PRESUPPOSTI PER UNA
"BUONA RELAZIONE MENTALE"
Silvia Pedota
Possiamo considerare la relazione psichica fondamentale per i processi normali e patologici ma è necessario sottolineare che essa può essere buona o cattiva, normale e corretta, distorta e patologica: infatti gli accadimenti psichici non sono in ogni caso favoriti dall’esistenza di una qualsiasi forma di "relazione". Quindi diventa necessario mettere in evidenza gli elementi di una "buona relazione" che possa creare una condizione psichica felice, per quanto sia possibile. La relazione mentale non è un’astrazione ma una operazione che avviene fra due o più persone. Anche nel setting psicoanalitico la relazione viene ad assumere una posizione elettiva, è infatti il particolare "legame" (transfert-controtransfert), che si instaura tra paziente e analista, il presupposto fondamentale al fine di poter intervenire terapeuticamente. Questa osservazione ci permette di evidenziare l’importanza maggiore che la relazione ha in una situazione di coppia. Anche nella storia della psicoanalisi, questa "scoperta" ha portato ad attribuire sempre maggior valore al processo relazionale, che si stabilisce tra gli umani che crescono, e quindi i bambini piccoli e gli adulti che li accudiscono, piuttosto che "soltanto" all’ipotetico processo di formazione dell’inconscio, cioè quello della rimozione. Questo è, in estrema sintesi, un accenno al lungo cammino che ha portato la psicoanalisi e i modelli di funzionamento della mente ad essi ispirati, dalle prime formulazioni alle più recenti, che attribuiscono posizione di maggior rilievo alla relazione. E’ importante sottolineare che i modelli precedenti non hanno mai perso la loro importanza, anzi il vasto patrimonio di acquisizione non è mai dimenticato, viene però ad essere arricchito dall’aggiunta della significatività che ha nello strutturare la mente la relazione con l’altro. Le vicende relazionali si pongono su di un crinale, al punto di incontro tra i dati della natura e l’esperienza della cultura. È possibile affermare che gli avvenimenti psichici, le azioni degli uomini sono per così dire sempre incompleti: essi si completano al cospetto e nell’interazione con l’altro. La relazione può assumere direzioni differenti sulla base delle risposte che l’interlocutore vorrà e saprà dare. Anche nella malattia mentale, dunque, è possibile affermare che ha particolare importanza l’impatto tra il portatore di comportamenti "atipici" e la risposta fornita dal contesto micro e macro sociale: partendo dall’ambiente familiare, con particolare rilevanza data alla diade madre-bambino, fino ad arrivare alla considerazione dell’ambiente sociale dell’adulto. Parlando nello specifico dell’autismo, non sembra da un punto di vista etiologico così sicuro l’intervento della famiglia, ma certamente è rilevante l’intervento della stessa nella maniera di relazionarsi con il bambino autistico. Partendo da queste premesse, si può tentare di approcciare "il dramma autismo", staccandosi, certo, da un passato che emarginava e colpevolizzava i genitori dei soggetti autistici e, capovolgendo un’espressione di Searles, non accogliendo la "tragicità di entrambi" i membri della coppia ma rispondendo ai bisogni che sottendono la richiesta di una relazione rassicurante. Diviene dunque necessario sottolineare l’importanza di un giusto equilibrio, nel coinvolgimento degli stessi, affinché non risulti invece, il portatore della malattia psichica, il "colpevole" e l’emarginato della situazione. Bisogna, con cautela, impegnarsi per evitare di cadere nella situazione in cui i genitori abbiano la possibilità di richiedere aiuti al terapeuta improduttivi, perché miranti ad ottenere interventi "magici" sulla realtà esterna, escludendo del tutto la realtà psichica della relazione. Infatti la ricerca da parte del genitore di una soluzione, utilizzando questa modalità di rapporto con la realtà, può essere descritta come una difesa "psicotica" per le sue caratteristiche alloplastiche, riferendosi ad un concetto espresso dalla Jacobso. Ma cercare di creare una situazione in cui lo "sguardo" che il genitore rivolge al terapeuta sia di richiesta di conferma della qualità della relazione.
E’ necessario tentare quindi di approcciare "l’ardua questione" della qualità della relazione, e, per poterne stabilire delle variabili condizionanti, diviene fondamentale affrontare la relazionalità degli esseri umani tenendo conto delle sue determinanti inconsce, studiate con una metodologia sufficientemente rigorosa, sicuramente in gioco nell’evoluzione della malattia mentale.
Affrontando infatti il problema di uno studio "scientifico" di una relazione, non cadendo nelle genericità dell’enunciato sul bisogno di una "buona relazione", in particolare tra il un caregiver/genitore e un bambino autistico, è fondamentale affrontare la relazione suddividendola in piani, e stabilendo degli elementi che possano definire la qualità della relazione stessa. Partendo infatti da una osservazione maggiormente di "superficie", ascrivibile ad un piano interattivo-comportamentale, possiamo passare alla considerazione di un piano di interazione affettiva fino ad arrivare alla interazione fantasmatica, che si fonda sugli elementi cardinali dell’attività psichica inconscia e preconscia. Necessariamente vi è una continua interdipendenza tra i vari piani, e dunque le interazoni fantasmatiche possono avere un peso determinante nel condizionare l’andamento degli altri modelli di interazione ricordati.
Chiarito questo concetto, possiamo quindi tentare di mettere in evidenza diversi elementi che contribuiscono alla definizione qualitativa della relazione madre-bambino. Un primo elemento, che può essere annoverato, è l’importanza del dare spazio, facendo riferimento a Stern, alla sua descrizione di "spazio interpersonale", quell’area da questi definita "di rispetto", che esiste attorno ad ogni essere umano bambino o adulto che sia. L’esistenza di quest’area, è definita dall’autore come predisposta geneticamente, gli strumenti per la sua realizzazione sarebbero innati ma dipenderebbe da un lavoro da svolgersi in comune. Ma, se normalmente tale distanza fisica è misurabile in circa sessanta centimetri da naso a naso, come è invece possibile misurarla in unità psichiche e non metriche? È qui introdotto il concetto di importanza del confine psicofisico, soprattutto nelle situazioni di relazione con bambini "disturbati". I bambini piccoli infatti sono dotati di strumenti idonei a manifestare avversione nei confronti della violazione di questo spazio, che la madre ha la possibilità di comprendere, anche se con le normali difficoltà della situazione, aiutata infatti dal fatto che il bambino comunica con lei per mezzo di un codice, che madre e bambino hanno in comune. Ma in che modo un bambino autistico può difendere questo spazio? La madre è sempre in grado di comprendere il differente codice utilizzato da questo bambino? Viene così ad essere inserita, nell’ambito della discussione attorno allo spazio psico-fisico, l’importanza che riveste, in una buona relazione, la capacità della madre di raffigurarsi il bambino come entità mentale autonoma. Kohut ha descritto in modo articolato come per lo sviluppo del Sé sia indispensabile l’esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento, inoltre è il comprendere l’altro in termini di stato mentale che permette di dare senso e anticipare le azioni. Negli ultimi anni psicoanalisti come Sandler, Emde, Stern e Fonagy così come studiosi dell’attaccamento da Bowlby in avanti hanno esplorato, anche su base empirica, lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità metacognitive a partire dalla qualità della relazione madre-bambino. Questi Autori in riferimento ai fattori che rendono possibile il costituirsi di un attaccamento sicuro, che comporta il rafforzamento progressivo della funzione metacognitiva e corrispondentemente l’aumento della coerenza della propria narrativa personale, hanno messo in evidenza la capacità di sintonizzazione emotiva (attunement), e la capacità di rispondere in modo sensibile e accurato (sensitive responsiveness), da parte del genitore, ai bisogni di vicinanza, protezione e contatto del bambino. "Attunement" e "sensitive responsiveness" sono in correlazione diretta con l’accuratezza della rappresentazione mentale del bambino nella madre. A sua volta la madre riflette al bambino sia la sua comprensione del disagio, sia la percezione corretta dello stato affettivo. Possiamo qui evidenziare un altro elemento, che è importante descrivere, parlando di una "buona relazione": il compito della madre di dare contenimento; è necessario sottolineare la delicatezza della gestione di questo ruolo, in una situazione di relazione tra una madre ed il figlio autistico. Infatti è fondamentale che la madre non cada nell’errore di trasformare questo importante compito di reverie, in una situazione di attaccamento eccessivo al figlio, che diverrà catastrofico, in quanto foriero di comportamenti differenti ma egualmente distruttivi. La clinica ci mostra infatti talvolta il verificarsi di una situazione in cui la madre è come se inglobasse il figlio all’interno del proprio mondo, così da rafforzare sempre più la propria sensazione di "essere l’unica detentrice di un sapere", sicurezza che le impedisce di chiedere riconoscimenti per affrontare la situazione; oppure può accadere che la madre, negando di provare sentimenti ostili per il figlio, naufraghi in una situazione masochistica descrivibile come "modello del sacrificio materno", lo star male diventa allora comune ad entrambi, madre e figlio sono coinvolti in un circolo vizioso, senza che il genitore riesca a vedere una possibilità di uscita.
Abbiamo la possibilità di comprendere, inoltre, come le problematiche neuro-biologiche connesse all’autismo a riguardo della formazione in questi bambini degli aspetti cognitivi, possano essere esacerbate da uno scorretto approccio nei suoi confronti da parte della madre. Infatti per la difficoltà che il bambino autistico presenta nella "comunicazione", utilizzando codici differenti, è resa difficile, in seno ad una relazione tra una madre ed un bambino autistico, la possibilità che quest’ultima riesca a rappresentarsi il bambino come entità psichica separata; spesso infatti al contrario lo spazio del bambino rischia di essere invaso da proiezioni della madre stessa, che potrebbero contribuire ad irrigidire ulteriormente le difese già messe in atto dal bambino autistico. E’ qui reso possibile evidenziare un altra variabile fondamentale per una "buona relazione": una buona comunicazione, ponendo l’accento sull’importanza di avere un linguaggio condiviso da entrambi i partners, e sul dare spazio alle diverse possibilità comunicative.
Abbiamo dunque degli elementi per chiarire come l’idea delle madri di essere le uniche detentrici di una conoscenza attorno al figlio autistico affondi le radici proprio nella suddetta (dinamica) difficoltà comunicativa, e come ciò non permetta di instaurare una "buona" relazione, fomentando al contrario l’onnipotenza della madre, inibendo le già difficili capacità del bambino di costruirsi un livello cognitivo di interazione ed annichilendo ulteriormente le potenzialità di sviluppo del Sé del bambino. I risultati conclusivi dei processi che portano alla formazione di uno "spazio interpersonale", e la buona riuscita del "contenimento" hanno infatti nella relazione con un bambino "normale" ma ancora di più in quella con un bambino psicotico, grande importanza nell’assicurare capacità di rapporto senza pregiudizio e intrusione, capacità di intimità, di affettività e di scambio.
Parlando sempre di contenimento è anche da evidenziare il rischio e la difficoltà, provata da una madre al cospetto della psicosi del figlio, che le proietta poderose e destabilizzanti fantasie e angosce psicotiche, infatti a fatica spesso la madre riesce a contenere i propri stati emotivi molto arcaici che le sono indotti dal bambino, così da precluderle la relazione e l’incontro con il figlio. La situazione inoltre è esacerbata dalla difficile rielaborazione del senso di colpa, che, nella maggior parte delle relazioni tra una madre e il proprio figlio autistico, la clinica ci dà la possibilità di osservare. Per questa ragione, sono criticabili atteggiamenti terapeutici che vedono il genitore come causa della malattia, essi rischiano di dipingere la madre come "carnefice," colludendo inoltre con i sensi di colpa del genitore. La storia della madre si interseca sempre e comunque con la storia del figlio, ma ciò non deve permettere al terapeuta di ergersi a istanza giudicante. E’ comunque parimenti importante che quest’ultimo abbia ben in mente che il fornire aiuto ad una madre con un figlio autistico significa, come già ricordato in precedenza, non perdere mai il controllo dei meccanismi di difesa che vengono messi in atto dal genitore, spesso infatti la clinica ci mostra come la manifesta volontà di collaborazione, dimostrata ad esempio dal genitore con il venire puntuale e composto alle sedute, nasconda spesso un progetto latente, che implica l’idea opposta: il desiderio taciuto della madre, che sia il terapeuta chi davvero deve cambiare idea a riguardo della situazione del figlio. Troppo spesso infatti, la reale situazione del bambino viene ad essere negata dal genitore, anche se la clinica offre la possibilità di osservare come ciò avvenga in maniere differenti: talvolta il genitore iperinveste sull’autismo osservato in chiave medica, ricercando sempre nuove possibilità di analisi più accurate, tramite strumenti quali la TAC e simili; altre volte invece la madre insiste nel voler dimostrare la "normalità" del figlio, e insistendo sull’ "affettuosità", che quest’ultimo dimostrerebbe nei suoi confronti, sottolinea come con lei il bambino riesce ad avere dei buoni rapporti, esprimendo inoltre la convinzione che siano gli altri, non capendo il figlio, a non riuscire nella creazione delle buone relazioni con lui. Questa tendenza nasconde invece il desiderio della madre di coltivare la propria "onnipotenza" che in questo caso è reattiva alle sue sensazioni di impotenza, inadeguatezza, impossibilità. L’atteggiamento onnipotente quindi fa diventare, come già ricordato, difficoltosa alla madre una buona comunicazione, fornendo la possibilità a questa di continue interpretazioni dei comportamenti del figlio, che rendono sempre più flebile la voce di quest’ultimo e lo inglobano nel mondo della madre, creando il terreno per una patologica regressione madre-figlio. Il terapeuta ha un ruolo fondamentale nell’impedire che ciò avvenga, non sicuramente sosituendosi alla madre, mettendo a tacere l’immenso desiderio di relazione che le suddette operazioni difensive messe in atto dalla coppia celano, ma, al contrario, affiancando la madre ed offrendosi come colui al quale manca il sapere, un luogo vuoto dove il bambino potrà alloggiare la propria "costruzione delirante", intendendo con questa espressione, lo sforzo ad una tensione comunicativa, che il bambino cerca faticosamente e con il quale anela a recuperare una forma di rapporto con la realtà, dunque anche con la delicata "realtà materna"