La poesia di

Jacques Prévert

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Poesie scelte

   "Prévert, poeta della vita, poeta della vita immediata, ci parla di un mondo palpabile, vero per la gente qualunque. È per questo che è essenzialmente popolare: nel parlare alla gente di ciò che costituisce il loro mondo, la loro vita di tutti i giorni".
Così scriveva André Laude su "Le Monde" del novembre 1972 e François Bott, sullo stesso giornale, gli faceva eco: "Ecco di nuovo Jacques Prévert. La moda lo aveva dimenticato. Era questa, davvero, l’ultima delle preoccupazioni per lui, che non le aveva mai strizzato l’occhio. Se aveva fatto la corte a qualcuna, era la vita: non alla moda, che flirta con la morte…".
    Qual è allora la vita di cui cantano le poesie di Prévert? Quali temi dell’esperienza di ciascuno di noi vi affiorano? L’infanzia, l’amore, il dolore, la religione, le stagioni.
   Ingenua e maldestra l’infanzia è per Prévert la sola età in cui è possibile risuscitare il mondo puro, non compromesso dalla meschinità e dall’egoismo degli adulti. Chiusi nell’universo concentrazionario della famiglia e della scuola, i bambini hanno ancora la capacità di sognare (per loro, dice Prévert, l’uccello-lira entra ancora nella stanza all’improvviso).
Possiamo dire a un bambino di tacere, possiamo chiudergli la porta in faccia: il bambino se ne infischia, perché nella sua immaginazione è al di sopra e al di là di noi, è in un universo tutto suo, viaggiatore clandestino nel palazzo dei Miracoli, esploratore gioioso di uno sterminato deserto…
    L’amore, ecco forse solo l’amore ha il potere di farci ridiventare bambini. L’amore può presentarsi a noi in tante forme: c’è l’amore sognato, quello respinto, quello minacciato, quello votato al ricordo, quello felice e quello sventurato… ciò che conta, secondo Prévert, è la sua intima forza rigeneratrice. Per Prévert l’amore non conosce mezze misure: è la scoperta che sconvolge l’esistenza, è la libertà che riedifica una vita soffocata dall’ipocrisia o immeschinita dalla volgarità. L’affermazione di quest’amore è spesso violentemente provocatoria nei confronti della morale tradizionale: essere liberi nell’amore può voler dire anche dire alla donna che s’ama di dimenticarci, di lasciarci e poi di tornare a noi dopo aver amato un altro, se un altro le è piaciuto; essere liberi nell’amore può voler dire anche dire a noi stessi: "Abbi il coraggio di sbarazzarti di quest’amore morto, non ucciderlo altre volte per non fare soffrire la donna che t’ama!".
Quando l’amore "libero" si realizza, vissuto in prima persona o contemplato negli altri, esso detta a Prévert visioni di travolgente forza vitale: visioni, spesso, della nudità femminile, assurta a simbolo della sorridente impudicizia, della splendida felicità.
    L’amore è il solo che può spezzare, dentro di noi, la morsa stringente del dolore. Ma il dolore che Prévert canta in molte sue liriche è quel sentimento tutto particolare che discende dallo sgomento del vivere e che sembra trovare sfogo, alternativamente, tra noia ed angoscia (ennui in francese, angst in tedesco: La nausea di Sartre è del 1938, Lo straniero di Camus è del 1942, proprio il quadriennio dell’ingresso di Prévert nella poesia). Questo sgomento, questa noia o angoscia nascono in noi dal costatare come la vita non sia che un’orribile ripetizione: i giorni si affastellano gli uni dietro gli altri come in una processione monotona, la "desolante puntualità" del loro stillicidio non fa che confermarci che giriamo senza sosta in tondo in un universo polveroso e ostile: il nostro non è che un "piccolo giro nel mondo seguito da un brusco congedo dall’esistenza".
Certo, dinnanzi e a confronto di codesto tutto personale sgomento del vivere, esistono mali collettivi ancora più gravi come la guerra, la religione (mal intesa o decisamente fraintesa) e la povertà.
Nemico giurato degli idoli patrii (dal Re Sole a Napoleone), avverso a qualunque forma di nazionalismo, l’anarchico-pacifista Prévert esecra la violenza di tutte le specie: da quella che l’uomo fa sull’uomo, all’angolo della strada, a quella che trascina interi popoli gli uni contro gli altri, nel polverone o tra le nebbie dei campi di battaglia. Contro il massacro collettivo, contro i suoi teorici (i militaristi, i bellicisti), contro i diretti responsabili (i generali, gli ammiragli, i colonnelli), Prévert scrive versi di commossa indignazione, consapevole com’è che la missione del poeta sia quella di parlare a nome degli innocenti, di quanti sono andati in guerra "col fiore in canna", dei coscritti incoscienti, che, dopo aver sfilato sotto l’Arco di Trionfo, verranno chiamati all’improvviso fuori della loro schiera e, magari, fucilati senza un perché.
Ateo e laico, Prévert ha per la religione (non tanto quanto messaggio di rivelazione, cui è indifferente, ma per le sue pratiche) la stessa diffidenza e, talvolta, lo stesso orrore che per la guerra. Troppo spesso, a suo avviso, la religione accetta la stessa logica della violenza, la stessa gerarchia sociale. Preti e padroni sono spesso in collusione (in francese, il gioco di parole tra "prêtres" e "maîtres" è ancora più evidente): la campanella del Santo Sacramento risuona talvolta all’unisono con il clicchettio delle baionette o col clamore indignato dei possidenti. L’imitazione del Cristo viene predicata come una scuola di autodistruzione (quando non vi si moralizza esplicitamente la mobilitazione bellica): "Felici i poveri di spirito, quelli che non cercano di capire, lavoreranno duro, riceveranno molte pedate nel culo, faranno varie ore supplementari, che saranno messe loro in conto, ma più tardi, nel regno del Padre…".
La guerra, la religione sono l’oggetto dell’ironia sferzante di Prévert perché i poveri ne sono le vittime eccellenti. "Jacques Prévert è stato il primo nostro poeta – ha scritto vent’anni or sono Michel Cournot – a prendere la parola per "coloro che non sanno cosa dire"…, per quanti, giorno dopo giorno, perdono la vita nel tentativo di guadagnarsela. Prévert aveva il tono di voce all’altezza della povera gente, e vi assicuro che parlava ad alta voce". Da questa profonda solidarietà umana verso i derelitti, i paria della moderna società occidentale, nascono molte poesie di toccante semplicità, disadorne di retorica, sugli analfabeti, i clochards, i disoccupati, gli ospedalizzati, sugli spalatori di neve, che lavorano sotto gli occhi di quanti si divertono, la domenica, nei larghi boulevards della capitale francese; sugli "strani stranieri", i neri denutriti senz’aver fatto male ad alcuno, ma colpevoli senza requie del colore della propria pelle; sui lustrascarpe in attesa di clienti, gelati dal freddo nei vasti atri delle stazioni. Prévert ha, forse per primo in tutta Europa, cantato "il ghiacciato paesaggio delle città operaie": il risveglio di chi lavora nella sua gabbia-lettuccio, il viaggio all’alba verso la fabbrica, mezzo da sveglio, mezzo da addormentato, in uno sfondo di tetti grigiastri, sotto la neve che fiocca intermittente.
Ma – ha scritto Prévert – esistono gli uccelli anche per i poveri: ed è piuttosto da essi farne dono al padrone. Nella poesia di Prévert gli uccelli sono al primo posto di un bestiario favoloso di straordinaria vivezza (soltanto in Paroles una ventina di poesie sono loro dedicate). Essi sono simbolo della libertà, e, in alcune poesie più sottili, della fantasia e della capacità di sognare dell’uomo, cioè dei due vettori attraverso i quali egli può, se vuole, sottrarsi alla monotonia deprimente della quotidianità. Non solo gli uccelli, tuttavia, popolano le poesie-favola di Prévert, ma anche vari altri animali come la balena e la lumaca, la giraffa e il gatto, la rana e la mosca. Pur nella varietà di soluzioni narrative escogitate da Prévert, gli animali rappresentano sempre, per la scelta del loro comportamento, una variante "ragionevole" del modo di vivere irrazionale, quando non folle, di quella specie animale che è l’uomo.
    Non solo il bestiario, ma anche il libro delle stagioni di Prévert ha molto da insegnare all’uomo. Prévert "legge" attraverso le stagioni e scopre in ciascuna d’esse un monito morale, quasi un patrimonio d’istinti e d’affetti che in esse si annida. E dire stagioni (la primavera, per limitarci ad un esempio, come metafora dell’innocenza) vuol dire anche i paesaggi, i luoghi in cui esse si esprimono: la Parigi di Saint Germain, quella di Montmartre, ma soprattutto, quella dei quartieri poveri, con le strade dai nomi bellissimi (Gros-Caillou, Blancs-Manteaux, Rosiers) scelti dai loro abitanti per attenuare la loro cronica indigenza; e, per suggerire due regioni "mitiche" per Prévert, la Bretagna e il Midi.
Resterebbe da dire, al di là dell’orizzonte tematico, del fascino tutto particolare dell’orizzonte prevertiano. Analizzando con molta finezza alcune poesie di Prévert, Arnaud Laster, ha così enucleato la sua poetica: "Lo spirito dell’artista dev’essere aperto alla vita, alla bellezza. Ma egli deve avere la pazienza di attendere la necessaria ispirazione, coglierla al volo quando giunge, esprimerla con colori o con parole. In seguito, tuttavia, l’artista dovrà cancellare qualunque traccia dello sforzo che ha dovuto compiere per dare all’opera l’apparenza della vita o, meglio, per infondergli la vita stessa, ma di secondo grado". Se la ricostruzione di Laster è corretta, e noi lo crediamo, ecco che l’arte di Prévert è un’arte della semplicità apparente, che cela in sé un lavorio, molto appartato e rigoroso, di ricomposizione della realtà sulla pagina. Basta essere un poco più attenti alla particolare scrittura di Prévert per notarvi una manipolazione delle parole, la creazione di parole nuove, il gioco degli equivoci verbali (in base alla somiglianza di certi suoni: in francese, calembours), il recupero del senso primo di certe parole, le combinazioni dei suoni (per esempio, attraverso le allitterazioni). Allora ci renderemo conto che la formula "Prévert-poeta popolare" vale solo a indicare l’orizzonte d’ascolto, certo amplissimo, di questo lirico, che (come la sua breve, ma intensa appartenenza al surrealismo e l’affettuosa amicizia con scrittori altamente "sperimentali", quali Raymond Queneau, testimoniano) è, nel proprio laboratorio stilistico, molto raffinato e intimamente aristocratico.

(da una presentazione di Guido Davico Bonino)

Questo amore
Le ombre
Canzone
Paris at night
  Immenso e rosso
Alicante
Sono quella che sono
Per te amore mio

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