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Michela Barsanti (storica dell'Arte, Sezione didattica Civici Musei di Viareggio) | Giovanni Carletti (storico, Sezione didattica Civici Musei di Viareggio ) |
Nati entrambi nel 1910 da famiglie di origine sociale molto diversa, Mario Marcucci e Mario
Tobino fin da giovanissimi sono stati legati da un rapporto di profonda amicizia. Cominciano
ad incontrarsi "in baracca", un capanno abbandonato della darsena, per leggere, insieme
al coetaneo Cesare Ghiselli, le "Elegie" di Rilke o i racconti di Conrad e Stevenson;
qui, in questo spazio tutto interno al corpo della città, ma al tempo stesso sospeso e
separato, scambiano le prime poesie, i primi acquerelli: l'esito di quello che tra loro
chiamano "il lavoro".
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Questa irrequieta ricerca, che durante la rispettiva formazione mostra ancora connotati
per molti versi istintuali, trova modo di definirsi con maggiore compiutezza nel corso della
guerra mondiale. La corrispondenza epistolare rintracciata presso l'Archivio Contemporaneo
"A. Bonsanti" del Gabinetto Vieusseux testimonia non soltanto l'intensità -
la necessità - dei rapporti mantenuti durante gli anni del conflitto, ma anche il
progressivo emergere di continui riferimenti a Viareggio, quasi a delineare una sorta di
"piccola patria", un luogo ideale in cui esiste una piena consonanza tra la propria
identità ed il paesaggio naturale ed umano.
Allora i "poveri di Masaccio che come
colonne sostengono il paese", le umili case viareggine "tinte di grigio, di quel
giallo consunto che hanno i platani d'autunno", la pineta, la darsena con "il dolore
del mare" vengono a costituire i diversi punti cardinali di una mappa interiore e
sentimentale, tanto più forte quanto più si oppone alla retorica "imperiale"
del Regime.
Con il Dopoguerra la trasformazione della città, le ferite inflitte dagli
"affaristi distruttori" ed il venir meno del mondo della marineria e dei calafati
invece di indebolire questa immagine, la rafforzano. Di fronte alla crescente volgarità
di una ricchezza arrogante e distruttrice, la malinconia delle marine invernali, l'affanno di
un incedere quotidiano incerto e precario, una particolare sensibilità verso il lato
più popolare di Viareggio diventano un antidoto indispensabile per preservare margini
di umanità.
Il passato della città si staglia ora come uno spazio incontaminato e mitico in
cui è possibile recuperare ancora la freschezza dei sentimenti e l'autenticità
delle emozioni, l'ambiente naturale un'ultima speranza di salvezza:
"Il mare no, non era possibile. Col mare i mestatori non ce la
potevano. La vita continuava con la sua bellezza e ferocia. Era ancora più
emozionante individuare in un angolo, in un luogo lo stesso lampo del passato;
luceva la speranza di trasfigurare anche il presente"
M. Tobino, Sulla spiaggia di là dal molo, Milano, Mondadori
Per Tobino, come per tutti i veri scrittori, la vita è come il vento che si può vedere solo dentro una tenda
o una vela, o anche dentro un povero indumento steso ad asciugare: ma non si deve confondere il vento con la stoffa che si muove.
La forza della narrazione sta nel vento che è l'energia interna, il soffio dell'anima, la passione, la forza di un ideale,
l'incubo di una malattia, ossia tutto ciò che fa muovere gli uomini, ora obbligandoli a movimenti convulsi, ora
disponendoli a gesti delicati, ora stimolandoli a manifestare liberamente la propria sensualità.
Si può dire per Tobino ciò che è stato detto per un grande pittore viareggino, Mario Marcucci: che
"concentra il mistero nella forma", nel senso che proprio nel realismo della forma e nella corposità della materia questi
due artisti tendono a esprimere ciò che vi è di inespresso - il senso occulto, l' "oltre" - vibrante all'interno della
materia stessa. Dice Tobino dell'amico Marcucci che "scarta le appariscenze" e attende che la persona "si configuri dentro",
pronto a estrarre dagli uomini la "gentilezza", o un "gemito di speranza, semisoffocato ma inestinguibile": e sembra che parli di
se stesso. C'è infatti lo stesso desiderio di verificare la vita e la realtà (Garboli ha scritto che Marcucci "lo si
può definire un mangiatore, un divoratore di realtà attraverso la pittura"), che fa delle loro opere forse l'estremo
prodotto dell'Umanesimo Toscano, ossia di quell'alta, unica e irripetibile civiltà italiana, a cui i due artisti si ricollegano
direttamente nei suoi aspetti più primitivi e nei suoi accenti più drammatici (quelli di Masaccio e di Piero).