A quasi venti anni dall'entrata in vigore della legge Basaglia, e sotto lo stimolo del recente decreto che, ci si augura, vincola le istituzioni competenti alla chiusura sostanziale, entro il 1997, degli ex manicomi, ci sembra opportuno presentare un progetto per la Comunità Peter Pan.
Un progetto che parte dalla situazione originale e specifica in cui questa Comunità opera ormai da dieci anni e che costituisce probabilmente la sua principale contraddizione: il fatto cioè di risiedere "fisicamente" all'interno del parco dell'ex manicomio di Roma, in una palazzina a due piani circondata da un giardino e da un ettaro di terra mantenuti e coltivati negli ultimi anni dai pazienti e dagli operatori.
In effetti la nostra attuale Comunità è il risultato di un cammino iniziato nel 1981, all'interno del più arretrato dei reparti del Manicomio, il padiglione 22.
Dopo sei anni di lavoro di deistituzionalizzazione e deospedalizzazione proponemmo la chiusura di quel padiglione fatiscente e il trasferimento in una struttura abitativa, territoriale, da noi individuata.
Era il 1986, dopo il superamento del nostro manicomio il padiglione 22, ci sentivamo pronti ad affrontare, con una Comunità, un nuovo progetto.
Del resto il lavoro sulle dimissioni degli anni precedenti, in stretto rapporto con il territorio e i suoi servizi, e soprattutto il livello discreto di funzionamento "comunitario" raggiunto dal gruppo dei pazienti ed il loro saldo e "caldo" rapporto con l'équipe, ci faceva pensare che una Comunità fuori dal Manicomio costituisse per noi lo sviluppo naturale e necessario.
Non riuscimmo allora ad attuare il nostro intento ; sospettiamo per la "sordità" istituzionale o forse, più in generale, per l'immaturità dei tempi:
Fatto è che dovemmo accettare, al posto delle nostre "dimissioni collettive", il trasloco in una palazzina, all'interno del Manicomio, ristrutturata per rispondere a criteri comunitari.
Lì, nell'86, si formò la Comunità Peter Pan.
Iniziammo a lavorare "come se" la palazzina si trovasse fuori del Manicomio, e fosse una comunità nel quartiere Monte Mario.
Questo ci ha portato naturalmente a notevoli problemi di rapporto col Manicomio negli ultimi dieci anni, ma, contemporaneamente ha stretto, progressivamente nel tempo, una fitta rete di rapporti tra la Comunità e il quartiere e, negli ultimi anni tra la Comunità e la città.
Di qui nasce l'apparente paradosso di una Comunità, spesso negli anni tacciata di "estremismo antiistituzionale", che, proprio, nell'anno della chiusura, elabora un progetto che prevede la sua permanenza nell'istituzione.
Una Comunità che, da sempre lontana dai palcoscenici e dagli sterili dibattiti, ha operato in silenzio, nel lavoro quotidiano di trasformazione e crescita del gruppo, sia degli operatori, che dei pazienti.
Dunque un tracciato microstorico di 15 anni (e un'elaborazione crediamo originale teorico-pratico), che quasi ci vincolano alla permanenza nel parco dell'ex Manicomio.
Come posto fisico - geografico, naturalmente, ma non certo al Manicomio vero e proprio da cui, simbolicamente ma sostanzialmente, i pazienti e gli operatori della Comunità se ne sono già andati dieci anni fa e non possono quindi oggi andarsene di nuovo.
Pur essendo una delle nostre caratteristiche principali l'attaccamento al concreto, al quotidiano, riteniamo indispensabile per il chiarimento del progetto una breve sintesi della nostra idea di riabilitazione.
Noi pensiamo che la parola stessa, riabilitazione, alluda all'esistenza di un processo precedente, e in genere misconosciuto, di disabilitazione.
Di tale processo ce ne siamo accorti, subendolo pesantemente, fin da 15 anni fa, al padiglione 22, il più completo strumento di disabilitazione istituzionale del Manicomio di Roma.
Nel lungo lavoro di disvelamento ed abbattimento dei singoli meccanismi del processo, ci siamo anche accorti che esso colpiva non solo i pazienti ma anche gli operatori.
Nel 1987 iniziammo la vita comunitaria della Peter Pan con una nuova ipotesi di lavoro, conseguente all'esperienza manicomiale conclusasi con successo con la chiusura del 22 : un'alleanza operatori-pazienti per svelare ed abbattere meccanismi di disabilitazione più ampi e comuni.
Riteniamo infatti che chiudere il Manicomio, nonché atto indispensabile, rappresenti solo il primo passo per poter affrontare il problema della cronicità.
Il Manicomio infatti è solo lo strumento, dotato di massima specializzazione e concentrazione settoriale, di un processo di disabilitazione assai più generale, che coinvolge pazienti "pazzi e "normali" (se pur con diverse capacità reattive). Di questo ce ne accorgemmo ben presto, non appena la Comunità entrò in contatto con i servizi psichiatrici territoriali e con il quartiere.
Ci si ripresentano molti dei meccanismi disabilitanti che credevamo di aver superato con la chiusura del 22 (le gerarchie, i ruoli, i "mansionari", con il loro corredo di "responsabilità" paralizzanti, il pregiudizio, la paura della follia, l'autoritarismo, la delega, il pensiero "consuetudinario" non soggettivo, l'abitudine" come negativa coazione a ripetere, la poca attenzione alla competenza, alla formazione, alla professionalità, la poca solidarietà, quasi sempre dichiarata a parole, ecc, ecc,).
Fu con sorpresa che rilevammo che tali meccanismi disabilitanti, di certo più "morbidi", mistificati e camuffati all'esterno, rispetto a quelli "concentrati" nel manicomio, operavano non solo tra i "normali" cittadini, ma anche nei servizi territoriali, tra gli operatori "psichiatrici" e nelle famiglie.
A volte trovavamo le maggiori difficoltà nei rapporti con molti servizi territoriali e con le famiglie di quei pazienti che, raggiunto un notevole livello di autonomia e socialità, esprimevano il desiderio di ritornare a casa.
A volte ci apparivano meno "difensivi" e più fruttiferi, i contatti che avevamo con studenti e cittadini, nel corso del nostro prolungato lavoro di informazione con le scuole del quartiere o nelle diverse mostre di pittura organizzate negli anni.
Quasi ci sembrava che pregiudizio e paura della follia fossero elementi generalizzati nella "normalità" e che anzi, ove fosse maggiore il contatto con la follia stessa (come nel caso degli operatori) tali elementi, e le difese conseguenti, fossero più difficili da superare.
Al di là delle elaborazioni teoriche, queste riflessioni ci portarono a conseguenza pratiche importanti : se processi di disabilitazione, pregiudizi, paura della follia, difese, sono così generalizzati nella "norma", e addirittura più profondi negli operatori, non può esistere riabilitazione dei pazienti che non sia preceduta, o vada di pari e in alleanza con la riabilitazione degli operatori.
Oltre alla discussione quotidiana di questi temi, la Comunità si impegnò allora nella costituzione di diversi laboratori (le cornici, la pittura, la terra, la ceramica, la fotografia) imperniati su interessi e desideri indistinguibili di operatori e pazienti.
Tutti formavano un unico laboratorio : quello della creatività, del gioco e dell'alleanza, come strumenti per il superamento della disabilitazione.
La riabilitazione diventa un progetto comune, pazienti-operatori, dove la reciprocità sostituisce l'assistenzialismo e dove ciascuno, indistintamente, cerca di migliorare in gruppo la qualità della propria vita.
Certamente parliamo di idee, di una tendenza, di convincimento, non di realizzazioni già avvenute.
La caratteristica comunque è l'alleanza, lo sforzo comune.
Naturalmente l'équipe mantiene una consapevolezza maggiore, e quindi un'attenzione ai bisogni dei pazienti a livello assistenziale (non assistenzialistico!) e cioè sanitario, economico, psicologico e della riabilitazione ""spicciola " di tipo pedagogico.
Il suo compito principale però attualmente quello di funzionare da "traduttore", da "interprete", da interfaccia tra i pazienti della Comunità e la città.
L'équipe deve tendere non ad "appiattire" la "follia" sulla "norma", ma a stimolare una dialettica e una "provocazione" più ampia, alla ricerca di una vera integrazione che superi la dicotomia, l'out-out, la "trappola" norma-follia per ipotizzare una sorta di terza possibilità : la salute.
Ultimamente, da una parte lo sviluppo "interno" dei laboratori (ormai complessivamente autosufficienti dal punto di vista finanziario), dall'altra quello "esterno" delle mostre e del rapporto con le scuole, ci ha praticamente vincolato prima allo studio e poi alla realizzazione, tre anni fa, della cooperativa integrata che abbiamo denominato "Piedi Neri".
La maggioranza dei soci è formata dai pazienti della Comunità, cui si aggiungono alcuni operatori, in qualità di soci - volontari, e alcuni "esterni", da tempo coinvolti nella nostra esperienza.
Inoltre in Comunità già diversi pazienti sono soci - lavoratori di un'altra cooperativa di pulizie e giardinaggio.
Abbiamo così sintetizzato brevemente il terzo punto che, a nostro giudizio, qualifica una Comunità che tenda a non riprodurre al suo interno, e fuori, meccanismi "manicomiali" e/o "assistenzialistici" : l'attenzione di tutti al lavoro, e, in particolare, al lavoro salariato.
Siamo convinti che sia necessario sviluppare lo strumento - cooperativa, e non solo per un fattore strettamente economico, ma come "volano" di una maggior integrazione del gruppo, al proprio interno e nei rapporti col sociale, e come sottolineatura di un diretto "protagonismo" dei pazienti, e naturalmente degli operatori, nei rispettivi processi di crescita.
Gli altri due punti, già precedentemente esaminati sono:
1. Un rapporto sano, che noi chiamiamo di "famigliarità", tra l'équipe e pazienti, basato sul comune tentativo di superare la disabilitazione e migliorare la qualità della propria vita.
2. Un rapporto fitto e reciproco della Comunità con il quartiere, la città, il sociale, basato fondamentalmente sulla proposta della creatività come strumento per ridimensionare paure-pregiudizi e difese della "normalità" e provocare una riflessione su quanto, anche nella "normalità" stessa, incida la disabilitazione (basti pensare a temi oggi così dibattuti da correre il rischio dell'ovvietà : la depressione diffusa, la velocizzazione dei tempi, lo stress, la carenza di affettività, di comunicazione profonda, di emotività, il "neo conformismo", l'eccesso di "materialità", la disumanizzazione tecnologica, ecc., ecc.).
La sintesi di questi punti, considerati il "succo" della nostra lunga esperienza, ci facilita l'esposizione dei criteri seguiti per la formulazione del progetto:
1. La tipologia e i bisogni dei 30 pazienti attualmente residenti all'ottavo.
Ne individuiamo la maggioranza che già da tempo interagisce come Comunità, sia al proprio interno che con l'équipe.
Altri pazienti hanno già un progetto individuale (uno per il reparto handicappati, uno a Val Montone in famiglia, una alle case I.A.C.P., uno in una casa-famiglia, tre a Castel di Guido in un'altra casa famiglia).
2. L'indispensabilità della permanenza i un rapporto familiare tra i pazienti comunitari e l'équipe che, negli anni, si è andata evolvendo con essi, sviluppando conoscenze omogenee, rapporti, funzionamenti e professionalità adeguate al difficile compito di "interprete", di interfaccia tra Comunità e città.
3. La continuità dei progetti già avviati : il lavoro statistico col computer per la valutazione dei questionari agli studenti, la comunicazione tramite internet, (http://wwwgeocitiescam/Paris4179), il rapporto con le scuole, le mostre di pittura, la cooperativa, l'attaccamento di parte dei pazienti e degli operatori alla terra, i laboratori, la mostra permanente di pittura che richiama visitatori in Comunità quotidianamente da quattro anni, l'approfondimento di rapporti già avviati in Italia, con altre strutture "psichiatriche" interessate al tema della creatività e dell'arte, lo sviluppo del laboratorio esterno di pittura ospitato dalla scuola E.Fermi, dove da quattro anni alcuni utenti di vari dipartimenti di salute e un gruppo di cittadini del quartiere dipinge assieme ai nostri pazienti.
4. Le caratteristiche della palazzina che attualmente ospita la Comunità, già di per se adeguata come logistica (piccola, il piano superiore attrezzato a zona notte con camerette con bagno, il piano terra con tutti i necessari servizi e gli impianti dei laboratori) e per di più ulteriormente "adattate" dai pazienti e dagli operatori nel corso degli anni (compresso il giardino e la terra coltivata, con il vivaio e la serra).
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Il progetto vero e proprio risulta, a questo punto, di facile esposizione:
A) operare durante il 1997 affinché siano portati a termine con gradualità e attenzione i sette diversi progetti di dimissione già avviati,
B) per la Comunità nel 1998, si richiede alla A.S.L.RM.E. di concedere in affitto la palazzina dell'ottavo padiglione alla cooperativa "Piedi Neri" e contestualmente di affidare alla cooperativa stessa l'appalto per la manutenzione e l'assistenza di tipo "alberghiere".