Il Messaggero
Domenica 2 Agosto 1998
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Alla ricerca della leggendaria civiltà sepolta seimila anni fa da un
immane cataclisma e dall’ira degli dei
Atlantide, negli abissi
è nascosto il mito
 

di MARCO GUIDI
IN principio fu Platone. Sono passati 2400 anni, quasi cento
generazioni, e per ognuna di queste c’è stato qualcuno che ha sognato,
leggendo le famose frasi del Timeo del Crizia, i due dialoghi in cui
si parla dell’isola Atlantide, grande come l’Asia e la Libia messe
assieme. L’isola potente e ricchissima che sorge al di là delle
Colonne d’Ercole. L’isola sommersa per volere degli dei in un immane
cataclisma. Il fatto poi che uno dei due dialoghi platonici, il
Crizia, si interrompa proprio mentre Zeus, il signore degli dei, sta
per pronunciare le parole definitive della condanna di Atlantide ha
aggiunto altro fascino al mistero e altro mistero al fascino. E per
secoli e secoli il mito di Atlantide, meravigliosa civiltà inghiottita
dal mare ha dilatato il cuore dell’uomo.
Per Atlantide è capitato quello che avvenne per la città di Troia,
prima che Heinrich Schliemann la scoprisse, generazioni di eruditi e
di pazzerelloni l’hanno sistemata un po’ ovunque: nel centro
dell’Atlantico, nel nord tra Norvegia e Islanda, come fece un bizzarro
ecclesiastico di nome Jürgen Spanuth, in Africa, in Tibet, in America.
Di recente una spedizione inglese è partita per il lago Titicaca in
Bolivia sicura di aver individuato lì le tracce del mitico regno. E
intanto un gruppo di studiosi(?) russi giura che Atlantide si trova al
largo delle coste del Galles, sarebbe nientemeno che la favolosa
Avalon di Merlino, Morgana e Artù. In realtà ogni indagine seria
compiuta negli ultimi cinquant’anni è servita a eliminare un’ipotesi.
Atlantide, inabissatasi circa seimila anni orsono non poteva essere in
Atlantico, nè in America, nè in Tibet...
Non molti anni orsono un archeologo greco, Spiridon Marinatos,
annunciò di avere finalmente risolto il mistero. Atlantide era
semplicemente l’isola di Thira, o Santorini, travolta dalla lava e dal
mare verso il 1400 avanti Cristo per l’esplosione del vulcano
Santorini, che provocò tra l’altro la crisi della civiltà cretese e
una grande tenebra in tutto il bacino del Mediterraneo (la piaga delle
tenebre sull’Egitto di cui parla l’Esodo?).
Platone avrebbe conservato il ricordo dei quella remota catastrofe che
pose fine alla prima fase della civiltà ellenica.
Insomma, un evento storico trasformato in mito. Peccato però che
Platone parli di una grandissima isola che si trova fuori dal
Mediterraneo, in Atlantico. E peccato che quella tramandata da Platone
non sia la sola tradizione, come sembrano credere alcuni: Erodoto, il
padre della storia, parlando dell’Egitto, la stessa terra che anche
per Platone conservava la tradizione di Atlantide, ricorda un tempo in
cui gli ”dei” visitavano l’Egitto per poi smettere di colpo. E le
tradizioni sumere e indiane, e quelle maya e inca, indiane e cinesi,
eschimesi e pellerossa parlano tutte di un diluvio universale che non
poteva essere certo la devastante, ma relativamente modesta,
inondazione di cui sir Leonard Woolley trovò le tracce a Ur dei Caldei
in Mesopotamia.
E peccato che le tradizioni di una salvezza a bordo di una vascello
siano riportate da testi che precedono di millenni il racconto biblico
e da epopee che non hanno nulla a che fare con le pur antichissime
tradizioni sumera e accadica da cui quella biblica è derivata. E non
solo, da tempo i linguisti si interrogano su bizzarre similitudini che
si riscontrano sulle due sponde dell’ Atlantico, come il monte Atlante
in Africa, e Aztlàn in Messico, il nome greco di dio theos che diventa
teo dall’altra parte, solo per fare i due esempi più noti e banali.
E poi ci sono tradizioni orali molto antiche che paiono riaffiorare,
come quella riferita dall’esoterico ”mago” George Gurdjeff a proposito
dell’Egitto prima delle sabbie, un Egitto non ancora circondato dal
deserto. Un Egitto di piogge e di acque, come quelle che secondo
alcuni ”scrittori di misteri”, da Graham Hancock a Robert Bauval, da
Adrian Gilbert a Colin Wilson, hanno segnato i fianchi della Grande
Sfinge di Gizeh. Un monumento che sarebbe molto più antico della sua
datazione ufficiale, che lo fa risalire all’epoca della IV dinastia e
al faraone Cheope di cui sarebbe il ritratto.
E le piramidi stesse, quelle della quarta dinastia, così perfette,
davvero poco a che fare con le piramidi a gradoni semplice evoluzione
della mastaba della dinastia precedente o con le modeste e imperfette
costruzioni, spesso frananti, delle dinastie immediatamente seguenti,
sono davvero solo tombe? O forse anche antiche mappe stellari,
calendari celesti che portano in sè il segno di una conoscenza e di
una tecnica troppo avanzate per un’epoca che conosceva solo il rame?
«Le prove, fuori le prove». I nemici di Atlantide e di molte altre
cose usano sempre questa frase. Dimenticando che in archeologia tutto
è vero fino a prova contraria e nulla lo è definitivamente. Troia e
Creta sono un mito fin che non vengono scavate, gli ittiti sono poco
più che una modesta citazione nella Bibbia (Uria l’ittita, sventurato
consorte della troppo fascinosa Betsabea) fin che qualcuno non
ritrova, così lontano da Gerusalemme, le tracce del loro impero. Ebla
è poco più che un nome fin che Paolo Matthiae non la scopre...
Sì ma Atlantide da qualche parte dovrà pur essere! L’obiezione è
giusta e all’obiezione, strani scherzi della sorte, danno una risposta
due marinai di due epoche e due terre diverse. Un ammiraglio-pirata
ottomano del XVI secolo e un ufficiale italiano del XX.
Alla fine degli anni Venti del nostro secolo una grande catastrofe
costituì per numerosi studiosi una notevole fortuna. Il crollo
dell’Impero ottomano aprì agli europei le misteriose porte della
biblioteca del Serraglio di Istanbul. La biblioteca dei sultani, erede
di quella degli imperatori di Bisanzio, a loro volta eredi dei cesari
di Roma, dei re ellenistici e dei signori dell’Egitto...
Fu proprio uno studioso europeo che, esaminando vecchie carte mise le
mani su una mappa disegnata da Piri Reis, ammiraglio e corsaro di
Solimano il Magnifico, grande navigatore e ottimo cartografo.
Giustiziato per essere dispiaciuto al suo signore dopo una sfortunata
impresa in mar Rosso. Ebbene Piri Reis (raìs significa ammiraglio,
capo, leader) aveva disegnato una bellissima mappa dell’America del
Sud, corredandola con queste note: «Ho copiato antichissime carte
quasi corrose dal tempo, mappe provenienti da Alessandria d’Egitto e
altre ancora più antiche, documenti ora conservati negli archivi del
Grande Padisha, Khan, Sultano e mio signore». La data islamica
corrispondeva al 1513 dell’era cristiana. Qualcuno notò subito che la
carta era perlomeno strana, visto che riproduceva le coste del
Sudamerica fino alla Terra del Fuoco, terre che nel 1513 erano in gran
parte ancora da scoprire. Ma che soprattutto la carta di Piri Reis
indicava un continente a sud dell’America, proprio la dove ora sono i
ghiacci d’Antartide. La cosa fu notata, destò stupore e finì lì. Per
farla tornare d’attualità, poco dopo il 1960, ci voleva un geografo
americano amico di Albert Einstein. (continua)
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