TERAPIA DI INTEGRAZIONE EMOTIVO-AFFETTIVA
Romeo Lucioni
L’autismo, malattia o modello particolare di struttura psichica, si evidenzia drammaticamente per l’isolamento, l’anestesia affettiva, la scomparsa dell’iniziativa, le difficoltà psico-motorie, il mancato sviluppo del linguaggio.
Accanto a queste espressioni, di per sé già disturbanti e fortemente disabilitanti, gli autistici dimostrano una importante incontinenza emotiva che si espleta con urla, corse afinalistiche, ipercinesie, a volte aggressività, angoscia e terrore.
Per la complessità del quadro, parlare della terapia dell’autismo è sempre un impegno non indifferente, anche perché tutti i tentativi fatti per affrontare questo disordine dello sviluppo psichico del bambino sono stati, per lo più, deludenti.
Negli U.S.A., gli interventi di terapia psicoanalitica sono falliti, ma hanno permesso di acquisire un ampio bagaglio di dati e di osservazioni utili per la ricerca; infatti oggi anche le teorie meno psicoanalitiche devono tenere conto delle problematiche psicologiche che investono gli autistici.
La diversità delle tecniche ed i risultati che sono spesso dubbi o relativi hanno portato ad una profonda divisione tra gli specialisti che ormai si sono uniti in "gruppi" che si criticano a vicenda, anche se sempre più prende forma l’intento di attivare interventi globali che tengano conto delle molte acquisizioni teoriche che sono state confermate dalla pratica.
Nel presente lavoro non si vuole parlare di tentativi più o meno riusciti, ma affrontare il tema pragmaticamente, partendo dall’esperienza di una specifica terapia, quella denominata E.I.T. (Terapia di Integrazione Emotivo-affettiva), nella quale, oltre ad una pratica terapeutica, si è potuto strutturare anche una base teorica importante per capire ciò che succede nella mente degli autistici.
Questo modello terapeutico deriva dal lavoro di molti anni, condotto con ragazzi portatori di handicap psichico di diverso tipo: sindrome di Down, Malattia di Martin Bell (l’ X-fragile), insufficienza mentale, psicosi.
In queste esperienze sono state seguite le linee applicative dello psicodramma, della terapia senso-motoria, di quella emotivo-espressiva, dell’eutonia, del tai-chi-chuan, sino ad arrivare alla organizzazione definitiva dell’E.I.T., che mette in atto una strategia globale che dà luogo ad una trasformazione generativa attraverso la quale il soggetto scopre nuove vie di comportamento relazionale che risultano idonee a contenere le angosce che gli derivano dal contatto interpersonale.
Ogni terapia che ha ottenuto risultati favorevoli si fonda sulla relazione, come ci hanno insegnato Melanie Klein, la Mahler e soprattutto la Tustin, che con il loro lavoro, sia teorico che pratico, ci hanno segnalato il cammino per capire meglio l’autismo, per affrontarlo con uno spirito pragmatico e con l’obiettivo di recuperare questi bambini alla vita sociale, per ridare loro quelle possibilità forse un po’ nascoste, forse un po’ poco riconosciute, ma che sicuramente si intravvedono dietro quegli occhi sbarrati, quelle crisi emotive, quelle espressioni di terrore che molte volte complicano anche la nostra vita emotiva.
Tutte le terapie devono fondarsi sulla relazione, che é l’elemento atto a rompere l’isolamento che questi soggetti stabiliscono, anche se essa si sviluppa in forma del tutto asimmetrica; diventa proprio compito del terapeuta coprire il divario e dare tutte le possibilità perché possano uscire dal loro mondo che, osserviamo, come "terrorifico".
Lo sviluppo mentale o psico-mentale normale si basa prima di tutto sulla presa di coscienza delle proprie capacità o delle capacità intrinseche relative alle esperienze sensoriali, sensitive e motorie. Da questo punto di vista, quindi, l’approccio iniziale con un bambino autistico è senza dubbio motorio; infatti osserviamo che questi soggetti, apparentemente normali, in realtà dimostrano un disordine psicomotorio ed una alterazione delle loro capacità di sviluppare movimenti coordinati complessi che, a volte, diventa estremamente difficile superare.
Questo avviene sia per una situazione psicofisica che si va stabilendo per una riduzione della motricità e dei movimenti automatici dovuto appunto alla chiusura autistica, che per un impatto psicologico che va letto come rinuncia a muoversi e ad agire comportamenti motori che derivano esclusivamente da un fatto psicologico. Melania Klein ci ha insegnato molto sull’argomento e noi sperimentiamo come questi bambini rifiutino di agire, proprio perché il loro "acting", il loro fare porta a situazioni esperienziali estremamente angosciose.
È come se sentissero, percepissero o vivessero che i loro movimenti o le loro azioni portano alla distruzione degli oggetti, delle persone che li circondano e, di conseguenza, rinunciano ad ogni movimento.
Il nostro modello terapeutico di E.I.T. fonda il suo intervento nel recupero, che non è solamente motorio, poiché, partendo dalla motricità, investe gli altri elementi che strutturano la base psico-fisica della mente: l’emotività, l’affettività e le capacità cognitive.
Intuitivamente possiamo immaginare e capire come un movimento o comunque una azione motoria non si esaurisca in un semplice impegno di muscoli, di tendini e di articolazioni, ma rappresenta la compartecipazione di elementi emotivi: il piacere di muoversi e di vedersi in relazione allo spazio, le sensazioni articolari di occupare un "luogo" più o meno ampio. Per altro lato il movimento acquista un aspetto affettivo nel momento in cui é indirizzato a raggiungere qualcuno o qualcosa che procura piacere, o con il quale abbiamo stabilito un rapporto decisamente o simpaticamente affettivo.
Questi aspetti fanno sorgere problematiche di tipo cognitivo che non fanno parte dell’apprendere in sé, ma del capire il movimento, sentire che si sta vivendo una emozione, che si va organizzando un modello di approccio e di rapporto con un’altra persona che è diversa da noi, anche se è vicina a noi.
In questa dimensione quindi l’ E.I.T. analizza e propone interventi nella sfera motoria, affettiva, emotiva e cognitiva e si propone come modello terapeutico globale, dove tutta la persona viene interessata ed ogni vissuto é messo in gioco in una relazione, in un rapporto.
Per definire l’E.I.T. dovremmo parlare di una psicoterapia che, sebbene guardi o legga le problematiche psicodinamiche o quelle psicoanalitiche, in realtà si fonda sulle relazioni che si stabiliscono in un setting complesso poiché c’è la presenza, oltre che del soggetto, del terapeuta (il direttore), di un gruppo di operatori che sono coterapeuti o accompagnatori, che possono essere caregivers o famigliari stessi, o anche altri pazienti che, attraverso questa relazione, stabiliscono rapporti, e aiutano e ne traggono aiuto.
Il training per poter condurre le sessioni di E.I.T. non mira ad "insegnare" tecniche e/o esercizi, ma a fare apprendere come comportarsi in ogni frangente della terapia, come muoversi con sicurezza, con disponibilità, con amore e, soprattutto, con … un sorriso che rassicuri e che trascini. La condivisione prevede un feed back che, non potendo essere verbale, sarà non verbale, spontaneo ed empatico: l’occhiata, l’espressione stupita, l’esplosione allegra, il battimano incoraggiante, la stretta vigorosa sono segnali che il terapeuta-osservatore è in grado di fornire e che giungono a segno ancor prima che qualcuno possa rendersene conto.
In questa dinamica gruppale, assume grande rilevanza il circuito del feed back che lascia poco spazio all’intuito, poiché ciò che viene fatto deve essere utile, cioè capace di ottenere il preciso risultato di stabilire un contatto valido e di costruire "ponti" sui quali succede qualche cosa.
Il lavoro si svolge sempre con l’ausilio della musica che, nella sua espressione quasi mitica, viene utilizzata dal direttore per accompagnare, stimolare, rallentare, trattenere, consolare di fronte alle situazione che nel setting vengono a crearsi.
Si stabilisce così un profondo processo di mutamento del deficit e della struttura psichica del bambino autistico che, come è ormai riconosciuto e come riteniamo, si è fermata nei suoi momenti iniziali di sviluppo e quindi ha portato ad una fragilità dell’ Io, se non addirittura ad un Io incapace di affrontare la realtà.
Nell’E.I.T., i parametri operativi riguardano:
ognuno dei quali è indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi.
1)- L’osservazione tiene conto che sensazioni, sentimenti, sogni, intuizioni, atti più o meno impulsivi, anche quando appaiono come incomprensibili e/o assurdi, in realtà propongono una lettura che, spesso, li sposta dall’inconscio alla formulazione conscia.
2)- L’E.I.T. non è solo un metodo terapeutico, ma un programma di intervento per portare soggetti autistici all’autonomia psico-mentale, allo sviluppo armonico dell’ Io, ad un recupero funzionale capace di ripristinare l’inserimento sociale, di usufruire di relazioni interpersonali valide e di permettere un inserimento produttivo nell’ambito educativo-formativo della scuola.
3)- La valutazione dei risultati è forse il momento più importante proprio perché solo attraverso la validazione si possono determinare le scelte più utili per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici e modulare l’intervento sulla crescita e sulle disponibilitù psico-mentali raggiunte dai piccoli pazienti.
Lo scopo di questa psicoterapia particolare che è l’E.I.T., è quello di ricompattare, ricostruire le funzioni dell’ Io, al fine di poter recuperare prima di tutto quegli elementi che interessano e che riguardano l’autovalorizzazione e l’autoriconoscimento che, per potersi sviluppare, abbisognano prima di tutto di un contenimento delle crisi emotive, di quelle fantasie distruttive che sono legate ai momenti più primitivi della proto-psiche del bambino che, forse, non si è sviluppata neppure per raggiungere un Io, almeno in parte, strutturato.
La nostra analisi, il nostro studio basato appunto sulle applicazioni e quindi sull’osservazione dei risultati, ha potuto evidenziare che i bambini autistici sono incapaci di stabilire buone relazioni con gli oggetti, sia animati che inanimati; gli oggetti diventano oggetti interni non definiti, parziali, che vagano nell’inconscio provocando e creando situazioni di angoscia e di terrore.
Per capire meglio che cosa significhi un oggetto parziale, possiamo riferirci a quanto succede spesso nella relazione nella quale il terapeuta è visto nello stesso tempo come Dio e come Diavolo, come portatore di bene e portatore di male. Infatti l’adulto può essere vissuto come stimolo di piacere per la relazione in sé, per le parole che dice, per i contatti che stabilisce, ma, nello stesso tempo, persecutorio perché rappresenta l’elemento che spinge a crescere e ad attuare (proprio quello che questi bambini non vogliono o non possono fare).
Il principio terapeutico si basa, quindi, su di un fondamento teorico, la mancanza della strutturazione degli oggetti interni, che si rileva osservando come questi bambini siano incapaci di usare gli oggetti della realtà dei quali non riescono ad "assumere" un significato preciso. Il modello terapeutico stabilisce anche una dinamica per la quale gli oggetti diventano fissi, permanenti, comprensibili e, soprattutto, intercambiabili, scambiabili con altri, usati da altre persone.
Nel gruppo si stabilisce una pluralità, basata sull’accordo non solo con il direttore, ma anche con altre persone che a loro volta intervengono nel processo terapeutico; in questo cambiamento, si porta il bambino a strutturare quelle dinamiche psicomentali primitive che permettono di formattare la realtà e le esperienze in modo tale che gli oggetti diventano, non più persecutori, ma fruibili ed usabili.
In questa dimensione il processo terapeutico continua in mille esperienze, in mille prospettive nelle quali però il bambino vede che c’è sempre qualcosa al di là, uno stimolo affettuoso ed accogliente che trascina e che dà il senso alla terapia e alla fiducia riposta nel terapeuta, che significa: "potersi fidare".
In questo atteggiamento si stabiliscono quei ponti relazionali anche minimi, all’inizio, che permettono però, come dice il Prof. Andreis, di creare un contatto ed una dimensione relazionale proprio perché su quei ponti c’è uno scambio di oggetti, di quelle "piccole cose", come uno sguardo, una stretta di mano, un abbraccio con i quali il vuoto mentale autistico comincia a riempirsi ed a strutturarsi.
Nella relazione, quindi, si fonda la possibilità di un recupero, di uno svolgersi, di un riprendere quello sviluppo psico-mentale che questi soggetti, così come è ormai riconosciuto, hanno interrotto, per qualche motivo sia esso biologico che psichico.
I risultati ottenuti con la terapia di integrazione emotivo-affettiva sono veramente apprezzabili: non c’è stato nessun bambino trattato che non abbia presentato miglioramenti; è opportuno sottolineare che, oltre a questa possibilità terapeutica, è stato anche importante utilizzare l’E.I.T. per capire meglio quali siano i meccanismi mentali che sottendono al disturbo autistico e quali debbano essere rimessi in movimento, se vogliamo ottenere qualche risultato riabilitativo.
L’osservazione attenta ci ha permesso di poter stabilire una classificazione sindromica e di suddividere i casi di autismo in tre gruppi:
Questi tre quadri ci rappresentano quasi un elemento evolutivo del processo psichico. Infatti, nell’autismo vero non si trovano oggetti formati, poichè questi bambini utilizzano degli oggetti parziali, oggetti mentali primitivi legati all’egocentrismo, all’onnipotenza, alla distruttività e alla pan-distruttività.
Nell’autismo ipercinetico, i soggetti usano l’esagitazione motoria per risolvere i loro bisogni edonistici, istintivi, di un narcisismo primario e, pur avendo raggiunto un buon rapporto con gli oggetti e una stabilità di comprensione, una conoscenza degli oggetti, non possono usare questi elementi per strutturare un vero rapporto interpersonale e, quindi, una relazione sociale.
Nella psicosi simbiotica i bambini hanno superato le prime tappe dello sviluppo psichico e hanno stabilito dei buoni rapporti oggettuali, ma sono bloccati in una dimensione edipica precoce per la quale la simbiosi rappresenta la paura della perdita: scattano appunto quegli elementi fobici che vengono messi in atto per evitare l’angoscia della perdita, la paura di essere in qualche modo distrutti.
È importante rilevare come sia stato utilizzato un modello terapeutico anche per elaborare dei principi o delle cognizioni teoriche che sono state di grande utilità sia per mantenere e per portare avanti la terapia, sia per strutturare un modello completo nel quale devono essere integrati i genitori (sia la madre che il padre), proprio perché, con le loro valenze di seno e di fallo, rappresentano la possibilità di stabilire un preciso rapporto oggettuale e di porre le basi per lo sviluppo psico-nervoso.
In questa dimensione va sottolineata l’importanza della scuola che ci viene in aiuto sollecitando una terapia per gli autistici che, ormai di sette o otto anni, entrano in crisi di fronte alle normative ed alle regole dell’educazione; la scuola si pone come nodo sociale, come punto di incontro fondamentale che pone di fronte ad una realtà che, in un modo o in un altro, produrrà una trasformazione. La collaborazione stretta tra docenti e terapeuti si sta strutturando come momento decisivo per il recupero e per il reinserimento sociale che si evidenzia come sviluppo emotivo-affettivo, oltre che cognitivo-intellettivo.
Il blocco psico-mentale, caratteristico dell’autismo, si può leggere come un meccanismo inceppato per il quale emotività, affettività e capacità cognitive non riescono più ad integrarsi; il compito è quello di rimettere in marcia questa "spirale" su di un piano che richiede la partecipazione coordinata della famiglia, della scuola, del gruppo terapeutico e dell’ambiente sociale.
L’aspetto educativo pone in evidenza il problema che ancor oggi questi bambini cominciano una terapia troppo tardi, con il rischio di non riuscire più a recuperare funzioni compromesse e, soprattutto, quella del linguaggio.
Questo non va certamente inteso come semplice scansione di suoni, ma come insieme di elementi empatici e simpatici che facilitano l’intesa e la mutua comprensione: è necessario non solo sviluppare i sistemi simbolici, ma bisogna recuperare la capacità di immaginare per poter ripristinare quelle funzioni dell’Io legate al senso di sé, alla volontà, alla perseveranza e quindi alla proiezione del Sé nel tempo e nello spazio, ritrovando il senso della "prorpia storia" fatta di vissuti e di "piccole-grandi epopee".
Nella terapia E.I.T. si stabilisce un "linguaggio nuovo" nel quale le valenze sane superano o sostituiscono quelle malate e quindi si stabiliscono relazioni speciali, straordinarie e ricche, che spesso articolano una "ritualizzazione", un processo "iniziatico" nel quale il "nuovo-linguaggio" rappresenta l’apporto di ognuno dei partecipanti a questo tentativo di far uscire definitivamente, in parte o totalmente dall’autismo, da questo profondo buco nero pieno di ansie, di angosce e di terrore.
La relazione terapeutica si svolge "per appoggio", ossia il terapeuta funziona come "oggetto esterno" o "oggetto ausiliario", "ciambella di salvataggio" per l’autistico che è immerso, in misura poco o nulla differenziata, nell’immagine simbolica della madre.
In questa dimensione il soggetto trova aiuto nello sforzo di riprendere i contatti che si riflettono in quelle parti differenziate che si vanno formando "con il ponte", con il "padre", con l’OK e che rappresentano l’oggetto interno in gestazione.
Essendo autistico, in lui l’oggetto interno non si è mai formato totalmente lo trova sul ponte della relazione, con l’aiuto del terapeuta, con "gioia" … con quella gioia che, durante la terapia, sorge come "immagine beatifica di sé" … che si guarda nello specchio e si ammira mentre muove il proprio corpo ormai armonioso.
La nostra terapia gli offre un "appoggio vivo", fatto di interessanti momenti insieme e di interessanti momenti di distacco, nei quali lui può cominciare, seppure in modo parziale, "a pensare", ossia "a rappresentarci".
L’intervento ha un obiettivo: la produzione di immaginario. Il soggetto, a partire dal simbolico, si permette che "parole", "oggetti interni" e "rappresentazioni", a quelli collegati, restino agganciate in lui, accettate, come punti di una rete di "pensiero" che si sta strutturando come "pensiero".
Grazie alla terapia, il paziente viene distratto dalla modalità indifferenziata della pulsione per essere attratto sulla causalità, sulla deduzione, sulla "verità" della realtà, sulla costanza dei significati.
In questo modo, il piccolo paziente trova rappresentazioni certe e costanti ed il mondo non gli risulta più "sconcertante e caotico".
Grazie alla terapia, le "parole agganciate", gli "oggetti interni", queste "rappresentazioni" cominciano a persistere e ad assumere "valore" non più solo nel setting, nella relazione terapeutica, perché è indotta una rappresentazione immaginaria di carattere più ampio, proprio perché la rappresentazione di parola (al contrario della rappresentazione di cosa) ha un effetto moltiplicatore della percezione ed è capace di liberare il soggetto dall’ obbligo di dover percepire per poter pensare.
Quanto esposto mostra anche come sia indispensabile la relazione condivisa, l’approccio affettivo … quella famosa mano che aiuta e toglie la responsabilità, per far muovere i meccanismi mentali che creano rappresentazioni, che formano pensiero.
In base alla teoria del significante-significato, la relazione inter-personale fondata sui "segni", tradotta dal terapeuta e accettata dal paziente che "si fida", permette l’integrazione delle percezioni, delle emozioni, degli affetti e delle cognizioni, che, in ultima analisi, rappresentano quella "mentalizzazione" che è lo sviluppo delle capacità psico-mentali, della strutturazione dell’ Io e della reintegrazione sociale.
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