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PREFAZIONE

 

Il Tudaio non è un bel monte. Gibboso e goffo, stona alquanto nel consesso

delle Dolomiti, e di rosa ha solo l'anima, che riaffiora dalle recenti ferite su una

crosta anonima, un po' calva ed un po' verdeggiante, infida e tetra, spaventosamente

precipite sul Piave e sulla Val Ciariè.

Puoi guardarlo da ogni parte, da Auronzo o da Pieve, da S. Stefano o da Cima

Gogna, esso ti appare sempre povera cosa, non solo se messo a confronto con le

eleganti silhouettes delle Tre Cime, del Cristallo, delle Marmarole e di tutte le altre

crode che infinite appaiono sul suo orizzonte, ma anche di fronte ai suoi vicini di

catena, l'agile Bragagnina, il Crissin superbo, lo svettante Schiavon, il luminoso

Popera Valgrande...

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Quando dalle fredde acque del Piave frementi nella forra dell'Agonia del

Comelico, sollevi lo sguardo in cerca del cielo, lungo quelle pareti franose ed

incombenti, esso ti sembra negare ogni approccio e qualsivoglia attrattiva.

Eppure questo monte è entrato nella carne della gente di Oltrepiave, nella storia

di Vigo, Laggio e Pelos, ma anche di Auronzo e S. Stefano, più di tutti gli altri monti

vicini, scandendone le tappe di pace e di guerra, di lavoro e di fame.

Se hai la pazienza di salire anche per pochi tomanti su per la sua spettacolare

strada militare incisa nella viva roccia, ti accorgerai subito che esso, quanto più è

anonimo e deludente visto da fuori, tanto più prodigo e affascinante risulta dal di

dentro. Ti riserva scorci ad ogni svolta nuovi ed incredibili, e ti confonde in cima

con un panorama che vale pìu dei suoi 2100 metri e meriterebbe ben maggiori

fatiche escursionistiche.

Di questo si accorsero i nostri strateghi già cento anni fa, impressionati dalla

ricchezza degli obiettivi offerti e dalla relativa facilità di portar fin lassù cannoni,

cupole e cemento, tanto da farne la punta di diamante dell' intera Fortezza Cadore-

Maè.

Fino ad allora vi erano salite solo pacifiche greggi di pecore e capre per rubare

alla montagna quel poco di vegetazione prativa che esili vene d'acqua alimentano

da sempre sui pianori e sui pulpiti boscosi. Vi andavano anche i cacciatori, attirati

dai folti branchi di camosci stanziati a Col Muto, e qualche turista della belle

époque, antesignano di una moda che, già scoppiata altrove, qui muoveva appena i

suoi primi passi.

 

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Erano gli anni del primo `900, allorché la strategia militare più evoluta

predicava il verbo dei forti corazzati ad alta quota, dominatori imprendibili delle

vallate e delle strette alpine, il dogma della resistenza ad oltranza e a comparti-

menti stagni. Gli anni in cui i forti e le batterie di fondo valle, come Monte Ricco,

Batteria Castello, Col Vaccher o Col Piccolo, apparivano superati, troppo esposti

alle offese e bisognosi di nuovi numi tutelari e sovrastanti.

Così fu concepito e realizzato questo forte tra il 1911 e il 1915, le cui rovine

immense contendono alla strada d'accesso la palma della meraviglia e del

paradosso. E' infatti una realizzazione stupefacente alla luce soprattutto della sua

inanità storica: nata e cresciuta nella fede della salvaguardia del Cadore, del riparo

da ogni offesa vicina e lontana, essa, tagliata fuori dal vivo delle operazioni durante

il conflitto, si è afflosciata docile nel momento del bisogno, ed ha voluto rivolgerci

anche lo sgarbo di negare le sue corazze all'esplosione intestina e catartica da parte

delle nostre truppe in drammatica ritirata dopo Caporetto, per riservarle al botto

austriaco esattamente un anno dopo. Per uno strano gioco del destino, che molto di

militare ha fatto e disfatto in Centro Cadore e Oltrepiave tra III guerra d' indipen-

denza e I guerra mondiale, questo nostro monte ha dunque servito la sua gente più

da morto che da vivo. Esso ha alimentato, per la realizzazione delle strutture

portanti del forte, nonché della strada e delle difese complementari lungo tutta la

catena Tudaio-Brentoni, una discreta occupazione civile negli anni anteguerra,

dispensando poi i suoi poveri resti, sparsi per ogni dove o ancora chiusi intatti nello

scrigno delle sue viscere, all' industriosità e coraggio dei tanti recuperanti ascesi

lassù in cerca di un disperato surrogato all' emigrazione.

Proprio per questo, scrivendo questo libro abbiamo voluto sì esaminare e

sottendere continuamente il ruolo strategico e tattico del forte, indagato e descritto

nelle sue caratteristiche tecniche e nei suoi rapporti complementari con gli altri

impianti precedenti e coevi della Fortezza Cadore-Maè, ma anche affondarlo nella

storia, nelle tradizioni, nell'economia delle genti che sotto di esso hanno sempre

vissuto in una drammatica simbiosi di odio e amore, di speranza e disillusione.

Dopo il I volume dedicato alle fortificazioni realizzate dal giovane Regno

d'Italia in Cadore tra il 1866 e il 1896, ecco dunque un'altra occasione per l'escur-

sionista che vuole coniugare la gratificazione paesaggistica con la reminiscenza

storica. Occasione ancor più appetibile se tenuto conto del fatto che il Tudaio, e

l'intera catena di cui fa parte, godono ancor oggi di una selvaggia ed affascinante

solitudine, e che le stesse vicende belliche che li hanno solo sfiorati e subito

disdegnati, sono rimaste finora trascurate dagli studiosi, e quindi ignote ai più.

Un augurio solo dunque: che il Tudaio possa dare oggi con il turismo più

sicurezza e più benessere di quanto abbia saputo fornirne alle generazioni passate

all'ombra della guerra, che, come disse qualcuno, è retaggio di popoli selvaggi e

porta sempre in sè i germi di un'altra guerra.

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