di MARCO GUIDI
IN principio fu Platone. Sono passati 2400 anni, quasi
cento
generazioni, e per ognuna di queste c’è stato
qualcuno che ha sognato,
leggendo le famose frasi del Timeo del Crizia, i due
dialoghi in cui
si parla dell’isola Atlantide, grande come l’Asia e la
Libia messe
assieme. L’isola potente e ricchissima che sorge al di
là delle
Colonne d’Ercole. L’isola sommersa per volere degli dei
in un immane
cataclisma. Il fatto poi che uno dei due dialoghi platonici,
il
Crizia, si interrompa proprio mentre Zeus, il signore
degli dei, sta
per pronunciare le parole definitive della condanna di
Atlantide ha
aggiunto altro fascino al mistero e altro mistero al
fascino. E per
secoli e secoli il mito di Atlantide, meravigliosa civiltà
inghiottita
dal mare ha dilatato il cuore dell’uomo.
Per Atlantide è capitato quello che avvenne per
la città di Troia,
prima che Heinrich Schliemann la scoprisse, generazioni
di eruditi e
di pazzerelloni l’hanno sistemata un po’ ovunque: nel
centro
dell’Atlantico, nel nord tra Norvegia e Islanda, come
fece un bizzarro
ecclesiastico di nome Jürgen Spanuth, in Africa,
in Tibet, in America.
Di recente una spedizione inglese è partita per
il lago Titicaca in
Bolivia sicura di aver individuato lì le tracce
del mitico regno. E
intanto un gruppo di studiosi(?) russi giura che Atlantide
si trova al
largo delle coste del Galles, sarebbe nientemeno che
la favolosa
Avalon di Merlino, Morgana e Artù. In realtà
ogni indagine seria
compiuta negli ultimi cinquant’anni è servita
a eliminare un’ipotesi.
Atlantide, inabissatasi circa seimila anni orsono non
poteva essere in
Atlantico, nè in America, nè in Tibet...
Non molti anni orsono un archeologo greco, Spiridon Marinatos,
annunciò di avere finalmente risolto il mistero.
Atlantide era
semplicemente l’isola di Thira, o Santorini, travolta
dalla lava e dal
mare verso il 1400 avanti Cristo per l’esplosione del
vulcano
Santorini, che provocò tra l’altro la crisi della
civiltà cretese e
una grande tenebra in tutto il bacino del Mediterraneo
(la piaga delle
tenebre sull’Egitto di cui parla l’Esodo?).
Platone avrebbe conservato il ricordo dei quella remota
catastrofe che
pose fine alla prima fase della civiltà ellenica.
Insomma, un evento storico trasformato in mito. Peccato
però che
Platone parli di una grandissima isola che si trova fuori
dal
Mediterraneo, in Atlantico. E peccato che quella tramandata
da Platone
non sia la sola tradizione, come sembrano credere alcuni:
Erodoto, il
padre della storia, parlando dell’Egitto, la stessa terra
che anche
per Platone conservava la tradizione di Atlantide, ricorda
un tempo in
cui gli ”dei” visitavano l’Egitto per poi smettere di
colpo. E le
tradizioni sumere e indiane, e quelle maya e inca, indiane
e cinesi,
eschimesi e pellerossa parlano tutte di un diluvio universale
che non
poteva essere certo la devastante, ma relativamente modesta,
inondazione di cui sir Leonard Woolley trovò le
tracce a Ur dei Caldei
in Mesopotamia.
E peccato che le tradizioni di una salvezza a bordo di
una vascello
siano riportate da testi che precedono di millenni il
racconto biblico
e da epopee che non hanno nulla a che fare con le pur
antichissime
tradizioni sumera e accadica da cui quella biblica è
derivata. E non
solo, da tempo i linguisti si interrogano su bizzarre
similitudini che
si riscontrano sulle due sponde dell’ Atlantico, come
il monte Atlante
in Africa, e Aztlàn in Messico, il nome greco
di dio theos che diventa
teo dall’altra parte, solo per fare i due esempi più
noti e banali.
E poi ci sono tradizioni orali molto antiche che paiono
riaffiorare,
come quella riferita dall’esoterico ”mago” George Gurdjeff
a proposito
dell’Egitto prima delle sabbie, un Egitto non ancora
circondato dal
deserto. Un Egitto di piogge e di acque, come quelle
che secondo
alcuni ”scrittori di misteri”, da Graham Hancock a Robert
Bauval, da
Adrian Gilbert a Colin Wilson, hanno segnato i fianchi
della Grande
Sfinge di Gizeh. Un monumento che sarebbe molto più
antico della sua
datazione ufficiale, che lo fa risalire all’epoca della
IV dinastia e
al faraone Cheope di cui sarebbe il ritratto.
E le piramidi stesse, quelle della quarta dinastia, così
perfette,
davvero poco a che fare con le piramidi a gradoni semplice
evoluzione
della mastaba della dinastia precedente o con le modeste
e imperfette
costruzioni, spesso frananti, delle dinastie immediatamente
seguenti,
sono davvero solo tombe? O forse anche antiche mappe
stellari,
calendari celesti che portano in sè il segno di
una conoscenza e di
una tecnica troppo avanzate per un’epoca che conosceva
solo il rame?
«Le prove, fuori le prove». I nemici di Atlantide
e di molte altre
cose usano sempre questa frase. Dimenticando che in archeologia
tutto
è vero fino a prova contraria e nulla lo è
definitivamente. Troia e
Creta sono un mito fin che non vengono scavate, gli ittiti
sono poco
più che una modesta citazione nella Bibbia (Uria
l’ittita, sventurato
consorte della troppo fascinosa Betsabea) fin che qualcuno
non
ritrova, così lontano da Gerusalemme, le tracce
del loro impero. Ebla
è poco più che un nome fin che Paolo Matthiae
non la scopre...
Sì ma Atlantide da qualche parte dovrà
pur essere! L’obiezione è
giusta e all’obiezione, strani scherzi della sorte, danno
una risposta
due marinai di due epoche e due terre diverse. Un ammiraglio-pirata
ottomano del XVI secolo e un ufficiale italiano del XX.
Alla fine degli anni Venti del nostro secolo una grande
catastrofe
costituì per numerosi studiosi una notevole fortuna.
Il crollo
dell’Impero ottomano aprì agli europei le misteriose
porte della
biblioteca del Serraglio di Istanbul. La biblioteca dei
sultani, erede
di quella degli imperatori di Bisanzio, a loro volta
eredi dei cesari
di Roma, dei re ellenistici e dei signori dell’Egitto...
Fu proprio uno studioso europeo che, esaminando vecchie
carte mise le
mani su una mappa disegnata da Piri Reis, ammiraglio
e corsaro di
Solimano il Magnifico, grande navigatore e ottimo cartografo.
Giustiziato per essere dispiaciuto al suo signore dopo
una sfortunata
impresa in mar Rosso. Ebbene Piri Reis (raìs significa
ammiraglio,
capo, leader) aveva disegnato una bellissima mappa dell’America
del
Sud, corredandola con queste note: «Ho copiato
antichissime carte
quasi corrose dal tempo, mappe provenienti da Alessandria
d’Egitto e
altre ancora più antiche, documenti ora conservati
negli archivi del
Grande Padisha, Khan, Sultano e mio signore». La
data islamica
corrispondeva al 1513 dell’era cristiana. Qualcuno notò
subito che la
carta era perlomeno strana, visto che riproduceva le
coste del
Sudamerica fino alla Terra del Fuoco, terre che nel 1513
erano in gran
parte ancora da scoprire. Ma che soprattutto la carta
di Piri Reis
indicava un continente a sud dell’America, proprio la
dove ora sono i
ghiacci d’Antartide. La cosa fu notata, destò
stupore e finì lì. Per
farla tornare d’attualità, poco dopo il 1960,
ci voleva un geografo
americano amico di Albert Einstein. (continua)