… l'Io è costituito come un altro e l'altro come alter-ego" (La Planche - Pontalis).

Questo processo libera il soggetto dall'angoscia che deriva dagli oggetti parziali, proprio perché questi sono instabili e generatori di dubbio; paradossalmente il passaggio della libido sull'oggetto (amare l'oggetto) dà sicurezza, certezza, verità e … benessere psichico. È proprio questa la trasformazione del funzionamento psichico: si è attivata la funzione affettiva.

Nella terapia E.I.T. di integrazione emotivo affettiva, nella quale predomina la relazione ed il linguaggio non è verbale, ma corporale, è chiaro che non è il corpo concreto (corpo erotico) che stabilisce il contatto (libidinizzazione del corpo), ma il corpo come "corpo-vuoto" nel quale fluiscono i sentimenti.

Il meraviglioso di questo processo è che si crea, si accende e progredisce in un rapporto singolare con il terapeuta, in quella dimensione di "bi-univocità" che si basa su un atto istintivo che chiamiamo fiducia che trascina con sé l'attenzione, la curiosità e la soddisfazione.

La formulazione di un immaginario che si struttura a partire dal simbolico sovverte una concezione normalmente accettata, ma è la pratica terapeutica che la sostiene:



A - prima della terapia si può formulare uno schema come:

B - il ripristino delle funzioni psichiche porta a:


Nel concetto di bi-univocità si evidenzia uno spazio nuovo per la psicoanalisi nel quale il terapeuta perde la dimensione teoretica, si fa Io-ausiliario, diventa "cosa", si struttura come "spazio vuoto di sapere".

Nella terapia dell'autismo lo psicoanalista non analizza il transfert perché è lui che lo struttura creando immaginario, donandosi come Io-ausiliario e usando i corpi come "spazio di apprendimento procedurale".

L'autistico, attraverso l'azione, segue e riconosce la propria immagine nel terapeuta; attraverso la sensorialità accetta l'altro come fonte di contatto strutturante, come modello e come appoggio o sostegno ricco di fiducia e di qualità.

Il terapeuta deve essere capace di creare uno "spazio privo di sapere" che accolga l'autistico e gli permetta di trovare "ponti di cuore" che fanno fluire i pensieri e sostengono lo sviluppo.

Quando parliamo di "spazio vuoto di sapere" ci riferiamo al tema sempre dibattuto del leggere.

"Per leggere bene è meglio non avere letto prima e, quindi, non sapere!".

Lo psicoanalista che sa tutto come può leggere il proprio paziente che non sa dire?

Questo è il problema controtransferale, ma lo stesso tema riguarda il transfert proprio perché il bambino si trova nella condizione di essere di fronte ad un terapeuta che:

A - sa tutto; che, quindi, non ha bisogno delle sue parole e che gli impedisce di leggere quanto lui stesso potrebbe "scrivere" in un "luogo privo di sapere": "… l'educazione lo ottura!".

B - si è vuotato di sapere: la lettura viene fatta insieme, ognuno leggendo quello che può, quello che trova di nuovo e da qui sorge lo scambio, la possibilità di "riempire" la relazione. Terapeuta e paziente, indipendentemente, si avvicinano al "testo" da leggere, che loro stessi stanno scrivendo; entrambi trovano significati da condividere e da verificare insieme: hanno creato uno scambio, un dialogo, un'intesa ed un luogo d'incontro.

Nel modello operativo dell' E.I.T. è innanzitutto il terapeuta che entra in relazione e poi riflette-legge sul significato che la condotta autistica assume a partire dalla relazione stessa, nella quale paziente e terapeuta sono profondamente coinvolti.

Creare un luogo di non sapere equivale a creare una condizione di lettura possibile, dato che l'autistico non porta sapere (scrittura), né parole, né simboli.

L'analista di fronte ad un autistico, dovrebbe poter leggere il "discorso dell'analizzato", ma questi non parla, quindi, osserva e … "traduce", vale a dire legge suoni non detti, formule, immagini, gesti.

Nell'operazione di traduzione, l'analista crea un immaginario (immaginario dell'analista) che poi, in un "processo transferale di ritorno" che è "speculare", cerca di far giungere al paziente.

A questo punto, l'autistico può leggere quello che gli porge l'analista con il suo processo di trascrizione.

La lettura dell'analista non è alla lettera (poiché pone molto del suo: desiderio, volontà, speranza, invito, ecc.), ma, con questo, cerca di "promuovere immaginario" nell'analizzato.

Quando parliamo di "vuoto di sapere," intendiamo che l'analista deve resistere dall'introdurre una "immaginariazione" del significante tanto importante da occludere il processo e costringere l'autistico a tornare nel suo "angolo, in quell'area sequestrata, congelata ed arelazionale che è appunto "l'isolamento autistico".

Nello "stato preverbale" , precognitivo, prelogico, la realtà del bambino diventa pura percezione sensoriale, nella quale possono attirare l'attenzione certi "elementi ipernitidi" supportati da una maggiore investitura visiva (l'autistico scopre subito se ci sono oggetti a cui è stato cambiato il posto abituale, oppure qualche dettaglio scenico sul quale ve fissando il suo sguardo e la sua attenzione).

In questa logica il terapeuta crea il transfert su di sé, mettendosi dentro questo spazio relazionale; i cuscini, i veli, i bastoni, i cerchi sono "elementi concreti" che, usati nell' E.I.T., vincolano l'attenzione, sostengono l'investimento affettivo e aprono le porte alla comprensione.

Da qui si vede che il transfert non rispecchia un conflitto, ma, insieme al contro-transfert, crea la base e struttura i primi passi di uno sviluppo psico-mentale.

Luogo di non conoscere significa che l'analista che non trova qualcosa da dire (l'autistico non ha parole che aspettano una risposta) deve evitare di dire qualsiasi cosa (paranoia interpretativa) perché rischierebbe di autoperseguitarsi cercando significati.

Utilizza allora relazioni sensoriali, frammenti concettuali, espressioni simboliche per creare una "versione della realtà relazionale" che, pur restando fuori dalla rappresentazione, attraverso la ripetizione, può essere fatta accettare dall'autistico.

In questo mondo intricato di esperienze emozionali e di vissuti relazionali che quasi sono sogni, il terapeuta tenta una lettura del geroglifico, creando un desiderio (suo e del bambino). Non è qui però la difficoltà; il complicato è poter leggere senza un testo scritto precedentemente, leggere senza Freud, senza Lacan, senza nessuno, in quel "vuoto di sapere" che l'analista-lettore deve assumere, permettendo che la lettura si formi prima di poter scrivere il testo.

Il terapeuta, più che leggere, assume la tendenza di creare il "libretto" o quel testo che significa ritorno ai sogni come via di accesso all'inconscio.

Queste osservazioni sottolineano un profondo cambiamento del funzionamento dell'intervento psicoterapeutico e psicoanalitico che non resta più centrato sul conflitto (nell'autismo non c'è conflitto perché non ci sono gli oggetti e non si strutturano velenze edipiche) e con la formazione dello psichismo, degli oggetti interni e della realtà.

L'osservazione che si fa sempre nel setting terapeutico dell' E.I.T. è che, ad ogni seduta (anche se bisettimanale) si possono osservare notevoli miglioramenti nel comportamento, nella comprensione, nella strutturazione di un Io indipendente ed integrato.

Qui sta la notevole differenza con i pazienti psicotici perché gli autistici si distinguono per il fatto di poter rompere rapidamente le valenze di crescita strutturale e di ripresa dello sviluppo psico-mentale.

Compito dell'analista è far superare la "morte psichica" e richiamare il paziente "nella terra dei vivi", come dice Franco Borgogno (introduzione al libro Stati autistici …, Masson), ma ci scostiamo da questo autore in quanto non è proprio necessario "non essere esistenti" e neppure "non venire riconosciuti nel proprio essere persone".

Al contrario, l'analista, nel porsi inequivocabilmente come Io-ausiliario, nel seguire le proprie inclinazioni che sorgono dal "campo", nel porsi come modello da seguire, copiare ed imitare (Lucioni) porta il piccolo a trovare se stesso, la propria autostima ed un profondo senso di autosoddisfazione.

Come dice Borgogno, le condizioni emotive e gli stati psichici degli autistici possono essere definiti protomentali, sensoriali e presimbolici, ma richiedono la costruzione di un luogo di interazione e di convivenza di natura primaria per poter conservare la speranza di riuscire ad ottenere un risultato terapeutico.

La nostra esperienza però ci permette di affermare che, per ottenere buoni risultati in questo particolare spazio psichico (o "ponte di cuore", come dice Andreis), lo psicoanalista deve essere vissuto per quello che realmente è: un terapeuta.

La forza terapeutica dell' E.I.T. sta proprio in questo porsi davanti all'autistico come "quell'essere immensamente forte" che ha sempre vissuto invasivo e persecutorio dentro di sé, ma che invece è capace di suscitare, con la sua dedizione e la sua accettazione, una altrettanto enorme "fiducia": "credere di potersi fidare ciecamente".

Lavorando anche con pazienti schizofrenici salta subito alla vista la differenza, perché gli autistici dimostrano:

Lo schizofrenico, al contrario, oltre al gelo relazionale, dimostra una vera e propria opposizione che non può essere giustificata (questi pazienti normalmente parlano e, quindi, "dicono") dal momento che le risposte sono sempre: "boh!", "non so", "non capisco".

Con l'autistico si lavora con il corpo e, quindi, le frasi non si presentano, ma sono sostituite da atteggiamenti negativi, di rifiuto, di opposizione che, come già affermato, sono abbastanza facilmente superabili.

L'adesione con il terapeuta è, attraverso l'accettazione dell'Io-ausiliario, il vero mezzo per fare funzionare il processo terapeutico nell'autistico; al contrario, il conflitto, che si instaura all'interno della dimensione psicotica, crea un "nucleo" difficile da rimuovere e che richiede una lunga, faticosa e specifica terapia.

Queste considerazioni spiegano come, inevitabilmente, ci siano molte forme per psicoanalizzare, così come ci sono maniere diverse di vedere e di interpretare; si rompe ogni dogmatismo, si impara dall'esperienza, si mette al centro il piccolo paziente che scopre la sua voce, parla del suo modo di vedere le cose, di raccontare i propri vissuti, di ricreare un inconscio che sempre più diventa, non quel luogo oscuro e sinistro carico di conflitti e di "cose orrende e spiacevoli", ma quel "luogo" dove giace una bellezza addormentata e da dove Dictima, la sacerdotessa maestra di Socrate, vedeva scaturire la luce, l'arte e una musica misteriosa.

Così la psicoanalisi, come "arte di curare" , non si pone come verità, ma come maniera di vedere e leggere (dal momento che non può ascoltare) ed il terapeuta diventa modello da guardare: in questo scambio di sguardi, la psicoanalisi, nella sua nuova "bi-univocità", si propone per l'autistico come terapia, che è progetto per la crescita ed è quella mano tesa che il piccolo afferra … per seguirci !

 



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