A CACCIA di virus sotto tre metri di ghiaccio, quello
che ricopre le
isole norvegesi Svalbard, nel mare glaciale Artico. Là
sotto, dal
1918, riposano i corpi di sette minatori scandinavi morti
di febbre
spagnola. Furono sepolti in fretta e furia, prima che
il terribile
virus potesse contagiare gli altri pochi abitanti dell’arcipelago.
Ma,
proprio stamani, alcuni scienziati americani e canadesi
hanno inferto
i primi colpi di piccone sulla superficie di quella sorta
di cimitero
glaciale. Lo scopo è quello di riesumare le salme,
che in questi
ottant’anni dovrebbero essersi conservate perfettamente,
e poter così
isolare un esemplare intatto del virus della «spagnola»,
coltivarlo e
sintetizzare il vaccino necessario ad annientarlo.
Un’avventura a metà tra la fantascienza e la paleontologia,
e che sta
facendo storcere il naso a gran parte della comunità
scientifica
internazionale.
Di fantascientifico c’è il dispiegamento di forze
che si è reso
necessario per l’operazione: radar per identificare l’esatta
collocazione dei cadaveri sotto la coltre di ghiacci
eterni; tende a
doppia tenuta per effettuare i preliminari delle autopsie;
tute
spaziali per prevenire ogni possibilità di contagio.
Ma anche il fatto
di riportare in vita un agente patogeno del quale tutto
l’emisfero
Nord del mondo ha un pessimo ricordo. Quella della febbre
spagnola,
infatti, è stata forse l’ultima grande epidemia
dell’Occidente. Tra il
1917 ed il 1918, in meno di un anno, uccise oltre venti
milioni di
persone. Il virus attaccava le vie respiratorie e provocava
la morte
dei pazienti in pochi giorni, fulminante. A poco valevano
gli sforzi
ancora molto ingenui della medicina di quei tempi, che
poteva, al
massimo, somministrare chinino a volontà. All’epoca,
non c’era nemmeno
l’aspirina, negli scaffali delle farmacie, e tantomeno
gli
antibiotici, che contro un virus nulla possono, ma che,
almeno,
riescono a scongiurare l’evenienza di infezioni batteriche.
Di paleontologico, ovvero di scientificamente sensato,
c’è la
possibilità di studiare da vicino la conformazione
di un virus, il
quale, dopo aver fatto strage, è inopinatamente
scomparso. Lo scopo
non è infatti tanto quello di mettere a punto
un vaccino per sradicale
una malattia che non esiste più, quanto quello
di scoprire i
meccanismi evolutivi che lo hanno trasformato in un virus
diverso. E,
questo, potrebbe essere di grande aiuto per lo studio
di vaccini più
efficaci contro le forme influenzali.
Il virus della febbre spagnola, così come quelli
delle tante altre
febbri influenzali che ogni anno dilagano nel mondo,
appartiene al
gruppo degli ortomixovirus a catena segmentata, e sono
dunque capaci
di modificarsi continuamente, assumendo ogni volta caratteristiche
sensibilmente diverse. Il fatto è che i virus
non sono dei veri e
propri esseri viventi. Un batterio, ad esempio, è
costituito da
un’unica cellula, simile per struttura a quelle che costituiscono
qualsiasi organismo complesso, ed è capace di
vivere anche a
prescindere da un «ospite». I virus, invece,
sono costituiti da un
acido nucleico (Rna o Dna, a seconda dei casi) e da una
capsula: per
vivere e riprodursi hanno bisogno di una cellula ospite,
nella quale
soggiornare, dalla quale trarre tutti i «mattoni»
necessari per
costruire copie di se stessi.
Nel caso dei virus influenzali, la catena di acido nucleico
è
segmentata, fatta da decine di pezzi di molecole complesse,
che
possono ricombinarsi in migliaia di diverse disposizioni.
E per ognuna
di esse avremo un nuovo virus, contro il quale è
efficace soltanto un
certo anticorpo o un certo vaccino e che provocherà
una patologia ogni
volta differente, dalla banale influenza invernale alla
micidiale
spagnola. Scoprire come era fatto quel virus (che peraltro
fu isolato
soltanto nel 1933, ad epidemia estinta) e ricostruire
l’esatta
conformazione della catena del suo Rna potrebbe essere
di grande
interesse scientifico. Ma anche rischiosissimo: l’umanità
non ha
nessun bisogno di constatare nuovamente i suoi terrificanti
effetti.