Incontro con Montanelli

Finii per averlo davvero, quell’incontro tanto cercato, sino a quella sera mai seriamente ritenuto come possibile, con Indro Montanelli, maestro mio e di tre altre generazioni di giornalisti. Successe in occasione dei mie ventitre anni e due mesi, il giorno nove del giugno meteorologicamente schizofrenico dell’anno di grazia mille e novecento novantanove alle ore cinque del pomeriggio: una telefonata memorabile di tre-parole-tre con il segretario di Montanelli mi confermava l’appuntamento per il giorno dopo, ore undici.

Nel mettermi in treno a mezzanotte da Giulianova, contea di Teramo, per arrivare in Milano, sapevo che avrei avuto davanti un viaggio di sei ore e mezza su treni espressi, gli unici che viaggiano ad una certa ora della notte, spesso e volentieri intasati di viaggiatori (complice pure la scadenza elettorale, per le europee 1999, che avrebbero avuto luogo la domenica dopo). La prospettiva era sconfortante, e tale – fortunatamente – rimase fino alle ore quattro e mezza di mattina, quando invece diventò disperata. Fui svegliato di soprassalto da un controllore molto gentile, ma molto veneto. Mi trovavo in quel di Mirandola, ancora in provincia di Modena, ma a quaranta chilometri da Verona. In sostanza avevo piegato ad est, non sapendolo. E convinto, per di più, che fosse il treno ad aver preso un passeggero sbagliato (il sottoscritto), e non il sottoscritto passeggero ad aver preso il treno sbagliato. Ore quattro e mezza, dunque: scesi dal treno, stazione di Mirandola, in cerca di una tabella di orari. Nella mente, un minestrone confuso delle aspettative di mezzanotte (che erano quelle, modeste alla fine, di incontrare Montanelli e di non fare brutta figura), unite a quelle – rivoluzionarie – di trovare qualche treno in orario che mi avrebbe permesso di arrivare in tempo per l’appuntamento delle undici.

Nel percorrere il vasto spazio che, amorevolmente, il macchinista aveva previsto, fermandosi, fra la mia carrozza e la stazione (un buon mezzo chilometro nella nebbia del mattino, a rischio di abbracciare qualche Eurostar), macinavo i suddetti pensieri, quando fui svegliato per la seconda volta di soprassalto da un’affermazione perentoria: "Che du maron", tatuato nelle vicinanze della sala d’aspetto.

Non avevo mai avuto problemi di vista ma, di fronte alla tabella degli orari, la coincidenza di un treno che – di lì a venti minuti, alle cinque del mattino – mi avrebbe riportato a Bologna, per poi riprendere la via maestra per Milano, mi fece incredulo delle mie pupille. Cercai quindi conferme nella sala macchine della stazione. Ove l’unico impiegato – dall’accento meridionale sì, ma anche scontroso – l’aveva coi colleghi della stazione di Poggio Rusco, ed era quindi al momento intrattabile. Mi arrivò l’eco di una telefonata, per la quale appurai che il macchinista di Mirandola – delatore – raccontava al misterioso interlocutore di quel momento confidenze che l’addetto di Poggio Rusco, fra uno scambio e un altro, gli aveva fatto in passato. Ritenni dunque poco utile disturbarlo con le mie trascurabili richieste di chiarificazioni sull’orario, e decisi di fidarmi delle mie incerte pupille pesando, piuttosto, ad un posto dove potermi vestire di panni regali et curiali per il mio incontro delle undici con Montanelli. Alla bisogna, andò bene la sala d’aspetto, deserta, nella quale entrai con l’animo dell’esploratore. L’unica notizia che pensai potesse interessarmi, e che ancora ricordo, fu quella che trovai su un muro: scoprii che Mariella e Salvatore erano una coppia imbattibile, affermazione aggiornata al due di maggio dell’anno precedente. Al che, ritenni necessario procedere con la vestizione: completo grigio e camicia di seta lavata, blu. Scarpe improbabili (fra le poche eleganti in mio possesso) e fredde: ero partito con venticinque gradi all’ombra dall’Abruzzo tutto d’or, avrei finito per trovarne dieci a Milano. Soffrii in silenzio, da quel momento in poi.

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