Laura Strocchi
Un grazie per avermi ancora chiamata qui in questa bella Sala Estense, a proseguire il lavoro con voi. Ricordo la prima volta nel settembre 1999, quando portai il racconto della mia esperienza di terapia nei confronti di bambini autistici gravi.
Il mio incontro nuovo con loro passa per un alleggerimento dei carichi emotivi ed affettivi grazie all'introduzione di una materia d'insegnamento che io amo ed in cui mi espongo per prima, a scuola, nei loro confronti.
Si tratta della lingua inglese. Lingua non materna, per loro e per me, ricca di suoni onomatopeici, un pò primitivi, semplici ed efficaci, l'inglese costituisce un buon campo di incontro, neutro rispetto alle sofferenze e ai dinieghi precedenti; un luogo di linguaggio perché il bambino possa pensare di riavvicinarsi al codice verbale, con tutta la strutturazione soggettiva che questo comporta.
Questo intervento si colloca essenzialmente a scuola, una o due volte la settimana, in orario curriculare. Inizia di solito alla fine della 4° elementare per proseguire trasversalmente alle scuole medie e alle superiori. Dunque una relazione nuova proposta non a caso all'inizio della pubertà e non a caso in pieno ambiente scolastico.
La primavera scorsa, per la seconda comunicazione, ero con la Prof.ssa Giuliana Ravaschietto e vi parlai del lavoro di ricerca e di riflessione del gruppo di insegnanti e di psicoanalisti che si riunisce a Torino da cinque anni a questa parte.
Insieme abbiamo approfondito la questione della materia che faceva da tramite: era questione unicamente dell'inglese? Oppure non era da privilegiare essenzialmente la presenza di un "campo terzo", amato dall'adulto e ancora sconosciuto al bambino, in cui l'adulto si muove con gioia, ritrovandovi ogni volta qualcosa di se?
Così siamo arrivati a vedere che la proposta nuova -non necessariamente l'inglese-costituisce un luogo di metafora per un legame interpersonale. Un luogo terzo che raccoglie il desiderio di relazione che l'adulto porta con sé ed esprime per primo verso quel bambino, che lo fugge, ma anche lo aspetta e poi lo reprime senza nemmeno ancora conoscerne nulla!
Ma quella materia prescelta consente un giro più largo, quasi a prendere le distanze da un sentimento così travolgente, e aggirare l'emotività fortissima affinché il legame non splventi troppo.
Oggi di nuovo ci presentiamo come gruppo e, per ben introdurre l'esperienza di cui vi parlerà Giuliana Ravaschietto durante la tavola rotonda, ho pensato di orientare questo intervento secondo due coordinate essenziali :
-la funzione del decentramento di UN adulto a scuola che va ad intersecare
-la povertà di immaginario che troviamo nel bambino autistico.
Dunque un adulto che assume su di sé, a scuola, un ruolo decentrato sia rispetto alle istanze educative che alle istanze terapeutiche. Cioè UNO -e ne basta uno solo -che riesca, a scuola, a non farsi prendere tutto in una necessità di programma, di apprendimento, sia pur individualizzato.
Ma nemmeno si collochi tutto in un ruolo terapeutico poiché la silenziosa crescita del corpo nella preadolescenza esprime una fase di passaggio e di apertura profondamente ricollegabile alla normalità ...
Intendiamo perciò UNO che si autorizzi e si senta libero di privilegiare la tutt'altro che semplice questione della relazione interpersonale ed è riconosciuto in questo ruolo anche dai colleghi.
E' da lì, dalla possibilità di aprirsi ad una nuova relazione, con tutta la profondità del sociale che intorno condivide, che il bambino autistico può aprirsi ad un nuovo cammino.
L'abbiamo pensato come un intreccio che combinerà in una significativa alternanza i tre grandi temi
relazione, apprendimento e socializzazione.
E mi sono permessa di disegnarlo questo intreccio, come si disegna una treccia.
socializzazione apprendimento relazione |
E' interessante vedere come, perché la costruzione tenga , quel primo filo della relazione vada a richiamare il terzo, della socializzazione, ed entrambi lasciano sottinteso quello centrale, dell'apprendimento.
L'apprendimento compare infine, grazie al calore della relazione e al mantenimento della relazione nel sociale e sarà lui a far tre con i pimi due. Così tutti e tre costituiscono il primo livello della treccia ... lì dove il bambino può finalmente riconoscere a se stesso il suo valore, la sua capacità di entrare in una relazione, portandovi qualcosa di suo, perché ci sia scambio con il mondo.
lo sono stata tante volte, con il mio inglese, quell'adulto che si decentrava, che non era squisitamente insegnante preoccupata di quanto inglese avrebbe imparato, e nemmeno ero la terapeuta nel senso della persona che cura uno che si pone immediatamente come malato.
Poiché il bambino si avvia ad una fase di novità adolescenziale, quel movimento sano del suo corpo che cresce nonostante la malattia, ha da essere sentito come un momento naturalmente buono e inaugurale.
Inaugurale di che cosa? Di una nuova immagine di se stesso preso nel reale di una trasformazione fisica, che chiede di essere riconosciuta, valorizzata, parlata, perché gli è sconosciuta.
Dicevo prima, non a caso, "all'inizio della preadolescenza".
Tutti i bambini avvertono questo cambiamento che sboccia dall'interno di se stessi. Fermenti, turbolenze, curiosità, incertezze ... quante volte avevano di sottecchi spiato i più grandi ... ora sta capitando a loro.
E il nostro bambino autistico? Cosa gli succede nel momento in cui si accorge che il suo corpo vive un cambiamento, lui che non sa come collocare i cambiamenti ... Il suo corpo dunque richiede alla mente e al cuore di mettersi in relazione con loro ... se no, è esplosione incontrollabile.
La relazione che nasce in questo frangente con un adulto responsabile ha la possibilità di diversificare la possente richiesta interna, organizzandola in una direzione nuova che utilizza un argomento che il bambino non poteva nemmeno sognare per se stesso. Qualcosa che porta la profondità di un legame sociale e anche l'intensità della scelta dell'adulto ...
E' questione soltanto di quella materia?
O è questione di quell'adulto? O dei due insieme? O dell'ambiente esterno che autorizza?
Come nella treccia ... Anche il bambino resta preso in questi dubbi ... sente che i "tiranti" sono più di uno ...ed è un gran bene!
"Mi vuole insegnare l'inglese ... oppure sta parlando di me?"
"Questa frase della storia che stiamo inventando, la salvo nel "file Ravaschietto?"
Lo chiederà con ansia le prime volte e sarà autorizzato con gioia finché "Magari ne facciamo uno tutto per te" gli proporrà Giuliana. E lui si chiederà se c'è dunque un al di là dell'uso del computer ...
Di chi è quella storia che sta inventando? La sua forse?
Allora si può insinuare in lui il pensiero di contare per quella persona lì, che sta ad aspettare con lui, segno che qualcosa può nascere da lui ... e per fortuna tra loro sta comparendo quella tessitura nuova, quell'argomento "scolastico", che offre materiale di scambio, che serve da stimolo, ma anche da rifugio.
Ci vuole un posto terzo tra i due, che faccia da sfondo, in cui essi possano rispecchiarsi come conquistatori, o mimetizzarsi per riposare.
Mi ricordo di una bimba in IV elementare. Aveva seguito il normale corso d'inglese della sua classe fin dalla III, riuscendo in inglese meglio che in ogni altra materia scolastica. Fu velocissima a collocarsi nella relazione con me, era pronta, praticamente la aspettava e fu una fortuna che le insegnanti ed il capo d'istituto se ne accorgessero.
Eravamo al nostro quarto o quinto incontro, ma poiché l'ultima volta mi ero dovuta assentare per malattia, stavo aspettandola col timore che si presentasse arrabbiata o chiusa, decisa a farmi "pagare" l'assenza della volta prima.
Quando mi raggiunse nella stanzetta per lavorare, fui contenta di vederla e mi venne subito da dirle: "l'm happy you are here" e lei, come a continuare la mia frase e senza alcuna esitazione, concluse: "... and you?" e così dicendo si sedette pronta a lavorare. Si era immaginata al mio posto per anticipare la mia conclusione della frase, però stava già parlandomi di se stessa ... si era inclusa nella risposta.
Ricordo che le disegnai sul quaderno un ciuffo di yellow daffodils (narcisi gialli a tromboncino) che stavano sbocciando al sole, e un annaffiatoio per innaffiarli: l'inglese partecipava in quanto il sole era the yellow sun, le foglie erano green, l'acqua era fresh water ... e così via.
C'era tutta la sua storia, lì, in quello sbocciare che non era né un puro esercizio di inglese, né un predicozzo sulla crescita ... era come accedere ad una metafora che utilizzava colori e quaderno come reale indispensabile perché potesse svilupparsi un'immagine, che veniva nominata collegando la lingua straniera alla sua lingua natale.
C'era di nuovo intreccio tra l'immagine di una crescita, che dava senso al reale della nostra presenza attiva e reciproca, legata dal simbolico del nostro discorso che contornava quell'immagine.
E non c'era incollamento, non c'era fusione duale poiché lo spazio d'incontro tra noi era, in questo caso, il disegno dei fiori e l'oscillazione tra due lingue.
Se non ci fossero stati disegno e parole che lo illustravano, le mie parole sarebbero ricadute direttamente su di lei ... un legame unicamente composto di reale e simbolico, in una dualità che è il grande e continuo rischio del bambino autistico.
Così, a quell'adulto che si impegna e si espone su questo percorso di relazione interpersonale a scuola, suggerirei di considerarsi "pioniere" con quel bambino che gli si affida per mano, quindi in cammino ognuno con le sue forze per aprire gli occhi sul nuovo, adattandosi a ciò che si incontra: nemmeno il pioniere sa cosa incontrerà oltre la collina, sa però che ogni nuovo incontro gli svelerà un aspetto di sé che attendeva una occasione per mostrarsi.
Ecco, questo adulto esposto anche a scoprire se stesso ... costituisce un modello possibile proprio per quel bambino che ha tanta difficoltà a muoversi sapendo che potrebbe incontrare del nuovo!
Ed eccoci alla seconda coordinata di cui parlavo all'inizio: la mancanza, o almeno la povertà, di immaginario propria del bambino autistico.
Sostengo che è questa carenza d'immaginario ad interferire (proprio come portare una ferita dentro!) con ogni possibilità di cambiamento.
Egli è cresciuto in una specie di isolamento, in assenza di sé, però é contornato di richiami che gli giungono da fuori.
E' anche entrato nel meccanismo del linguaggio, però in modo impersonale, come se ricevesse solo un meccanismo puro. Anche il linguaggio lo sfiora, da fuori, ma non è interiorizzato. Magari provoca funzionamento, e già questo è cosa buona. È segno importante questo suo cercar di funzionare "assoggettandosi" alle regole del codice degli altri. Quindi qualcosa in lui si sforza di non essere totalmente estraneo al mondo, ma non è soggetto a nome proprio della frase, accetta di farsi oggetto di una sequenza ordinata e ordinante di cui altri sono il motore.
Mi pam che si iscrivano qui irecenti metodi (dal Metodo Teach, alla Comunicazione Facilitata per esempio) che consentono l'avvio di un certo funzionamento, sicuramente desiderato da tanti, forse anche da lui.
Abbiamo quindi una situazione reale, guidata dal simbolico di una parola esterna, e il nostro bambino che si sforza e riesce a connettere quel simbolico e quel reale: "Ora apri la porta, entri, ti siedi ..." e lui esegue lentamente, con sforzo, sembra assente ma intanto, possiamo dire, un po' si fida e procede, tra il giubilo e i complimenti degli altri.
In realtà sappiamo bene che, non appena la sollecitazione cessa, lui si fermerà, perduto in uno spazio sconfinato.
Quelle gli fornivano una linea su cui muoversi, il reale del suo corpo unito al simbolico di una sequenza da eseguire ... ma una linea è una figura piana ... manca la terza dimensione: la profondità dell 'immaginario
Come fare allora? Da che angolatura entrare in questa scena perché quel bambino viva non solo il funzionamento, ma anche l'emozione del suo buon funzionare, e l'emozione diventi memoria, immagine interiorizzata di se stesso in movimento?
Perché possiamo ben dire che l'immagine di cui è povero il bambino autistico è l'immagine di se stesso capace di sentirsi separato dall'altro e capace di affrontare lo spazio vuoto tra presenza e assenza.
Bisogna creare la situazione perché arrivi spontaneo a volgere la testa, verso l'altro, per guardare se lo sta guardando mentre lui si muove. Come se dicesse: "Questa immagine di me stesso che cammina ce l'ho dentro, me la confermate voi?"
E qui sarà bene che ci sia silenzio di approvazione, di condivisione, anche di separazione. Proprio il silenzio dell'altro, in questo momento, gli fa sentire che sono in due, separati e uniti allo stesso tempo, di fronte ad una emozione profonda.
Così arriviamo a quell'immaginario di cui deve far esperienza per potersi muovere. Forse il cambiamento, la separazione per lui sono così terribili proprio perché non riesce a trattenere per sé l'immagine di ciò che sta cambiando. E non trattenendo l'immagine è impossibile per lui pensare di trovare il nome giusto, con cui quella cosa o quella persona potrebbe essere evocata, anche in assenza.
Ma se non può essere chiantata ... allora quella perso sparirà per sempre nel momento in cui si allontana ... così a sua volta anche lui non sarà conservato, e sparirà.
Uno di noi è dunque quell'adulto che si rende presente con il suo discorso individuale, amato, che viene consegnato al bambino non per una necessità di programma, ma unicamente per lui; perché possa formarsi in lui questo deposito storico di immaginario che sostiene il suo essere presente nell'assenza.
Quel dono (o quel nodo) di presenza resterà presente alla sua mente e al suo cuore, come una garanzia di ritorno: così fa, tutta sua, l'esperienza dell'immaginario.
Si tratta allora di rendersi presenti per poter essere assenti, perché possa esserci questo tempo insieme, inaugurale di memoria, che agirà come sottofondo, consentendo che reale e simbolico si incontrino con l'immaginario, quindi in una profondità e non una linearità soltanto.
Ma questa profondità della memoria che conserva una immagine, è una tridimensionalità psichica, non figura piana, e questo ci porta dritti dritti a quel corpo adolescente che cambia in silenzio, che cresce, che ben mostra la sua collocazione nel tempo e nello spazio.
Ecco, mentre tutto ciò procede, nel quotidiano muoversi della scuola è importante che possa incontrare quella persona -e ne basta una- che si collochi fuori dal tempo cronologico, per rispettare, aspettandolo, il "tempo logico" del bambino, cioè il tempo che gli è necessario per accorgersi che quella persona sta aspettando proprio, che si presenti all'incontro.
Procedere con lui vuoI proprio dire partire da quel presente insieme che è accettato, almeno dall'adulto, come scena continuamente cangiante ... dove loro due sono presenti, pronti ad intrecciare il reale del corpo, al simbolico della parola che lo nomina, all'immagine della loro capacità di scambio.
Quante volte mi è capitato di passare un tempo lungo semplicemente guardando e descrivendo in inglese e in italiano la sua mano "falange, falangina falangetta, dorso e palmo, morbido e duro", ricorrenti come in una filastrocca, in inglese e in italiano, come per ritrovare le parole che "battezzano" il suo corpo vivo, e intanto indicare la parte nominata e seguirla nel movimento dell'aprire e chiudere, anche delle mie mani che facevano da specchio ... senz'altro scopo che non fosse contemplare quelle mani e parlarne ... e ci eravamo dimenticati del tempo mentre le nostre mani e le parole che le definivano emergevano da uno spazio sconfinato.
Essenzialmente non mi ero fatta prendere dall'ansia di portare un risultato, tangibile, mostrabile agli altri in classe, era stato un lavoro tutto per noi.
A volte un risultato tangibile, come un disegno o una figura incollata, o una frase scritta, viene spontaneamente, talvolta no.
lo comunque ho l'abitudine di lasciare una traccia di questo passaggio sul quaderno: la data, in inglese, un disegno mio, una frase ... qualcosa che è inteso essere innanzitutto per noi. Fa traccia, ci consentirà un giorno di rileggere il nostro percorso insieme, consente comunque, e subito, di vedere il prima e il dopo di una pagina che era bianca, prima
E poi veniamo richian1ati dalla campanella dell'intervallo e si può decidere se tenere segreta la pagina del quaderno oppure di portarla all'insegnante che aspetta in classe. .. ecco che posso comunicargli la mia partenza poiché anche io torno ad ubbidire a quel reale sociale che aveva accolto, senza panico, la nostra assenza, come ora accoglie, come normalità, il nostro ritorno: e questo gli dice che il suo posto c'era, che è stato conservato dalla classe anche se lui non lo aveva fisicamente occupato.
Dunque, in classe, gli altri guardavano al di là della la sua assenza: ritorna qui quella possibilità di essere assente senza essere sparito.
Avevano conservato l'immagine, e l'avevano intrecciata con il simbolico del suo nome, con il reale dell'assenza ... che ora si sta trasformando in presenza.
Così quel sociale organizzato che è la scuola può e sa includere, autorizzandolo al suo interno, un "tempo per comprendere" che è tanto diverso dal "tempo curriculare, cronologico" .
Sarà proprio quel tempo donato per comprendere che permette di far avanzare l'immagine di uno che potendo ritornare, può anche stare assente, separato.
Credo che ormai la mia relazione sia da concludere:
resta da dire quanto sia indispensabile l'accordo tra l'insegnante d'appoggio, oppure la figura esterna come sono stata io in tanti casi, cioè tra quella persona che propone l'intensità dell'esperienza di una relazione interpersonale e il gruppo degli insegnanti curriculari.
E di nuovo anche qui, non è necessario che tutti gli insegnanti curriculari si sentano coinvolti nella stessa misura, ed è un bene che la vicenda sociale sia eterogenea, ci sono anche gli insegnanti che mirano unicamente alloro programma ... anche questa è una esperienza da avvicinare.
Esperienza eterogenea vuol dire anche incontrare un'insegnante di lettere come Paola Fontana che oggi non ha potuto venire ma che partecipa con tutta la sua umanità, tessendo bene la sua treccia tra relazione e apprendimento e socializzazione; oppure un'insegnante di matematica o di tecnica che sanno dare valore anche al lavoro lento, ma soprattutto mostrano di dare valore al legame di relazione che sta nascendo altrove.
Loro sanno che quel legarne sarà portato in classe, perciò sanno quanto è preziosa per il bambino quella esperienza altrove ... e non lo sentono più così assente nel momento in cui rientra in classe.
Ora che è ritornato, accoglienza e scambio sociale investono anche l'insegnante d'appoggio. La sua relazione interpersonale con il bambino è subito messa in atto non nel senso che l'insegnante d'appoggio ora si dedica a lui in classe, ma è messa in atto a dìstanza, nel momento in cui il lavoro si svolge in un piccolo gruppo, su un argomento che include tutti e che è stato impostato, per tutti, dall'insegnante dì classe.
Questa condi isione del cammino da parte degli adulti coinvolti nella rete scolastica viene sostenuta dagli incontri mensili di riflessione e discussione e di supervisione psicoanalitica che portiamo avanti nel nostro gruppo, con il prezioso contributo anche del Dott. Giuseppe Andreis, psicoanalista a Torino; è lui che parla dì embricarnento.
Ormai questi incontri si svolgono non più soltanto nello studìo privato e nel nostro tempo libero, ma anche a scuola, utilì:zzando i fondi della formazione, sono aperti a tutti gli insegnanti che vogliano essere presenti, siano essi della classe direttamente coinvolta con il bambino, o semplicemente insegnanti desiderosi di utilizzare un'esperienza concreta che si evolve sotto i loro occhi.
Va ancor detto che una relazione che sa porsi fuori dal tempo cronologico, pur rientrandovi in fondo, non può essere obbligata entro il confine di un ciclo scolastico, ecco in tutti questi anni sono stata autorizzata a seguire i rniei allievi trasversalmente ai vari cicli scolastici.
Anche Giuliana ha ottenuto di poter spostare ogni settimana alcune ore presso t'istituto professionale di arte grafica attualmente frequentato da un suo allievo degli anni delle medie.
Così continua a conferrnargli quella relazione inaugurale per cui lui ha capito di poter "fare legame" con un altro senza restarvi incollato, prigioniero.
0rmai quel ragazzo è uscito dalla dualità Reale-Simbolico, c'è stato annodamento per lui tra il Reale di una presenza, il Simbolico dì un argomento parlato e amato, e l'immagine di essere parte di questo dono che conserva la sua presenza nell'assenza.
Ed è già arrivato il giorno in cui ha chiesto lui stesso, a nome proprio, un percorso terapeutico nel senso stretto della parola ... ma questo è ormai momento tutto suo ... la scuola, non poteva che accompagnarlo fin su questa soglia.