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Sul campetto di periferia si giocava senza alcuna tattica, si correva tutti intorno alla palla, tutti in attacco, pochi tornavano in difesa. Era un calcio totale, tipo Olanda di Rinus Michels. Tutti volevano fare gol, come i brasiliani. Tutti correvano verso la porta. Le idee di Zeman, in confronto, sarebbero risultate quelle di un "catenacciaro". Veniva, comunque, applicata la zona, anche se involontaria. Ognuno marcava l’avversario che gli si faceva incontro, sempre se gli andava. Non veniva rispettata la regola del fuorigioco e allora c’era sempre uno stronzetto, dal fare "spocchioso", che, indisturbato, si posizionava davanti al portiere e segnava gol a grappoli. Poi si vantava. Era molto odioso. A nulla serviva sminuirlo con frasi del tipo di: "Stai sempre da solo…", "Così sono buoni tutti…", "Anche un handicappato avrebbe segnato…"

Si giocava senza tempo. Chi arrivava prima a dieci vinceva. Il match durava anche più di tre ore. Talvolta veniva sospeso in seguito all’intervento di qualche madre "spazientita".

Il rigore costituiva sempre un problema, sia nel decretarlo, sia nel batterlo. Non esistevano né le linee dell’area di rigore, né il dischetto. Si faceva ad occhio e anche a schiaffi. Per la distanza, poi, si contavano undici passi. La squadra che doveva subire il penalty li faceva contare sempre a quello che aveva le gambe più lunghe e, nel tentativo di guadagnare terreno, egli rischiava spesso crampi e distorsioni. Poi, venivano applicate regole inesistenti. A tre calci d’angolo guadagnati si aveva diritto a tirare un rigore. Il portiere, poi, dopo avere accalappiato la palla, allo scopo di rimanere solo e indisturbato per il rinvio, le faceva fare tre rimbalzi e pronunciava la formuletta: "Uno, due, tre: fuori area!" e tutti si allontanavano come dinanzi a una minaccia. Il portiere, in caso di disparità numerica, poteva diventare "volante" e magari andava anche a "realizzare".

Nessuno finiva sul taccuino degli ammoniti e neanche su quello degli espulsi. Si poteva anche fratturare liberamente tibia e perone di un avversario. Nessuno si lamentava, comunque… Si assisteva a partite molto maschie! "Il calcio non è un gioco da signorine!" affermava in continuazione qualcuno. La distanza della barriera sulle punizioni era un tira e molla continuo. Il che era del tutto inutile, la barriera si apriva, come un cancello automatizzato, a qualsiasi tiro. Tutti avevano una fifa folle di rimediare una pallonata, soprattutto in faccia o nelle parti basse.

Ognuno aveva un soprannome, coniato in seguito all’attaccamento a questo o a quell’altro campione del momento. Negli anni ’70, Netzer, Gerd Muller, Cruyff, Neeskens e Rivelino erano molto inflazionati. Tra gli italiani la facevano da padrone Giorgio Chinaglia, Pierino Prati, Gigi Riva, Gianni Rivera, Francesco Rocca, Valerio Spadoni… Spesso il portiere si metteva un elastico intorno alla testa e si faceva chiamare Tomasewski, come il famoso giocatore polacco. Chiaramente, anche nella scelta dello pseudonimo andava rispettata una gerarchia, imposta dalla prepotenza e dalla maggiore prestanza fisica dei più grandi e/o dei più bravi. I più piccoli e i più scarsi finivano col farsi chiamare come qualche giocatore dello Zaire o dell’Haiti… Talvolta, qualcuno, improvvisandosi talent scout, tirava fuori qualche assurdo e anonimo asso di questo o quell'altro paese. Un mio amico promosse molto l’immagine di un certo Nilton Batata che, secondo me, non lo conoscevano neanche in Brasile, sua terra natia. Più avanti, nel tempo, si cominciò a scegliere nomignoli che non derivavano dall’ammirazione per campioni esistenti. Si passava da un "Mago" a un "Drago", da un "Cecchino" a un "Bomber". Ogni appellativo, poi, finiva spesso con l’essere personalizzato a seconda delle caratteristiche fisiche individuali. Netzer poteva diventare "Netzerino", Muller si tramutava in "Mullerone".

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